ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguiti” a Corte Giust., S., 21 dicembre 2021 - causa C-497/20, Randstad Italia? - 5) Enzo Cannizzaro
Intervista di Roberto Conti a Enzo Cannizzaro*
[Per l’introduzione al ciclo di interviste si rinvia all’Editoriale]
1. Il dispositivo reso dalla Corte di Giustizia a conclusione della fase del rinvio pregiudiziale non sembra lasciare margini di dubbio in ordine al “responso” del giudice di Lussemburgo. Chiamata a testare, sotto il profilo della compatibilità con il principio di effettività di matrice UE, l’istituto dell’eccesso di potere giurisdizionale come declinato dal diritto vivente interno, la Grande Sezione ha escluso che la violazione del diritto UE perpetuata dal supremo organo della giustizia amministrativa – nel caso concreto perpetrata per avere ritenuto irricevibile il ricorso contro l’aggiudicazione di un appalto presentato dalla ditta esclusa dalla gara non in via definitiva - possa vulnerare il principio di effettività laddove sia escluso dal sistema interno che gli offerenti partecipanti all’aggiudicazione possono contestare la conformità al diritto dell’Unione della sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa nell’ambito di un ricorso dinanzi all’organo giurisdizionale supremo di detto Stato membro. Valuta questa conclusione appagante, soddisfacente o non condivisibile?
La sentenza Corte Giust., Grande Sezione, 21 dicembre 2021, C-497/20, Randstad, ha un contenuto chiaro: il diritto europeo non impone agli Stati membri di istituire mezzi di ricorso straordinari al fine di assicurare il rispetto dell’obbligo di rinvio pregiudiziale formulato dai Trattati istitutivi e interpretato dalla Corte di giustizia. Si chiude così il dibattito concernente la possibilità di fondare direttamente sul diritto europeo la qualificazione del rifiuto un ricorso di disporre un rinvio, da parte di un giudice che ne sarebbe tenuto, come una violazione del riparto giurisdizionale dell’ordinamento nazionale.
Si tratta di un dibattito iniziato in tempi ormai remoti. Per quanto inelegante possa essere, segnalo un mio remoto scritto del 1988 (Un nuovo indirizzo della Corte costituzionale tedesca sui rapporti fra ordinamento interno e norme comunitarie derivate, in Rivista di diritto internazionale, 1988, p. 24 ss.) il quale richiamava l’ordinanza della Corte di cassazione (sez. un.) 25 maggio 1984, n. 3223. Tale ordinanza aveva, appunto, negato che, nel sistema italiano, il mancato rinvio di una questione di interpretazione del diritto europeo alla Corte di giustizia da parte del Consiglio di Stato giustificasse un ricorso per motivi di giurisdizione. Si legge nella sentenza:
“il citato art. 177 (ora art. 267 TFUE) non esclude che la giurisdizione rimanga al medesimo (giudice nazionale), salvo il suo obbligo di mettere la successiva in conformità alla pronunzia sulla interpretazione della norma da parte della Corte comunitaria … senza che sia esclusa, essendo anzi presupposta, la giurisdizione del giudice nazionale adito”.
E, tuttavia, l’utilizzo del ricorso per motivi di giurisdizione incontra sia difficoltà di carattere sistematico, attinenti ai rapporti fra ordinamento europeo e ordinamento nazionale, sia difficoltà di carattere pratica, consistenti nel rinvenire strumenti idonei ad assicurare l’effettività del rinvio pregiudiziale.
Conviene osservare, in via preliminare, che l’obbligo di un giudice di procedere a rinvio pregiudiziale configura, invero, una situazione giuridica inusuale: quella di un obbligo esterno all’ordinamento dello Stato, ma rivolto non già allo Stato come persona giuridica unitaria quanto bensì a uno specifico organo di esso: un organo, peraltro, che gode di autonomia costituzionale non solo sul piano nazionale, ma anche sul piano europeo (v. la sentenza 27 febbraio 2018, causa C-64/16, Associação Sindical dos Juízes Portugueses/Tribunal de Contas). In ciò consiste la stranezza sistematica del rinvio pregiudiziale. Esso pone obblighi direttamente in capo ai giudici; ma l’inadempimento di tali obblighi viene attribuito, secondo uno schema internazionalista classico, in capo allo Stato.
Come ha precisato la sentenza in questione, infatti, l’inadempimento da parte del giudice tenuto a sollevare rinvio pregiudiziale comporta una forma di responsabilità istituzionale per infrazione al diritto europeo, prevista dai Trattati agli articoli 259 ss., e una forma di responsabilità civilistica per risarcimento del danno, non prevista dai Trattati ma ricostruita dalla giurisprudenza della Corte di giustizia a partire dalla celebre sentenza Francovich (19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90).
In conseguenza di tale singolare situazione, è ben difficile rinvenire strumenti per l’adempimento in forma specifica dell’obbligo di rinvio. Da un lato, il rimedio civilistico tende, per propria natura, ad assicurare al cittadino danneggiato un risarcimento per equivalente. D’altro lato, l’accertamento di una infrazione da parte dello Stato, ai sensi dell’art. 260 TFUE, comporta, bensì, un obbligo di ripristino della situazione giuridica lesa. Tale ripristino, tuttavia, è difficilmente applicabile a un inadempimento per fatto giudiziale, dato che, sovente, l’obbligo di rinvio incombe a un giudice di ultima istanza, le cui decisioni sono assistite dal meccanismo del giudicato. Pur se la Corte di giustizia ha ammesso, in rarissimi casi, che un giudicato possa venir meno se pronunciato in violazione del dovere del giudice di promuovere un rinvio pregiudiziale, essa ha indicato altresì che ciò possa accadere solo in casi eccezionali. Sul punto, conto di tornare sinteticamente nella risposta a una domanda successiva.
Proprio queste difficoltà sono alla base della configurazione di una violazione dell’obbligo di rinvio come violazione del riparto di giurisdizione. A tale configurazione, tuttavia, osta la qualificazione dell’inadempimento rispetto al dovere di rinvio come una violazione della giurisdizione assegnata alla Corte di giustizia. Il diritto europeo, a differenza di taluni sistemi federali, assegna, invero, alla Corte la competenza a interpretare ed applicare il diritto europeo, ma non la configura come esclusiva. Al contrario, essa indica, espressamente, all’art. 19 TUE, che i giudizi nazionali ben possano, e addirittura, debbono, interpretare e applicare il diritto europeo nell’ambito delle proprie competenze.
D’altronde, lo strumento del ricorso per motivi di giurisdizione non sembra lo strumento più idoneo a garantire l’effettività del rinvio pregiudiziale e a evitare un inadempimento dello Stato. Chi mai potrebbe assicurare che il giudice della giurisdizione non possa commettere il medesimo errore commesso dal giudice di merito nella interpretazione dei complessi criteri che consentano di determinare se vi fosse una facoltà ovvero un obbligo di rinvio? L’effetto di tale qualificazione sarebbe semplicemente la retrocessione del giudice di ultima istanza a giudice di “penultima” istanza. Insomma, le tormentate vicende del rinvio pregiudiziale confermano, tristemente, che l’esigenza di istituire un organo giudicante in ultima istanza sia una necessità pratica, incompatibile logicamente con l’idea di un sistema giudiziario volto a individuare l’unica soluzione “giusta” per qualsiasi caso controverso.
Se l’ordinamento italiano ritenesse utile istituire un sistema giudiziario di controllo del rispetto dell’obbligo di rinvio sarebbe opportuno che tale compito venisse affidato a un giudice esterno rispetto alle giurisdizioni apicali esistenti. Si potrebbe pensare a un organo giudiziario composta da un giudice per ciascuna giurisdizione nazionale di ultima istanza, abilitato a ricevere ricorsi dalle parti processuali alle quali sia stato negato un rinvio ovvero da un pubblico ministero, a tutela dell’ordinamento obiettivo.
In alternativa, non sarebbe irragionevole qualificare la Corte di giustizia “giudice naturale” ai sensi dell’art. 25, comma 1, Cost., con la conseguente abilitazione della Corte costituzionale a ricevere tale nuova tipologia di ricorsi diretti. Quest’ultima soluzione, già sperimentata con un certo successo nell’esperienza costituzionale tedesca, presenta un inconveniente, ma anche qualche pregio. L’inconveniente sarebbe dato dalla circostanza che, a propria volta, la Corte costituzionale è un giudice di ultima istanza tenuto a sollevare rinvio. Peraltro, la particolarissima natura della Corte costituzionale renderebbe verosimilmente più accettabile tale duplicità di ruoli, che già la Corte esercita rispetto ad altre situazioni.
Il pregio maggiore consisterebbe nel rinunciare all’idea che la Corte di giustizia abbia una sfera di giurisdizione esclusiva, e nell’accogliere, piuttosto, l’idea che le sue prerogative abbiano rilievo costituzionale: una idea che si nutre altresì della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale ha più volte qualificato la violazione dell’obbligo di sollevare un rinvio pregiudiziale come una violazione del diritto ad un equo processo ai sensi della Convenzione europea, come indicherò in risposta a una successiva domanda.
2. La Corte di giustizia ha sottolineato che per eliminare gli effetti dannosi connessi alla violazione del diritto UE perpetrata per effetto di una decisione resa in via definitiva dal giudice amministrativo costituiscono idonei strumenti per eliminare le conseguenze dannose tanto il ricorso per inadempimento da parte della Commissione o l’azione di responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE, nella ricorrenza dei presupposti fissati dalla giurisprudenza della Corte stessa- pp.79 e 80 sent. cit.-. Pensa che la fase discendente susseguente alla decisione della Corte di Giustizia potrà avere un seguito diverso da quello che il dispositivo della sentenza della Corte UE sembra avere scolpito in maniera nitida? Pensa, in altri termini, che dopo la pronunzia della Corte di giustizia le Sezioni Unite possano giungere ad un revirement, questa volta sul piano interno e non più su quello del diritto UE, rispetto al diritto vivente formatosi dopo la sentenza della Corte costituzionale n.6/2018 sui confini dell’eccesso di potere giurisdizionale? E in ipotesi di risposta positiva a tale quesito, Lei reputa che sarebbe possibile ampliare l’ambito della figura dell’eccesso di potere giurisdizionale da parte delle Sezioni Unite o risulterebbe necessario sollevare nuovamente una questione di legittimità costituzionale per suscitare una rimeditazione delle conclusioni espresse nella sentenza n.6/2018?
La sentenza della Corte indica - lo si è detto - che il diritto europeo non impone allo Stato italiano di assicurare un rimedio straordinario per la violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale. La Corte ha anche indicato che l’assenza di un tale rimedio e, in particolare di un ricorso per motivi di giurisdizione, non pregiudica l’effettività di tale obbligo. Essa, però, è altrettanto chiara nell’indicare che lo Stato italiano debba prestare nei confronti della violazione di tale obbligo rimedi equivalenti a quelli che sarebbero esperibili nei confronti di violazioni di obblighi analoghi.
Questa conclusione, derivante da uno dei due limiti al principio dell’autonomia processuale, consente di fornire una risposta alla prima parte della domanda. Se la violazione dell’obbligo di rinvio non comporta necessariamente, ai sensi del diritto europeo, una violazione del riparto di giurisdizione, essa può tuttavia rilevare a tal fine, qualora si tratti di violazione particolarmente qualificata, sì da rientrare nell’ambito della dottrina dell’eccesso di potere giurisdizionale.
Individuare tali casi non è semplice. A tal fine, occorrerebbe identificare, nell’indistinta galassia dell’obbligo di rinvio che grava sul giudice nazionale, due distinte figure: l’obbligo non qualificato, la cui violazione è integra semplicemente come un errore nell’applicazione dei criteri indicati dalla Corte di giustizia e l’obbligo qualificato, la cui violazione leda, invece, prerogative indefettibili della Corte di giustizia. Nel caso Lucchini (18 luglio 2007, causa C-119/05), ad esempio, la Corte di giustizia ha ritenuto che un giudice il quale non applichi una decisione dell’Unione, né chieda alla Corte di verificarne la validità, viola, alternativamente, due sfere di prerogative esclusive: quello della Commissione di valutare la compatibilità di un aiuto di Stato con il mercato comune, ovvero quella della Corte di accertare l’invalidità di tale determinazione da parte della Commissione (rinvio al mio libro Il diritto dell’integrazione europea, III ed, Giappichelli, Torino, 2020, p. 358 ss.).
3. Che effetti potrebbe avere sulle questioni qui esaminate la decisione del legislatore che, di recente, ha introdotto quale forma di revocazione delle sentenze rese dal giudice civile ed amministrativo una nuova causa di revocazione -art.1, c.10 l.n.206/2021- per le ipotesi di contrasto della sentenza passata in giudicato resa dal giudice nazionale e una decisione della Corte dei diritti dell’uomo che abbia accertato la violazione della normativa convenzionale?
La nuova ipotesi di revocazione, per il momento solo prefigurata nel suo contenuto ad opera dei criteri per la delega legislativa, dovrebbe funzionare solo allorché la Corte europea stabilisca che la violazione della Convenzione comporti rimedi restitutori in luogo del rimedio risarcitorio previsto dall’art. 41 della Convenzione. Ciò si dovrebbe ricavare dalla frase contenuta nell’art. 1, comma 10, “ferma restando l'esigenza di evitare duplicità di ristori”.
Pur se la giurisprudenza della Corte europea ha talvolta qualificato il diniego di rinvio alla Corte di giustizia come violazione dei diritti convenzionali, in particolare dell’art. 6, essa non ha mai, a mia conoscenza, qualificato tale inadempimento come una violazione strutturale della Convenzione, né essa ha mai ordinato agli Stati misure individuali o. tanto meno, misure generali, di carattere restitutorio.
Tuttavia, la circostanza che la violazione dell’obbligo di rinvio possa integrare una violazione dell’art. 6 della Convenzione non è irrilevante ai nostri fini. Essa, anzi, potrebbe rafforzare l’ipotesi che un uso arbitrario del filtro esercitato dai giudici nazionali rispetto alle prerogative della Corte di giustizia dell’Unione venga qualificato, in ipotesi delimitate, come un eccesso di potere giurisdizionale.
Nella recente sentenza Repcevirág Szövetkezet, no. 70750/14, del 30 luglio 2019, la Corte europea ha indicato come “a domestic court’s refusal to grant a referral may, in certain circumstances, infringe the fairness of proceedings where the refusal proves to have been arbitrary. Such a refusal may be deemed arbitrary in cases where the applicable rules allow no exception to the granting of a referral or where the refusal is based on reasons other than those provided for by the rules, or where the refusal was not duly reasoned”. Se, infatti, il rifiuto arbitrario di disporre un rinvio pregiudiziale, da parte di un giudice che ne sia tenuto, viola il principio dell’equo processo, stabilito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, si potrebbe ammettere, con buone ragioni, che tale pronuncia abbia violato principi indefettibili nell’esercizio della giurisdizione. Proprio l’esercizio arbitrario del potere giurisdizionale, anzi, dovrebbe costituire un esempio paradigmatico di eccesso di tale potere.
4. Dopo la sentenza resa dalla Corte di Giustizia il 21 dicembre scorso, residuano a suo giudizio, ragioni di dubbi in ordine alla possibilità di sperimentare innanzi alle Sezioni Unite il vizio di eccesso di potere giurisdizionale sotto il profilo della mancata sollevazione del rinvio pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia da parte del giudice speciale di ultima istanza?
Credo che la mia opinione si ricavi dalle risposte alle domande precedenti. La Corte di giustizia ha chiarito che non vi è alcun obbligo di qualificare il mancato rinvio, da parte di un giudice che vi sia tenuto, come una violazione del sistema giurisdizionale italiano. Tuttavia, dal principio di equivalenza si può ben ricavare che, la dottrina dell’eccesso di potere giurisdizionale debba applicarsi a tale ipotesi con modalità analoghe a quelle che la Corte di cassazione applica a ipotesi analoghe.
