ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I rapporti patrimoniali della famiglia tra solidarietà e autoresponsabilità*
di Gabriella Luccioli
1. Seguendo il titolo della tavola rotonda, i principi di solidarietà e di autoresponsabilità, nella molteplicità delle loro declinazioni e applicazioni, costituiranno il filo conduttore del nostro dibattito.
Peraltro la stessa composizione di questa tavola rotonda lascia intendere che la riflessione non si svilupperà solo sul piano tecnico giuridico, ma implicherà valutazioni di tipo sociologico.
I principi di solidarietà ed autoresponsabilità sono stati reiteratamente invocati dalla giurisprudenza a fondamento sia di indirizzi consolidati sia di orientamenti innovativi, e spesso il richiamo dell’uno o dell’altro con riferimento al medesimo testo normativo ha portato a soluzioni del tutto diversificate.
Tale constatazione rende evidente che si tratta di principi da utilizzare con prudenza, in quanto segnati da ampi margini di approssimazione e densi di implicazioni metagiuridiche, e quindi suscettibili di rivestire portata diversa e di assumere connotazioni ideologiche, riflettendo pregiudizi più o meno consapevoli. Come scriveva Hanna Arendt, ogni ideologia tende fanaticamente ad abolire la vita particolare del mondo nel nome universale dell’Idea.
Il prof. Sesta ricorda che la solidarietà consiste in un impegno etico e sociale verso gli altri che si manifesta in uno sforzo attivo e gratuito teso a considerare le esigenze e i disagi di chi ha bisogno di aiuto.
Rilevo che si tratta di un concetto con un ampio tasso di indeterminatezza: quanto deve essere intenso questo sforzo di condivisione? A quale livello esso deve arrestarsi perché si ritenga adempiuto il dovere di solidarietà?
Ed il principio di autoresponsabilità può essere così pressante da annullare il riconoscimento dei sacrifici di una vita, e quindi il rispetto della propria dignità?
Io credo che nell’ attuale fase storica la scommessa stia non tanto nella prevalenza dell’uno o dell’altro principio, ma nel conseguimento di un equo contemperamento tra una visione che conferisce valore crescente ai diritti fondamentali della persona e la necessità di realizzare una giusta convivenza di tale valore con altri principi ed interessi di rango costituzionale, nessuno dei quali può assumere una posizione di assoluta prevalenza, se non quello di dignità.
2. Procedendo ad una opportuna diversificazione dei rapporti tra adulti da quelli tra genitori e figli, per quanto concerne il primo ordine di relazioni non è infrequente nella giurisprudenza più recente il richiamo al principio di autoresponsabilità. Espressione significativa di tale indirizzo è la nota sentenza Lamorgese n. 11504 del 2017, che distaccandosi da un orientamento giurisprudenziale assolutamente consolidato subordinò la spettanza dell’assegno di divorzio all’applicazione del criterio unico della non titolarità di redditi sufficienti a garantire l’indipendenza economica, con un completo azzeramento dei parametri di quantificazione indicati dal comma 6 dell’ art. 5, ed in particolare di quelli diretti a garantire la funzione compensativa dell’ assegno. Tale decisione, come è noto, sostituì ad un criterio relativo, concreto e specifico, che aveva riguardo alle condizioni economiche di una determinata coppia ed al contesto in cui essa era inserita, un criterio di carattere generale, astratto ed assoluto, identificato nell’ autosufficienza di una persona singola e priva di passato, così riducendo significativamente gli spazi per il riconoscimento dell’assegno. Detta sentenza, nell’ adombrare che l’interpretazione consolidata in giurisprudenza da circa 27 anni determinasse una sorta di illegittima locupletazione o una rendita parassitaria del richiedente, cui occorreva porre subito termine, si ispirava chiaramente a valutazioni di tipo etico/economico, celando dietro il richiamo al principio di autoresponsabilità considerazioni di ordine prettamente ideologico.
La successiva pronuncia delle SS.UU. n. 18287 del 2018, nel porre rimedio agli effetti distorsivi dell’ incauto overruling del 2017, si è reiteratamente riferita al principio di solidarietà lì dove - affermando che i criteri di cui alla prima parte del comma 6 dell’ art. 5 della legge sul divorzio integrano il parametro di riferimento per decidere sia sulla attribuzione che sulla quantificazione dell’ assegno - ha attribuito rilevanza preminente al contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune e di quello personale di ciascuno dei coniugi, così dandosi carico della funzione perequativa/compensativa dell’assegno, che si affianca a quella assistenziale. Le Sezioni Unite hanno in tal modo restituito rilievo e dignità al vissuto della coppia prima dello scioglimento del matrimonio, ritenendo che non possa esistere cesura tra la situazione attuale del coniuge richiedente ed il suo percorso matrimoniale, atteso che il divorzio pone termine al vincolo, ma non azzera il passato e non sopprime le conseguenze attuali delle modalità con le quali la vita in comune si è dispiegata. Esse hanno così recuperato il valore della solidarietà postconiugale, ponendo gli artt. 2 e 29 Cost. alla base dei rapporti economici dei coniugi anche dopo lo scioglimento del vincolo.
Non intendo ritornare in questa sede sulle molte perplessità che suscita l’approdo delle Sezioni Unite nella scelta della terza via, che unificando le fasi dell’ an e del quantum debeatur postula la valutazione integrata di tutti i criteri indicati nel comma 6 dell’art. 5, senza tuttavia configurare un indice o un valore cui detti criteri debbano essere rapportati. Mi preme ora soltanto evidenziare che detta sentenza evoca il principio di autoresponsabilità che connota la definizione e condivisione dei ruoli familiari associandolo al richiamato valore della solidarietà postconiugale, intesa come solidarietà del caso concreto, secondo la definizione di Massimo Bianca.
In questa visione solidarietà, autodeterminazione ed autoresponsabilità non si pongono più in termini antitetici, ma si integrano nella prospettiva di un modello di famiglia aderente all’ evoluzione della società e del costume.
Ed anche l’ordinanza n. 28995 del 2020, che ha sollecitato la remissione alle Sezioni Unite della questione della automaticità o meno della cessazione dell’obbligo di versamento dell’assegno divorzile nel caso di nuova convivenza del beneficiario, nel dubitare della correttezza dell’orientamento più recente incline all’automatismo degli effetti estintivi ha evocato la funzione compensativa dell’assegno, e quindi il principio di solidarietà postconiugale.
È agevole riscontrare nell’ordinanza di remissione la ricerca di un punto di equilibrio tra il principio di autoresponsabilità e quello di solidarietà postconiugale, sul rilievo che se pure il primo chiama gli ex coniugi che costituiscono una stabile convivenza con soggetti terzi a scelte consapevoli di vita anche a detrimento di pregresse posizioni di vantaggio, tuttavia esso non può sterilizzare il secondo, persistendo in ragione della funzione perequativa/compensativa dell’assegno l’esigenza di riconoscere all’ ex coniuge economicamente più debole un livello reddituale adeguato al contributo fornito all’interno della disciolta comunione - tanto più consistente nei matrimoni di lunga durata e con la presenza di figli - nella prospettiva di un modello di unione coniugale incentrata sulla parità dei ruoli in essa rivestiti, che proietta la sua operatività anche nella definizione degli assetti economici postconiugali.
Spetta ora alle Sezioni Unite decidere se ribadire il principio di automatismo dell’effetto estintivo o affidare al giudice del caso concreto l’accertamento del diritto alla conservazione dell’ assegno divorzile, dopo aver verificato che esso abbia svolto in passato una funzione perequativa/compensativa.
Resta peraltro la difficoltà di configurare l’assegno di divorzio, che secondo la legge va corrisposto senza limiti di tempo (salvi ovviamente provvedimenti successivi di modifica o di revoca) come strumento idoneo a compensare i sacrifici compiuti da uno dei coniugi nell’ interesse del nucleo familiare.
3. Quanto ai rapporti tra genitori e figli, fermo l’obbligo costituzionalmente imposto dall’art. 30 comma 1 ai genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, la questione più dibattuta concerne la durata dell’obbligo di mantenimento della prole oltre la maggiore età. Come è noto, con ordinanza n. 17183 del 2020 la Cassazione, richiamando in termini assorbenti il principio di autoresponsabilità del figlio maggiorenne, ha affermato che detto obbligo cessa di diritto al raggiungimento della maggiore età e che spetta al figlio ultradiciottenne agire in giudizio per il riconoscimento del relativo diritto, dimostrando in via autonoma di non essere in colpa per il suo stato di perdurante dipendenza economica.
Va innanzi tutto rilevato che tale summa divisio tra il prima e il dopo il compimento dei 18 anni appare stridente con il più elementare buon senso e produce l’effetto di liberare automaticamente a quella data da ogni dovere di contribuzione il genitore non convivente e di costringere il figlio a promuovere un separato giudizio, con i suoi costi e i suoi tempi, per dimostrare, accollandosi il relativo onere, non solo di aver curato con ogni possibile impegno la propria preparazione, ma anche di avere con pari impegno operato nella ricerca di un lavoro.
È facile osservare in contrario che non è ravvisabile alcuna estinzione o sospensione del diritto al mantenimento al sopraggiungere della maggiore età, atteso che sul piano assiologico i doveri verso i figli nascono dalla filiazione e prescindono dall’esistenza di poteri nei loro confronti.
Inoltre l’impostazione seguita nell’ ordinanza in esame determina una inammissibile differenziazione tra figli di genitori separati o divorziati e figli di genitori uniti e comporta sostanzialmente che nelle more sia accollato unicamente sull’ altro genitore convivente (generalmente la madre) il peso del mantenimento del giovane.
Ed ancora, imporre al figlio maggiorenne la ricerca di qualsiasi lavoro e l’attivazione in qualunque direzione per raggiungere una qualche autonomia significa ignorare che costituisce preciso dovere dei genitori, ovviamente nei limiti delle loro possibilità economiche, rispettare le capacità, le inclinazioni naturali e le aspirazioni della prole, secondo il chiaro disposto degli artt. 147 e 315 bis, primo comma, c.c.
Evocare in modo così pressante il principio di autoresponsabilità dimenticando quel valore di solidarietà che dà senso alle relazioni familiari significa aderire ad una visione dell’impegno dovuto dalle giovani generazioni con la quale si può in linea astratta anche convenire, ma che stride fortemente con la drammatica realtà del nostro Paese e con le enormi difficoltà dei giovani di realizzare le proprie aspirazioni lavorative e anche di inserirsi comunque nel mercato del lavoro; significa insomma perdere di vista quel ruolo di sensore sociale che il giudice è chiamato ad assumere al fine di enucleare dalla realtà i diritti delle persone.
Neppure il tanto contestato disegno di legge Pillon, che pare fortunatamente accantonato dal Parlamento, era arrivato a tanto, limitandosi a fissare a 25 anni l’età massima per la spettanza dell’assegno.
Si tratta a mio avviso di una decisione di miope reazione ad un indirizzo consolidato in nome di una ideologia, peraltro fondata su una lettura errata dell’art. 337 septies c.c. e del tutto sganciata dalla realtà economica e sociale del nostro Paese.
Va altresì considerato che autoresponsabilità significa anche responsabilità verso se stessi, significa rispetto per delle scelte personali difficili, che talvolta richiedono tempi lunghi di preparazione (pensiamo al concorso in magistratura), che magari non sono coronate da successo al primo tentativo, a fronte delle quali - come ricordavo - si pone il dovere dei genitori, sempre ovviamente che ne abbiano la capacità economica, di supporto e di incoraggiamento in nome del principio di solidarietà; significa rispetto per le legittime aspirazioni e le specifiche attitudini dei figli, che costituiscono presupposto per la realizzazione della loro dignità.
Si tratta insomma di riconoscere quel diritto al futuro dei giovani che la Costituzione riconosce e garantisce. Come ha osservato Gianfranco Gilardi in una nota critica all’ordinanza per Giustizia Insieme, le posizioni assunte dalla Cassazione hanno il sapore di un invito ad arrangiarsi alle nuove generazioni, abbandonate a se stesse, trascurando che nell’ impianto complessivo della Costituzione si esprime l’ impegno di costruzione del presente anche come garanzia di tutela del futuro, in un continuum in cui le generazioni che oggi si affacciano al mondo siano viste come beneficiarie e, insieme, artefici del progetto ….di vivere una vita serena e dignitosa.
Ancora una volta dietro il richiamo da parte della Cassazione al principio di autoresponsabilità si nascondono motivazioni di carattere ideologico.
Fortunatamente la giurisprudenza della Cassazione sembra aver messo da parte i principi enunciati nella richiamata ordinanza n. del 2021. Le ordinanze 2020 n. 19077, 2020 n. 21752 e 2021 n. 23318 sono infatti tornate all’orientamento originario, secondo il quale il giudice non può a priori fissare un termine finale all’obbligo di versamento dell’assegno, dovendo la cessazione di esso accertarsi a posteriori in conseguenza di fatti sopravvenuti idonei a determinare tale effetto, con onere della prova a carico del genitore onerato.
