ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I programmi di scambio internazionali tra le Autorità Giudiziarie
di Marco Alma
Sommario: 1. I principi regolatori - 2. La Rete Europea di Formazione Giudiziaria - 3. I programmi di scambio - 3.1. Gli scambi di breve durata - 3.2. Gli scambi di lunga durata - 3.3. Le visite di studio - 4. Il ruolo del CSM e della Scuola Superiore della Magistratura nelle procedure di assegnazione dei magistrati ai programmi di scambio - 4.1. Lo status dei magistrati che partecipano ai programmi di scambio - 4.2. La selezione dei partecipanti agli stage e l’esonero dal lavoro giudiziario - 5. Alcune considerazioni.
1. I principi regolatori
L’articolo 81, paragrafo 2, lettera h), del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), firmato dai 27 paesi dell'UE il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009 prevede che “L’Unione sviluppa una cooperazione giudiziaria nelle materie civili con implicazioni transnazionali, fondata sul principio di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali. (...) 2. Ai fini del paragrafo 1, il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, adottano, in particolare se necessario al buon funzionamento del mercato interno, misure volte a garantire: (...) h) un sostegno alla formazione dei magistrati e degli operatori giudiziari.”.
Allo stesso modo l’art. 82, paragrafo 1, lettera c) del medesimo Trattato prevede che “La cooperazione giudiziaria in materia penale nell’Unione è fondata sul principio di riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e include il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nei settori di cui al paragrafo 2 e all’articolo 83. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, adottano le misure intese a: (...) c) sostenere la formazione dei magistrati e degli operatori giudiziari”.
2. La Rete Europea di Formazione Giudiziaria
Già prima della sottoscrizione del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea nell’anno 2000, era però stata costituita la Rete Europea di Formazione Giudiziaria (REFG) – in inglese European Judicial Training Network (EJTN) – avente lo scopo di contribuire a promuovere una comune cultura giuridica e giudiziaria europea.
Nel 2005, poi, su iniziativa del Parlamento europeo era stato varato il primo programma di scambio tra le autorità giudiziarie.
Attualmente la REFG rappresenta gli interessi relativi alla formazione di oltre 120.000 giudici, pubblici ministeri, formatori giudiziari e personale giudiziario di Paesi dell’Unione Europea.
In particolare, la REFG dal 2000 ad oggi ha continuato e continuerà anche nel futuro a sviluppare programmi di formazione contenenti le attività volte alla promozione della comprensione dei sistemi giudiziari degli Stati Membri; della mutua comprensione degli strumenti di cooperazione giudiziaria; delle conoscenze linguistiche; dell’elaborazione di strumenti di formazione comuni, dell’approfondimento delle conoscenze nel settore giudiziario.
Più nello specifico, rientrano nell’oggetto della REFG:
a) la cooperazione in materia di analisi e identificazione dei bisogni in termini di formazione, elaborazione di programmi e di metodologie per attività formative comuni;
b) la promozione del confronto e dello scambio di conoscenze in merito ai sistemi giudiziari;
c) lo scambio e la divulgazione delle esperienze nel campo della formazione in ambito giudiziario;
d) il coordinamento dei programmi e delle attività degli Stati Membri, con particolare riguardo alle iniziative dell’Unione Europea;
e) la fornitura del know-how e delle proprie conoscenze alle istituzioni europee, nazionali ed internazionali.
Deve, poi, essere doverosamente ricordato che l’Unione Europea non solo promuove le predette iniziative di scambio ma ne garantisce la effettiva realizzazione attraverso un importante supporto finanziario, coprendo, attraverso la REFG, le spese di viaggio e di soggiorno dei partecipanti mediante il pagamento di una diaria o, se del caso, rimborsando le spese sostenute sulla base dei costi effettivi.
3. I programmi di scambio
Al fine, come detto, di favorire lo sviluppo di una cultura giuridica e giudiziaria europea comune e di promuovere la conoscenza dei sistemi giuridici e, pertanto, la comprensione, la fiducia e la cooperazione tra i magistrati degli Stati membri dell'UE, nel corso degli anni, è aumentata la possibilità di scambi tra le autorità giudiziarie europee ed annualmente la REFG organizza programmi di scambio di breve durata nell'ambito degli organi giurisdizionali degli Stati membri dell'UE (da 1 a 2 settimane) e periodi di formazione di lunga durata (da 3 a 12 mesi) presso la Corte di giustizia dell'Unione europea, la Corte europea dei diritti umani ed Eurojust.