Nelle risposte alle precedenti domande ho cercato di enucleare alcune di queste ipotesi. Una prima riguarda una pronuncia che disapplichi senza previo rinvio di validità alla Corte di giustizia un atto europeo rilevante nel giudizio, violando così frontalmente l’obbligo stabilito dalla sentenza Foto-Frost (22 ottobre 1986, causa 314/85). Una seconda ipotesi riguarda una pronuncia che rifiuti, arbitrariamente e senza darne le ragioni, di procedere a un rinvio pregiudiziale, anche di carattere interpretativo, come indicato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
5. In definitiva, a suo giudizio è stato utile il dialogo fra Corte di Cassazione a sezione Unite e Corte di giustizia sul tema suscitato dall’ordinanza n.19598/2020 o si è trattato di un tentativo di aggirare l’orientamento espresso dalla sentenza n.6/2018, peraltro non dotato di efficacia vincolante per il giudice comune in relazione alla natura della sentenza di rigetto della questione di legittimità costituzionale da parte della Consulta?
È difficile dare una risposta definitiva a questa domanda. Si potrebbe ritenere che l’ordinanza di rimessione sia stata inutile in quanto le risposte della Corte si sarebbero potute agevolmente ricavare dalla previa giurisprudenza della Corte. Tuttavia, la giurisprudenza sulle conseguenze di una violazione dell’obbligo di rinvio non è chiara. Essa, anzi, è pervasa da incertezze e ambiguità che emergono pressoché su qualsiasi aspetto di essa.
Tali incertezze sono verosimilmente dovute alla circostanza che, in questo campo, si scontrano esigenze difficilmente conciliabili: da un lato la necessità di assicurare la massima effettività allo strumento del rinvio pregiudiziale, un formidabile mezzo di comunicazione fra giuridici europei e nazionali che tanto ha contribuito allo sviluppo dell’integrazione europea; dall’altro, il rispetto di regole e principi riconosciuti come fondamentali anche nell’ordinamento europeo. In questa prospettiva, lungi dal riconoscere vinti e vincitori, la Corte di giustizia ha semplicemente aggiunto un ulteriore tassello in un equilibrio destinato alla permanente instabilità.
*Professore ordinario di diritto internazionale e dell'Unione europea presso l'Università di Roma "La Sapienza".
Le relazioni industriali «politicamente corrette» e il conflitto sindacale nella crisi aziendale, tra obblighi di informazione e consultazione, rispetto delle prerogative del sindacato e della libera iniziativa economica d’impresa; con uno sguardo alle recenti norme contro la delocalizzazione
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Raffaele De Luca Tamajo
Questa intervista prende spunto dalle recenti vicende che hanno riguardato alcune importanti realtà produttive del nostro paese che hanno avuto un esito giudiziario, per ora sommario, a quanto consta (tranne un caso di cui diremo), con i decreti ex art. 28, st. lav. del Tribunale di Firenze (in data 20 settembre 2021, a definizione del procedimento che ha visto contrapposta la Fiom-Cgil alla Società Gkn Driveline Firenze S.p.A., in liquidazione),che ha riconosciuto la natura antisindacale di vari comportamenti dell’azienda, condannata anche alla revoca della procedura di avvio dei licenziamenti collettivi per cessazione dell’attività e chiusura dello stabilimento di Campi Bisenzio; del Tribunale di Monza (in data 12 ottobre 2021, a definizione del procedimento che ha visto contrapposti i sindacati Fiom-Cgil, Uilm-Uil e Fim-Cisl alla Società Gianetti Fad Wheels S.r.L), che ha rigettato il ricorso riconoscendo la legittimità del comportamento dell’azienda, così consentendo di completare la procedura di intimazione dei licenziamenti collettivi, sempre per cessazione dell’attività e chiusura dello stabilimento di Ceriano Laghetto; e del Tribunale di Napoli (in data 3 novembre 2021, a definizione del procedimento promosso da Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uil-Uilm contro la Società Wirlpool Emea S.p.A.), che ha rigettato il ricorso, avendo ritenuto corrette le informative date dall’azienda al sindacato e superato l’impegno a non procedere ai licenziamenti sino al 2020 (e non anche al 2021), considerando escluso il piano industriale predisposto dall’azienda dal campo degli obblighi sindacabili.
Da ultimo è stato pronunciato dal Tribunale di Ancona, in data 22 febbraio 2022, il decreto che, in accoglimento del ricorso proposto da Fiom-Cgil contro Caterpillar Hydraulics Italia S.r.L., ha riconosciuto la natura antisindacale del comportamento aziendale, limitando la condanna della società al risarcimento dei danni.
Per quanto riguarda la controversia di Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto, il Tribunale di Monza, con la sentenza n. 56 del 28 gennaio 2022, pronunciata a definizione della fase di opposizione, in parziale riforma del decreto del 12 ottobre 2021, ha confermato la dichiarazione di antisindacalità del comportamento datoriale, solo per alcune delle violazioni denunciate, limitando, però, la condanna della società all’inibitoria per il futuro.
V.A. Poso Una premessa. Il d. lgs 6 febbraio 2007, n. 25 (emanato in attuazione della direttiva 2002/14/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 marzo 2002, che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori), al quale fa riferimento l’art. 9 del CCNL dell’industria metalmeccanica prevede diversi obblighi di informazione e consultazione tra azienda e sindacati, a diversi livelli, con procedure e cadenze temporali particolari. Mentre Il d.lgs. 22 giugno 2012, n. 113 (emanato in attuazione della direttiva 2009/38/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 maggio 2009, riguardante l’istituzione di un comitato aziendale europeo o di una procedura per l’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensione comunitaria), al quale fa riferimento l’art. 10 del CCNL dell’industria metalmeccanica (aggiungo solo, per completezza, che il d.lgs. n. 113/2012 ha sostituito il precedente d.lgs. n. 74 del 2 aprile 2002, di attuazione della precedente direttiva 94/45/CE, del Consiglio, del 22 settembre 1994), si riferisce, invece, alle imprese di rilevanza comunitaria.
Una volta che è stato definito il contenuto e il perimetro degli obblighi di informativa e consultazione del sindacato in base ai due decreti legislativi sopra indicati, qual è lo spazio lasciato alla contrattazione collettiva nazionale e agli accordi aziendali per una diversa, non solo in dettaglio, regolamentazione rispetto alla legge?
R. De Luca Tamajo Considerato che le Direttive europee e i Decreti legislativi di trasposizione nel nostro Paese in tema di informazione e consultazione dei lavoratori e dei sindacati hanno l’obiettivo di garantire una soglia minimale di interlocuzione e di coinvolgimento dei lavoratori e delle loro rappresentanze nelle strategie produttive e di organizzazione del lavoro, ben può la contrattazione collettiva nazionale prevedere forme diverse e più articolate, purché più avanzate, di “partecipazione”, oltretutto nel segno parzialmente attuativo di quell’art. 46 Cost. rimasto senza traccia nell’ordinamento positivo.
Se concordate bilateralmente tali procedure vincoleranno però solo le aziende rientranti nel campo di applicazione dei relativi accordi collettivi.
V.A. Poso A questo punto dobbiamo porci il problema delle conseguenze dell’inadempimento di questi obblighi rispetto al ruolo del sindacato. Le fattispecie sono le più diverse. Di sicuro entra in gioco lo strumento del procedimento per la repressione della condotta antisindacale. Ma il mio punto di domanda è: sin dove può arrivare il coinvolgimento del sindacato? Si ferma alla superficie delle informazioni e delle consultazioni, o può lambire la fase decisionale, la formazione della decisione del datore di lavoro di adottare determinate misure organizzative del lavoro o del sistema produttivo?
Di fatto questo viene rimproverato dal Giudice del Lavoro di Firenze all’azienda che, con diversi comportamenti, alcuni davvero non edificanti, non avrebbe consentito la partecipazione del sindacato alla formazione della decisione finale di disporre la messa in liquidazione e la chiusura dello stabilimento di Campi Bisenzio.
R. De Luca Tamajo Non mi sembra che allo stato né le Direttive europee né la legislazione e la contrattazione collettiva nazionale abbiano infranto il muro della sostanziale unilateralità delle decisioni relative all’an e al quomodo della impresa per consentire un varco nella discrezionalità dell’imprenditore di modificare la propria organizzazione o addirittura di far cessare l’impresa.
Quelle norme si sono limitate ad una sia pur impegnativa proceduralizzazione dell’esercizio delle opzioni aziendali volta ad agevolare ogni forma di pressione da parte delle organizzazioni rappresentative degli interessi dei lavoratori, nella direzione di quella che è stata definitiva “partecipazione conflittuale” dei lavoratori alla gestione della impresa.
Salvo casi eccezionali in cui l’imprenditore non può procedere senza il previo accordo sindacale, l’intesa bilaterale resta un obiettivo tendenziale ma affatto condizionante le scelte imprenditoriali.
Se è vero, come sembra, che nel caso del Tribunale di Firenze il processo informativo è risultato turbato da omissioni e informazioni parziali o non veritiere, la conseguente condanna della azienda per condotta antisindacale appare coerente, essendosi così preclusa al sindacato, per effetto di un inadempimento di obblighi espressamente sanciti, una consapevole azione di incidenza sull’agire imprenditoriale; incidenza, peraltro, praticabile sul piano della azione conflittuale, ma non su quello della codeterminazione in merito alla messa in liquidazione e alla chiusura dello Stabilimento della società GKN.
Bisogna infatti distinguere i diritti strumentali alla possibilità di condizionare le decisioni aziendali dal vero e proprio diritto a codeterminare le politiche e le scelte aziendali.
V.A. Poso Una osservazione e un ulteriore punto di domanda dopo la premessa che segue.
Le procedure previste dalla l. 23 luglio 1991, n. 223 (sui licenziamenti collettivi), dalla l. 29 dicembre 1990, n. 428 ( sul trasferimento d’azienda), dal d.p.r. 19 giugno 2000, n. 218 (cassa integrazione guadagni straordinaria e integrazione salariale a seguito della stipulazione dei contratti di solidarietà) e dal d. lgs 2 aprile 2002,n.74 (comitato aziendale europeo e imprese di dimensione comunitaria) sono dichiarate come assorbenti quelle previste, nello specifico, dai due decreti legislativi in base a quanto è scritto nell’art. 9 del CCNL dell’industria metalmeccanica.
Ciò, mi sembra, in contrasto con la previsione dell’art. 8, d.lgs. n. 25/2007, c. 1, 2 e 3, che fa espressamente salve queste procedure e gli altri diritti riconosciuti dalla normativa vigente e dai contratti collettivi applicati in materia di informazione, consultazione e partecipazione.
Una disposizione simile è contenuta nell’art. 13, c.4, d.lgs. n. 113/2012, che fa salve le procedure previste dalla l. n. 223/1991, dalla l. n. 428/1990 e i diritti di informazione e consultazione sindacale regolati dalla legge e dai contratti collettivi e degli accordi vigenti, anche in attuazione del d.lgs. n. 25/2007.
Le chiedo, allora, con specifico riferimento alla procedura di licenziamento collettivo, che interessa la nostra conversazione: se le due affermazioni “sono fatte salve” e “sono assorbite” sono assimilabili, esse esprimono lo stesso identico concetto, oppure sono cose diverse? E il contratto collettivo ha davvero previsto una disciplina diversa rispetto alla legge?
R. De Luca Tamajo L’art. 9 CCNL dell’industria metalmeccanica dichiara che le procedure di matrice collettiva di informazione e consultazione in tema di licenziamento collettivo, trasferimento di azienda e integrazione salariale assorbono e quindi neutralizzano, relativamente a tali materie, le procedure previste dai due d. lgs. n. 113/2012 (CAE e procedure informative per le imprese di dimensione comunitaria) e n. 25/2007, entrambi attuativi delle Direttive UE.
Tuttavia, l’art. 8 del D. lgs n. 25/2007 in sede di attuazione della Direttiva 2002/14/CE chiarisce che, viceversa, le due diverse procedure - quelle generali in tema di informazione e consultazione e quelle specifiche in materia di licenziamento collettivo e di trasferimento di azienda - non si elidono e anzi coesistono nella loro portata vincolante.
Dunque, la previsione collettiva dell’art. 9 deve ritenersi cedevole al cospetto della disposizione della fonte legale e deve reputarsi precluso il divisato assorbimento. Le informative datoriali previste dal D. lgs. n. 25/2007 con carattere generale attengono ad una sorta di buona prassi collettiva nelle relazioni industriali; quelle specifiche in tema di licenziamento, trasferimento di azienda e CIG concernono una proceduralizzazione dei relativi poteri datoriali, incapace di scalfire la disposizione della fonte legale. Spetta semmai all’interprete tentare una composizione armonica tra le diverse procedure (quanto a soggetti e contenuti) da ritenere in ogni caso coesistenti. Incombendo semmai al legislatore il compito di una opportuna migliore armonizzazione tra le diverse procedure.
Erra pertanto il Tribunale di Monza nel decreto dell’8 ottobre 2021 (caso Gianetti) allorquando sembra accreditare la tesi che la procedura collettiva per i licenziamenti collettivi supera e annulla quella generale in tema di informazione e consultazione.
Questo punto motivazionale è stato, infatti, superato dalla sentenza che ha definito la fase di opposizione, quando afferma che nell’art. 9 del CCNL di settore i contraenti non hanno voluto ritenere assorbite nella procedura dell’art. 4, l. n. 223/1991 anche le informazioni relative alla chiusura degli stabilimenti.
Condivisibile è invece il passaggio motivazionale in cui il Tribunale di Firenze nel decreto del 20 settembre 2021 (caso GKN) sostiene che l’obbligo informativo sulle politiche aziendali integri una sorta di precondizione all’avvio della procedura di licenziamento collettivo e, soprattutto, non possa arrestarsi ad una fotografia statica, ma debba investire anche le prevedibili situazioni produttive e occupazionali in fase dinamica.
Per quanto sia vero che il D. lgs. n. 25/2007 rimane al medesimo livello di genericità contenutistica della Direttiva UE, di cui costituisce attuazione, e rinvia alla contrattazione collettiva la definizione di sedi, tempi e contenuti della informazione e delle consultazioni, sta di fatto che, in tema di rapporti con la contrattazione, il D.lgs. n. 25/2007 è particolarmente esplicito nel negare alla autonomia collettiva la facoltà di neutralizzare la portata dei due Decreti legislativi attuativi nel nostro Paese delle Direttive europee.
V. A. Poso Il punto centrale del decreto fiorentino ex art. 28, st. lav., per molti aspetti innovativo nella soluzione adottata, è che l’inadempimento degli obblighi di informazione e consultazione sindacale e i comportamenti tenuti dall’azienda nel corso dell’ultimo anno riverberano i loro effetti sull’avvio della procedura di licenziamento collettivo.
Nella motivazione, alla quale dobbiamo necessariamente rinviare, sono descritte anche le false rappresentazioni della realtà produttiva fornite dall’azienda, che hanno avuto eco anche sulla stampa. Qui mi limito ad osservare che nell’accordo aziendale del 9 luglio 2020, pur risultando chiaramente la rappresentazione dello stato di crisi (aggravata, anche, dall’emergenza sanitaria) da parte dell’azienda, che tuttavia aveva escluso la misura di licenziamenti collettivi (in adesione alle richieste formulate dal sindacato), orientandosi per l’adozione di varie forme di ammortizzatori sociali; con lo specifico impegno di comunicare alle Rsu eventuali cambiamenti di prospettiva e strategia industriale. Emergeva, pertanto, da questo accordo (che ne richiamava uno precedente, quello del 14 febbraio 2020), la manifestazione della disponibilità dell’azienda a coltivare il dialogo con il sindacato. Ma così non è stato.
Ciò detto, ritiene che, nel caso di specie, la rimozione degli effetti del comportamento antisindacale dichiarato possa essere disposta con la revoca della procedura di avvio dei licenziamenti collettivi? Oppure era necessario valutare soluzioni alternative, di tipo risarcitorio ad esempio, o di altro tipo?
R. De Luca Tamajo Quanto agli “effetti” della pronunzia di antisindacalità del Tribunale fiorentino a me sembra che le conseguenze ad ampio spettro previste dall’art. 28 Statuto lavoratori (“cessazione della condotta” e “rimozione degli effetti”) consentano non soltanto di imporre il corretto confronto con le OO.SS. ma anche la revoca della procedura di avvio dei licenziamenti collettivi (salva la facoltà di reiterazione da parte della azienda); e ciò tanto se disposta per violazione della procedura specifica in tema di licenziamento collettivo quanto se operata per inadempimento ai più generali obblighi informativi. La inibitoria a proseguire la iniziata procedura di licenziamenti collettivi è senz’altro più efficace di sanzioni puramente invalidanti o risarcitorie.