4. Mi avvio alla conclusione. In una materia come quella di cui qui ci occupiamo è evidente la difficoltà del compito del giudice, chiamato ad affrontare situazioni complesse e delicate inquadrandole in una cornice di legalità, nel rispetto dei precetti costituzionali e della normativa sovranazionale. La varietà delle situazioni e delle esigenze da considerare rende evidente che la risposta di giustizia non può essere affidata ad algoritmi, come da alcuni prospettato, ma richiede un forte affinamento della professionalità del magistrato, prudenza istituzionale, libertà dai pregiudizi, capacità di uscire dalla prigione del fanatismo ideologico, costante attenzione alla direzione della bussola verso quel nucleo forte di principi che esaltano la dignità della persona, nella sua dimensione individuale e sociale.
Ed allora, al di là di improprie formule definitorie, occorre aver riguardo alla effettiva salvaguardia della persona, anche e soprattutto quando a chiedere giustizia sono i soggetti più vulnerabili o le vittime di contesti sociali fortemente discriminatori, ponendo estrema attenzione alle situazioni concrete ed agli specifici bisogni da tutelare: è questo, a mio avviso, che una società profondamente democratica si aspetta dai suoi giudici.
In nessuna materia come in questa una corretta percezione delle dinamiche familiari, in una società ancora permeata di modelli stereotipati, costituisce il misuratore più importante della validità della soluzione di diritto adottata, e prima ancora della sua conformità alle esigenze di giustizia sostanziale.
A fronte delle richiamate incongruenze del sistema vigente appare evidente la necessità di una complessiva e sistematica rivisitazione da parte del legislatore degli assetti economici postmatrimoniali, che superando l’impostazione attuale che pone l’assegno di divorzio come unico strumento disponibile per la regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra le parti dia finalmente spazio - superando le note resistenze della giurisprudenza - agli accordi privati dei soggetti interessati, introducendo nel nostro ordinamento i prenuptial agreements in vista della crisi familiare.
È ormai acquisizione generalmente condivisa che soltanto la libera autodeterminazione dei coniugi o futuri coniugi nella fase progettuale o anche nel corso della vita matrimoniale, immune dalle asprezze che generalmente segnano la fase patologica del rapporto, può realmente proteggere la coppia dalle distorsioni del conflitto e dalle reciproche rivendicazioni che generalmente segnano tale momento.
A detto intervento, da lungo tempo sollecitato da molti osservatori, induce anche la scarsa applicazione del regime di comunione legale tra i coniugi, che nella prospettiva del legislatore del 1975 costituiva espressione della massima solidarietà familiare ed integrava valido strumento per la realizzazione dell’istanza paritaria e per la valorizzazione del lavoro di cura all’ interno della famiglia. Le statistiche sul punto evidenziano l’alto tasso di impopolarità e l’obsolescenza di tale regime patrimoniale, determinata anche dall’incremento del numero delle separazioni e dei divorzi, che induce i nubendi a favorire il regime separatista, così da evitare i complessi problemi giuridici attinenti allo scioglimento della comunione.
Va ancora considerato che la sempre più marcata frequenza di matrimoni di italiani con cittadini stranieri può comportare, in applicazione della disciplina dettata dall’art. 30 della legge n. 218 del 1995, che eventuali accordi stipulati tra i coniugi trovino attuazione in Italia.
Sui molti interrogativi suscitati dall’applicazione dei principi di solidarietà ed autoresponsabilità svolgeranno le loro riflessioni il professor Sesta, che porterà la voce dell’accademia, l’avvocata Ruo, che illustrerà il punto di vista della difesa, ossia della parte che pone la domanda di giustizia e si fa spesso promotrice di istanze di tutela di nuovi diritti, intuendo prima di altri le inadeguatezze ed i limiti dello strumentario attualmente disponibile, la professoressa Saraceno, che ci confermerà quanto i principi astratti di cui il diritto si nutre devono essere riempiti di contenuti e di sostanza attraverso l’analisi delle condizioni nelle quali solidarietà e autoresponsabilità si esplicano nella nostra società.
*Intervento introduttivo della tavola rotonda coordinata dalla Presidente Maria Gabriella Luccioli al corso su "Il punto sugli aspetti patrimoniali del diritto di famiglia" organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, Sezione Corte di Cassazione nei giorni 15-17 settembre 2021.
Il Referendum per l’eutanasia legale. Forum di Giustizia insieme. 2) Andrea Pugiotto
Intervista di Roberto Conti a Andrea Pugiotto
1. La via referendaria in tema di eutanasia dopo le decisioni della Corte costituzionale sul caso Antoniani-Cappato - sentenza n. 242/2019 e ord. n. 207/2018 -. Indebita interferenza rispetto al possibile intervento legislativo ovvero uso legittimo dello strumento referendario per dare attuazione alle pronunzie della Consulta?
Le domande precedono sempre le risposte: ecco perché una loro inesatta formulazione può indurre a repliche errate. Accade a questo interrogativo d’esordio che – a mio avviso – è viziato da due malintesi.
Il primo emerge laddove ipotizza un rapporto di «indebita interferenza» tra il ricorso allo strumento referendario e l’esercizio della funzione legislativa: interferenza che, invece, costituzionalmente non si dà. Se inteso come strumento eccezionale che deve innestarsi in modo ragionevole sul tronco della rappresentanza parlamentare, il referendum integra la funzione legislativa. Se inteso come strumento di decisione diretta e alternativa a quella parlamentare, espressione – attraverso la mediazione del Comitato promotore – di un pluralismo sociale costituzionalmente garantito, il referendum è in concorrenza con la funzione legislativa. In ambo i casi, tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa c’è una relazione dialettica, non un’incompatibilità funzionale: infatti l’art. 75 Cost., quale norma di riconoscimento dell’istituto referendario, presuppone la coesistenza della permanente potestà legislativa delle Camere con la garanzia di esercizio dell’abrogazione popolare e del suo effetto utile (vedi, infra, risposta n. 6).
Casomai il pericolo di indebite interferenze andrebbe rovesciato, imputandolo all’esercizio della funzione legislativa in chiave anti-referendaria. Non è un processo alle intenzioni, se solo si guarda alle vicende referendarie pregresse. Esemplifico? Leggi prive di sostanziale novità normativa, approvate al solo fine (mancato) di produrre il blocco delle operazioni referendarie a causa degli effetti abrogativi previsti dall’art. 39, legge n. 352 del 1970 (cfr. Corte costituzionale, ord. n. 44/1978 e sentt. n. 68 e 69/1978). Ricorso improprio a fonti inidonee a inibire il procedimento referendario, quali il decreto legge (cfr. Ufficio centrale, ordd. 16 marzo 1993, 22 dicembre 1993, 30 novembre 1994, 9 dicembre 1994), la legge di delega (cfr. Ufficio centrale, ordd. 16 marzo 1993, 26 maggio 1997), la legge di delegificazione (cfr. Ufficio centrale, ordd. 20 gennaio 1997 e 7 dicembre 1999). Illegittimi tentativi di ripristino della disciplina abrogata dal voto referendario (cfr. Corte costituzionale, sentt. nn. 468/1990 e 199/2012).
Come da taluni denunciato in passato, così in futuro non si può escludere – grazie all’introdotta sottoscrizione digitale del quesito (ex art. 38-quater, legge n. 108 del 2021) - una deliberata moltiplicazione esponenziale di domande referendarie, incardinate da Comitati promotori nel ruolo di sicari della democrazia rappresentativa. Una versione 2.0 del pericolo – segnalato dalla Corte costituzionale fin dalla sent. n. 16/1978 – che il referendum si trasformi «in un distorto strumento di democrazia rappresentativa, mediante il quale si vengano in sostanza a proporre plebisciti o voti popolari di fiducia». Ma non è il caso del referendum sull’eutanasia legale, che semmai supplisce alla persistente inerzia legislativa sui temi del fine vita (vedi, infra, risposta n.5).
La domanda iniziale inciampa anche in un secondo malinteso, accreditando il quesito referendario in esame quale strumento promosso per «dare attuazione» alla sent. n. 242/2019 della Corte costituzionale. Non è così, né avrebbe senso che lo fosse.
Il quesito promosso dall’Associazione Luca Coscioni ha altro fine: agendo sull’art. 579 c.p. (e non sull’art. 580 c.p. oggetto del giudicato costituzionale), erode il principio di indisponibilità del diritto alla vita cui si ispira il codice Rocco allargando lo spazio di autodeterminazione in ordine alla scelta sul se, come e quando porre legalmente termine alla propria vita. Si tratta di un fine oggettivato nella domanda referendaria, a garanzia di quella «matrice razionalmente unitaria» che la giurisprudenza costituzionale richiede a pena di inammissibilità del quesito. Se l’obiettivo fosse quello (erroneamente) ipotizzato nell’interrogativo che apre questa intervista, il referendum sarebbe condannato a sicura bocciatura, perché inidoneo allo scopo.
Ricorrere allo strumento referendario per «dare attuazione» a pronunzie costituzionali, d’altra parte, non avrebbe giuridicamente senso. L’obbligatorietà delle sentenze di accoglimento della Corte si esplica a partire dal giorno successivo alla loro pubblicazione in gazzetta ufficiale (art. 136 Cost.): da quella data nessun giudice può fare applicazione delle norme dichiarate illegittime, nessun'altra autorità può darvi esecuzione o assumerle comunque a base di propri atti, nessun privato può avvalersene perché i relativi atti e comportamenti sarebbero privi di fondamento legale (cfr. sent. n. 49/1970). Il giudicato costituzionale, dunque, richiede solo di essere applicato, senza necessità di ulteriori mediazioni normative, tantomeno referendarie. Vale anche per la sent. n. 242/2019.
2. La circostanza che, rispetto alle decisioni della Corte costituzionale ricordate nel primo quesito, il quesito referendario intenda incidere sull’art. 579 c.p. e non sull’art. 580 c.p., direttamente interessato dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, assume qualche rilievo ai fini dell’ammissibilità della proposta?
La domanda – se non intendo male - sembra adombrare una possibile intersezione tra quanto deciso dalla Corte costituzionale con sent. n. 242/2019 e quanto deciderà in ordine all’ammissibilità del quesito referendario in esame. Se intersezione c’è, credo operi sul piano della natura costituzionalmente necessaria che accomuna i divieti penali dell’aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) e dell’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), entrambi espressione di una «tutela minima» indispensabile a garantire un principio costituzionale – il diritto alla vita - nel suo nucleo essenziale (cfr. sentt. nn. 26/1981, 35/1997, 42 e 49/2000).
È un problema che la Corte oramai attrae (anche) nell’orbita del suo scrutinio referendario, dove giudica sull’ammissibilità del quesito non più esclusivamente sulla base dei criteri desumibili dall’art. 75 Cost., ma anche alla luce del «complesso dei valori di ordine costituzionale, riferibili alle strutture od ai temi delle richieste referendarie, da tutelare escludendo i relativi referendum» (sent. n. 10/2020, con testuale richiamo al leading case della sent. n. 16/1978).
Il problema, allora, è capire se e in quale misura è possibile sottoporre a referendum popolare norme costituzionalmente necessarie. Stando alla giurisprudenza costituzionale, ne è vietata una abrogazione totale (cfr. sentt. nn. 49/2000, referendum sulle norme a tutela del lavoro a domicilio; 45/2005, referendum sulla legge in tema di procreazione medicalmente assistita) ovvero un’abrogazione parziale che intacchi il livello minimo di tutela del diritto costituzionalmente garantito dalla norma (cfr., ex plurimis, sentt. nn. 26/1981 e 35/1997, entrambe riguardanti referendum in tema di interruzione volontaria della gravidanza).
Ma se così è, non si tratta di una pietra d’inciampo per il quesito sull’eutanasia legale. Basta leggerne la formulazione (vedi, infra, risposta n. 3): esso, infatti, abroga solo parzialmente l’art. 579 c.p. preservandone il nucleo costituzionalmente irrinunciabile, laddove conserva la punibilità del fatto se commesso contro un soggetto vulnerabile o il cui consenso sia stato estorto o carpito.
3. A suo avviso il quesito tende ad integrare il quadro normativo vigente piuttosto che ad abrogare una disposizione già colpita dalla pronunzia di parziale incostituzionalità, ovvero esso si pone nell’ambito della piena ortodossia degli interventi referendari ammessi dalla Costituzione?
Nell’essenziale, la domanda sembra alludere alla tecnica del c.d. ritaglio attraverso la quale il quesito referendario è stato confezionato. E avanza il sospetto che l’integrazione così apportata all’ordinamento sarebbe eterodossa rispetto allo standard fissato dalla giurisprudenza costituzionale referendaria.
Entra qui in gioco un criterio di ammissibilità di origine pretoria, forgiato nella sent. n. 36/1997 (referendum in tema di raccolta pubblicitaria radiotelevisiva). La sua ratio è rintracciabile nel divieto di un quesito referendario che adoperi il testo oggetto di abrogazione come un serbatoio lessicale dal quale estrarre eterogenei frammenti sintattici ricomposti in modo giuridicamente significativo, così da produrre un’innovazione «assolutamente diversa», «del tutto estranea al contesto normativo» originario.