3.1. Gli scambi di breve durata
Quanto agli scambi di breve durata negli Stati membri dell'UE gli stessi consistono in:
a) Scambi generici: gli stessi vengono organizzati individualmente o in gruppi di giudici e pubblici ministeri di diversi Stati membri dell'UE e sono finalizzati a consentire ai partecipanti di ricevere informazioni sul sistema giudiziario del Paese ospitante, di assistere alle udienze e di scambiare idee e informazioni con i colleghi che operano in loco;
b) Scambi specialistici: gli stessi, in genere della medesima durata degli scambi generici e programmati nel numero di oltre 15 ogni anno, sono finalizzati a consentire ai magistrati di ampliare le proprie competenze in specifici settori del diritto recandosi presso gli uffici giudiziari di altro Stato dell'UE.
c) Scambi bilaterali: gli stessi, normante di durata di una settimana, sono attivati dai magistrati di propria iniziativa e consistono nel fatto che gruppi di giudici o pubblici ministeri dello stesso tribunale o procura si recano in un ufficio giudiziario di altro Stato membro dell'UE al fine di scambiare esperienze e best practices su temi specifici di comune interesse;
d) Scambi tra i dirigenti di uffici giudiziari: trattasi di attività progettate per Presidenti di Tribunali o di Corti e Procuratori della Repubblica, volte a consentire dibattiti e scambi di esperienze in materie quali la leadership e la gestione delle risorse umane, la comunicazione e le relazioni con i media, la gestione finanziaria e informatica degli uffici;
e) Scambi tra formatori: trattasi di attività nelle quali i judicial trainers possono raccogliere notizie sulle metodologie, sugli strumenti pedagogici e sulla programmazione delle attività di formazione del Paese ospitante, nonché hanno la possibilità di confrontarsi con i colleghi stranieri sulle best practices in materia di formazione professionale dei magistrati (giudici e pubblici ministeri) negli Stati membri dell'UE.
Tra le attività di scambio di breve durata in materia di formazione dei magistrati rientra poi un programma specifico denominato AIAKOS rivolto a giudici e pubblici ministeri in fase di tirocinio iniziale (in alcuni Stati prima ancora di essere nominati) oppure ad inizio carriera. Il programma, in genere di durata settimanale, offre ai partecipanti l'opportunità di apprendere il funzionamento di altri sistemi giudiziari e le metodologie formative, consentendo anche di approfondire la conoscenza del diritto dell'UE e degli strumenti di cooperazione giudiziaria, nonché di sviluppare utili contatti con altri giovani colleghi.
3.2. Gli scambi di lunga durata
Quanto agli scambi di lunga durata gli stessi (come detto di durata da 3 a 12 mesi) consistono in stages presso organizzazioni europee e internazionali.
La durata di ogni stage varia a seconda dell'istituzione ospitante ed è stabilita da quest'ultima.
Si tratta di periodi di formazione offerti su base individuale e che si svolgono presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE), la Corte EDU od Eurojust.
Tali tipi di scambi consentono ai partecipanti di cooperare materialmente nelle attività delle istituzioni ospitanti in modo tale da comprenderne appieno i principi e le procedure che ne regolano il funzionamento.
3.3. Le visite di studio
Sempre nell’ambito delle attività di scambio devono, infine, farsi rientrare a pieno titolo anche le visite di studio organizzate per gruppi di partecipanti di diverse nazionalità presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CJEU), la Corte Europea dei diritti dell’Uomo (ECtHR), Eurojust, le Istituzioni Europee a Bruxelles, l’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali (FRA) e la The Hague Conference on Private International Law (HCCH) che consentono ai partecipanti di apprendere nozioni sul funzionamento e sulle procedure delle istituzioni ospitanti.
4. Il ruolo del CSM e della Scuola Superiore della Magistratura nelle procedure di assegnazione dei magistrati ai programmi di scambio
Il Consiglio Superiore della Magistratura e la Scuola della Magistratura sono membri permanenti della Rete Europea di Formazione Giudiziaria e pertanto cooperano con essa nella concreta realizzazione dei predetti programmi di scambio, sia ospitando magistrati stranieri presso i propri uffici, sia ospitando presso le proprie sedi corsi di formazione organizzati dalla REFG, sia, infine, attivando le procedure di selezione dei magistrati che hanno richiesto di prendere parte alle attività di formazione all’estero ed ai programmi di scambio.
La Scuola Superiore della Magistratura ha, inoltre, compiti propositivi nelle predette attività essendo anche componente eletto del Comitato di pilotaggio della Rete e membro di tutti i gruppi di lavoro (linguistico, civile, penale, metodologie, diritti fondamentali, programmi di scambio).
Sulla premessa, che l’”aggiornamento professionale” costituisce elemento imprescindibile per la valutazione della professionalità del magistrato, e come tale previsto dall’art. 11 del D.Lgs. n.160/2006, sia per la valutazione del parametro della capacità, per il quale rileva anche “il grado di aggiornamento professionale” (lett. a), sia del parametro dell’impegno, per il quale rileva anche la “frequenza ai corsi di aggiornamento” (lett. e) e che quindi la formazione professionale costituisce un compito essenziale del magistrato, il CSM ha però dovuto varare una disciplina ad hoc riguardante sia le modalità di partecipazione del Consiglio alla fase di selezione dei partecipanti agli stage di lunga durata organizzati nell’ambito della Rete Europea di Formazione Giudiziaria (REFG), sia la conseguente procedura di autorizzazione all’esonero dal lavoro giudiziario dei magistrati ammessi a partecipare a tali periodi di formazione, il tutto previo chiarimento in ordine allo status giuridico dei magistrati che partecipano a tali stage.