La atipicità e ampiezza dei provvedimenti condannatori concessi al Giudice dall’art. 28 legittima molteplici soluzioni sanzionatorie ferma la maggiore adesione della “condanna a revocare” alla logica e alla struttura dell’art. 28, che va oltre sanzioni puramente negoziali.
V. A. Poso Di diverso contenuto, però, è, su questo specifico punto, il pronunciamento del Tribunale di Monza, che, a definizione della fase sommaria e di opposizione, ha rigettato la domanda diretta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità e l’annullamento della procedura di licenziamento collettivo già avviata.
R. De Luca Tamajo La sentenza n. 56/2022, in particolare, ha disatteso questa domanda «in quanto difetta, anche a livello descrittivo nell’esposizione dei fatti in ricorso, il nesso causale tra la violazione del suddetto obbligo informativo e l’attuazione del procedimento di licenziamento collettivo ovvero non è allegato e neppure provato che in caso di adempimento del suddetto obbligo informativo il procedimento di licenziamento collettivo non sarebbe stato avviato».
Sembra di poter ritenere che ciò derivi da un difetto di allegazione e prova, nello specifico, non escludendo il Tribunale di Monza una diversa decisione nel caso di un diverso svolgimento del processo e di esito istruttorio.
A definizione della fase di opposizione il Tribunale di Monza (confermati gli altri punti del decreto opposto) ha ritenuto che la società non abbia dimostrato di aver assolto all’obbligo informativo avente come contenuto le eventuali misure di contrasto previste al fine di evitare o attenuare le conseguenze dei rischi occupazionali e la tempestiva informazione della decisione di chiudere lo stabilimento di Ceriano Laghetto.
Pertanto, pur avendo limitato solo a queste le violazioni rilevanti tra tutte quelle denunciate dai sindacati, in contrario avviso rispetto a quanto affermato dal Giudice della fase sommaria, il Tribunale ha ritenuto sussistente il carattere antisindacale della condotta datoriale, osservando che «anche se il comportamento datoriale è materialmente esaurito esso risulta persistente e idoneo a produrre effettui durevoli nel tempo sia per la portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, sicché va emessa una condanna in futuro volta a prevenire la reiterazione da parte della società di una condotta che può essere replicabile in relazione ad altro stabilimento».
V.A. Poso Anche il Tribunale di Ancona, nella vicenda Caterpillar, non ha revocato la procedura di avvio dei licenziamenti collettivi, in mancanza di una previsione espressa in tal senso nella contrattazione collettiva nazionale e aziendale, limitando la condanna dell’azienda al risarcimento dei danni in favore del sindacato.
Qual è la Sua opinione in proposito?
R. De Luca Tamajo Mi sembra degna di nota la parte della motivazione in cui il decreto del Tribunale di Ancona esclude la sussistenza del «nesso causale tra l’apertura della procedura di licenziamento collettivo e la mancata consultazione sindacale, di tal che la prima possa considerarsi effetto della seconda, considerato che secondo i principi generali che presiedono alla valutazione della sussistenza di nesso causale in caso di comportamenti omissivi, alla stregua di un giudizio controfattuale fondato sulla regola del “più probabile che non” mutuata dal disposto dell’art. 41 c.p., non vi è modo di affermare la probabilità che il corretto svolgimento delle procedure di informazione avrebbe permesso di evitare l’avvio dei licenziamenti collettivi», tenuto conto, anche, delle sanzioni tipizzate nella l. n. 223/1991 e nel d.lgs. n. 23/2015.
E tuttavia, anche alla luce decisione del Tribunale di Firenze, bisognerebbe valutare l’incidenza della violazione delle procedure sindacali preventive di informazione e consultazione sulla procedura di licenziamento collettivo, ove la stessa sia stata già avviata, nella prospettiva di rendere effettivo il confronto con il sindacato.
V.A. Poso La cessazione dell’attività produttiva rientra nella libera scelta dell’imprenditore, quale esplicazione del precetto costituzionale di cui all’art. 41, oppure si può ritenere, in qualche modo condizionata dall’espletamento delle procedure per l’avvio dei licenziamenti collettivi previsti dalla legge? Non solo nei casi di specie esaminati e decisi dai Tribunali di Firenze e di Monza i sindacati e i lavoratori contestano la legittimità dei provvedimenti di chiusura degli stabilimenti, prima della conclusione della procedura di licenziamento collettivo pur se legittimamente avviata. Qual è la Sua opinione in proposito?
R. De Luca Tamajo La cessazione dell’attività di impresa è frutto di decisione unilaterale e insindacabile dell’imprenditore; tuttavia, essa può ben essere condizionata da oneri procedurali di matrice legale e/o contrattuale e dall’obbligo di informative e confronti con la parte sindacale e/o con quella pubblica, il cui mancato rispetto può ritardare l’efficacia giuridica della cessazione dell’impresa.
La eventuale chiusura dello Stabilimento prima che sia esaurita la procedura di licenziamento collettivo non produce effetti nei confronti di quest’ultima, nel senso che almeno sul piano giuridico – patrimoniale i rapporti di lavoro proseguiranno sino alla cessazione della procedura di licenziamento collettivo.
V.A. Poso Nella controversia relativa alla Caterpillar di Jesi, il Tribunale di Ancona afferma la necessaria osservanza degli obblighi di preventiva informazione e consultazione, anche se le decisioni determinanti le scelte aziendali sono adottate a livello di gruppo, utilizzando il canone ermeneutico dell’art. 4, c. 15 bis, l. n. 223/1991, ritenuto perfettamente applicabile alla materia in questione, con le necessarie ricadute sulle decisioni di chiusura dell’azienda adottate dal C.d.A., da rinviare per consentire il confronto con il sindacato.
Qual è la Sua opinione in proposito?
R. De Luca Tamajo A me sembra che questa decisione sia condivisibile con riferimento ad entrambi i profili evidenziati.
V.A. Poso Nelle consultazioni sindacali, confidando nella mediazione politica ed istituzionale spesso si fa affidamento a soluzioni alternative che scongiurino la chiusura delle attività produttive, come ad esempio la cessione dell’attività di impresa a soggetti terzi, ma soprattutto, quando la continuazione dell’attività produttiva non è possibile nemmeno a queste condizioni, gli ammortizzatori sociali e la cassa integrazione guadagni, con esiti non sempre scontati. Qual è la Sua opinione in proposito?
R. De Luca Tamajo Le politiche industriali, pubbliche e private, conoscono varie soluzioni alternative alla cessazione dell’attività produttiva. Tra esse in primis la cessione a terzi della impresa o di alcuni suoi rami, magari con l’intervento ausiliante della Cassa depositi e prestiti. Nella vicenda considerata dal Tribunale di Napoli (Whirpool) sembra che una simile ipotesi, pur praticabile, sia stata colpevolmente rifiutata dalle OO.SS.
Meno praticabile, se non per pochi singoli lavoratori, è il trasferimento collettivo presso altra sede o Stabilimento della Società, sovente ubicati a grande distanza dalla sede di provenienza, per gli ovvi incomodi e difficoltà familiari dei lavoratori.
Resta poi il ricorso alla Cassa integrazione, che rappresenta il più diffuso palliativo alla chiusura della azienda; “palliativo”, infatti, perché nella più parte dei casi, come è ben noto, si risolve non in un tentativo di recupero della efficienza aziendale, bensì in un improprio sussidio di disoccupazione in pendenza di rapporto, con nefaste conseguenze di congelamento di realtà imprenditoriali non più recuperabili, di sostanziale disinnesco di potenziali politiche occupazionali attive e di mancato avvio di iniziative formative capaci di indirizzare i lavoratori verso reali possibilità di nuovi impieghi, alimentati da domande di lavoro insoddisfatte.
V. A. Poso Nel procedimento relativo alla Gianetti Fad Wheels S.r.L. il Tribunale di Monza ha ritenuto estranea al campo di indagine della antisindacalità la denunciata «violazione del decreto della Regione Lombardia che prevedeva a carico dell’odierna resistente l’obbligo di mantenere inalterati i livelli occupazionali per un quinquennio dalla conclusione di un progetto di ricerca e sviluppo finanziato dalla Regione medesima». Le chiedo se questa valutazione è corretta e, se lo è, chi può far valere la violazione di un obbligo di tal genere e in quale sede?
R. De Luca Tamajo Ritengo esatta la decisione del Tribunale di Monza di non ricondurre ad un’ipotesi di antisindacalità ex art. 28 Statuto lav. la violazione dell’impegno assunto dalla società datrice di lavoro nei confronti della Regione Lombardia (che aveva finanziato un progetto di ricerca e sviluppo), impegno a mantenere inalterati i livelli occupazionali per un certo tempo.
È evidente che il soggetto creditore dell’obbligazione in quel caso non era il Sindacato bensì l’organo pubblico, solo legittimato ad attivare ogni forma di sanzione (dalla restituzione del finanziamento, al risarcimento del danno e al relativo blocco dei beni aziendali), mentre l’art. 28 è posto esclusivamente a tutela della organizzazione sindacale.
Particolarmente interessante ed articolata è sul punto la motivazione della sentenza n. 56/2022 che ha definito la fase di opposizione.
Peraltro, l’art. 28 non è destinato a garantire qualsivoglia interesse del Sindacato (nella specie: l’interesse al mantenimento dei livelli occupazionali), ma solo quelli oggetto di uno specifico riconoscimento normativo direttamente in capo al soggetto collettivo. Gli ulteriori interessi del sindacato, tra cui quelli a ridosso delle tematiche occupazionali, possono essere presidiati soltanto da azioni di pressione e/o conflittuali.
V. A. Poso Nel procedimento relativo alla Wirlpool Emea S.p.A. il Tribunale di Napoli ha ritenuto estranea al campo di indagine della antisindacalità la denunciata violazione di alcuni accordi aziendali che le organizzazioni avevano interpretato come «accordi gestionali». Condivide questa valutazione? Se l’azienda non è incorsa in comportamento antisindacale, chi e in quale sede può far valere le eventuali violazioni degli obblighi previsti negli accordi aziendali non gestionali?
R. De Luca Tamajo Nel giudizio relativo alla vicenda Whirpool, il Tribunale di Napoli, con una decisione coraggiosa perché non influenzata dalla pressione mediatica e della piazza, ha escluso che siano stati violati specifici accordi sindacali, rilevando che il piano industriale, quand’anche oggetto di illustrazione alle OO.SS., non era stato oggetto di un accordo impegnativo per la parte datoriale e non era “fonte diretta di obblighi nei confronti delle parti sociali”, ma soltanto un documento unilaterale che illustrava le intenzioni del management relative alle strategie competitive della azienda.
L’unico accordo cui riconoscere efficacia vincolante – secondo il Tribunale – è quello di non ricorrere a licenziamenti collettivi sino al 31 dicembre 2020, impegno puntualmente rispettato dalla azienda.
L’assunto sotteso alla pronunzia in questione sembra collegato alla giusta convinzione che, in vicende così intrinsecamente complesse e dinamiche, non può aversi riguardo alla originaria prospettazione delle politiche aziendali e occupazionali, irrigidendo forzosamente le iniziali dichiarazioni, stante la natura inevitabilmente dinamica ed evolutiva di tali processi, esposti alle più diverse fluttuazioni della economia e dei contesti sociali e produttivi. Ciò che va, tuttavia, salvaguardato è: a) la correttezza e la linearità del confronto con la parte sindacale che deve essere messa in grado sempre, anche in progress, di condizionare, sul piano della capacità di pressione, le politiche e le decisioni aziendali, pur non potendo impedirle o paralizzarle (nel caso partenopeo il Giudice ha dato atto di un confronto continuo scandito da circa 27 incontri ad alto tasso dialettico); b) la possibilità per il soggetto pubblico di intervenire per impedire la fruizione opportunistica di benefici o incentivi pubblici da parte di aziende intenzionate a migrare verso mercati più redditivi.
Di più non può farsi, pena una compressione eccessiva della libertà di iniziativa economica non soltanto preclusa dall’art. 41 Cost., ma anche idonea a disincentivare pesantemente gli investimenti produttivi specie, ma non solo, provenienti dall’estero.
V.A. Poso Il Governo, in sede di emendamento alla recente legge di bilancio, ha introdotto i commi 224-236 (Legge n. 234 del 30 dicembre 2021) che prevedono una procedura “aggravata” per l’azienda che abbia intenzione di cessare l’attività: ciò’ allo scopo di limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura.
Qual è il suo giudizio sulla efficacia di questa proceduralizzazione rispetto agli obiettivi perseguiti?
R. De Luca Tamajo La disciplina si muove su un crinale delicato poiché per un verso vuole impedire o ritardare operazioni che comportino un grave vulnus alla occupazione, specie ma non soltanto se finalizzate alla delocalizzazione verso territori caratterizzati da costi del lavoro più’ bassi, per altro verso deve evitare di porre vincoli e sanzioni così stringenti da disincentivare l’afflusso nel nostro Paese di nuove iniziative imprenditoriali.
Il riconoscimento delle difficoltà in cui opera il legislatore non puoi far velo, però, al timore che, per come è formulata, la norma ha un ambito di applicazione piuttosto limitato.
I requisiti in presenza dei quali la procedura diviene obbligatoria sono infatti numerosi e peraltro cumulativi: occorre che si tratti di un’impresa di grandi dimensioni (più di 250 dipendenti), che vi sia l’intenzione di chiudere una sede o uno stabilimento, con cessazione definitiva dell’attività e che da ciò derivino almeno 50 licenziamenti. Occorre, inoltre, che l’impresa che intende chiudere non si trovi in una situazione di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza.
Se si decide di perseguire l’obiettivo di garantire la salvaguardia del tessuto produttivo ed occupazionale, e se si vuole perseguirlo attraverso l’introduzione di limitazioni e “vincoli” alla libertà di impresa occorre approntare un sistema procedurale solido ed effettivo, pena altrimenti il moltiplicarsi di controversie relative ai confini dell’ambito di applicazione. Il rischio, altrimenti, è l’introduzione di elementi di rigidità del sistema che, lungi dal raggiungere il risultato sperato, determinano solo maggior confusione a livello applicativo.
V. A. Poso La soluzione adottata in sede governativa al problema delle chiusure e dell’impoverimento del tessuto produttivo è quello di imporre la predisposizione di un Piano di mitigazione della chiusura della durata di un anno, concertato con l’autorità pubblica e con il sindacato. Il Piano può prevedere diverse misure a seconda delle esigenze del tessuto produttivo (riconversione produttiva, trasferimento di azienda, etc.). La legge garantisce inoltre ai lavoratori interessati al Piano l’accesso al trattamento integrativo salariale e la partecipazione al programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori), che, ricordiamolo, si inserisce nell’ambito della Missione 5, Componente 1, del PNRR, la sezione del Piano dedicata alle politiche del lavoro.
Lei ritiene che queste “soluzioni” siano realmente effettive per il raggiungimento della finalità affermata in “apertura” del comma 224 «al fine di garantire la salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo»? Quali altre misure potrebbero essere proposte per il raggiungimento di un obiettivo così cruciale per la tenuta sociale ed industriale del nostro Paese?
R. De Luca Tamajo Sicuramente la proceduralizzazione della chiusura che agevoli un percorso “conciliativo” (i.e. il raggiungimento di un accordo/piano) con il soggetto pubblico e con quello sindacale è la via più rispettosa della storica gestione triangolare e partecipata delle crisi aziendali e in generale delle scelte aziendali di cessazione dell’attività. Si tratta quindi dello strumento più opportuno, in termini di politica del diritto.
Il problema essenziale però è che se si vogliono combattere queste battaglie non ci si può limitare solo ad interventi che si traducono in meri lacci e lacciuoli temporalmente limitati alla libertà di impresa, occorrendo una prospettiva dirigistica e sanzionatoria più adeguata né si può agire solo a livello locale, trattandosi di fenomeni sovente di portata transnazionale.