Il divieto di manipolatività ha operato come un semaforo rosso per molti referendum: cfr. sentt. nn. 38/2000 (responsabilità civile dei magistrati), 50/2000 (termini massimi di custodia cautelare), 43/2003 (inceneritori di rifiuti speciali), 46/2003 (sicurezza alimentare), 13/2012 (legge elettorale di Camera e Senato), 5/2015 (organizzazione uffici giudiziari), 26/2017 (licenziamenti individuali illegittimi). Più recentemente, è stato declinato in un’inedita accezione quantitativa, giustificando la bocciatura di un quesito per il suo «carattere eccessivamente manipolativo» in ragione dell’alterazione completa di «tutti i “caratteri somatici”» che una delle leggi oggetto del referendum avrebbe subìto (cfr. sent. n. 10/2020, legge elettorale di Camera e Senato).
Laddove, invece, l’innovazione perseguita per via referendaria derivi «dalla fisiologica espansione delle norme residue, o da consueti criteri di autointegrazione dell’ordinamento» (così, ancora, la sent. n. 36/1997), il quesito è in grado di superare lo scrutinio di ammissibilità. Com’è accaduto in passato: cfr. sentt. nn. 34/2000 (legge elettorale del CSM), 37/2000 (separazione carriere dei magistrati), 49/2005 (fecondazione eterologa), 26/2011 (determinazione tariffa servizio idrico integrato), 17/2016 (trivelle in mare).
Dunque, la tecnica del ritaglio «non è di per sé causa di inammissibilità del quesito» (sent. n. 26/2017). Lo è solo quando la normativa di risulta è frutto di una «costruzione artificiosa» (Morrone).
È forse il caso del referendum in esame? Il quesito sull’art. 579 c.p. è stato certamente confezionato usando forbici e colla: toglie una stringa di parole dal 1° comma («la reclusione da sei a quindici anni»); taglia integralmente il 2° comma; elimina un frammento linguistico dal 3° comma («Si applicano»). La saldatura finale tra il materiale normativo residuo produce la seguente disposizione: «Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso» contro un soggetto vulnerabile (minore, infermo di mente, in condizione di deficienza psichica) o il cui consenso sia stato estorto o carpito.
La manipolazione è tutta interna ad un’unica disposizione e la saldatura avviene tra locuzioni lessicali tematicamente non eterogenee. L’esito è la riduzione dell’ambito applicativo di un reato già esistente, non la creazione di un nuovo reato. Il carattere propositivo del quesito sembra non fuoriuscire dallo schema tipico dell’abrogazione parziale (ammissibile), proprio perché mira a una sottrazione di contenuto normativo rispetto alla fattispecie originaria. L’operazione referendaria pare così mantenersi all’interno di «scelte già operate dal legislatore, anche se destinate ad assumere forme e dimensioni assai diverse da quelle originariamente previste dalla legislazione incisa dal voto popolare» (Paladin).
Sembra. Pare. La cautela è d’obbligo, ma non per scarsa convinzione soggettiva. La ragione va cercata altrove: il limite della manipolatività incarna un criterio che «è tra i più sfuggenti e instabili» (Pertici) all’interno della caleidoscopica giurisprudenza referendaria della Corte costituzionale.
4. Esiste, a Suo avviso, il pericolo che il quesito referendario formulato dai proponenti, se accolto, consenta la depenalizzazione del reato di aiuto al suicidio anche al di fuori dei limiti fissati dalla Corte all’incostituzionalità dell’art. 580 c.p., al punto da escludere l’antigiuridicità dell’uccisione per effetto del mero consenso della persona che chiede di interrompere la propria esistenza? Ove Lei ritenesse sussistente tale pericolo, lo stesso potrebbe essere eventualmente considerato in sede di ammissibilità del quesito da parte della Corte costituzionale?
Lascio impregiudicato il problema di come andrà ricomposta la disciplina penale delle scelte di fine vita all’indomani di un eventuale esito abrogativo referendario. Non perché il problema non esista, ma perché è estraneo al giudizio di ammissibilità del quesito referendario.
Di diverso avviso è invece il secondo interrogativo con il quale si introduce la possibilità che in quella sede entri in gioco – quale criterio di giudizio – la paventata irragionevolezza della normativa di risulta. Giuridicamente, lo escludo.
Fin dalle origini del proprio scrutinio referendario, la Corte costituzionale ne ha correttamente negato la trasformazione in controllo anticipato di costituzionalità sull’esito normativo del voto popolare: il giudizio di ammissibilità del referendum «si atteggia con caratteristiche specifiche ed autonome nei confronti degli altri giudizi riservati a questa Corte, ed in particolare rispetto ai giudizi sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge» (sent. n. 251/1975; ma vedi già, in tal senso, la sent. n. 10/1972).
Affermazioni esplicite, egualmente orientate, ricorrono costantemente nella giurisprudenza costituzionale successiva (cfr., ex plurimis, sentt. nn. 16/1978; 24/1981; 26/1987; 63/1990; 25/2004; 45, 46, 47, 48/2005; 15 e 16/2008; 27/2017). La ratio è sempre la stessa: il controllo di ammissibilità del referendum «non può estendersi alla valutazione della legittimità costituzionale della normativa conformata dall’eventuale accoglimento del quesito, verifica che non può che competere ai giudizi a ciò appositamente deputati» (sent. n. 17/2016).
Si tratta di un orientamento che ha trovato spettacolare attestazione nella vicenda che ha coinvolto, a suo tempo, il c.d. lodo Maccanico (art. 1, legge n. 140 del 2003) fatto oggetto contestualmente di una richiesta abrogativa popolare e di una quaestio legitimitatis: chiamata a pronunciarsi, la Corte costituzionale prima ha dichiarato incostituzionale la disposizione (sent. n. 24/2004) e poi ha deliberato l’ammissibilità del relativo referendum, benchè avente ad oggetto una norma già annullata (sent. n. 25/2004). Ai fini che qui interessano, la sequenza temporale è costituzionalmente significativa: dimostra che il giudizio di ammissibilità non è – né può dissimulare – un preventivo giudizio di legittimità costituzionale.
Intendiamoci. Nella cangiante giurisprudenza referendaria è certamente accaduto che sia stato contraddittoriamente anticipato, in sede di ammissibilità, un giudizio di legittimità sulla c.d. normativa di risulta, fino a bocciare il quesito perché possibile causa di una disciplina irragionevole. Si tratta però di precedenti costituzionalmente censurabili e per diverse ragioni. Il catalogo è questo:
1) confondono - fino all’impropria sovrapposizione – due giudizi che hanno scansioni temporali, regole processuali, finalità differenti.
2) raccontano di un sindacato prematuro e astratto – quasi profetico – su una normativa che potrebbe anche non vedere mai la luce, quando invece il giudizio di legittimità non è ad oggetto ipotetico, svolgendosi sempre su disposizioni già in vigore, valutate nel loro significato applicato;
3) alterano la tendenziale simmetria tra legge e referendum abrogativo: rispetto al bilanciamento tra interessi contrapposti effettuato in sede legislativa, infatti, il sindacato sulla sua ragionevolezza «avviene, per così dire, in seconda battuta» (Silvestri), mentre – in sede referendaria – viene anticipato dalla Corte costituzionale calibrandolo esclusivamente su quella che è, allo stato, una mera richiesta petitoria;
4) dimenticano che la normativa di risulta - se illegittima – è certamente suscettibile di un controllo di costituzionalità a posteriori, in quanto prodotto da una delibera referendaria che (come insegnava Crisafulli) è atto-fonte dell’ordinamento, avente forza di legge, imputabile allo Stato-apparato (tramite il decreto presidenziale, ex art. 37, comma 3, legge n. 352 del 1970), dunque sindacabile dalla Corte costituzionale ex art. 134 Cost.
Costituzionalmente, la «trasfigurazione» (Morrone) in sindacato anticipato di ragionevolezza rappresenta uno sviamento funzionale del giudizio di ammissibilità referendaria, ed è un’anomalia del sistema perché l’ordinamento non prevede un giudizio di costituzionalità preventivo. Farà bene allora la Corte a tenere separati i due piani, tutelando così la propria legittimazione dall’accusa di negare arbitrariamente il diritto di voto (referendario).
5. Vi sono, a Suo giudizio, carenze del quesito referendario rispetto alle questioni poste dalla sentenza n. 242/2019?
La domanda imposta un parallelo giuridicamente improponibile tra quanto disposto da una sentenza costituzionale d’accoglimento e quanto può disporre una fonte unidirezionale qual è il referendum abrogativo. Se è vero, infatti, che entrambe operano su disposizioni, le virtualità manipolative di cui la Corte costituzionale dispone (oggi anche fuori dalla gabbia delle “rime obbligate”: cfr. sent. n. 236/2016) non sono commensurabili con quelle, ben più ridotte, del quesito referendario (anche quando manipolativo: vedi, supra, risposta n. 3).
Si pensi – per rimanere in tema – alla pluralità di fonti, normative e giurisprudenziali, cui la sent. n. 242/2019 ha potuto attingere e coordinare nel ridisegnare l’art. 580 c.p.: operazione strutturalmente preclusa al quesito sull’art. 579 c.p., giacchè un referendum non può che abrogare una legge o parte di essa, innovando l’ordinamento nei limiti del possibile.
Se un confronto può farsi tra la sent. n. 242/2019 e il quesito abrogativo in esame è, semmai, su un piano di politica del diritto. Per un verso, come il giudicato costituzionale restringe il divieto di cui all’art. 580 c.p., così l’esito referendario restringe il divieto di cui all’art. 579 c.p. Per altro verso, come la sent. n. 242/2019 trova la propria causa efficiente nell’inerzia legislativa (rispetto al monito formulato nell’ord. n. 207/2018), così l’iniziativa referendaria reagisce al mancato esame parlamentare di una proposta di legge d’iniziativa popolare in materia, depositata alla Camera già nel 2013 e mantenuta all’ordine del giorno dell’attuale legislatura ai sensi dell’art. 107, 4° comma, del suo regolamento (cfr. XVIII Legislatura, AC n.2, «Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia»)
Quanto al piano più strettamente giuridico, altre semmai sono le convergenze parallele tra una dichiarazione d’incostituzionalità e un’abrogazione popolare.
Come la Corte costituzionale ha teorizzato che eventuali conseguenti disarmonie normative non impediscono un suo intervento demolitorio (cfr., in ambito penale, sentt. nn. 32/2014 e 149/2018; in generale, cfr. ord. 18/2021), così non è possibile bocciare un quesito referendario perché la sua (eventuale) normativa di risulta potrebbe introdurre disarmonie ordinamentali. La prova regina è in una nota pagina della storia referendaria italiana: era il 1981 quando furono dichiarati ammissibili due quesiti in tema di interruzione volontaria della gravidanza, benchè antagonisti nel loro obiettivo e che avrebbero potuto determinare «esiti incerti o contraddittori o perfino indecifrabili» (cfr. sent. 26/1981).
Come i problemi insorgenti dalle conseguenze – spaziali e temporali - di una dichiarazione d’incostituzionalità «sono, evidentemente, problemi di interpretazione, e devono pertanto essere risolti dai giudici comuni, nell'ambito delle rispettive competenze istituzionali» (sent. n. 49/1970), così rientra nell’ambito dell’ordinaria attività interpretativa del giudice comune ricomporre il quadro ordinamentale a seguito della novità normativa introdotta per via referendaria. Giudicato costituzionale e risultato abrogativo, infatti, non sono mai autoapplicativi.
Così – per restare in tema – l’impossibilità di dedurre dal quesito referendario in esame quella normativa specifica che accompagna l’eutanasia attiva in tutti gli ordinamenti che si sono dati una legislazione in materia, non può essere elevato a motivo d’inammissibilità. Da un referendum non è lecito aspettarsi (né è legittimo esigere) simili miracoli normativi. Vale qui, come per ogni altra materia incisa da un quesito abrogativo, quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale: «ogni altra considerazione, pur attendibile, sull’esigenza che, a seguito dell’eventuale abrogazione referendaria, si pongano in essere gli interventi legislativi necessari per rivedere organicamente la normativa "di risulta", eliminandone disarmonie o incongruità eventualmente discendenti dalla parzialità dell’intervento abrogativo o dall’assenza di discipline transitorie e conseguenziali, non é tale da pregiudicare l’ammissibilità del referendum» (sent. n. 37/2000).
In attesa di un legislatore meno accidioso, spetterà all’interprete applicare analogicamente i requisiti in materia di disposizioni anticipate di trattamento (legge n. 219 del 2017), valorizzare – se possibile – le modalità di accertamento del consenso introdotte con sent. n. 242/2019 per il reato di aiuto al suicidio, verificare del consenso - esigito dall’art. 579 c.p referendato - la validità, l’efficacia, la revocabilità.
Vorrei insistere sul punto, con ulteriori argomenti. Cortocircuiti tra l’esito referendario e disposizioni in vigore sono possibili, come sempre in caso di produzione di nuove norme. L’ordinamento giuridico per questo appresta strumenti atti a risolverli: l’attività interpretativa dei giudici; i criteri di risoluzione delle antinomie; l’impugnazione della disposizione di dubbia costituzionalità; la sopravvenuta modifica legislativa. Rimedi che scattano nel momento applicativo della legge o alla luce di esso. Non prima, nella fase della produzione normativa (legislativa o referendaria).