V.A. Poso Veniamo al profilo sanzionatorio. In caso di mancata presentazione del piano o in mancanza di approvazione dello stesso, è previsto solo il pagamento del contributo di cui all’art. 2, c. 35, della legge 28 giugno 2012, n. 92 in misura incrementata del doppio. Del pari un incremento del contributo è dovuto anche nel caso in cui l’impresa non firmi alcun accordo sindacale o se l’impresa proceda ad avviare la procedura dei licenziamenti collettivi nonostante dal monitoraggio emerga il mancato rispetto degli impegni assunti nonché dei tempi e delle modalità di attuazione del piano.
Lei ritiene che questa sanzione economica, teoricamente prevista per finalità dissuasive, sia adeguata e proporzionata?
R. De Luca Tamajo Non credo che una sanzione meramente economica possa ritenersi sufficiente. È vero che gli importi previsti nella legge, presi nel loro complesso, sono abbastanza importanti ma non credo che ciò si possa tradurre realmente in una spinta dell’impresa al rispetto della procedura. Non dimentichiamo, infatti, che la procedura prevista dalla legge è piuttosto gravosa e lenta e si traduce in un rallentamento importante delle strategie e del business aziendale. Occorre dunque una spinta maggiore rispetto al mero timore di un rischio economico per vincolare l’impresa ad una procedura di tal genere. La vera sanzione è ad esempio costituita dalla prevista illegittimità dei licenziamenti economici irrogati nonostante il mancato rispetto della procedura.
V. A. Poso Nella bozza di decreto-legge circolata questa estate si prevedeva, in caso di comportamenti inadempimenti dell’azienda, rispetto agli impegni presi nel Piano o comunque rispetto alla stessa formulazione del piano una sanzione consistente nella preclusione all’accesso a contributi, finanziamenti o sovvenzioni pubbliche comunque denominate per un periodo di cinque anni dalla data di scadenza del termine per la presentazione del piano o dalla sua mancata approvazione. Questa misura sanzionatoria è scomparsa nel nuovo testo normativo a seguito di critiche sviluppate soprattutto da Confindustria.
Lei ritiene che si trattasse realmente di una sanzione eccessiva o la stessa poteva ritenersi ragionevole?
R. De Luca Tamajo Indubbiamente la preclusione all’accesso a contributi o sovvenzioni pubbliche è sanzione ben più efficace o dissuasiva per l’impresa. Si tratta poi di una sanzione indispensabile per impedire in generale comportamenti predatori da parte di aziende che, dopo aver fruito di benefici a carico della finanza pubblica, delocalizzano in direzione di aree con minor costo del lavoro.
V.A. Poso Come saprà, questa estate, i dipendenti della Gkn Driveline Firenze S.p.A., con l’ausilio di alcuni giuslavoristi, avevano elaborato una proposta di legge portata all’attenzione del Parlamento in occasione della prima riunione in sede istituzionale tenuta dopo la revoca della lettera di avvio della procedura di mobilità.
Per quello che qui interessa, la proposta di legge per assicurare il mantenimento dei livelli occupazionali e dei siti produttivi nel sistema economico italiano, anche in presenza di procedure di licenziamento già attive, prevedeva per le imprese che impiegano oltre cento lavoratori (senza distinzione, anche in regime di somministrazione) l’intervento attivo dello Stato nella crisi aziendale, con la possibilità di inserire Cassa depositi e prestiti nella proprietà aziendale, come clausola di salvaguardia.
Anche in questo caso era prevista la presentazione di un piano di strumenti alternativi alla chiusura e una fase interlocutoria, anche a livello istituzionale, di esame e incontri; risultando privilegiata la vendita dell’azienda a soggetti solidi in grado di fornire garanzie sul mantenimento della produzione, del numero di dipendenti e dei livelli salariali (con una preferenza accordata alle cooperative dei lavoratori). Una soluzione di questo tipo è praticabile, eventualmente con quali correttivi?
R. De Luca Tamajo La soluzione era interessante perché non si limitava ad una proceduralizzazione della decisione aziendale ma metteva in pista interventi attivi e promozionali. Anche questi, tuttavia, devono essere effettivi e limitati nella durata, evitando di approdare a semplici manovre dilatorie e alla solita perpetuazione di strumenti di integrazione salariale.
Come dire: occorre mettere in opera tutti gli strumenti di politica attiva industriale ed occupazionale ma poi la libertà della iniziativa economica non può essere conculcata ulteriormente.
Fantastoria sul metodo stocastico del sorteggio per l’individuazione dei componenti togati del C.S.M.
-piccola smisurata preghiera per non doverci affidare al Caso (pur facendoci caso)-
di Gì d’Andrea
È apparso su tutti i principali quotidiani olografici del Belpaese 2.0 il contenuto delle intercettazioni dell’incontro avvenuto nella notte tra l’8 e il 9 del mese Fiorile del calendario repubblicano rivoluzionario del 3.019 d.C. alla Pensione Spumante del Cern in Svizzera (così, un tocco di nonsense tra scienza e internazionalità): i componenti togati del CSM, designati a seguito dell’estrazione del superenalotto giudiziario di sabato scorso, hanno concordato con politici di spicco intergalattico di pilotare i meccanismi di designazione stocastica di alcuni ruoli direttivi, tra cui quello di Megaprocuratore presso la Procura della Contea intergalattica di Canicattì.
Grazie ai trojan inoculati nella popolazione a seguito delle vaccinazioni di massa, le forze dell’ordine - che nel frattempo si è scoperto non essere poi così tanto ordinate, ma dominate anch’esse dalle variabili stocastiche- hanno smascherato il bieco intento dei sodali: alterare la curva gaussiana di normale distribuzione probabilistica degli eventi in seno alla procedura aleatoria di designazione dei vertici di un ufficio giudiziario, procedura comunemente utilizzata anche per la designazione dei componenti del CSM di turno.
- Scusi, narratore, non ho mica capito, ma che stavano a fa’ questi?
- Taroccavano i bussolotti del sorteggio, inserendo tra i sorteggiabili soltanto i nominativi di quelli che, in cambio di un simbolico cadeau (poca roba, eh, un biglietto della lotteria di capodanno e un abbonamento annuale ad una sala bingo) avevano espressamente richiesto di essere sorteggiati.
- Ah.
(Nel mentre, grazie alla preziosa iniezione di risorse dello Stato, l’organizzazione e la geografia giudiziaria hanno mutato il loro volto e Canicattì, ingiustamente evocata nel corso del tempo come un posto sperduto qualsiasi per antonomasia, finalmente ha raggiunto dimensioni di ragguardevole significato nell’emisfero boreale, quantomeno stando ai principali referendum demoscopici sul punto, tanto da meritare l’istituzione di un super ufficio giudiziario intergalattico e di un’agenzia internazionale del pistacchio. La diffusione a tappeto dei meccanismi di sorteggio, invece, ha generato preoccupanti ludopatie, con trascurabili ricadute sul sistema sanitario nazionale).
Coloro, tra i lettori, che hanno avuto la sventura di essere criocongelati circa mille anni fa e decongelati oggi, ricorderanno forse che altri scandali si erano già verificati nel corso della storia repubblicana della magistratura.
In particolare, era già stata registrata intorno al 2019 e ss. d.C. una stagione di profonda crisi della magistratura italiana, segnata dal male della degenerazione correntizia, che aveva minato l’indipendenza dell’ordine giudiziario e privato la magistratura di ogni credibilità, esponendola ai rischi della delegittimazione sistematica, da parte della politica, della stampa, dei cittadini, dei magistrati stessi.
Le correnti - ci dicono gli storici del settore - all’epoca avevano infatti rinunciato ad esercitare il loro ruolo di centri di elaborazione culturale, e si erano concentrate, piuttosto, sull’attività di lottizzazione degli incarichi, senza nemmeno quel buon gusto - che gli storici invece provocatoriamente rinvengono nei periodi antecedenti all’invenzione dei trojan - di cooptare i migliori, ancorché individuandoli nelle fila di questa o di quella corrente.
Per porre un argine al fenomeno della degenerazione correntizia, si erano levati all’epoca da più parti appelli per la riforma del sistema elettorale del CSM, sul presupposto che soltanto modificando i criteri di selezione dei suoi componenti si sarebbero ridotti i margini di esposizione ai rischi delle manipolazioni perpetrate per il tramite delle lobby correntizie.
In quel contesto e in quell’ottica, si diffuse pure l’idea di adottare, in alternativa alle elezioni, un sistema di designazione dei componenti del CSM mediante sorteggio. O, per i più sensibili al dato costituzionale all’epoca vigente, l’idea di circoscrivere l’elezione non a candidati che si fossero candidati, ma a magistrati che fossero stati sorteggiati, alla stregua del c.d. “sorteggio temperato”. Sul presupposto inespresso che i magistrati dell’epoca non fossero capaci di eleggere qualcuno di valido e che quel qualcuno, quand’anche valido, non fosse capace, una volta eletto, di resistere alle lusinghe del correntismo, di sottrarsi ai gangli tentacolari delle logiche spartitorie, di fuggire le occasioni prossime di peccato.
A pochi, evidentemente, era venuto in mente che il problema potesse essere di ordine culturale e morale, prima che di tecnica elettorale.
Ad ogni modo, mentre la politica procedeva per i fatti suoi a riformare il sistema elettorale del CSM (mica la prima volta, in fondo, dal 1958, che si modificava quel sistema), fu indetto dall’ANM un referendum consultivo per comprendere che cosa ne potessero pensare, della questione, gli iscritti.
Gli esiti di quel referendum dell’ANM sono stati portati alla luce con fatica dagli storiografi, i quali non erano originariamente riusciti a rinvenire traccia scritta dei risultati nella mailing list ufficiale ANM.
In un primo momento, essi ritennero che la percentuale di adesione allo sciopero del personale impegnato sui mezzi di superficie fosse stata pari all’11% del personale impegnato su tram bus e filobus, mentre la Linea 1 metropolitana aveva funzionato regolarmente con la sola soppressione temporanea e chiusura al pubblico della fermata Toledo, riaperta subito dopo il cambio turno pomeridiano, ancor prima della fine delle agitazioni dalle ore 14.50.
In un secondo momento – acclarato che i risultati elettorali non erano stati prontamente diffusi sulla mailing list a causa di un disservizio informatico, e non a causa di una deliberata opera di boicottaggio – gli storiografi chiarirono altresì che i risultati sopra riportati erano il frutto di un errore per così dire euristico, consistente nell’aver ricercato notizie del referendum sul sito ufficiale dell’ANM, senza prendere tuttavia in adeguata considerazione l’ipotesi che il primo indirizzo internet indicizzato da Google come riferito all’ANM non fosse quello dell’Associazione Nazionale Magistrati, ma dell’ Azienda Napoletana Mobilità S.p.A.
Svelato l’arcano, non senza difficoltà si riuscì a comprendere che il 27 e 28 gennaio del lontano 2022 d.C. si era svolto, con voto online, un referendum consultivo indetto a norma dell’art. 55 dello Statuto, con i seguenti risultati:
quanto al primo quesito, sorteggio sì o sorteggio no: su 7.872 elettori, si pronunciarono 4.275 magistrati, con un'affluenza pari al 54,31% degli aventi diritto; 2.745 magistrati avevano detto “No al sorteggio”; 1.787 avevano detto “Sì al sorteggio”.
Sul secondo quesito, avente ad oggetto la manifestazione di preferenza per un sistema elettorale maggioritario oppure proporzionale - su 7.872 elettori si pronunciarono 4.091 magistrati, con un’affluenza pari al 51,97% degli aventi diritto: 3.189 magistrati avevano preferito un sistema ad ispirazione proporzionale, mentre 745 magistrati avevano optato per il sistema ad ispirazione maggioritaria.
All’indomani del voto, i sostenitori del sorteggio sostennero, più o meno, che quasi la metà dei magistrati avesse mostrato una netta preferenza per il sistema del sorteggio temperato, unica strada percorribile per l’estirpazione della degenerazione correntizia. Talché il metodo del sorteggio – tecnicamente stocastico – doveva essere preso in seria considerazione. Per il bene dei cittadini.
Gli statistici petulanti precisarono che, tecnicamente, non si trattava di quasi la metà dei magistrati tout court, ma di quasi la metà dei magistrati votanti in quell’occasione, ossia 1.787 su 4.091 votanti, e che la percentuale “quasi la metà” era destinata ineluttabilmente ad essere rivisitata al ribasso, se rapportata al numero degli aventi diritto, 7.872, e ancor più se rapportata al numero complessivo di magistrati ordinari, tra i 9.000 e i 10.000 circa per la questura.
Le maggioranze, poi, hanno sempre la cattiva abitudine di guardarsi alle spalle e di contarsi.
Nessuno studio, statistico o psico-attitudinale, fu mai condotto su coloro che avevano contemporaneamente votato sì al sorteggio e sì al proporzionale.
Nessuno studio sociologico fu mai condotto sugli astensionisti, sulle ragioni del non voto, reso peraltro maggiormente agevole dalla possibilità di fare clic da casa in pigiama; secondo alcuni, trattandosi di referendum consultivo interno, il non voto doveva essere interpretato come interesse per il mantenimento del sistema elettorale all’epoca vigente, ossia il proporzionale; secondo altri, invece, partendo dal presupposto che l’adesione all’opzione del sorteggio equivalesse, nella sostanza, a un nichilistico “fate vobis”, il non voto doveva essere interpretato come manifestazione di interesse per la questione persino inferiore rispetto a quello sottostante all’opzione “fate vobis”.
Che i referendum consultivi non siano strumenti adeguati a garantire, quantomeno nel breve periodo, la soluzione migliore per la collettività, ce lo attestano gli esiti del referendum condotto da Ponzio Pilato in Giudea intorno al 33 d.C., quando, come noto, l’opzione Barabba prevalse – al netto degli asseriti brogli – sull’opzione Gesù di Nazareth.
Ad ogni modo, al di là delle contingenze storiche, dei numeri del referendum, dei toni più o meno ironici, l’attenzione rivolta al metodo del sorteggio merita di essere seriamente analizzata.
Chi scrive non è sicuramente un costituzionalista, né un politologo, per cui, tra le righe del raccontino fantastorico, l’autore deve necessariamente fermarsi al livello delle suggestioni, e delle domande. Con l’auspicio, anzi, la smisurata preghiera, che altri, di competenza, avanzino delle risposte.
Partiamo dai quesiti generali: il metodo stocastico di selezione dei componenti del CSM che significato ha? E perché la questione è divenuta così attuale nel 2022 d.C.?
La storia, pare, abbia offerto alcuni esempi di democrazie ispirate al criterio aleatorio, già nell’Antica Grecia. Che si trovava pressappoco dove sta la nuova Grecia. Il concetto è semplice: si tira a sorte chi governa. Lo si può fare coi bussolotti, con la conta ad ambarabaccicciccoccò, con l’estrazione dei numeri della lotteria. Il mezzo è irrilevante.
È interessante, semmai, capire perché ci si debba affidare al fato, piuttosto che scegliere.
Non si tratta di chiedersi se Dio giochi a dadi, o se vi giochi la magistratura (l’accostamento con la divinità non tradisce certo improbabili sentimenti di onnipotenza degli appartenenti all’ordine giudiziario, non fosse altro che lezioni di umiltà e schiaffi virtuali giungono ai magistrati da ogni dove).
Non è un problema di determinismo o di meccanica quantistica, nessun dibattito tra Einstein e Bohr, è una questione molto pragmatica.
Di democrazia e autogoverno.
Proviamo a drammatizzare alcune posizioni dialogiche in campo, al netto delle inevitabili semplificazioni. Lo facciamo grazie alla partecipazione speciale, nella veste di candidati – anzi di designabili al CSM – dei consiglieri Paolino Paperino, Gastone Paperone e Voltaire – che ringraziamo per la disponibilità accordata.
Gastone Paperone: “Dobbiamo adottare un sistema che affidi alla sorte la designazione dei componenti togati del CSM: solo così potremo eliminare il fenomeno della degenerazione correntizia, solo così saranno assicurate pari opportunità a tutti i magistrati, solo così si elimineranno le infiltrazioni lobbistiche”.
Voltaire: “Monsieur Gastone, non condivido quello che dici, ma darei la vita per permetterti di dirlo, in ossequio alla più abusata formula del pluralismo ideologico. E ci tengo a precisare che io non ho mai pronunciato quella proverbiale frase, di cui erroneamente mi viene attribuita la paternità”.