Segnalo che lo stesso procedimento referendario (legge n. 352 del 1970) prevede possibili rimedi a un temuto caos normativo, prevenendolo. Riconosce al legislatore la possibilità di intervenire sulla legge oggetto del quesito «prima della data dello svolgimento del referendum» (art. 39). Consente al Capo dello Stato, su richiesta del Governo, di ritardare l’entrata in vigore dell’abrogazione referendaria «per un termine non superiore a 60 giorni» dalla pubblicazione dei suoi esiti (art. 37, comma 3), utili per approvare una legge o decreto legge in materia. Né è mancato in passato un intervento legislativo ad hoc per regalare altro tempo al legislatore: cfr. legge n. 332 del 1987 che, in deroga al citato art. 37 della legge n. 352 del 1970, ne raddoppiava i termini per differire gli effetti dell’abrogazione referendaria, al fine di agevolare l’approvazione della legge n. 117 del 1988 (c.d. Vassalli, in tema di responsabilità civile dei magistrati).
Il timore di anomie o di conflitti normativi, dunque, è argomento che gioca per un intervento legislativo (prima o dopo l’appuntamento referendario), non contro l’ammissibilità del quesito abrogativo. Infatti, «le Camere conservano la propria permanente potestà legislativa, sia nella fase dell'iniziativa e della raccolta delle sottoscrizioni, sia nel corso degli accertamenti sulla legittimità e sull'ammissibilità delle richieste, sia successivamente alla stessa indizione del referendum abrogativo» (sent. n. 68/1978), sia «dopo l’accoglimento della proposta referendaria» (sent. n. 33/1993).
6. Quali effetti potrà determinare la decisione in punto di ammissibilità del quesito referendario sull’iter parlamentare che riguarda la proposta di legge sul suicidio assistito?
Giuridicamente, si tratta di binari paralleli. Allo stato (cfr. il testo unificato assunto come testo base, il 6 luglio 2021, dalle Commissioni Giustizia e Affari Sociali della Camera) la proposta di legge riguarda esclusivamente la modifica dell’art. 580 c.p. e ricalca le condizioni poste dalla sent. n. 242/2019 per scriminare la condotta del soggetto agente. Diversamente, il quesito referendario agisce sulla differente fattispecie dell’art. 579 c.p.
Può ipotizzarsi che l’ammissibilità del quesito determini un’accelerazione nel lento processo legislativo, spingendo ad includervi anche una modifica del reato di omicidio del consenziente, al fine di evitare l’altrimenti certa scadenza referendaria. Vedremo. Per essere centrato, l’obiettivo richiede però che la novella legislativa risulti innovativa nei principi ispiratori e nei contenuti normativi essenziali rispetto al vigente art. 579 c.p. Diversamente, si imporrebbe il trasferimento del quesito abrogativo sulla disciplina sopravvenuta, per decisione dell’Ufficio centrale, previa opportuna riformulazione della domanda referendaria (cfr. sent. n. 68/1978). E su questa gli elettori sarebbero chiamati a votare.
Spingendoci oltre a quanto prospetta la domanda, si può prefigurare il diverso e ulteriore scenario in cui il quesito abrogativo - in ipotesi ammesso dalla Corte costituzionale - sia poi validamente approvato nelle urne. In questo caso scatterebbe il divieto di (formale o sostanziale) ripristino della norma abrogata dalla volontà popolare, desumibile dall’art. 75 Cost. secondo quanto già riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale.
È vero, infatti, che il legislatore, «pur dopo l’accoglimento della proposta referendaria, conserva il potere d’intervenire nella materia oggetto di referendum» (sent. n. 33/1993). La sua discrezionalità è però circoscritta in ragione del voto popolare che «manifesta una volontà definitiva e irripetibile» (sent. n. 468/1990) e il cui effetto utile non può essere posto nel nulla o vanificato. Concretamente, quello che sorge è un vincolo negativo per il legislatore: il referendum preclude «la scelta politica di far rivivere» la disciplina abrogata, anche soltanto «quale norma transitoria» (sent. n. 468/1990), come pure la possibilità di ripristinarla in futuro «senza che si sia determinato, successivamente all’abrogazione, alcun mutamento né del quadro politico, né delle circostanze di fatto», tenuto anche conto del «lasso di tempo intercorso» fra la pubblicazione dell’esito della consultazione referendaria e l’adozione della nuova normativa (sent. n. 199/2012).
Guardàti dalla giusta distanza, sono due scenari (ante e post referendum) che confermano la funzione dialettica degli strumenti di democrazia diretta nel sistema della democrazia rappresentativa delineata dal dettato costituzionale. E segnalano come l’iniziativa legislativa referendaria assunta dall’Associazione Luca Coscioni – superato il vaglio di ammissibilità - si traduca in un’ipoteca normativa già ora e, a fortiori, all’indomani di una sua vittoria nelle urne, condizionando comunque le scelte legislative in materia di eutanasia.
7. In conclusione, quali sono le Sue previsioni sulle sorti del quesito referendario proposto dall’Associazione Luca Coscioni e dalle altre associazioni proponenti?
L’unica certezza nella giurisprudenza referendaria è l’incertezza del suo esito. Le contraddittorie decisioni della Corte costituzionale – anche all’interno di una medesima tornata referendaria - e l’incrementale creazione di sempre cangianti criteri di giudizio hanno finito per «minare la certezza del diritto» (Paladin) circa una ragionevole prevedibilità sulla sorte di un quesito abrogativo popolare. Si badi: comunque formulato, perché – come icasticamente è stato detto - «se il referendum è manipolativo allora abbiamo dubbi sull’ammissibilità perché è manipolativo; se il referendum è sull’intera legge allora abbiamo dubbi sull’ammissibilità perché è sull’intera legge» (Silvestri).
Ciò detto, resta pur vero che «nel modello costituzionale regola è il referendum, eccezione è l’inammissibilità» (Zanon). Nel dubbio tra le due alternative, inviterei i giudici costituzionali ad attenersi saggiamente al canone ermeneutico generale che vuole di stretta interpretazione le norme limitative dell’esercizio di diritti. Nel voto abrogativo popolare, infatti, si esprime esattamente questo: un diritto costituzionale di partecipazione politica.
Giustizia Insieme, per mantenere vivo il dibattito sulle riforme in corso aventi ad oggetto la giustizia civile, pubblica il parere del CSM approvato in data 15 settembre 2021, trasmesso alla ministra della Giustizia, e il testo finale approvato dalla Commissione Giustizia del Senato sui dd.d.l. 1662 e 311-A, comunicato alla Presidente il 15 settembre 2021.
Sul potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio della P.A. (nota ad Ad. Plen. 25 05 2021 n. 8).
di Andreina Scognamiglio
Sommario. 1. I principi di diritto enunciati dalla Adunanza Plenaria n. 8 del 2021 e l’iter motivazionale della pronuncia. - 2. Attività dell’amministrazione e attività del commissario ad acta nella fase dell’ottemperanza: gli acquis della giurisprudenza teorica e pratica anteriori al c.p.a. – 3. Conferme e riserve nel c.p.a. e orientamenti giurisprudenziali successivi al codice – 4. La posizione della Plenaria n. 8 del 2021: presupposti espliciti ed impliciti per l’attrazione nella sfera della giurisdizione dell’attività del commissario. -5. Conclusioni.
1. I principi di diritto enunciati dalla Adunanza Plenaria n. 8 del 2021 e iter motivazionale della pronuncia.
In risposta ai quesiti sollevati dalla ordinanza n. 6925 del 2020 della Sezione IV, la Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è pronunciata sulla questione se l’amministrazione soccombente in giudizio conservi, o meno, il potere di provvedere dopo la nomina del commissario ad acta o dopo il suo insediamento e su vari problemi connessi e/o conseguenziali.
Con la sentenza n. 8 del 25 maggio 2021, l’organo della nomofilachia della giurisprudenza amministrativa ha statuito dunque che:
La Plenaria sottolinea pure che le soluzioni sopra sintetizzate valgono in tutte le ipotesi in cui il processo amministrativo contempla la nomina di un commissario ad acta la quale può essere disposta con la sentenza che definisce il giudizio di merito; in sede di ottemperanza al giudicato; in sede di esecuzione di una pronuncia esecutiva o di una ordinanza cautelare; all’esito del ricorso contro il silenzio.
La motivazione della sentenza fa leva in primo luogo sulla formulazione dell’art. 21 c.p.a., il quale, sciogliendo la risalente disputa sulla natura soggettiva del commissario (se ausiliario del giudice, organo straordinario dell’amministrazione o organo misto), espressamente lo qualifica quale ausiliario del giudice. Ma, accanto al dato formale della qualificazione soggettiva del commissario, la Plenaria argomenta le proprie conclusioni dalla chiara enunciazione, pure dovuta al legislatore del codice, dei presupposti per la sua nomina del commissario ad acta che è ammessa quando il giudice debba sostituirsi all’amministrazione e laddove tale circostanza si verifichi nell’ambito della giurisdizione di cui il giudice è investito dalla norma attributiva della medesima. Ciò implica che il perimetro dell’azione del commissario coincide con i confini della giurisdizione del giudice che lo ha nominato. E’ dunque nell’ambito della giurisdizione che il commissario agisce.
Così argomentando la Plenaria sposta l’angolo di visuale ed il punto nodale che non è più, tanto, quello della qualificazione soggettiva del commissario quale ausiliario del giudice quanto quello oggettivo della qualificazione della attività da lui svolta.
L’attività del commissario è attratta nella “giurisdizione” poiché trova il suo fondamento nella decisione del giudice e perché è funzionale alla effettività della tutela giurisdizionale. L’investitura e la finalità escludono che attività posta in essere dal commissario ad acta possa essere ricondotta ad esercizio di amministrazione. “Il potere esercitato dal commissario ad acta – prosegue la sentenza – ancorché concretizzantesi in atti non dissimili da quelli che avrebbe dovuto adottare l’amministrazione, è un potere distinto, sul piano genetico e funzionale, da quello di cui l’amministrazione è titolare”. Diversamente, anche nella fase della esecuzione della sentenza, il potere che l’amministrazione esercita trova il suo fondamento nella norma attributiva del potere ed è funzionalizzato alla cura dell’interesse pubblico. Ne consegue che solo impropriamente si può parlare di “sostituzione” del giudice (e per esso del commissario) alla amministrazione perché “detta sostituzione non avviene nell’esercizio del medesimo potere, ma solo con riferimento a ciò che l’amministrazione avrebbe dovuto compiere per dare attuazione al giudicato e rispetto al quale è invece rimasta inottemperante”.
La diversa natura dei poteri esercitati dal commissario ad acta e dalla amministrazione nella fase della ottemperanza alla sentenza ne postula la netta distinzione e ne rende possibile un esercizio “concorrente”. Ciò comporta che fino al momento in cui l’amministrazione o il commissario non abbiano dato esecuzione alla sentenza, l’un soggetto o l’altro possono indifferentemente provvedere.
Nel commentare l’ordinanza di rimessione della IV Sezione[1], si era accordata preferenza alla tesi della decadenza dell’amministrazione dal potere di provvedere in esecuzione della pronuncia giurisdizionale in base alla considerazione che l’ordinamento, e comunque ragioni di razionalità del sistema, non tollerano che lo stesso potere sia esercitato contemporaneamente a due soggetti diversi.
Con una soluzione originale, la Plenaria muta radicalmente la prospettiva: per le ragioni sopra sintetizzate, l’attività posta in essere dal commissario e dalla amministrazione in ottemperanza alla sentenza presentano caratteri diversi quanto alla fonte dell’investitura ed alla funzione. Tale circostanza consente l’esercizio parallelo e concorrente di entrambe che è possibile fino al momento in cui il commissario o l’amministrazione non provvedano.
2. Attività dell’amministrazione e attività del commissario ad acta nella fase della ottemperanza: gli acquis della giurisprudenza teorica e pratica anteriori al c.p.a.
La fase dell’ottemperanza/esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo è da sempre al centro di vivaci contrasti interpretativi ed applicativi da parte della giurisprudenza teorica e pratica.
Si tratta di un dibattito che sembrava aver raggiunto alcuni punti fermi alla data della entrata in vigore del codice del processo amministrativo.
Per concentrare l’attenzione sugli aspetti che più interessano in questa sede, in particolare si era raggiunta una certa unanimità di vedute su due questioni: quella della natura propriamente esecutiva del giudizio di ottemperanza (con l’esclusione dal perimetro di questo di aspetti non scrutinati dalla sentenza da eseguire) e quella della estraneità rispetto ad esso di quelle attività di riedizione/edizione del potere espletate dopo la sentenza dall’amministrazione o dal commissario ad acta che non siano di mero adeguamento della realtà di fatto rispetto a quanto il processo di cognizione ha riconosciuto, esplicitamente o implicitamente, spettare alla parte ricorrente vittoriosa in giudizio. La premessa da cui muovono le considerazioni sopra sintetizzate sta nell’individuazione di due diverse situazioni che si possono avere nella fase dell’esecuzione di una pronuncia emessa in sede di giurisdizione amministrativa. La prima si verifica quando l’attività che segue alla sentenza è di mera attuazione delle statuizioni in questa contenute e di quanto il processo di cognizione ha riconosciuto spettare alla parte ricorrente e vittoriosa in giudizio; la seconda quando l’esecuzione della pronuncia comporta esercizio di discrezionalità in ordine al contenuto dell’atto da adottare. Tipicamente ciò avviene nel caso di sentenza di condanna a provvedere che non accerti altresì la “fondatezza della pretesa” e che non contenga dunque indicazioni circa il contenuto del provvedimento omesso.
3. Conferme e riserve nel c.p.a. e orientamenti giurisprudenziali successivi al codice.
Per alcuni aspetti dette conclusioni sono fatte proprie dal legislatore del codice del processo amministrativo. La conferma è data dalla Plenaria 15 gennaio 2013, n. 2 per la quale la contestazione degli atti di esercizio del potere amministrativo successivi alla pronuncia è da proporsi nei modi e nella forme del giudizio di legittimità, o nei modi dell’ottemperanza a seconda che le censure riguardino o non la violazione del giudicato. La sentenza muove appunto da quello che sopra si è definito come un punto fermo del dibattito anteriore al codice e cioè dalla considerazione del diverso regime, sostanziale e processuale, della attività di riedizione del potere posta in essere dalla amministrazione: detta attività è esecutiva della sentenza nei limiti in cui si muove nel perimetro di quanto accertato in sede di cognizione ed è invece attività discrezionale in senso proprio quando definisce aspetti non coperti da quanto accertato in sede giurisdizionale.
La chiarezza della posizione condivisa dalla Plenaria del 2013 viene meno quando l’attività successiva alla pronuncia giurisdizionale è posta in essere dal commissario ad acta qualificato, a seconda dei punti di vista, come sostituto del giudice o organo straordinario dell’amministrazione[2].
E’ vero la questione della qualificazione soggettiva del commissario era stata affrontata e apparentemente definita già dalla Plenaria n. 23 del 1978 la quale l’aveva risolta nel secondo senso chiarendo pure che, di conseguenza, gli atti posti in essere dal commissario avrebbero dovuto essere impugnati nelle forme e nei modi disciplinati dall’art. 27, n. 4 del t.u. del consiglio di stato e degli artt. 90 e 91 del regolamento di procedura. Ma già la pronuncia del ‘78, lungi dal porre fine ai dissensi, aveva alimentato ulteriormente il dibattito[3]. Ad essa seguirono infatti numerose sentenze[4] per le quali il commissario è altresì da considerare alla stregua di “organo straordinario della amministrazione” nella misura in cui, rispetto all’attività da questo posta in essere, “la nomina giudiziale rileva solo nel momento genetico dell’istituzione dell’ufficio e non nel momento operativo”.
Il punto è che figura del commissario ad acta presenta profili di ambiguità innegabili per la ragione che “nell’effettività del sistema, il commissario non si limita a compiere attività di esecuzione-ottemperanza al giudicato, ma sostituisce interamente gli organi (ordinari) dell’amministrazione nell’esercizio del potere il cui ciclo viene riaperto dalla caducazione del provvedimento illegittimo”[5] (o dalla sentenza di mera condanna a provvedere). L’esempio tipico di azione del commissario non meramente esecutiva perché tale da travalicare i limiti segnati dalla sentenza è proprio quello del provvedimento adottato in luogo dell’amministrazione dopo che il giudice ne abbia accertato l’inerzia. Si tratta evidentemente di vicende difficilmente conciliabili con la qualificazione del commissario quale mero ausiliare del giudice e rispetto alle quali la coerenza del sistema imporrebbe di riproporre la distinzione tra attività meramente esecutiva di quanto accertato dal giudice in sede di cognizione e attività che non trova alcun riferimento nella sentenza[6]. La prima da contestarsi mediante ricorso per l’ottemperanza, la seconda mediante ricorso di legittimità.
Non a caso, l’intervenuta disciplina positiva del rito avverso il silenzio, con la previsione della nomina del commissario in caso di perdurante inerzia dell’amministrazione, ha rinvigorito il dibattito intorno alla figura del commissario. Così la sezione VI del Consiglio di stato, nella sentenza 25 giugno 2007, n. 3602 osserva che la qualificazione del commissario quale organo ausiliario male si adatta alle ipotesi in cui questi venga nominato dal giudice del rito speciale di cui (allora) all’art. 21 bis della l. n. 1034 del 1071. Infatti, in questo caso, l’attività posta in essere dal commissario “può atteggiarsi come attività di pura sostituzione, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisione se non per quanto attiene al presupposto dell’accertamento della prolungata inerzia dell’amministrazione”. A meno di non ritenere che con la sentenza di cui all’art. 21 bis il giudice non possa limitarsi a nominare il commissario in caso di inerzia, ma debba altresì dettare le “direttive per l’operato dell’amministrazione”.
Nel codice del processo amministrativo il tentativo di attrarre nella giurisdizione l’attività del commissario ad acta è evidente. In tal senso depone la qualificazione soggettiva di questo quale “ausiliario del giudice” dovuta all’art. 21 e l’attribuzione alla competenza del giudice dell’ottemperanza di tutte le questioni relative all’esecuzione, dovuta agli artt. 114, comma 6, e 117, comma 4. Entrambe le disposizioni rimettono al giudice che lo ha nominato, e dunque al giudice dell’esecuzione, i ricorsi avverso gli atti del commissario ad acta[7], fatta salva la impugnabilità dei medesimi in sede di giurisdizione di legittimità da parte dei terzi non parti in causa.
L’opzione evidentemente fatta propria dal legislatore non ha però sopito il dibattito intorno alla figura e al ruolo del commissario. In particolare, e in specie con riferimento all’ipotesi della nomina del commissario in sede di ricorso avverso il silenzio, è restata in campo la tesi secondo la quale si tratta di un organo straordinario dell’amministrazione in quanto egli esercita attività discrezionale in senso proprio[8]; ovvero di un organo misto in quanto assume di volta in volta l’uno o l’altro ruolo a seconda che la sentenza abbia altresì accertato la “fondatezza della pretesa” o abbia un contenuto di mera condanna a provvedere[9]; o ancora di un organo ausiliario del giudice, il quale però pone in essere atti soggetti a reclamo dinanzi al giudice che lo ha nominato ovvero con ricorso ordinario di legittimità a seconda che essi siano si muovano o meno entro il perimetro dell’accertamento svolto in sede di giudizio di cognizione[10].
La tesi dell’organo misto è riproposta anche nella giurisprudenza successiva al codice[11] e fino alla recente Adunanza Plenaria del 9 maggio 2019, n. 7 dove l’affermazione della duplice veste del commissario ad acta e quella dell’esautoramento dell’amministrazione inadempiente da parte di questo rappresentano due passaggi essenziali della motivazione: essendo l’amministrazione inadempiente e surrogata a seguito dell’insediamento del commissario oramai priva della potestà di provvedere, essa versa in una situazione di impossibilità soggettiva sopravvenuta rispetto all’obbligo della penalità di mora e non è più tenuta al pagamento.
4. La posizione della Plenaria n. 8 del 2021: presupposti espliciti ed impliciti per l’attrazione nella sfera della giurisdizione dell’attività del commissario.
La posizione della Plenaria n. 8 del 2021 è, in questo contesto, originale. L’esercizio concorrente del potere commissariale e del potere amministrativo è ritenuto possibile in ragione della diversa natura dell’attività conseguente alla pronuncia giurisdizionale amministrativa la quale varia a seconda che ad agire sia il commissario o l’amministrazione. Nel primo caso, saremmo in presenza di una attività riconducibile alla giurisdizione in forza dell’investitura e in considerazione della finalità che è quella di assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale[12]. Nel secondo di un potere propriamente amministrativo in quanto conferito dalla legge in funzione del perseguimento dell’interesse pubblico.
La linea di discrimine tra attività riconducibile alla giurisdizione (e alla esigenza della sua effettività) e attività propriamente amministrativa (in quanto orientata ai criteri del buon andamento e dell’imparzialità) è tracciata in termini diversi da quelli risultanti dalla tradizione e in modo da prescindere dalla corrispondenza tra l’attività che si colloca oltre la sentenza ed il perimetro del giudicato e comunque dell’accertamento operato in sede di giudizio di cognizione.
In contrario, sul versante dell’amministrazione, si può osservare che questa non è chiamata a compiere alcuna valutazione discrezionale orientata all’interesse pubblico quando la sentenza della cui esecuzione si tratta fissa essa stessa l’assetto degli interessi conforme a legalità. La prova che l’amministrazione è obbligata alla esecuzione proprio in forza del principio di effettività della tutela giurisdizionale viene dal fatto che l’esecuzione dell’ordinanza cautelare o della sentenza esecutiva, ma non ancora passata in giudicato non comporta acquiescenza. In definitiva, per impiegare l’ordine concettuale della Plenaria, l’amministrazione è tenuta alla esecuzione perché la tutela sia effettiva e a prescindere dalle proprie valutazioni in merito all’interesse pubblico.
Per quanto riguarda il commissario ad acta, il criterio della “effettività della tutela” non sembra invece idoneo ad orientarne l’azione ogni qualvolta questa va oltre l’effetto conformativo della sentenza che è limitato. In questi casi inevitabilmente il commissario dovrà compiere valutazioni improntate all’interesse pubblico o, se vogliamo, conformate ai principi di buona amministrazione. Dunque valutazioni discrezionali in senso proprio.
L’affermazione della sufficienza del criterio della effettività (per il quale il processo deve assicurare a colui che ha agito in giudizio “tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire”) presuppone un accertamento già svolto in sede di processo di cognizione e che l’attività del commissario si collochi entro i limiti della sentenza da eseguire. Sicché, per la coerenza del sistema, si dovrebbe concludere che l’azione commissariale si può innestare esclusivamente sulla sentenza che abbia altresì accertato la fondatezza della pretesa del ricorrente e non, semplicemente, l’illegittimità del provvedimento negativo o l’inadempimento dell’obbligo di provvedere. Altrimenti, e specie nel rito speciale avverso il silenzio, si configurerebbe il paradosso di un sostituto del giudice che gode rispetto a questo di poteri più ampi.
Il paradosso è evitato da parte di chi limita il potere del commissario di adottare un atto satisfattivo dell’interesse sostanziale del ricorrente alle sole ipotesi nelle quali la sentenza che lo nomina abbia altresì accertato la fondatezza della pretesa. La tesi è stata in effetti proposta [13], ma va contro l’evidenza dei fatti. Nell’esercizio del potere il cui ciclo viene riaperto dalla caducazione del provvedimento illegittimo o dalla sentenza di mera condanna a provvedere) il commissario si trova a definire in concreto l’assetto degli interessi tra le parti e dunque a compiere valutazioni discrezionali in luogo degli organi (ordinari) dell’amministrazione ogni qualvolta il giudice si sia limitato ad accertare l’inadempimento dell’obbligo di provvedere e ad emettere sentenza di mera condanna. Così nel caso di cui alla pronuncia della Plenaria che aveva rimesso al commissario ad acta la valutazione della ammissibilità, o meno, di un intervento di recupero di un insediamento edilizio abusivo o anche nel caso, pacificamente ammesso[14], nel quale al Commissario è rimessa la valutazione se le concrete circostanze consentano di adottare il provvedimento di acquisizione ex art. 42-bis del testo unico sugli espropri.
La corrispondenza tra poteri del giudice e del commissario è recuperata, in altra prospettiva, riconoscendo al primo una giurisdizione estesa al merito nel momento in cui, a fronte di una perdurante inerzia dell’amministrazione, investe il commissario dell’esercizio di poteri sostitutivi [15].
In contrario, vale però ricordare il carattere “chiuso” delle ipotesi di giurisdizione di merito[16] tra le quali non rientra il ricorso avverso il silenzio e anche la considerazione del contenuto della sentenza che nomina il commissario ad acta e che può non prevedere alcuna direttiva per il suo operato (salvo – ancora una volta – i casi in cui essa si pronunci sulla fondatezza della pretesa sostanziale).
In ogni caso le diverse letture sopra ricordate evidenziano un punto che può considerarsi acquisito: l’affermazione per la quale il commissario agisce nell’ambito della giurisdizione di cui il giudice è investito presuppone uguale estensione ed uguale qualità dei poteri che ad entrambi fanno capo.
A questo proposito una diversa soluzione è prospettabile e passa per la valorizzazione dell’art. 117, comma 4: la corrispondenza tra poteri del commissario e poteri del giudice che non è assicurata ex ante in tutti i casi in cui la sentenza che chiude il ricorso avverso il silenzio è di mera condanna a provvedere è recuperata in sede di reclamo avverso gli atti del commissario ad acta.
In sede di reclamo, nel contraddittorio tra le parti[17], il giudice è investito dall’art. 117, comma 4, di “tutte le questioni” inerenti agli atti del commissario ad acta. Il sindacato disegnato dalla norma è ampio perché esteso a tutte le questioni e dunque ad ogni profilo di rispondenza dell’atto ai canoni del buon andamento oltre che della legalità e della imparzialità. D’altro canto il reclamo si colloca in una fase del processo che è propriamente esecutiva o di ottemperanza e perciò pacificamente ascritta alla sfera della giurisdizione di merito. La peculiarità del rito avverso il silenzio si condenserebbe allora nella circostanza per la quale qui il giudice non esercita poteri sostitutivi (della amministrazione) e direttivi (sul commissario) ex ante ma piuttosto ex post nell’ambito di un sindacato che è esteso ad ogni profilo, di legittimità e di merito, dell’attività del suo ausiliario.