Paolino Paperino: “S’annamo a pijà un gelato?” (sì, l’indifferenza di Paolino Paperino è ispirata a uno dei personaggi di Zerocalcare, in assenza delle licenze d’uso, ndr.)
Gastone Paperone: “L’assunto inespresso, che qui esplicito, è che il CSM sia un organo a carattere amministrativo, per quanto di alta amministrazione. Non servono le correnti, anzi sono dannose, perché ricettacolo di condotte clientelari. Ciò di cui abbiamo bisogno è gente onesta, senza legami con le correnti, che sono paludi dove attecchisce la corruzione; abbiamo bisogno soltanto di gente onesta che sappia leggere e interpretare norme e circolari, lo possono fare tutti. Solo la sorte è equa, è una dea bendata, come la giustizia, che non guarda in faccia gli amici degli amici”.
Voltaire: “Se fosse vero che il CSM è un organo meramente amministrativo, mi si spieghi perché ne fanno parte pure membri laici, ossia politici. Non credo che basti essere magistrati, e saper leggere e interpretare norme e circolari. Una visione politica c’è e ci deve essere, sempre, necessariamente”.
Gastone Paperone “Sei un ipocrita, finto democratico”
Voltaire “E tu un nichilista qualunquista populista demagogo”.
Gastone Paperone: “Ah, ci vuole una visione politica? D’accordo. Ma qual è la tua, o del tuo gruppo?”
Paolino Paperino “Buuuuu, tutti corrotti, tutti furfanti. Privi di stile e di senso istituzionale. Estraete a sorte chi vi pare, col bussolotto, con la monetina. Anzi, ve la tiro io la monetina, addosso però. Buuuu. Torno ai miei decreti ingiuntivi. Anzi, prima me ne vado a pijà un gelato.”
Chi votereste voi tra Gastone, Voltaire, Paperino? C’è qualcuno che non votereste?
Ognuno dice qualcosa di giusto. O di sbagliato. O non dice quello che dovrebbe dire.
Adesso immaginate invece, per un attimo, che tutti e tre possano essere designati quali componenti del CSM sulla scorta del metodo stocastico puro. D’accordo, è incostituzionale, è inverosimile che si arrivi a tanto. Ma è un’astrazione, funzionale a studiare “in vitro” il modello.
Se all’esito dell’estrazione pura, nel sorteggio “intemperato”, il bastoncino più corto rimanesse nelle mani del consigliere Paolino Paperino, che non ne voleva nemmeno sapere del CSM, che si fa?
A chi tocca nun se ngrugna? Gli incarichi istituzionali non si chiedono, né si rifiutano?
Sarà un bravo consigliere, in quanto senza rivali nell’emettere decreti ingiuntivi? È un bravo tecnico, sicuramente. Ma questo basta? La pretesa apoliticità del CSM risponde alla realtà? O è un argomento evocato impropriamente per fare presa sulla pancia della magistratura, realmente sfiduciata dal sistema correntizio?
E se venisse sorteggiato Gastone Paperone? Soggetto libero da legami con le correnti (al massimo aveva alle spalle un movimento che propugnava lo scioglimento delle correnti e il primato della sorte, un movimento, mica una corrente!). Una volta designato quale componente togato del CSM, sarà sol per questo irraggiungibile per le eventuali lobby maliarde e seduttrici? Sarà sol per questo irreprensibile nella sua condotta? O il rigore morale e il senso istituzionale sono, alla pari dei vizi, attributi dell’essere umano, e non discendono dal metodo di designazione?
E del consigliere Voltaire, già militante nella corrente Toghe Illuminate, che ne facciamo? Lo espungiamo dagli estraibili, in ragione della sua pregressa militanza? Lo spazio della democrazia aleatoria è uno spazio di libertà negativa, e non positiva? Occorre cioè che nessuno abbia idee e che chi le ha le rinneghi, vi abiuri, o basta che non partecipi?
E poi: ma il consigliere Voltaire, alla fine dei conti, che idee aveva?
Immaginiamo ora invece l’ipotesi in cui il metodo democratico dell’elezione si innesti sull’estrazione a sorte. È il cosiddetto sorteggio temperato, formalmente rispettoso del dato costituzionale (all’epoca vigente). Senza soffermarci su quanto fosse rispettoso di quel dato costituzionale contingente: a monte, il sorteggio temperato è un criterio sensato?
Se in un certo qual modo i nomi di Gastone Paperone o di Paolino Paperino o di Voltaire già qualcosa possono evocare nell’elettorato, in ragione di verosimili pregresse diffuse letture fumettistiche/enciclopediche, cosa succederebbe se venissero estratti i nominativi di Tizio e di Caio?
A chi scrive risultano dei perfetti sconosciuti. Si sa niente di loro. O meglio, è ragionevole immaginare che entrambi facciano parte della magistratura. I nomi “Tizio” e “Caio”, d’altronde, sono piuttosto diffusi nella letteratura giuridica. E pure nei pareri per l’esame d’avvocato, pare di ricordare. Sì, sono magistrati, l’accendiamo.
Ma sulla base di cosa potremmo ragionevolmente e consapevolmente votare Tizio o Caio? Che cosa pensa Tizio? Che cosa pensa Caio? In che cosa ci potremmo sentire rappresentati da loro, esattamente? Qual è l’elemento aggregativo dei sorteggiati? L’essere tutti fortunelli? (o sfortunelli, dipende dalle prospettive individuali). Avere un quadrifoglio in tasca e un cornetto rosso nel portafoglio? Non avere idee? Aver rinnegato ogni idea? Il meccanismo rappresentativo che si innesta sul previo sorteggio presuppone che l’elettore possa riconoscersi nel candidato sorteggiato sulla mera scorta del suo profilo tecnico, del suo curriculum? E ancora, i sorteggiati a chi rispondono del loro operato? (La risposta della catechesi “Alla Legge” non vale, è scontata).
In definitiva, qual è l’utilità del sorteggio temperato, se comunque sul sorteggio si deve necessariamente innestare una scelta democratica, articolata attraverso il meccanismo rappresentativo? Già questo dato evidenzia una certa contrarietà con il principio del rasoio di Occam, tale per cui, metodologicamente parlando, il sorteggio temperato è inutile. Assolve forse una funzione più importante? Quella di bypassare i corpi intermedi? Se così fosse, siamo sicuri che far dipendere un messaggio culturale e valoriale, in cui l’elettore temperato possa riconoscersi, dall’estemporaneità di un individuo sorteggiato sia un meccanismo idoneo ad assicurare democrazia, trasparenza e indipendenza dell’autogoverno? È davvero una prospettiva migliore rispetto a quella garantita dai corpi intermedi (epurati dalle logiche deviate, certo)?
Se gli esiti della drammatizzazione dovessero essere ritenuti verosimili, all’autore piace credere – ma è solo la modesta Weltanschauung di uno che a stento arriva alla prima valutazione - che l’organo di autogoverno della magistratura possa e debba essere espressione di un sistema democratico, non aleatorio, non stocastico. E ovviamente non clientelare, certo.
Scegliere, anziché delegare il fato, è un atto di fiducia nel genere umano. L’auspicio è che ciascuno, sulla base delle sue possibilità e, nella media dei fatti umani, con buone intenzioni, possa sforzarsi di partecipare, più o meno direttamente, alla vita pubblica, offrendo il proprio contributo, anche attraverso l’elezione consapevole di quelli che reputa essere i più adatti a governare.
Le opzioni elezione/sorteggio, quindi, non sono e non possono essere alternative, non stanno sullo stesso piano.
Da una parte si sceglie, tra idee, progetti, (pluralismo di idee, prima che di nomi e di generi);
dall’altra non si sceglie, si lascia fare al caso, apice della mortificazione dell’umanesimo, alibi perfetto per la deresponsabilizzazione, individuale e collettiva (salvo prendersela poi con le stelle).
La differenza tra eleggere e sorteggiare merita un’ultima precisazione, non marginale.
È vero che le due opzioni non sono alternative, ma a una condizione: votare ha senso nella misura in cui l’elettore si riconosce in un assetto culturale e valoriale che presenta una fisionomia chiaramente delineata e nella misura in cui il candidato, che condivide quell’orizzonte culturale e valoriale, ne sia un’espressione credibile. Perché tutto questo avvenga, occorre innanzitutto che il corpo intermedio, cardine del sistema di rappresentanza indiretta, un assetto culturale e valoriale ce l’abbia.
Il rilievo è banale, e l’autore se ne scusa, ma in fondo qui si tratta soltanto di una preghiera.
Questo si può e si deve chiedere ai corpi intermedi: che le correnti siano centri di effettiva elaborazione culturale; che si parli di contenuti; che ci siano dei contenuti.
Se mancheranno quei contenuti, se mancherà la credibilità e la coerenza di chi se ne sarà fatto portavoce, risulterà difficile negare che mettere una croce su un nome o sul simbolo di una corrente sia un’operazione radicalmente diversa da quella che si risolve nell’estrazione di un nome a caso da un bussolotto.
E a quel punto, sulla questione, tanto varrà metterci una democratica croce sopra.
Con questa battuta scenica finale, discutibile al pari delle altre, qui l’autore si ferma.
Ma non certo perché non voglia tediare oltre il paziente lettore. Ma solo perché gli sta chiudendo il tabacchi sotto casa e non ha ancora acquistato il gratta e vinci per i posti semidirettivi vacanti. Il sistema dei bussolotti, si sa, vale solo per direttivi e CSM. Chissà poi, nel mentre, chi sarà stato sorteggiato per l’incarico di Megaprocuratore presso la Procura della Contea intergalattica di Canicattì. Chissà chi è il più quotato alla SNAI. Chissà che sorte avrà la magistratura, se il futuro sarà migliore. L’autore crede di sì. Dai, scommettiamo?!
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Ὁ μύθος δελοι οτι: parafrasando le parole del regista nel film “Aprile”, “Correnti, dite una cosa di sinistra… O anche non di sinistra… Di civiltà… Ma dite una cosa, dite qualcosa. Reagite!”.
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DISCLAIMER
Ogni riferimento a personaggi storici, di fantasia, persone esistenti o esistite, fatti realmente o probabilisticamente accaduti nel passato, presente o futuro, nomi cose città animali è puramente stocastico. Sull’utilizzo ridondante del termine “stocastico”, honni soit qui mal y pense! Per la stesura del presente scritto non sono stati sfruttati m.o.t., stagisti, schiavi frigi, addetti all’ufficio per il processo, né sono stati maltrattati paperi Disney.
Autocertificazioni mendaci e automatica decadenza dai benefici (nota a Corte costituzionale n. 190 del 13/10/2021)
di Emanuela Concilio
Sommario: 1. La vicenda. - 2. Le eccezioni sollevate dall’Avvocatura Generale dello Stato. - 3. L’autocertificazione come istituto di semplificazione: criticità. - 4. La decisione della Corte costituzionale. - 5. Considerazioni conclusive.
1. La vicenda
La vicenda che ha dato luogo all’ordinanza del T.A.R. Puglia, sezione staccata di Lecce n. 92 del 30 gennaio 2020 di rimessione alla Consulta della questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 in relazione all’art. 3 Cost., prende le mosse dalla impugnazione, da parte di una società titolare di un patentino per la vendita di prodotti da fumo, del provvedimento con il quale, l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli rigettava l’istanza di rinnovo della suddetta autorizzazione e contestualmente ritirava il patentino per la vendita di generi di monopolio.
Accadeva che il titolare dell’attività commerciale, in violazione degli artt. 7 e 8 del D.M. 38 del 2013, ometteva di indicare, nella dichiarazione sostitutiva di atto notorio ex d.P.R. n. 445 del 2000 allegata all’istanza di rinnovo, alcuni debiti verso l’erario, consistenti in due cartelle esattoriali emesse dall’Agenzia delle entrate per il mancato pagamento del canone RAI per un biennio, sulla base dell’erroneo presupposto che il canone RAI non costituisse un tributo verso l’erario.
L’accertamento da parte dell’Agenzia di una dichiarazione risultata non veritiera, ai sensi dell’art. 76 del D.P.R. 445 del 2000, veniva considerato elemento idoneo e sufficiente ad interrompere “il rapporto di fiducia con l’amministrazione” e quindi a negare il rinnovo del patentino, a nulla rilevando l’adempimento di quanto dovuto da parte della istante prima dell’emanazione del provvedimento di diniego del rinnovo.
Il T.A.R. Puglia perveniva alla convinzione che il diniego fosse stato determinato esclusivamente dalla non veridicità della dichiarazione sostitutiva di atto notorio che accompagnava l’istanza e che pertanto esso si configurasse come “sanzione” eccessivamente gravosa, considerati l’entità del debito e l’adempimento spontaneo dell’intero importo.
Conseguentemente, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 per violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, espressione dei principi sanciti dall’art. 97 Cost., nonché del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, co. 2 Cost., nella misura in cui la norma, nel “sanzionare” le dichiarazioni mendaci con la decadenza dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento (emanato sulla base della dichiarazione non veritiera), avrebbe colpito in maniera indiscriminata condotte di rilievo differente. Non sarebbe, infatti, possibile graduare le conseguenze alla gravità del fatto, al suo disvalore e all’elemento soggettivo del dolo o della colpa del dichiarante. [1]
Tali conseguenze, secondo il giudice rimettente, avrebbero una valenza lato sensu sanzionatoria e sarebbero in ogni caso irragionevoli e sproporzionate, in quanto prescinderebbero dall’effettiva gravità del fatto e dalla sua incidenza rispetto all’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione, con la conseguenza di riservare il medesimo trattamento a situazioni oggettivamente diverse. Sicché, nei casi di non veridicità su aspetti di minima rilevanza concreta, potrebbero verificarsi conseguenze abnormi e sproporzionate rispetto al reale disvalore del fatto.
A supporto della propria tesi argomentativa, il giudice a quo richiama l’interpretazione “consolidata” della giurisprudenza amministrativa, secondo la quale “la dichiarazione non veritiera, al di là dei profili penali, preclude al dichiarante il raggiungimento dello scopo cui la stessa era indirizzata e comporta l’automatica decadenza dai benefici ottenuti” [2]
Il T.A.R. Puglia rileva come il rigido automatismo descritto sia lesivo dell’equilibrio fra le diverse esigenze in gioco, poiché idoneo a pregiudicare i diritti costituzionali del singolo; infatti, la finalità di semplificazione, tipica dell’istituto della autodichiarazione, si tradurrebbe nella diminuzione degli adempimenti a carico dell’amministrazione pubblica, a fronte di un’eccessiva autoresponsabilità del privato.
2. Le eccezioni sollevate dall’Avvocatura Generale dello Stato
L’Avvocatura Generale dello Stato si costituiva in giudizio sollevando eccezioni sia di rito che di merito.
In via preliminare, veniva eccepito il difetto di motivazione sulla rilevanza della questione sotto due profili: il primo in ordine alla descrizione della fattispecie concreta, relativamente al carattere definitivo dell’accertamento delle pendenze fiscali o morosità verso l’erario richiesto dagli artt. 7 e 8 del D.M. n. 38 del 2013; il secondo in ordine al presupposto (teleologico) interpretativo del diniego del rinnovo.
Sotto il primo profilo, il giudice rimettente sosteneva la definitività dell’accertamento e della pretesa tributaria, ex artt. 7 e 8 del D.M. n. 38 del 2013 cit., di cui alle cartelle di pagamento del concessionario, trattandosi di cartelle esattoriali emesse per mancato pagamento dei canoni R.A.I. 2016 e 2017, avverso le quali l’istante non aveva intrapreso alcuna azione dinanzi all’Autorità Giudiziaria e anzi aveva provveduto all’integrale pagamento delle stesse.
Diversamente, l’Avvocatura Generale eccepiva che la sola indicazione dell’anno di riferimento del credito erariale, senza alcuna indicazione del giorno di notifica della cartella, non fosse idoneo a dimostrare il definitivo accertamento del credito erariale, non potendosi escludere né l’avvio di una procedura esecutiva, né la proponibilità del ricorso ai sensi del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337), ovvero dell’opposizione agli atti esecutivi, di cui all’art. 617 c.p.c.
Sotto il secondo profilo, la tesi argomentativa dell’Avvocatura poggiava sull’assunto secondo il quale il diniego del rinnovo non sarebbe derivato dalla falsità della dichiarazione in autocertificazione del richiedente, quanto piuttosto dall’assenza di uno dei requisiti indispensabili ai fini dell’adozione del provvedimento ai sensi del D.M. 38 del 2013 (Regolamento recante disciplina della distribuzione e vendita dei prodotti da fumo) e consistente nella insussistenza di pendenze fiscali.
Invero, la disciplina appena richiamata, nel dettare i criteri per il rilascio di patentini, all’art. 7, comma 3, lett. g), dispone in capo agli Uffici competenti il compito di valutare, proprio “l’assenza di eventuali pendenze fiscali e/o di morosità verso l’Erario o verso l’Agente della riscossione definitivamente accertate o risultanti da sentenze non impugnabili”. Con la conseguenza che, laddove fosse stata accertata l’insussistenza del requisito anche dopo il rinnovo del patentino, l’Agenzia delle dogane e dei monopoli ne avrebbe comunque dovuto disporre il ritiro.
Peraltro, l’Avvocatura osservava come la decadenza prevista dalla disposizione censurata fosse idonea a travolgere solo i benefici già entrati nella sfera giuridica del dichiarante, mentre il giudice rimettente avrebbe ritenuto, senza indicarne i motivi, che la stessa si estendesse anche a benefici non ancora ottenuti, come quello connesso al rinnovo del patentino, che si sostanzia in un rinnovato rilascio, rispetto al quale devono logicamente ritenersi necessari anche i presupposti normativi richiesti per quest’ultimo alla data in cui il rinnovo è richiesto. [3]
Secondo l’Avvocatura Generale, l’omessa verifica da parte del giudice a quo del regolamento ministeriale avrebbe costituito elemento sufficiente a tacciare di inammissibilità la questione di legittimità costituzionale sollevata, con l’ulteriore “aggravante” che lo stesso giudice non avrebbe tentato di esperire un’interpretazione conforme, secondo il recente orientamento del Consiglio di Stato che fornisce una lettura costituzionalmente orientata dell’autocertificazione, valorizzando la sostanza dell’attestazione rispetto alla forma. In particolare, secondo il Supremo Consesso di giustizia amministrativa, sarebbe possibile la regolarizzazione delle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà in presenza di vizi meramente formali, con la conseguenza che per la decadenza o per il diniego del beneficio non sarebbe determinante il profilo formale della falsità della dichiarazione, bensì quello sostanziale, costituito dalla mancanza del requisito falsamente dichiarato [4].
Secondo diversi arresti giurisprudenziali, inoltre, in tali circostanze sarebbe consentito alla P.A. di avvalersi del soccorso istruttorio e di valutare la portata, il peso e l’attualità delle pendenze fiscali sussistenti al momento dell’esame dell’istanza [5].
Nel merito della questione, l’Avvocatura Generale eccepiva l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale, per mancata violazione dei principi di ragionevolezza, proporzionalità ed imparzialità di cui all’art. 3 Cost. Secondo l’interpretazione fornita dalla Avvocatura, la disciplina di cui all’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 non sarebbe volta a sanzionare la falsità delle dichiarazioni, quanto piuttosto a garantire la certezza dei rapporti giuridici, facendo applicazione del principio di autoresponsabilità del dichiarante, con vantaggi sia per l’amministrazione che per il cittadino. D’altra parte, la difesa dello Stato rileva come proprio la concessione del beneficio anche in presenza di false attestazioni porterebbe ad effetti irragionevoli e contrastanti con l’art. 3 Cost., finendo per incentivare comportamenti volti all’attestazione del falso, a danno di chi, invece, operando con correttezza e buona fede, si assume la responsabilità di una dichiarazione, pur sfavorevole, ma veritiera. La scelta del legislatore risponderebbe, quindi, ad esigenze di efficacia dell’azione amministrativa, le quali sarebbero frustrate laddove fosse attribuita all’amministrazione una valutazione in ordine alla gravità del fatto contestato ed all’elemento soggettivo del dichiarante.
3. L’autocertificazione come istituto di semplificazione: criticità
Il decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, recante “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”, costituisce normativa finalizzata ad attuare la semplificazione dell’azione amministrativa. [6]
Quando si parla di semplificazione amministrativa si allude generalmente ai diversi istituti giuridici volti a migliorare l’efficienza dell’amministrazione, rendendo la sua azione più celere e meno farraginosa [7], laddove l’esigenza di semplificazione presuppone una valutazione negativa dell’agire pubblico, ritenuto eccessivamente complicato a scapito degli interessi dei cittadini. [8]
Come è noto, la semplificazione amministrativa muove in tre direzioni: la semplificazione della struttura procedimentale (conferenze di servizi e accordi tra amministrazioni; termine di conclusione del procedimento; abilitazione dell’amministrazione a procedere indipendentemente da pareri obbligatori e valutazioni tecniche non rese entro un determinato termine); la semplificazione/liberalizzazione dell’avvio di determinate attività, con limitazione delle conseguenze negative dell’inerzia della amministrazione (silenzio assenso, scia); la semplificazione dell’interazione tra cittadino e pubblica amministrazione (l’autocertificazione). [9]
In particolare, l’istituto dell’autocertificazione configura un’espressione di semplificazione intesa più latamente come facilitazione del privato nelle modalità di accesso a talune attività soggette al potere, quanto meno di “controllo”, delle autorità amministrative, anche con l’obiettivo di una riduzione degli oneri posti a suo carico. [10] Qui, la semplificazione è diretta a migliorare il rapporto tra amministratori e amministrati, nel senso di sgravare il privato dall’onere di dimostrare il possesso determinati requisiti ai fini del conseguimento di un certo atto, essendo sufficiente per la P.A. una sua dichiarazione. In altri termini, si tende ad eliminare, laddove possibile, l’intermediazione dell’amministrazione, in particolare nella fase di avvio di un’attività, il che implica di contro l’estensione degli oneri e delle responsabilità in capo al soggetto privato, e l’adozione di strumenti quali l’autocertificazione. [11]
L’istituto dell’autocertificazione, dapprima introdotto dalla legge n. 241 del 1990, approda poi nel d.P.R. 445 del 2000, il cui Capo III - rubricato proprio “Semplificazione della documentazione amministrativa” - detta una disciplina specifica in materia di Dichiarazioni sostitutive di certificazioni (art. 46) e Dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà (art. 47). [12]
In particolare, per le dichiarazioni sostitutive di certificazioni, l’art. 46 stabilisce che esse possono essere rese anche contestualmente all’istanza per comprovare “in sostituzione delle normali certificazioni” stati, qualità personali e fatti che vengono tassativamente elencati dalla norma.
Per quanto riguarda invece le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà, l’art. 47, d.P.R. 445/2000, cit., prevede che esse possano essere utilizzate per attestare sia “stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato” (comma 1), sia “stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza” (comma 2) [13].
La differenza tra le due risiede nella circostanza che solo le prime consentono al cittadino di sostituire con una propria dichiarazione un atto amministrativo di “certezza pubblica” (riguardando informazioni contenute in albi, elenchi, registri in possesso della p.a.), mentre con le seconde è il privato, con la propria dichiarazione, a “creare” certezza, ossia ad attribuire tale qualità alle informazioni della cui veridicità si assume la responsabilità. [14]
Il legislatore predispone una specifica disciplina in materia di responsabilità, sia in capo al dichiarante che in capo all’Amministrazione e funzionario pubblico, ma con un regime differente.
Per quanto riguarda il dichiarante, oltre alle conseguenze penali [15], l’art. 75 del d.P.R. 445 del 2000 disciplina le conseguenze delle false dichiarazioni sostitutive di atto notorio o di certificazioni, prevedendo la decadenza dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera, qualora dal controllo di cui all’articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione.
La norma detta un regime sanzionatorio “aggravato” configurando, con una sorta di automatismo, il prodursi di decadenze penalizzanti per il privato per il solo fatto oggettivo della falsità senza attribuire alcuna rilevanza all’elemento soggettivo del dolo e della colpa. La misura non incide direttamente sul provvedimento, ma si inquadra nella più generale tipologia della “decadenza per perdita” ispirata alla logica di precludere la fruizione dell’utilitas indebitamente conseguita per effetto del mendacio, impedendo che il dichiarante possa godere di un beneficio che non avrebbe avuto titolo a ottenere; per tale motivo opera ex nunc e indipendentemente dalla gravità del mendacio e dall'elemento soggettivo. [16]
Sul punto, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che “la ratio dell'art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 è volta alla semplificazione dell'azione amministrativa, facendo leva sul principio di autoresponsabilità del dichiarante, con il corollario che la non veridicità di quanto autodichiarato rileva sotto un profilo oggettivo e conduce alla decadenza dei benefici ottenuti con l'autodichiarazione non veritiera, indipendentemente da ogni indagine dell'Amministrazione sull'elemento soggettivo del dichiarante, giacché non vi sono particolari risvolti sanzionatori in gioco, ma solo le necessità di una spedita esecuzione della legge sottese al sistema di semplificazione. In conclusione, la non veridicità rileva, in quanto abbia determinato l'attribuzione di un beneficio”. [17]
Pertanto, la giurisprudenza chiarisce, da un lato, che il profilo soggettivo del dichiarante non rileva in alcun modo, ciò che conta è unicamente la non veridicità di quanto autodichiarato sotto un profilo meramente oggettivo; dall’altro lato, che è esclusivamente la non veridicità a determinare la perdita dei benefici qualora ottenuti con l'autodichiarazione non veritiera.
Recentemente, la disciplina generale dei controlli amministrativi sulle autodichiarazioni di cui al d. P.R. n. 445 del 2000 è stata integrata dal d.l. n. 34 del 2020 (cd. decreto rilancio) il quale, all’art. 264, introduce un trattamento “sanzionatorio” più rigoroso. La norma, trincerandosi dietro la dichiarata finalità di “garantire la massima semplificazione, l’accelerazione dei procedimenti amministrativi e la rimozione di ogni ostacolo burocratico nella vita dei cittadini”, intensifica i controlli a campione sulla veridicità delle autodichiarazioni, aggravando sensibilmente gli effetti del loro eventuale esito negativo. Alla tradizionale (mera) “decadenza” dal beneficio prevista dall’art. 75, viene aggiunta l’espressa previsione della “revoca degli eventuali benefici già erogati”. A tale revoca, tuttavia, il legislatore ricollega effetti ex tunc, circostanza che ha fatto apparire improprio ed atecnico il termine utilizzato, in luogo di quello di annullamento d’ufficio, ritenuto più consono anche alla luce del vizio che inficia il provvedimento (illegittimità e non motivi di opportunità e interesse pubblico). Per tentare di ricondurre il sistema descritto a coerenza, la dottrina ha ritenuto necessario annettere tale revoca al genus delle sanzioni, con tutto ciò che ne consegue in termini di soggezione ai principi di stretta legalità, proporzionalità e rilevanza dell’elemento soggettivo propri di queste ultime. [18]
All’ampliamento (e aggravamento) di oneri e responsabilità in capo al privato corrisponde una riduzione (rectius attenuazione) della responsabilità in capo ai pubblici dipendenti, circoscritta alla sfera dei controlli. Il citato art. 71 d.P.R. 445/2000, statuisce il dovere per gli enti pubblici procedenti di effettuare “idonei controlli”, sempre e in ogni caso quando sorgono fondati dubbi sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive, oppure a campione in tutti gli altri casi, anche successivamente alla erogazione del beneficio. Inoltre, l’amministrazione e i suoi dipendenti godono di un regime di esenzione da ogni responsabilità per gli atti emanati in conseguenza di false dichiarazioni o di documenti falsi prodotti dall’interessato o da terzi, salvo le ipotesi di dolo o colpa grave. In questi casi, pertanto, il legislatore mostra una certa sensibilità all’elemento soggettivo del dipendente pubblico responsabile del controllo, al fine di escluderne la responsabilità. [19]
Dall’analisi della disciplina dettata dal d.P.R. 445/2000 emerge come l’autocertificazione comporti “per lo sprovveduto cittadino un vero e proprio danno” [20], diventando espressione di un differente modo di concepire i rapporti tra cittadini e amministrazione, basato sulla responsabilità e la collaborazione dei primi allo svolgimento dell’attività amministrativa.
Si evidenzia, invece, come l’istituto dovrebbe realizzare una coincidenza tra interessi privati (snellezza del procedimento) e pubblici (migliore utilizzo dei dipendenti pubblici sottratti da compiti ripetitivi), pur nella consapevolezza che il problema di tale reductio ad unitatem è che spesso le esigenze di snellezza dell’azione amministrativa e le esigenze di garanzia dei privati conducono in direzioni divergenti e conflittuali. [21]
4. La decisione della Corte costituzionale
La Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata.
Principiando dall’analisi del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 21 febbraio 2013, n. 38, in materia di rilascio e rinnovo dei patentini per la vendita di prodotti da fumo, la Corte si sofferma sulla disciplina degli artt. 7 e 8, rispettivamente rubricati “Criteri per il rilascio di patentini” e “Rilascio dei patentini”, applicabili al caso in esame ratione temporis [22]. Come visto, l’art. 7 prevede, al comma 3, che, ai fini dell’adozione del provvedimento, gli Uffici competenti in relazione all’esercizio del richiedente, valutano, peraltro, “g) l’assenza di eventuali pendenze fiscali e/o di morosità verso l’Erario o verso l’Agente della riscossione definitivamente accertate o risultanti da sentenze non impugnabili”. Il successivo art. 8, al comma 3, prevede parimenti che la dichiarazione sostitutiva di atto notorio debba indicare tra le altre “f) la sussistenza di eventuali pendenze fiscali e/o di morosità verso l’Erario o verso il concessionario della riscossione definitivamente accertate o risultanti da sentenze non impugnabili”.
Dalla lettura di tali norme, la Corte fa discendere la conseguenza che la “causa” del mancato rinnovo del titolo sia stata determinata esclusivamente dalla assenza del requisito della regolarità fiscale, a prescindere dalla falsità della dichiarazione resa ai sensi del d.P.R. n. 445 del 2000.
L’esito, infatti, sarebbe stato il medesimo anche se la dichiarazione fosse stata veritiera e avesse puntualmente riferito la sussistenza delle pendenze fiscali, in quanto ciò che avrebbe dovuto valutare il giudice rimettente (eventualmente lamentando anche in questo caso effetti irragionevoli e sproporzionati), non era la disciplina “sanzionatoria” di cui all’art. 75 del d.P.R. 445 del 2000, ma prima di tutto la disciplina regolamentare di cui al d.m. n. 38 del 2013, che costituisce il prius logico, alla cui stregua doveva essere formulato il giudizio di verità o falsità della dichiarazione in esame.
Per la Consulta, tale omissione viene aggravata dalla circostanza che il giudice rimettente, analizzando la disciplina regolamentare, avrebbe potuto intuire la differenza teleologica tra le due norme laddove l’una, l’art. 75 del d.P.R. 445 del 2000, fa riferimento alle conseguenze della dichiarazione non veritiera ponendosi in un momento successivo rispetto al fatto, mentre l’altra, l’art. 7, co. 3 del d. m. cit., colloca a monte, in una precedente fase di verifica dei requisiti, l’apprezzamento discrezionale da parte dell’amministrazione in ordine allo specifico rilievo delle pendenze o morosità definitivamente accertate.
Pertanto, il difetto di motivazione sulla rilevanza della questione in ordine ai profili richiamati dalla Avvocatura Generale dello Stato e condivisi dalla Corte costituzionale – e, in particolare, in ordine alla disciplina suscettibile di definire il contenzioso instaurato dal ricorrente – è stato considerato idoneo ad inficiare l’ordinanza del T.A.R. Puglia n. 92 del 30 gennaio 2020, determinandone l’inammissibilità.
5. Considerazioni conclusive
La decisione della Corte costituzionale appare ragionevole per le motivazioni illustrate e, per quanto il focus del thema decidendum sposti l’attenzione dall’istituto dell’autocertificazione, essa costituisce un’occasione per riflettere sull’efficacia degli strumenti di semplificazione, di cui l’autocertificazione costituisce espressione.