5. Conclusioni.
L’attrazione nella sfera della giurisdizione (di merito) dell’attività del commissario nominato all’esito del ricorso avverso il silenzio offre validissimo supporto al principio di diritto per il quale gli atti adottati dal commissario ad acta non sono annullabili dall’amministrazione nell’esercizio del potere di autotutela[18], né sono da questa impugnabili davanti al giudice della cognizione, ma sono esclusivamente reclamabili dinanzi al giudice che lo ha nominato[19].
Non altrettanto convincente la motivazione offerta al principio per il quale l’amministrazione conserverebbe il potere di provvedere anche dopo la nomina del commissario ad acta e pure dopo il suo insediamento.
Per il destinatario della sentenza favorevole e specie nei casi in cui questa non definisca già di per sé l’assetto dei rapporti conforme a legalità, ma contempli margini di discrezionalità in sede di esecuzione, non è affatto indifferente che a provvedere sia l’amministrazione o il commissario ad acta. Se ad agire è l’amministrazione, ogni eventuale contestazione degli atti da questa adottati al di là dei limiti segnati dal contenuto di accertamento (del mero inadempimento dell’obbligo di provvedere) e di condanna (a provvedere) della sentenza da eseguire, dovrà essere proposta nei tempi e nelle forme di un ordinario giudizio di legittimità. Gli atti commissariali saranno invece reclamabili nell’ambito e con l’utilizzo di un rito che segue tempi ben più rapidi e nel quale il giudice esercita un ampio sindacato, esteso al merito.
In definita, è condivisibile la scelta della Plenaria di abbandonare definitivamente la locuzione di “organo straordinario” dell’amministrazione spesso utilizzata con riferimento al commissario ad acta nominato nell’ambito del processo e di ascrivere decisamente alla sfera della giurisdizione la sua attività. Per le ragioni sopra chiarite, merita forse un ripensamento l’opzione favorevole a conservare alla amministrazione il potere di provvedere oltre ogni limite fissato dalla sentenza e anche dopo la nomina o l’insediamento del commissario ad acta.
Resta fermo che in tutti i casi in cui il carattere ampiamente discrezionale della attività da svolgere consiglia di riservare la decisione alla competenza e alla responsabilità dell’amministrazione, le parti potranno chiedere, ed il giudice accordare, misure di coercizione indiretta dell’obbligo di provvedere, quali la penalità di mora.
[1] Sia consentito rinviare a A. Scognamiglio, Silenzio della PA e regime giuridico del provvedimento sopravvenuto alla nomina del commissario ad acta, in questa Rivista, 19 gennaio 2021.
[2] Secondo R. Villata, Esecuzione delle ordinanze di sospensione e giudizio di ottemperanza (addendum),in Scritti di giustizia amministrativa, Milano, 2015, 1074, il diverso regime sostanziale e processuale a seconda che l’atto sia affetto da nullità, per contrasto con il giudicato, o da annullabilità si giustifica anche con riferimento agli atti adottati dal commissario.
[3] Nota R. Villata, Esecuzione delle ordinanze di sospensione e giudizio di ottemperanza , in Dir. proc. amm., 1989, 370, che “di solito le pronunce della Adunanza Plenaria pongono fine, almeno temporaneamente, ai dissensi che si son manifestati nelle singole sezioni. Quasi di segno opposto è stato l’esito della decisione n. 23 del 1978, nella parte concernente la natura giuridica del commissario ad acta e il regime dell’impugnazione dei suoi atti”.
[4] In particolare il dibattito sulla natura del commissario straordinario e sul regime dei suoi atti è stato ancora alimentato da una serie di sentenze del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia pure riportate da Villata nello scritto citato alla nota precedente.
[5] R. Villata, Esecuzione delle ordinanze di sospensione, cit.
[6] L’indirizzo favorevole a scomporre l’attività del commissario in due parti (quella meramente esecutiva della sentenza e quella discrezionale) è riconducibile a C.G.A. Sicilia, 21 dicembre 1982, n. 92; Id. 31 maggio 1984, n. 61; Id., 22 marzo 1993, n. 114; cfr. anche T.A.R. Lazio, sez. II, 12 maggio 1988, n. 681; In dottrina, S. Giacchetti, Un abito nuovo per il giudizio di ottemperanza, in Foro Amm., 1979, I, 2618; ID, Il commissario «ad acta» nel giudizio di ottemperanza: si apre un dibattito, in Foro Amm.,1986, 1967.
[7] Nella Relazione governativa al codice 7 luglio 2010, §124 emerge la chiara consapevolezza che le due disposizioni citate hanno inteso risolvere “un contrasto di giurisprudenza in ordine all’impugnabilità degli atti del medesimo commissario oramai contestabili innanzi al giudice dell’ottemperanza”.
[8] In particolare, vedi: M. Ramajoli, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, cit., 741-742. L’Autrice rileva che “se l’effetto conformativo della sentenza avverso il silenzio è pressoché nullo, limitandosi alla mera necessità di provvedere, l’attività richiesta al commissario risulta di tipo sostitutivo pieno, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisine giudiziale se non per quanto attiene all’accertamento dell’obbligo di provvedere. Ne consegue che il commissario andrebbe assimilato non già all’ausiliario del giudice nominato per dare esecuzione a una sentenza, come avviene in sede di ottemperanza, quanto semmai a un organo straordinario dell’amministrazione rimasta inerte”. In tal senso anche E. Quadri, in Codice del processo amministrativo, a cura di R. Garofoli e G. Ferrari, Roma, 2010, 1617; A. Cioffi, Il dovere di provvedere nella legge sull’azione amministrativa, in A. Romano (a cura di) L’Azione amministrativa, Torino, 2016, 162; V. Lopilato, Il giudizio di ottemperanza, in G.P. Cirillo, (a cura di) Il nuovo diritto processuale amministrativo, Padova, 2014, 1094.
[9] G. Mari, L’azione avverso il silenzio, in M.A. Sandulli (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Milano, 2013, Vol. I, 250 e ss.. quando la sentenza è di mera condanna a provvedere, difatti, “il merito della questione viene valutato per la prima volta dal commissario, il quale, non potendo desumere dalla sentenza alcuna indicazione su come avrebbe dovuto svolgersi l’attività amministrativa, opererà in via autonoma, non nella veste di longa manus del giudice, quanto piuttosto di sostituto dell’amministrazione, i cui atti costituiscono autonomi provvedimenti amministrativi, impugnabili con ricorso giurisdizionale ordinario”
[10] L. Bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, B. Sassani e R. Villata (a cura di), Il codice del processo amministrativo, 986 e ss..
[11] Vedi ad esempio Tar Lazio, sez. II, 8 luglio 2014, n. 7229 che assimila il commissario nominato dal giudice del silenzio “ad un organo dell’amministrazione” piuttosto che “ad un ausiliario del giudice”.
[12] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2335 per la quale il commissario, in quanto figura che promana dal giudice svolge “attività soggettivamente giurisdizionale”.
[13] In tal senso vedi F. Scalia, Profili problematici del rito sul silenzio dell’amministrazione nella prospettiva dell’effettività e pienezza della tutela, in www.federalismi.it 2016, 16 ss. La tesi troverebbe conferma nella lettera dell’art. 117, comma 4 che rimette al giudice del silenzio tutte le questioni relative allo “esatto adempimento”. L’impiego dell’aggettivo “esatto” starebbe a testimoniare il carattere necessariamente vincolato dell’attività propria dell’amministrazione (o del commissario che alla stessa si sostituisca) nella fase esecutiva del giudizio sul silenzio. “Solo un’attività vincolata, infatti, può essere definita con esattezza nelle modalità di esecuzione (quomodo) e nei contenuti del provvedimento in cui si esplichi, grazie al raffronto con una norma giuridica che riconosca la pretesa e ne indichi, con precisione, i presupposti oggettivi e soggettivi”. L’intenzione del Legislatore di circoscrivere ai casi di attività vincolata la nomina del commissario ad acta emergerebbe ancor più chiaramente dal raffronto tra l’art. 117, comma 4 e l’art. 114, comma 6 il quale rimette invece al giudice dell’ottemperanza: “tutte le questioni relative all’ottemperanza” L’eliminazione di ogni aggettivazione del termine “ottemperanza” –operata dal primo correttivo al codice – è letta come chiaro indice della volontà del legislatore di concentrare dinnanzi al giudice dell’ottemperanza ogni questione sollevata dalle parti concernente gli atti commissariali, ancorché i vizi che vengano dedotti non si identifichino con i profili di contrasto rispetto alle pregressa statuizione giurisdizionale, ma siano relativi all’ambito di discrezionalità dell’azione del commissario ad acta. Nel rito speciale avverso il silenzio, l’accertamento nel merito della fondatezza della pretesa sarebbe rimesso al giudice dell’ottemperanza da adirsi con un nuovo ricorso nel caso in cui persista l’inerzia dell’amministrazione.
[14] Cons. Stato, Ad. plen, 2 febbraio 2016, n. 2.
[15] In tal senso: V. Lopilato, Articolo 117 – Ricorsi avverso il silenzio, in F. Caringella - M. Protto (a cura di), Codice del nuovo processo amministrativo, Milano 2012, 1143 e, già nel vigore dell’art. 21 bis della legge Tar, G. Montedoro,Ottemperanza speciale “contra silentium” ed ottemperanza anomala nel processo amministrativo”, in Urbanistica ed appalti, 2001, 892-893
[16] Come desumibile dal confronto tra la formulazione dell’art. 133 e dell’art. 134 c.p.a.. La prima norma, nel dettare l’elenco dei casi di giurisdizione esclusiva, fa espressamente salve “ulteriori disposizioni di legge”. Un inciso analogo non è invece contenuto nell’art. 134 c.p.a.
[17] Significative dell’incerta natura dell’attività del commissario le perplessità della giurisprudenza riguardo alla soggezione o meno di questa alle regole del giusto procedimento. Così per Cons. stato, sez. III, 27 novembre 2017, n. 5500 “Per quanto sia auspicabile che il commissario coinvolga le parti, al fine del raggiungimento di un eventuale accordo, comunque non esiste alcuna disposizione che obblighi il Commissario ad acta a compiere la sua attivitàgarantendo la partecipazione delle parti. L’esigenza di tutela delle ragioni di quest’ultime è assicurata nell’ambito del giudizio di ottemperanza dinanzi al Giudice, al quale può essere presentato eventualmente reclamo nel caso in cui le determinazioni del Commissario ad acta siano ritenute in contrasto con la statuizione giudiziale da eseguire (artt. 112 ss. D.Lgs. n. 104/2010, CPA). Mentre il Tar del Lazio, 17 gennaio 2010, n. 775 si è pronunciato nel senso dell’illegittimità “per la mancata comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza e per la conseguente adozione del provvedimento negativo senza il previo contraddittorio procedimentale, il provvedimento con cui il commissario ad acta all'uopo nominato ha rigettato l'istanza con cui l'Associazione italiana di diritto comparato aveva chiesto al ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca di dichiarare la reciproca ed esclusiva affinità tra i settori scientifico-disciplinari Ius 02 (diritto privato comparato) e Ius 21 (diritto pubblico comparato)”.
[18] In tal senso, cfr. Cons. stato, sez. IV, 18 agosto, 2021, n. 2335 e il bel commento di R. Fusco, Autotutela sugli atti del commissario ad acta nel giudizio avverso il silenzio, in questa Rivista, 3 maggio 2021.
[19] Vedi supra al §1, n. 3.
La disciplina “civilizzata” della rinnovazione della notificazione nulla del ricorso nel processo amministrativo (nota a Corte cost. 9 luglio 2021, n. 148)
di Alessandro Squazzoni
Sommario: 1. L’eccentrica disciplina dell’art. 44 c.p.a. e la prima correzione con la sentenza n. 132/2018 – 2. L’infelice sentenza n. 18/2014 - 3. La Corte corregge oggi la rotta con la sentenza n. 148/2021 – 4. Breve divagazione sulla razionalità di un sistema che estromette l’indagine sulla scusabilità dell’errore dalla rinnovazione sanante la nullità della notificazione - 5. Dalla Corte un altro monito per un modo diverso di guardare al processo amministrativo.
1. L’eccentrica disciplina dell’art. 44 c.p.a. e la prima correzione con la sentenza n. 132/2018
Prima che gli interventi della Corte costituzionale, e quest’ultimo finalmente, ne facessero tabula rasa, le disciplina che il codice del processo amministrativo dettava per l’ipotesi di nullità della notificazione del ricorso si può ben dire fosse, quantomeno, eccentrica[1].