Invero, la “sburocratizzazione” della pubblica amministrazione nel corso del tempo è venuta ad assumere un’accezione negativa, proprio in ragione del fatto che essa ha finito per vanificare i propri obiettivi. Come è stato osservato, l’opzione volta ad alleggerire gli oneri burocratici e gli oneri posti a carico del cittadino nell’interlocuzione con l’amministrazione ha fallito nel suo intento nella misura in cui da strumento di semplificazione si è trasformata in uno strumento idoneo a generare incertezze per la convivenza, già di per sé difficile, tra libertà e potere. [23]
Si assiste così ad una sostanziale inversione del rapporto pubblico-privato in punto di responsabilità. Da onere preventivo, il controllo della p.a. diventa un adempimento solo successivo, con una sorta di “sgravio” di adempimenti istruttori e di responsabilità sul privato che è obbligato [24] ad autocertificare determinati atti in sostituzione di certificati e atti di notorietà ed è maggiormente esposto a subire le conseguenze di eventuali dichiarazioni non veritiere (rese magari anche non intenzionalmente). Un “aggravio” di responsabilità, dunque, soprattutto alla luce della considerazione che in origine le dichiarazioni sostitutive si limitavano a semplici situazioni personali del dichiarante (nascita, residenza, cittadinanza, stato civile, titolo di studio, reddito, e simili), ora invece si estendono anche a profili di ordine giuridico e tecnico sempre più complessi. Tale criticità non sfugge agli operatori del diritto e alla giurisprudenza che spingono, in senso riformista, ad ipotizzare soluzioni maggiormente consone, volte a circoscrivere la responsabilità amministrativa alle sole ipotesi di dolo. [25]
Si osserva come “le complicazioni” del modello, con le conseguenti diffidenze in ambito economico e sociale verso le soluzioni incentrate sull’autoresponsabilità dell’interessato, si prestano a far sorgere il dubbio che in realtà si tratti di una semplificazione solo per l’amministrazione, il cui potere si traduce in un’attività di tipo prettamente vincolato. In sostanza, si sposta l’asse dall’amministrazione alla legge: il fenomeno della riduzione della discrezionalità dell’amministrazione viene perseguito attraverso una regolazione molto dettagliata ex ante, una semplice verifica dei presupposti e dei requisiti da parte dell’amministrazione, se non addirittura in automatico a seguito di una semplice dichiarazione del privato. [26]
E ciò avviene per una ragione ben precisa: la presentazione di un’autodichiarazione presuppone che il legislatore prima, e l’amministrazione poi, pongano una generale fiducia nel privato – fiducia che si ispira all’obbligo di comportarsi secondo buona fede e nel dovere di non suscitare intenzionalmente falsi affidamenti – e reputino “sostenibile” il consequenziale profilo di incertezza. [27]
A tale ultimo riguardo, si evidenzia come, la certezza che tale sistema genera (verso la p.a. e verso la generalità dei consociati) sia strutturalmente fragile in ragione sia della fonte (dichiarazione da parte del diretto interessato) sia, per l’appunto, della previsione di un successivo esercizio della funzione di controllo, il cui solo esito positivo è in grado di fornire reale stabilità a quanto certificato. [28]
Come evidenziato recentemente dalla giurisprudenza del CGARS, “la stabilità dei provvedimenti amministrativi costituisce un valore che acquista una rilevanza sempre maggiore in un sistema che vuole l’agere della pubblica amministrazione ispirato al principio di correttezza e buon andamento di matrice costituzionale”. Al riguardo, il Supremo consesso osserva che “il principio costituzionale dell'art. 97 Cost. fissa un limite al potere discrezionale autoritativo di ritiro (del provvedimento)”, che “trova fondamento anche nell'art. 3 Cost., su cui si fonda il principio di ragionevolezza e proporzionalità dell’agire pubblico”, sottolineando, più in particolare, come “non si tratta di una preclusione del potere ma di un limite all'esercizio del medesimo, di tipo motivazionale e procedurale, che si collega al principio di correttezza, ragionevolezza, proporzionalità, in quanto vieta l'uso scorretto, irragionevole e sproporzionato del potere pubblico”. L’organo giudicante conclude affermando che “L'obbligo di motivazione è ancora più stringente quando le primigenie scelte che hanno ampliato la sfera giuridica dei privati non sono frutto di comportamenti fraudolenti da parte degli stessi, ma maturano in un rapporto con la pubblica amministrazione caratterizzato apparentemente dalla reciproca buona fede”. [29]
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, non appare peregrina la valutazione compiuta dal giudice rimettente circa la radicale illegittimità costituzionale dell’art. 75 d.P.R. 445/2000 per il rigido automatismo che la connota. Tuttavia, la circostanza che la disciplina richiamata non costituisse il fulcro della fattispecie analizzata, ma assumesse un ruolo marginale rispetto alla disciplina sostanziale applicabile al caso concreto, non ha potuto evitare l’esito cui, condivisibilmente, è giunta la Consulta. Ciononostante, sarebbe ragionevole ipotizzare una netta distinzione tra dichiarazioni/rappresentazioni effettivamente “mendaci” ed errori interpretativi di contesti giuridici particolarmente tecnici per il privato dichiarante [30], come quello verificatosi nel caso di specie, al fine di realizzare un sistema sanzionatorio “graduato” e maggiormente conforme ai canoni di uguaglianza formale e sostanziale di cui all’art. 3 Cost.
Del resto, un principio analogo è stato espresso recentemente dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza del 28 agosto 2020, n. 16, seppur nell’ambito di una vicenda diversa da quella in esame [31], involgente la puntuale perimetrazione della portata (e dei limiti) degli obblighi informativi posti in capo all’ operatore economico a pena di esclusione dalla gara di appalto. Accogliendo le riflessioni avanzate dal giudice remittente, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto opportuno distinguere tra mere omissioni e vere e proprie violazioni di obblighi dichiarativi posti a carico dell’operatore economico, laddove la falsità “costituisce frutto del mero apprezzamento di un dato di realtà, cioè di una situazione fattuale per la quale possa porsi l’alternativa logica vero/falso, accertabile automaticamente”, mentre la dichiarazione mancante “non potrebbe essere apprezzata in quanto tale, ma solo con valutazione nel caso concreto, in relazione alle circostanze taciute, nella prospettiva della loro idoneità a dimostrare l’inaffidabilità del concorrente, in cui il disvalore si polarizza sull’elemento normativo della fattispecie, ovvero sul carattere doveroso dell’informazione”. Le due ipotesi, pur avendo il medesimo oggetto, conducono a conseguenze differenti: la prima conduce ad una esclusione automatica, l’altra ad una valutazione. Invero, in presenza di una dichiarazione falsa, risulta giustificata “di per sé – cioè in quanto illecito professionale in sé considerato – l’operatività, in chiave sanzionatoria, della misura espulsiva”, mentre nelle ipotesi di omessa dichiarazione si configura in capo alla stazione appaltante “l’onere di valutare se l’omissione incida negativamente sull’integrità ed affidabilità del concorrente” e, solo all’esito di tale valutazione, eventualmente procedere alla sua esclusione.
Al di là del caso specifico, il principio enunciato dalla Adunanza Plenaria fornisce una prospettiva utile al necessario riequilibrio dei rapporti tra P.A. e privato, in termini di competenze, oneri e responsabilità, nonché un’occasione per l’Amministrazione di riappropriarsi di poteri che le sono propri in modo da assicurare la piena attuazione dei principi di buon andamento, imparzialità, proporzionalità e ragionevolezza.
[1] La medesima questione di legittimità costituzionale era già stata sollevata dal T.A.R. Puglia, sezione staccata di Lecce, con le ordinanze del 17/09/2018, n. 1346, del 23/10/2018, n. 1531, del 24/10/2018, n. 1544, del 25/10/ 2018, n. 1552, e dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza 24/07/2019, n. 199, per difetto di motivazione sulla rilevanza della questione (in ragione, per un verso, dell’ “incompleta descrizione della fattispecie”, in relazione alla definitività dell’accertamento, e, per altro verso, dell’assenza di “alcun rilievo in ordine al rapporto che lega la disciplina regolamentare e quella delle conseguenze delle false dichiarazioni sostitutive”).
[2] Cons. Stato, Sez. V, 9/04/2013, n. 1933, e 27/04/2012, n. 2447.
[3] Cons. Stato, Sez. IV, 22/04/2015, n. 2028; T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, 21/07/2015 n. 2466.
[4] Cons. Stato, Sez. V, 17/01/2018, n. 257 e 23/01/2018, n. 418, che hanno, rispettivamente, confermato le decisioni dello stesso TAR Puglia, Lecce, Sez. II, 21/12/2015, n. 3664, e 18/02/2016, n. 335.
[5] Vengono richiamati T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, 29/10/2018, n. 2190; T.A.R. Basilicata, Sez. I, 7/01/2019, n. 31 e T.A.R. Molise, Sez. I, 28/12/2019, n. 478, secondo i quali “il provvedimento di rigetto dell’istanza di rinnovo del patentino è stato annullato sul rilievo che non sarebbe qualificabile come pendenza fiscale, ai sensi dell’art. 8 del d.m. n. 38 del 2013, quella situazione di fatto che, alla luce della normativa tributaria, non possiede i relativi caratteri come, ad esempio, il mancato superamento della soglia minima di rilevanza fiscale, fissata dall’art. 3, comma 10, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, nella legge 26 aprile 2012, n. 44”. Di conseguenza, i giudici hanno escluso la non veridicità di una dichiarazione ex art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, intrinsecamente corrispondente a detta normativa.
[6] Il tema della semplificazione, affrontato in Italia fin dagli inizi del secolo e previsto già nella abrogata legge n. 15 del 1968, riceve una consacrazione normativa con la legge n. 241 del 1990, e successivamente con le leggi n. 59 del 1997 n. 127 del 1997 s.m.i. (cd. Bassanini-bis), attraverso le quali vengono attuati interventi diretti sia a soggetti pubblici (semplificazione dell’organizzazione), sia alla loro attività (semplificazione dei procedimenti amministrativi). Cfr. G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), Bologna, 1996, 284 ss; M. Mazzamuto, Dichiarazioni sostitutive: le principali innovazioni della legge Bassanini, in Nuove Autonomie, 1999, 46.
[7] F. Salvia, La semplificazione amministrativa: tra scorciatoie procedimentali e semplicismi mediatici, in Nuove Autonomie, 3-4, 2008, 447 ss. L’A. ritiene che la semplificazione più che uno “strumento” debba costituire un “effetto: l’effetto di un apparato amministrativo che abbia già in sé la capacità di operare al meglio con le regole ordinarie e in un clima di assoluta normalità”. Per tale ragione afferma che “una semplificazione degna di questo nome non possa essere l’effetto di scorciatoie procedimentali o legislative più o meno estemporanee, costituendo piuttosto l’effetto sistemico di una amministrazione ben strutturata che abbia già raggiunto livelli qualitativi assai elevati”. Nello stesso senso si pone F. Merusi, La semplificazione: problema legislativo o amministrativo, in Dir. amm., 2007, 689; Nuove autonomie, 2008, n. 3-4, 335-341 secondo il quale “la semplificazione dovrebbe assurgere al rango di canone ermeneutico”, idoneo a guidare l’interpretazione verso la soluzione meno gravosa per il cittadino, quella più semplice dal punto di vista strutturale e funzionale.
[8] G. Corso, Perché la complicazione? in Nuove Autonomie, 3-4, 2008, 325.
[9] Sin dall’approvazione della l. n. 59/1997, è venuta a consolidarsi l’idea secondo la quale la semplificazione dei procedimenti amministrativi e la razionalizzazione delle normative debbano costituire funzioni stabili del sistema amministrativo, al fine di assicurarne regolarità e continuità, e non intervenire soltanto in situazioni di “fibrillazione” come soluzioni occasionali a specifiche patologie del sistema stesso. La semplificazione è così passata dal costituire un generico programma di sburocratizzazione del fare dell’amministrazione a costituire un vero e proprio insieme di tecniche e strumenti giuridici che attengono all’azione amministrativa e che dovrebbero condurre, oltre che ad una maggiore economicità della stessa, soprattutto all’incremento della sua efficacia. Cfr. G. Vesperini, Il governo della semplificazione, Milano, 2006; La semplificazione, politica comune, in Giornale di diritto amministrativo, n. 11/2014, 1019-1032; G. Vesperini, Frammenti di semplificazione, in Giornale di diritto amministrativo, n. 3/2019; M. R. Spasiano, La semplificazione amministrativa e la garanzia di effettività dell’esercizio del potere pubblico, in Foro mm., 2010, 3041 ss.; M.A. Sandulli, La semplificazione dell’azione amministrativa: considerazioni generali, in Nuove autonomie, 3-4/2008, 405-415; L. Vandelli, Tendenze e difficoltà della semplificazione amministrativa, in Nuove autonomie, 3-4/2008, 417-434.
[10] M. A. Sandulli, Il procedimento amministrativo e la semplificazione, in www.ius-publicum.com.
[11] F. Costantino, Il principio di semplificazione, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, Roma, 2014, p. 425-447; Cfr. anche M. Bombardelli, La semplificazione della documentazione amministrativa: strumenti e tecniche, in G. Arena, M. Bombardelli, M.P. Guerra, A. Masucci (a cura di), La documentazione amministrativa, Rimini, 2001, 76, il quale evidenzia come l’istituto della autocertificazione “segni un mutamento epocale dei rapporti tra Amministrazione e cittadini nel sistema delle certezze pubbliche”.
[12] Cfr. M. Immordino, La difficile attuazione degli istituti di semplificazione documentale. Il caso dell’autocertificazione, in Nuove autonomie, 3-4, 2008, 603-617. L’A., nell’esporre l’evoluzione storica dell’istituto dell’autocertificazione, evidenzia come lo stesso fosse già presente nella legge n. 15 del 1968, ispirata al principio di non aggravamento del procedimento amministrativo (poi ripreso dalla legge 241 del 1990), ma rimasta sostanzialmente inattuata. Il motivo principale della sua mancata attuazione risiedeva nel fatto che le amministrazioni ritenevano inaffidabili le dichiarazioni sostitutive e i cittadini preferivano non utilizzarle proprio a causa dell’atteggiamento sfavorevole dell’amministrazione.
[13] Con determinati limiti previsti dall’art. 49 del medesimo d.P.R. Per una ricostruzione sistematica della disciplina cfr. M. A. Sandulli, Autodichiarazioni e dichiarazione “non veritiera”, La semplificazione della produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio, in questa rivista.
[14] M. Immordino, La difficile attuazione degli istituti di semplificazione documentale. Il caso dell’autocertificazione, cit., M.S. Giannini, Certezza pubblica, in Enc. Dir., VI, Milano, 1960, 769; F. Fracchia-M. Occhiena (a cura di), I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, Milano, 2006, 867.
[15] L’art. 76 del d.P.R. rimanda alla disciplina del Codice penale ed in particolare alle fattispecie incriminatrici della falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.), delle false dichiarazioni sull’identità o su qualità personali proprie o di altri (art. 496 c.p.) e della falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri (art. 495 c.p.). Peraltro, il decreto Rilancio, modificando l’art. 76 cit., ha inasprito le sanzioni penali prevedendo che esse vengono aumentate “da un terzo alla metà”.
[16] M. A. Sandulli, Autodichiarazioni e dichiarazione “non veritiera”, cit.; M. A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 del d.l. 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, in questa rivista e in Diritto e processo amministrativo, 3/06/2020 n. 1128;
[17] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 23/07/2020, n. 8622; T.A.R. Veneto, Sez. I, 18/09/2017, n. 832; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 13/12/2016, n. 12433; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II 04/01/2016, n. 33.
[18] M. A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 del d.l. 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, cit., osserva come il legislatore abbia inserito nella disciplina della semplificazione per l’emergenza un significativo inasprimento delle conseguenze delle autodichiarazioni di cui le stesse amministrazioni abbiano eventualmente ritenuto, in sede di verifica postuma e senza alcun limite temporale, la non veridicità, proponendola inopinatamente come norma diretta a garantire il rispetto da parte delle pubbliche amministrazioni del principio di non aggravamento di cui all’art. 1, co. 2, l. n. 241 del 1990 e conseguentemente dell’obbligo di non “richiedere agli amministrati la produzione di documenti e informazioni già in loro possesso”.
[19] M. A. Sandulli, Autodichiarazione e dichiarazione “non veritiera”, cit. evidenzia come il legislatore, novellando l’art. 71 abbia introdotto un evidente elemento distintivo tra le mere “irregolarità od omissioni” e le “falsità”, espressamente onerando l’Amministrazione procedente di rilevare e contestare le prime in tempo utile per permetterne la regolarizzazione in corso di procedimento. La norma infatti precisa: “se le dichiarazioni sostitutive rese in un procedimento amministrativo contengono irregolarità od omissioni rilevabili d’ufficio che non costituiscono falsità, a pena di mancata prosecuzione del procedimento l’interessato deve riceverne apposita segnalazione da parte del funzionario competente e deve procedere alla regolarizzazione o al completamento della dichiarazione medesima”, e se egli non provvede “alla regolarizzazione o al completamento della dichiarazione”, “il procedimento non ha seguito”.
[20] M. Immordino, La difficile attuazione degli istituti di semplificazione documentale. Il caso dell’autocertificazione, cit.
[21] Cfr. L. Vandelli, Tendenze e difficoltà della semplificazione amministrativa, in Nuove autonomie, 3-4, 2008, 421; M.R. Spasiano, La semplificazione amministrativa e la garanzia di effettività dell’esercizio del potere pubblico, cit., i quali evidenziano come il tema della semplificazione debba diventare il mezzo e non il fine: debba costituire elemento di bilanciamento rispetto alla disciplina delle garanzie procedurali.
[22] Come fa notare la Corte, “entrambe le disposizioni sono state modificate, successivamente all’ordinanza di rimessione, dal decreto del Ministro dell’economia del 12/02/2021, n. 51 (Regolamento recante modifiche al decreto ministeriale 21/02/2013, n. 38, recante disciplina della distribuzione e vendita dei prodotti da fumo). Per effetto di queste modifiche, la competente amministrazione è tenuta a valutare “la sussistenza di eventuali violazioni fiscali e situazioni di morosità verso l’Erario o verso l’Agente della riscossione di importo superiore a quello previsto dall’articolo 80, comma 4, del decreto legislativo n. 50 del 2016, definitivamente accertate o risultanti da sentenze non più impugnabili”. È stato quindi escluso il rilievo – ai fini del rilascio del patentino – di obbligazioni tributarie, definitivamente accertate, di importo inferiore alla soglia indicata. E ciò secondo la Consulta sarebbe comunque indicativo dell’evoluzione del quadro normativo di riferimento, nel senso della graduazione del rilievo delle pendenze fiscali.
[23] F. Liguori, Le incertezze degli strumenti di semplificazione: lo strano caso della D.I.A. – S.C.I.A., in Diritto Processuale Amministrativo,4/2015, 1223.
[24] In base alla novella apportata all’art. 40, comma 1, del d.P.R. n. 445 del 2000, da parte dell’art. 15, comma 1, lettera a), della legge 12/12/2011, n. 183, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato” (Legge di stabilità 2012), il privato ha l’obbligo, e non più la facoltà, di presentare alle amministrazioni le “dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47”.
[25] M. A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 del d.l. 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, cit.; M. A. Sandulli, Autodichiarazioni e dichiarazione “non veritiera”, cit.
[26] Cfr. F. Costantino, Il principio di semplificazione, cit. Peraltro, anche la Consulta, con la sentenza in commento, rileva che “Lo spazio per l’apprezzamento discrezionale da parte dell’amministrazione in ordine allo specifico rilievo delle pendenze o morosità definitivamente accertate si colloca, quindi, nella precedente fase di verifica dei requisiti, anziché in quella delle conseguenze delle false dichiarazioni (…)”.
[27] M. Calabrò, Appalti pubblici e semplificazione della procedura di presentazione delle offerte. Alla ricerca di un bilanciamento tra fiducia e controllo, in Il diritto dell’economia, vol. 30, n. 93 (2/2017), 247 richiama il concetto di “insicurezza sostenibile” proposto da A. Benedetti, Certezza pubblica e “certezze” private. Poteri pubblici e certificazioni di mercato, Milano, 2011, 27.
[28] M. Calabrò, Appalti pubblici e semplificazione della procedura di presentazione delle offerte. Alla ricerca di un bilanciamento tra fiducia e controllo, in Il diritto dell’economia, cit., 250.
[29] Cons. Giustizia Amm. per la Regione Sicilia, Sez. I, 26/05/2020, n. 325.
[30] In termini M.A. Sandulli, La “trappola” dell’art. 264 del d.l. 34/2020 (“decreto Rilancio”) per le autodichiarazioni. Le sanzioni “nascoste”, cit.; M.A. Sandulli, Autodichiarazioni e dichiarazione “non veritiera”, cit.
[31] L’Adunanza Plenaria è chiamata ad indagare e definire i rapporti tra l’art. 80, comma 5, lett. c), d. lgs. 50 del 2016 (applicabile ratione temporis alla fattispecie) e l’art. 80, comma 5, lett. f-bis) del medesimo Codice dei contratti pubblici, laddove in base alla prima norma, costituisce causa di esclusione dalle procedure di affidamento di contratti pubblici l’ipotesi in cui la stazione appaltante “dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”, tra cui “il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”; mentre per la successiva lettera f-bis), del medesimo art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016, è invece causa di esclusione quella dell’operatore economico “che presenti nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere”. Cfr. C. Napolitano, La dichiarazione falsa omessa o reticente secondo l’Adunanza Plenaria (commento a Cons. Stato, Ad. Pl. 28 agosto 2020, n. 16) in questa rivista.
La rappresentanza elettorale e le degenerazioni corporative*
di Gabriella Luccioli
*Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019 pubblicato in Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insieme.
Il tema cui questa seconda sessione è dedicata, la rappresentanza elettorale e le degenerazioni corporative, attiene a due ordini di questioni che interferiscono tra loro, atteso che le degenerazioni correntizie condizionano ed alterano il sistema di rappresentanza democratica.
Nonostante la connessione tra tali problematiche, la loro soluzione va ricercata seguendo prospettive diverse, in quanto il contrasto alle degenerazioni correntizie non può costituire la cifra ed il motivo ispiratore di qualsiasi ipotesi di riforma del sistema elettorale del CSM: non esiste infatti ingegneria costituzionale capace di annullare il corporativismo o il clientelismo.
Ne è conferma il fatto che ogni iniziativa legislativa del passato diretta a limitare il peso delle correnti ha finito in realtà con il produrre l’effetto contrario.
Quest’ opera di contrasto va realizzata con altri sistemi, in altre forme e con strategie di ampio respiro: tra l’ altro, intervenendo sulla normativa secondaria con una seria riscrittura del TU del 2015 sulla dirigenza o anche, con riguardo alle regole associative, adottando strumenti che privino di utilità di carriera l’attività svolta nelle correnti, o ancora, sul piano etico, recuperando tutti una forte coscienza del ruolo della giurisdizione affinchè quanto di recente accaduto non si ripeta più.
E’ convincimento ampiamente condiviso che occorre metter mano con urgenza ad una riforma della legge n. 44 del 2002, che ha disciplinato il voto nelle ultime cinque consiliature, tenuto conto che detta legge, approvata con il dichiarato obiettivo di contrastare l’ influenza delle correnti, ha per converso determinato un accrescimento del loro potere di condizionamento dell’ attività consiliare in generale, ed in particolare nella designazione per gli incarichi direttivi e semidirettivi, alimentando la diffusione di un carrierismo ed un individualismo esasperati.
Secondo un approccio corretto alla riforma della legge elettorale occorre uscire dalla logica dell’emergenza e valutare con uno sguardo lungo e alto le varie opzioni sul tappeto, mettendo in luce pregi e difetti di ciascuna, esaminando le soluzioni praticabili sempre dal punto di vista dell’interesse dei cittadini ad una giustizia autonoma e indipendente e sempre nel rispetto della libertà di scelta degli elettori.
La sessione si svilupperà in tre relazioni: Giuseppe Santalucia traccerà un excursus storico sui vari sistemi elettorali: un compito arduo, perché si tratta di una storia articolata e complessa, segnata da interventi normativi che riflettono diverse concezioni del ruolo del CSM in contesti politici ed ordinamentali molto differenziati; Giacomo D’ Amico illustrerà nello specifico i difetti dell’attuale sistema elettorale, con uno sguardo alle prospettive future; Salvo Spagano si soffermerà sul sistema del sorteggio, recepito, come è noto, nel disegno di legge presentato dal Ministro Bonafede al Consiglio dei Ministri il 31 luglio 2019 e in quella sede approvato con riserva o salvo intese.
Seguiranno due interventi programmati: il primo è quello di Donatella Ferranti sulla rappresentanza di genere, un tema del quale si è occupata nel suo precedente ruolo di presidente della Commissione Giustizia della Camera; il secondo sarà svolto da Morena Plazzi, che si soffermerà sui rischi quanto mai attuali del prevalere del qualunquismo.
Prima di dare la parola ai relatori vorrei esprimere alcune brevi considerazioni personali.
Innanzi tutto mi sembra importante evidenziare la forte preoccupazione, comune a tanti di noi, per il sistema del sorteggio di cui alla proposta del Ministro Bonafede.
Una proposta in favore del sorteggio fu formulata per la prima volta, non a caso, da Giorgio Almirante nel 1971. Ricordo altresì che nella precedente consiliatura del CSM, nel settembre 2016, in occasione del plenum chiamato ad esprimere il parere sulla relazione della Commissione Scotti, la consigliera Alberti Casellati presentò una proposta emendativa volta ad introdurre il sistema del sorteggio, votata poi, anche questa volta non a caso, dai soli membri laici di centrodestra.
Quella del sorteggio è una proposta che allo scopo dichiarato di ridurre il peso delle correnti si ispira alla nota logica dell’uno vale uno, una logica e soprattutto una cultura già infelicemente sperimentata in ambito politico. E’ una proposta che racchiude una chiara impostazione qualunquista, che esprime avversione verso le competenze, delle quali nega ogni valore e ogni capacità selettiva, e nelle quali anzi ravvisa il terreno più favorevole per il consolidarsi delle caste; che tende ad abolire la mediazione dei gruppi intermedi; che costituisce un’ umiliazione e un insulto alla capacità dei magistrati di scegliere i propri rappresentanti, anche se qualcuno al nostro interno la reclama come salvifica; che scalfisce la rappresentatività del CSM; che soprattutto contrasta chiaramente con l’ art. 104 Cost.
E si risolve infine in un’ utopia, perché è irragionevole pensare che una volta spezzato, ma soltanto a metà, il legame tra eletti ed elettori si porrebbe fine ad ogni tipo di politicizzazione del CSM e sparirebbero automaticamente le pratiche clientelari. Al contrario, è assai probabile che sui candidati sorteggiati si riverserebbero, oltre che le pressioni del rispettivo gruppo di appartenenza, altre pressioni oblique o tentativi di affiliazione meno diretti, ma altrettanto efficaci, provenienti da gruppi organizzati o centri di potere anche a livello locale.
Insomma un disastro peggiore del male che si vuole curare.
Infine alcune brevi osservazioni sulla questione della rappresentanza di genere.
Si tratta di una questione fondamentale, che ha a che fare con la tenuta democratica del sistema di autogoverno. La presenza delle donne nella composizione del CSM è stata sempre scarsissima, ed in alcune consiliature si è risolta in un’assenza totale. E’ un risultato non più accettabile, che per essere rimosso esige una forte presa di coscienza da parte di tutti i magistrati.
Si tratta di dare attuazione ad un principio e ad una esigenza democratica acquisiti persino nel mondo della politica: mi limito qui a richiamare, in estrema sintesi, i numerosi interventi legislativi in materia elettorale a livello comunitario, nazionale e regionale diretti a conseguire la parità di genere nelle istituzioni rappresentative e la legge Golfo Mosca n. 120 del 2011, che ha posto in via temporanea una riserva di quote per il genere meno rappresentato negli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate, consentendo di raggiungere in pochissimo tempo straordinari risultati. Ricordo altresì, sul piano delle scelte concrete di applicazione del principio di parità, che la presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen ha assunto tra i suoi primi impegni una piena parità di genere nella suddivisione dei portafogli.
Tali sollecitazioni continuano a non essere recepite all’ interno dell’ordine giudiziario, purtroppo non abbastanza consapevole del valore aggiunto apportato dalla presenza femminile nelle istituzioni ed appiattito sul canone della parità formale.
Ma la parità formale non basta, se è vero che l’ Italia secondo il Report Global Gender Gap 2017 è collocata all’82° posto su 144 Paesi nella classifica mondiale degli Stati nella realizzazione del principio di eguaglianza.
Purtroppo i tentativi posti in essere in un recente passato per una riforma della legge elettorale del CSM rispettosa del principio di pari rappresentanza non hanno avuto seguito, ed anzi sono ora radicalmente soppiantati dall’ aberrante proposta del sorteggio: il riferimento è alla proposta di legge n. 4512/ 2017 (di cui Donatella Ferranti è stata prima firmataria), presentata nella scorsa legislatura, che ha avuto il merito di far uscire il tema dal circuito ristretto degli addetti ai lavori e di porlo tra le questioni di interesse generale da affrontare in sede di riforma del CSM; poi ai lavori della Commissione Scotti insediata dal Ministro Orlando, terminati con una articolata proposta nel marzo 2016; infine al tavolo ANM/ADMI istituito presso il Ministero della Giustizia.
Si osserva da alcuni che il sistema del sorteggio effettuato in prima battuta per delimitare l’area dell’elettorato passivo, previsto nell’ ultima bozza del progetto Bonafede, potrebbe agevolare le donne, atteso che il gioco delle probabilità renderebbe possibile, in un bacino composto prevalentemente da donne, l’estrazione a sorte di un certo numero di eleggibili di genere femminile. E’ agevole ribattere che tale rilievo non rende accettabile un sistema che accettabile non è in ragione della sua già rilevata incostituzionalità e irrazionalità; va aggiunto che quello della rappresentanza di genere è un obiettivo che non può essere affidato ad un fattore aleatorio, ad un calcolo probabilistico, alla mera casualità, ma richiede di essere perseguito in modo diretto, come un’esigenza prioritaria per la piena attuazione del principio di partecipazione democratica alla vita del CSM.
La presenza nell’ ordine giudiziario di una percentuale così elevata di donne reclama con urgenza di essere adeguatamente rappresentata nell’ organo di autogoverno mediante misure di riequilibrio, idonee ad assicurare non solo eguali posizioni di partenza, ma anche un risultato finale.
E’ necessario essere consapevoli della doverosità di politiche attive di pari opportunità, imposte dagli interventi riformatori rispettivamente del 2003 e del 2001 sugli artt. 51 e 117 co.7 Cost. e dai vincoli internazionali e comunitari: non si tratta infatti di discriminazioni a rovescio di dubbia legittimità, ma di trattamenti idonei al superamento della nozione liberale classica di eguaglianza formale, o eguaglianza competitiva, in direzione dell’ eguaglianza sostanziale, intesa come parità di risultati, che sola integra la dimensione sostanziale dell’ eguaglianza.
* Sul tema in questa rivista si legga Riforma del Csm. Le proposte della Commissione Luciani di Edmondo Bruti Liberati; le ragioni della composizione mista e delle modalità di formazione di Francesca Biondi, Il Consiglio superiore della magistratura tra crisi e prospettive di rilancio di Francesco Dal Canto, La rappresentanza di genere nel CSM di Donatella Ferranti, Quale riforma per il CSM? Riflessioni sull’elezione del Vicepresidente e sul rinnovo parziale di Alberto Maria Benedetti e Filippo Donati, I difetti dell’attuale sistema elettorale del CSM: una prospettiva per il futuro prossimo che non metta a rischio l’autonomia della magistratura di Giacomo D'Amico Il metodo elettorale del sorteggio. Appunti sul ruolo storico del sorteggio nella selezione dei titolari di poteri pubblici di Salvo Spagano; Quale sistema elettorale per quale csm di Edmondo Bruti Liberati; Dubbi di legittimità costituzionale sul sistema elettorale dei membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura secondo il "ddl Bonafede" di Antonio Mondini, Migliorare il Csm nella cornice costituzionale di Paola Filippi
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