La costituzione dell’intimato – recitava il comma 3 dell’art. 44 c.p.a. - «sana la nullità della notificazione del ricorso, salvi i diritti acquisiti anteriormente alla comparizione». Poiché la formula riecheggiava l’antica salvezza del diritto all’inammissibilità del ricorso per intervenuta decadenza – o altrimenti detto diritto all’irrevocabilità del provvedimento – il precetto si risolveva in una regola ai limiti del canzonatorio. Nel processo amministrativo di legittimità la decadenza impera su ogni azione. Immaginare che la PA si costituisca prima che ad esempio scada il termine di 60 giorni che governa la notifica dell’azione d’annullamento è pura astrazione. D’altro canto se la costituzione successiva a quel termine viene premiata assicurando una tombale declaratoria di inammissibilità in rito, un avvocato minimamente avveduto, nel caso di notifica nulla del ricorso, avrebbe il più delle volte consigliato all’Amministrazione patrocinata di attendere a costituirsi il giorno dopo la scadenza di quel termine anche quando fosse stata in grado di costituirsi prima, lucrando così sull’errore del ricorrente.
Insomma, si trattava di una pretesa sanatoria ex nunc, che in tale materia - come ricordava Satta[2] - non è però affatto una sanatoria.
Sulla sciagurata disposizione che faceva salvezza dei diritti quesiti prima della comparizione è scesa la scure della Corte costituzionale con la sentenza n. 132/2018[3].
Quel verdetto era prevedibile. Nel processo amministrativo ante codice la convalida con effetto ex tunc per l’ipotesi di costituzione della PA intimata, ancorché con notifica nulla, era stata stabilmente affermata quantomeno a partire dalla Plenaria del 16 dicembre 1980, n. 52. D’altro canto, già con la sentenza n. 97 del 1967 la Corte costituzionale, nel giudicare dell’art. 11, comma 3, r.d. n. 1611/1933 aveva affermato che la sanatoria della nullità della notifica per effetto di costituzione (c.d. convalidazione) è un principio generale del sistema degli atti processuali, aggiungendo pure che non sarebbe stata assistita da alcun logico fondamento un’eccezione al principio motivata dal fatto che intimata è una pubblica amministrazione.
La via per dichiarare la violazione dell’art. 76 Cost. in ragione del contrasto con l’art. 156, comma 3, c.p.c. e con la giurisprudenza delle superiori giurisdizioni era lì dunque già spianata.
2. L’infelice sentenza n. 18/2014
Più faticoso ed accidentato è stato invece il percorso che ha condotto alla decisione che qui si segnala.
La sentenza n. 148/2021 si occupa infatti del diverso precetto contenuto nel comma 4° dell’art. 44 c.p.a. che disciplina l’ipotesi in cui alla nullità della notifica non faccia seguito la costituzione del destinatario.
Qui l’eccentricità della norma risiedeva nel fatto che il dovere del giudice di disporre la rinnovazione della notifica, con conseguente effetto impediente la decadenza, era subordinato alla non imputabilità al notificante del cattivo esito della prima notifica. Una condizione, fortemente limitativa dell’operatività della sanatoria, che invece non è presente nella disciplina del processo civile contenuta nell’art. 291 c.p.c.
Nel 2014 la questione di costituzionalità fu sottoposta alla Corte dal Tar Lecce nell’ottica, forse un po' limitata, del contrasto con l’obbligo di coordinamento con precetti del codice di procedura civile espressione di principi generali, obbligo stabilito dalla legge delega per il riordino del processo amministrativo.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 18/2014, liquidò la questione come infondata[4].
La regola prevista dall’art. 291, comma 1, c.p.c., - si disse nell’occasione - non solo non sarebbe l’espressione di un principio generale, ma addirittura sarebbe incompatibile con la struttura del processo amministrativo. Incompatibilità che dipenderebbe dall’essere tale giudizio caratterizzato dalla perentorietà del breve termine per la sua introduzione, oltre che dall’assenza dell’istituto della contumacia. In detto giudizio, pertanto, vigerebbe un opposto principio per cui, ai fini della regolare instaurazione del rapporto processuale, il ricorso dovrebbe entro il prescritto termine di decadenza essere notificato ritualmente.
Una motivazione davvero infelice.
Basti pensare che nell’ordinamento processuale civile italiano sin dall’origine (e vale a dire nel combinato tra gli art. 145 e 190 del c.p.c. del 1865) la disciplina della rinnovazione che tragga causa dalla nullità della notificazione dell’atto introduttivo fu prevista prevalentemente proprio allo scopo di assicurare il c.d. effetto conservativo sul piano della decadenza e del termine perentorio ed oggi (con l’art. 291 c.p.c.) ha pressoché esclusivamente questo scopo. Aggiungasi che la disciplina della rinnovazione che tragga causa dalla nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, sin dalla sua origine come pure oggi, non è affatto in funzione del procedimento contumaciale.
Per avere una prova plastica di tali affermazioni sarebbe stato sufficiente ricordare che l’art. 291 c.p.c. si rende applicabile anche al procedimento per cassazione, che è impugnazione soggetta termine perentorio e che non conosce l’istituto della contumacia[5]. E analoghe considerazioni potrebbero farsi osservando che il precetto del processo civile è stato ritenuto applicabile anche al giudizio tributario[6].
Tutt’al più nel 2014 la Corte – se proprio si voleva arrivare a tutti i costi a quella soluzione – avrebbe semmai dovuto ricordare che l’elemento dell’imputabilità del vizio alla parte era nella mente di Pisanelli a motivo dell’introduzione della disciplina della rinnovazione della notifica nulla, onde evitare che sulla parte ricadessero le conseguenze fatali di errori imputabili all’usciere. E sebbene tale elemento sia stato bandito dall’interpretazione e applicazione delle norme processualcivilistiche di riferimento già nella pratica del codice del 1865 persino Chiovenda vi rimaneva affezionato[7].
Questo per dire che la natura di “principio generale” del processo della regola che vuole la rinnovazione della notifica nulla insensibile all’imputabilità del vizio (ovvero all’autoresponsabilità) – sebbene a torto - poteva forse anche essere indubbiata con una qualche raffinatezza di argomenti.
Ma non certo accampando presunte incompatibilità strutturali tra il processo amministrativo e l’art. 291 c.p.c. e meno che meno facendo leva sul termine decadenziale che domina nel primo.
Piuttosto occorre con onestà ammettere che le forti resistenze opposte dalla giurisprudenza amministrativa alla regola della rinnovazione processualcivilistica avevano ben altre radici.
Si trattava, infatti, di un altro di quei casi in cui la teorica dell’errore scusabile non è stata affatto utilizzata per lenire il rigore dei termini perentori, quanto per disconoscere l’operatività di meccanismi, originati dal processo civile, basati sull’efficacia impediente di un atto viziato ma tempestivo. Il tutto nel riflesso di una concezione graziosa (o principesca) della giurisdizione amministrativa, che fa tutt’uno con la consapevolezza, nemmeno tanto latente, che la declaratoria in rito di un ricorso è il miglior modo per assicurare l’inoppugnabilità del provvedimento, di modo che la sanatoria automatica degli errori processuali (che non sia cioè somministrata o meno a piacimento del giudice) andrebbe quanto più possibile bandita.
3. La Corte corregge oggi la rotta con la sentenza n. 148/2021
Fortunatamente la Corte è tornata sui suoi passi con la sentenza che in questa sede di segnala[8]. E ciò, va detto, soprattutto grazie al coraggio non scontato di un’ordinanza di rimessione della V Sezione del Consiglio di Stato che a pochi anni dalla pronuncia lapidaria del 2014 ha riproposto la questione di costituzionalità con un variegato ventaglio di argomentazioni.
Argomenti che in buona sostanza fanno capo a due gruppi. Dapprima, riprendendo anche le critiche prospettate dalla dottrina a carico della sentenza n. 18/2014, la V Sezione ha cercato di indurre la Corte ad un ripensamento e quindi a dichiarare la violazione dell’art. 76 Cost. sulla base della natura di principio generale del processo riconosciuta – in tesi – alla disciplina dell’art. 291 c.p.c. In via ulteriore la V Sezione ha prospettato la violazione degli artt. 3, 24 e 113 Cost. sotto il profilo della compressione ingiustificata e sproporzionata del diritto di azione, insita nella condizione apposta dal 4° comma dell’art. 44 c.p.a., e cioè nel far dipendere la rinnovazione dalla non imputabilità del vizio. In particolare secondo il Consiglio di Stato, la garanzia del diritto di azione di cui agli artt. 24 e 113 Cost. “implica la necessità di favorire la pronuncia di merito, scopo ultimo del processo, senza assecondare decisioni di rito che non siano in un rapporto ragionevole di proporzionalità con lo scopo perseguito”.
Ebbene per ragioni del tutto intuibili nella motivazione la Corte costituzionale ha respinto la prima prospettiva, affermando che non vi erano ragioni per discostarsi dalla decisione del 2014[9], ma ha invece fatto propria la seconda.
Pertanto l’inciso che subordina la rinnovazione della notifica nulla ad una valutazione dell’imputabilità del vizio al notificante è stato rimosso dal comma 4 dell’art. 44 c.p.a. che così, di fatto, si è allineato all’art. 291 c.p.c.
Ora qui in effetti non conta tanto chiedersi se sia davvero possibile addivenire ad una dichiarazione di incostituzionalità della previsione in questione basata sulla sua irragionevolezza senza al contempo implicitamente ammettere che l’art. 291 c.p.c. è a sua volta espressione di un principio generale del processo[10].
E’ molto più interessante segnalare che incanalandosi per quella via alternativa, la Corte ha finito necessariamente con l’esprimere alcune affermazioni assai più ricche di risvolti sistematici, ma al contempo tangendo questioni molto più delicate.
Secondo la Corte, infatti, l’esigenza di certezza presidiata dalla norma sulla decadenza[11] risulterebbe travalicata dal precetto che “fa discendere da un vizio esterno all’atto di esercizio dell’azione stessa la definitiva impossibilità di far valere nel giudizio la situazione sostanziale sottostante. L’effetto di impedimento della decadenza va, in definitiva, ricollegato all’esercizio dell’azione entro il termine perentorio, ma non può essere escluso dalla nullità della notificazione, non integrando quest’ultima un elemento costitutivo dell’atto che ne forma oggetto, bensì assolvendo ad una funzione, strumentale e servente, di conoscenza legale e di instaurazione del contraddittorio”. Sulla base di questo argomento la Corte conclude quindi nel senso che “la limitazione, posta dall’art. 44, comma 4, cod. proc. amm., della rinnovazione della notificazione del ricorso alle sole ipotesi in cui la nullità non sia imputabile al notificante non risulta proporzionata agli effetti che ne derivano, tanto più che essa non è posta a presidio di alcuno specifico interesse che non sia già tutelato dalla previsione del termine di decadenza”.
In verità in questo motivare la Corte riecheggia una tesi, assai diffusa anche in dottrina, e propensa a spiegare il peculiare trattamento della nullità ex art. 291 c.p.c. facendo leva sulla natura meramente strumentale del procedimento notificatorio, i cui vizi non debbono pregiudicare la piena validità dell’atto introduttivo[12]. In parole povere – si pensa – il vero atto impediente di esercizio dell’azione è la domanda al giudice e non anche la notificazione, preordinata solo a darne notizia[13].
Si tratta tuttavia di una tesi, certo condivisibile, ma che evoca un profilo molto (o troppo) scivoloso che – tra l’altro - indurrebbe ad affrontare il tema del ruolo della ricettizietà dell’atto differenziandolo tra decadenza e prescrizione[14].
In verità la conclusione della Corte può forse essere corroborata anche da argomenti di più facile accesso.
4. Breve divagazione sulla razionalità di un sistema che estromette l’indagine sulla scusabilità dell’errore dalla rinnovazione sanante la nullità della notificazione
Il primo di questi argomenti è il più semplice e al tempo stesso forse il più convincente.
Come la storia del processo civile ci insegna, un sistema che nel campo della nullità della notificazione riconosca un differente spettro di applicazione dell’effetto sanante, rispettivamente, alla convalidazione per costituzione ed alla dinamica della rinnovazione è irrazionale perché si presta ad indesiderabili distorsioni. In altre parole il costante parallelismo nella capacità sanante della convalidazione e della rinnovazione, tipico della disciplina del processo civile, ha una sua intima razionalità di fondo che risiede anche nell’esigenza di sottrarre i meccanismi di recupero del vizio ad un uso claudicante a seconda delle strategie del convenuto, per affidarli piuttosto a dati oggettivi.
Il legislatore del c.p.a. era addirittura riuscito nell’inaudito esito di consentire alla rinnovazione (nel caso di errore scusabile) un effetto sanante più ampio di quello riservato alla costituzione (che non avrebbe vinto i diritti anteriormente quesiti).
Risolta la cosa dalla sentenza n. 132/2018, da lì in avanti il disallineamento giocava nel senso di uno spettro di sanatoria più ampio riservato alla convalidazione per costituzione (ove la sanatoria opera anche se il vizio è imputabile al notificante) rispetto alla disciplina della rinnovazione.
Anche una disciplina siffatta – sebbene parzialmente corretta - rendeva però il convenuto arbitro delle sorti del processo consentendogli un calcolo opportunistico dei vantaggi che possono derivare dalla nullità. Pur nei casi in cui non vi è affatto ignoranza del processo da parte dell’intimato - e nelle più comuni nullità della notificazione di pratica ricorrenza nel rito amministrativo tale ignoranza non c’è -[15], di fronte ad un vizio di notifica evidente la PA sarebbe stata indotta ad evitare di costituirsi potendo tranquillamente confidare nella chiusura in rito del processo, a fortiori se le ragioni di merito siano tutte a vantaggio del ricorrente.
In effetti sarebbe forse sufficiente denunciare tale profilo per concludere nel senso dell’irrazionalità ingiustificabile di siffatta regolamentazione processuale, irrazionalità alla quale la Corte ha posto finalmente rimedio.
Volendosi poi addentrare su un terreno un poco più denso, è noto che le spiegazioni sulle ragioni di esonero della rinnovazione della notificazione nulla civile da valutazione legate all’imputabilità del vizio non sono mancate.
E a giudizio di chi scrive la più convincente prende ancora le mosse da uno spunto a suo tempo offerto da Ludovico Mortara che non si appagò di osservare – come pure avrebbe potuto - che nella disciplina positiva del codice del 1865 la distinzione basata sulla responsabilità della parte piuttosto che dell’usciere “era inventata di sana pianta”[16].
Volendo andare alla ricerca della ragione del peculiare trattamento salvifico riservato ai vizi della sola notificazione rispetto alla più severa sanzione dei vizi recati dalla citazione (id est compilazione del libello) Mortara in verità osservava che, se riguardato dal punto di vista processuale e dell’instaurazione del contraddittorio il vizio di notificazione (e non quello di citazione) avrebbe dovuto ricevere il trattamento più severo. Ma la prospettiva poteva razionalmente capovolgersi se il punto di vista eletto fosse invece stato quello di taluni altri effetti collegati alla proposizione della domanda, com’è appunto per l’impedimento della decadenza, il che accadeva proprio in grazia dell’allora art. 145 c.p.c. (ora 291 c.p.c.).
Le regole previste per la notificazione erano (e tuttora sono) infatti preordinate a fornire una presunzione che l’intimato venga a conoscenza dell’atto. Il vizio, risolvendosi in niente altro che in una diminuzione dell’idoneità della notificazione a fornire detta presunzione (e molto spesso contro la realtà stessa) poteva con buona ragione meritare un trattamento tale che dalla nullità non sortisca la perdita del diritto.
In altre parole la ragione che induce a far sì che il diritto minacciato dall’estinzione non sia irreparabilmente perso se la notificazione è nulla risiede in una sorta di retropensiero del legislatore. Ben vero che la conoscenza legale si ha solo rispettando la fattispecie astratta. Ma non è meno vero che la realtà molto spesso è contraria alla logica di questa presunzione nel preciso senso che la notifica effettuata difformemente può avere non minori probabilità di far giungere l’atto a conoscenza del destinatario.
Così inquadrati i tratti della questione, ben si comprende perché non abbia ragioni di spazio una distinzione fondata sull’imputabilità del vizio.
Del resto, volendo ricorrere a più moderne teorizzazioni è da notare che la notificazione affetta da nullità si differenzia all’inesistenza proprio perchè è comunque una manifestazione obiettiva di volontà dell’agente orientata allo scopo tipico della notificazione, dovendosi peraltro concepire la nullità – sul piano generale - non tanto come una sanzione che frustra l’aspirazione di chi agisce impropriamente, bensì come meccanismo di recupero oggettivo, nel senso della rilevanza processuale, dell’attività compita con mezzi inadeguati[17]. E anche da questo punto di vista ben si comprende che l’imputabilità o meno della nullità non dovrebbe avere alcun ruolo[18].
5. Dalla Corte un altro monito per un modo diverso di guardare al processo amministrativo
L’importanza della sentenza n 148/2021 va però ben al di là della pur rilevantissima questione della rinnovazione della notificazione viziata.
Chi legga questa sentenza con la mente rivolta alla famosissima sentenza n. 77/2007 sulla c.d. translatio iudicii non tarderà a scorgervi un evidente filo conduttore.
Un filo che in realtà si richiama al principio di conservazione dell’effetto impediente ed al “terribile” problema dei nessi tra c.d. impedimento della decadenza e azione esitante in rito.
Ovviamente non è questa la sede per tornare su un tema non ancora esplorato quanto meriterebbe[19].
Ci si può tuttavia almeno lasciare con una conclusione indotta da un approccio istintivo.
I giudici amministrativi – ma in verità non solo loro - sono abituati a pensare che vi sia un legame diretto tra azione dominata dalla decadenza e “regolamentazione” dell’inammissibilità (in senso ampio) del ricorso. Quasi che l’irreparabilità della violazione della regola processuale sia la connaturata e più logica conseguenza del fatto che il legislatore ha voluto assoggettare il potere di azione all’imperio della decadenza. Detto in parole più rozze molto spesso si è indotti a ritenere che le stesse esigenze di certezza presidiate dalla decadenza non decampino nel corso del processo tempestivamente instaurato e siano le medesime che impongono un trattamento severo degli errori processuali tendenzialmente immune da meccanismi sananti.
Ebbene la Corte costituzionale ci dice che le cose non stanno affatto così.
L’aspetto più interessante della sentenza n. 148/2021 risiede infatti nel dirci che la decadenza (e le esigenze che la fondano) è preordinata a fornire esclusivamente la risposta del sistema a colui che rimanendo inerte non abbia esercitato l’azione nel termine, mentre è vanamente interrogata quando si è esercitata per tempo un’azione ancorché poi non già idonea ad esitare in una sentenza di merito. A fronte di questa seconda e ben diversa situazione, stando alle parole della Corte, quelle esigenze sembrano debbano sparire dalla scena, che è destinata ad essere occupata ed orientata allora da altri valori di rango costituzionale cui la disciplina del processo deve necessariamente adattarsi.
E questi valori – sempre stando alle parole della Corte – rimontano in buona sostanza a due ordini di considerazioni.
Il processo deve tendere per quanto più possibile ad una sentenza che affronti il merito.
L’esigenza di preservare gli effetti sostanziali della domanda non può essere sacrificata in modo irragionevole e sproporzionato.
Ora per rendersi conto della portata potenzialmente rivoluzionaria dell’impatto di questa sentenza sul processo amministrativo, basterebbe attenersi ad una constatazione.
La Corte – di fatto - ci dice che in presenza di un’azione minacciata da decadenza una disciplina che non consenta la sanatoria della nullità della notifica determina un sacrificio irragionevole e sproporzionato della situazione soggettiva azionata.
Ebbene, il fatto che storicamente le più importanti manifestazioni dell’effetto conservativo della domanda si siano materializzate proprio nei due campi dell’errore nell’imploratio iudicis e della notifica viziata, non può certo indurci solo ad un senso di beatitudine pensando che prima con la sentenza n. 77/2007, e oggi con la sentenza n. 148/2021, la Corte costituzionale ha finalmente chiuso il cerchio, restituendo al processo amministrativo un’eleganza troppo a lungo negata.
Una volta tirato in ballo il giudice delle leggi queste sue affermazioni cessano infatti di essere così anodine perché obbligano l’interprete che le voglia prendere sul serio ad andare oltre. Ad ispezionare, cioè, la gran messe di figure di inammissibilità/improcedibilità e comunque declaratorie in rito presenti nel processo amministrativo, molte delle quali, per giunta, di matrice squisitamente giurisprudenziale, per chiedersi appunto se superino quel test di ragionevolezza e proporzionalità.
Ora il fatto che questo test non sia stato superato da una norma che limitava la possibilità di rinnovare la notifica argomentando dal fatto che “L’effetto di impedimento della decadenza va, in definitiva, ricollegato all’esercizio dell’azione entro il termine perentorio” rende il senso, per chi lo voglia cogliere, di una possibile rivoluzione alle porte.
[1] Per un commento ragionato all’originaria disciplina dei commi 3 e 4 dell’art. 44 c.p.a., cfr. R. Villata – L. Bertonazzi, Commento sub art. 44, in A. Quaranta – V. Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo. Commentario al D.lgs. 104/2010, Milano 2011, 445 ss.
[2] S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1959-1962, II, 1, 34: “una sanatoria ex nunc non è affatto una sanatoria, ma anzi presuppone la nullità”.
[3] Su questa sentenza, cfr. F. G. Scoca, Processo amministrativo e principio del raggiungimento dello scopo, in Giur. cost., 2018, 1395; M. A. Sandulli – F. Aperio Bella, Nullità della notifica e costituzione sanante, in Libro dell’anno del diritto 2019, Treccani, pp. 652-659; I. Rossetti, L’inizio di una reductio ad unitatem? cadono i diritti acquisiti prima della comparizione dell’intimato nell’ipotesi di nullità della notificazione, in Dir. proc. amm., 2019, 930.
[4] Per un commento alla sentenza n. 18/2014 ci si permette di rinviare a A. Squazzoni, Sulla supposta incompatibilità tra struttura del processo amministrativo e obbligo di disporre la rinnovazione della notificazione del ricorso affetta da nullità, in Dir. proc. amm., 2014, 1301 ss., ove si è cercato di ricostruire il tema anche in dimensione storica.
[5] Cass, Sez. I, ord. 5 aprile 2019, n. 9693; Cass., sez. V, 27 settembre 2011, n. 19702; Cass., sez. III, 27 aprile 2011, n. 9411; Cass., sez. un., ord. 29 aprile 2008, n. 10817; Cass., sez un., 29 ottobre 2007, n. 22642.
[6] Cass., sez. VI, ord. 6 giugno 2014, n. 12855; Cass., sez. V, 28 luglio 2011, n. 16572; Cass., sez. V, 2 agosto 2000, n. 10136. In dottrina, A. Finocchiaro – M. Finocchiaro, Commentario al nuovo contenzioso tributario, Milano, 1996, 481 ss. in part. 483; A. M. Socci – P. Sandulli, Manuale del nuovo processo tributario, Bologna, 1997, 134; M. Bruzzone, Notificazioni e comunicazioni degli atti tributari, Padova, 2006, 225 ss.
[7] G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1923, 648.
[8] Per un approfondito commento della sentenza n. 148/2021, cfr. già C. Delle Donne, L’incostituzionalità dell’art 44, c. 4 cpa nella parte in cui subordina la rinnovazione della notifica nulla, in assenza di costituzione del destinatario, all’errore scusabile: arretra la rimessione in termini e avanza la rinnovazione ex art. 291, c. 1 cpc, in Judicium.it.
[9] Parla di sbrigativa conferma di un “precedente imbarazzante” di cui però nella sostanza non rimarrebbe più nulla, C. Delle Donne, op. cit.
[10] Questo profilo è trattato in C. Delle Donne, op.cit., che giustamente rileva come la tecnica dell’art. 291 c.p.c. alla fine si sia imposta perché risponde ad un principio generale.
[11] Sulla funzione della decadenza nel processo amministrativo, non vi è che da rinviare a A. Marra, Il termine di decadenza nel processo amministrativo, Milano, 2012.
[12] In arg. B. Ciaccia Cavallari, La rinnovazione nel processo di cognizione, Milano, 1981, 342 ss.; A. Frassinetti, La notificazione nel processo civile, Milano, 2012, 189-190.
[13] Secondo cioè una logica di fondo già propria di F. Carnelutti, Notificazione della citazione di appello da parte di ufficiale giudiziario incompetente, in Riv. dir. proc., 1934, II, 114-115, ove la ratio dell’art. 145 cpv. c.p.c. del 1865 veniva fondata sul fatto che la parte ha manifestato la volontà di proporre una domanda al giudice, e poiché la decadenza (come pure la prescrizione) vuol colpire l’inerzia della parte la legge dà modo di evitarla quando una vera inerzia non vi è stata.
[14] Per non parlare poi del fatto che la questione si intreccia con la risalente tematica delle note di struttura del processo amministrativo “da ricorso”, con tutta la connessa problematica del ruolo rivestito in siffatto modello dalla vocatio iudicis. Su tale tradizionale tematica, cfr. le recenti riflessioni di M. Ramajoli, L’atto introduttivo del giudizio amministrativo tra forma e contenuto, in Dir. proc. amm., 2019, 1051 ss.
[15] Basti pensare al frequente caso della notifica diretta alla sede reale delle amministrazioni statali anziché all’avvocatura, per non parlare delle più recenti vicende legate al domicilio pec delle PPAA.
[16] L. Mortara, (già in) Appello civile (voce), Digesto italiano, Torino, 1890, III, 2, nn. 1190 e ss., pp. 854 ss. Il tema è poi ripreso dallo stesso Mortara in Commentario del Codice e delle leggi di procedura Civile, Milano, s.d., vol. II, 817 ss. e vol. III, 267 ss.
[17] In arg. F. Auletta, Nullità e «inesistenza» degli atti processuali civili, Padova, 1999, 129 ss.
[18] Diligenza della parte che invece torna ovviamente a reclamare il suo giusto ruolo nei casi in cui il rimedio alla condotta erronea non possa che essere riscontrato dalla tecnica dell’errore scusabile, come avviene nel caso di notifica oggettivamente e materialmente tardiva o addirittura inesistente.
[19] Per un tentativo di avviarlo ad indagine, A. Squazzoni, Declinatoria di giurisdizione ed effetto conservativo del termine, Milano, 2013.
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