Al riguardo, all’esito delle riunioni di un tavolo tecnico istituito tra il Consiglio superiore della magistratura (Sesta e Nona Commissione) e la Scuola superiore della magistratura (SSM), il CSM, con delibera in data 5 maggio 2022 ha approvato un apposito documento intitolato “Disciplina delle modalità attraverso le quali concedere l’esonero durante gli stage di lunga durata organizzati nell’ambito della Rete Europea di Formazione Giudiziaria”.
4.1. Lo status dei magistrati che partecipano ai programmi di scambio
Con riguardo allo status dei magistrati selezionati per gli stage, sulla premessa già sopra evidenziata, che gli stessi non sono retribuiti dall’Unione Europea o dalla REFG, ma ricevono esclusivamente un “per diem” che non costituisce una forma di salario ma che solo consente loro di sostenere le spese di vitto e alloggio durante la permanenza all’estero, il CSM ha ritenuto che il periodo di partecipazione a tali attività presso istituzioni estere si configura come un compito istituzionale del magistrato e, quanto alla posizione di quest’ultimo, come una delle prestazioni tipiche da svolgersi nell’ambito del rapporto di lavoro.
Con la partecipazione allo stage, del resto, al magistrato non viene conferito alcun incarico, lo stesso non stipula contratti di lavoro con le istituzioni internazionali e non riceve alcuna retribuzione da parte di un ente diverso dallo Stato italiano.
4.2. La selezione dei partecipanti agli stage e l’esonero dal lavoro giudiziario
Poiché i magistrati italiani che partecipano all’estero ai programmi di scambio di lunga durata presso organismi internazionali non possono, all’evidenza, continuare a lavorare in detto arco temporale presso gli uffici di appartenenza, ciò rende necessario che detta partecipazione sia oggetto di un previo provvedimento autorizzativo del CSM e del contestuale esonero dal lavoro giudiziario.
In tale prospettiva il CSM sottolineato la necessità della previsione di momenti di interlocuzione con il Consiglio stesso, da parte delle istituzioni che selezionano i magistrati per queste attività ed ha, altresì, ritenuto la necessità di introdurre con la menzionata circolare una disciplina specifica in materia che tenga conto della durata dell’esonero, che preveda l’introduzione di un meccanismo selettivo della valutazione di condizioni ostative di carattere soggettivo (mutuate da quelle previste dalla circolare in materia di incarichi extragiudiziari) o di carattere oggettivo, relative alla considerazione del disagio che la prolungata assenza del magistrato produce sull’ufficio di provenienza.
Il meccanismo di selezione dei magistrati passa quindi attraverso diverse fasi espressamente regolamentate.
Innanzitutto, la Scuola Superiore della Magistratura, nell'ambito delle competenze in tema di formazione internazionale dei magistrati ad essa conferite dall'articolo 2 del d.Lgs. 30 gennaio 2006, n. 26, deve provvedere a disporre annualmente la pubblicazione di un bando per la selezione dei candidati agli stage di lunga durata sulla base dei criteri stabiliti dalla REFG.
I criteri di selezione per gli stage di lungo termine, in genere legati a requisiti di anzianità e di esperienza oltre che di adeguate conoscenze linguistiche, sono infatti annualmente definiti dalla stessa REFG.
Salvi i requisiti previsti dalla REFG per ogni singolo stage, il CSM ha poi stabilito che possono presentare la propria candidatura i magistrati che abbiano maturato almeno la prima valutazione di professionalità alla data del termine fissato per la presentazione delle dichiarazioni di disponibilità, salvo il necessario conseguimento della predetta valutazione di professionalità al momento della nomina. Mentre gli aspiranti che abbiano maturato, ma non conseguito, la prima valutazione di professionalità potranno richiedere al Consiglio Superiore della Magistratura la trattazione anticipata della relativa pratica contestualmente alla dichiarazione di disponibilità.
Chi è intenzionato a presentare la propria candidatura è tenuto, poi, ad informare preventivamente per iscritto il dirigente dell’ufficio giudiziario di appartenenza ed a richiedere allo stesso la formulazione del relativo parere.
Il dirigente dell’Ufficio giudiziario di appartenenza del candidato dovrà quindi trasmettere detto parere al Consiglio Superiore della Magistratura, entro dieci giorni dalla richiesta, curando di indicare:
- eventuali impedimenti di natura organizzativa, specificamente dettagliati;
- se il magistrato, alla data del bando, sia impegnato nella trattazione di procedimenti, processi o affari tali che il suo allontanamento, tenuto conto del periodo di svolgimento dello stage, possa nuocere gravemente agli stessi;
- se nell’anno che precede la data del bando siano maturati ritardi nel deposito dei provvedimenti o comunque nel compimento di attività giudiziarie (allegando un eventuale prospetto dei ritardi, indicativo di numero e durata degli stessi).
Allo stesso tempo, la Scuola Superiore della Magistratura, ricevute le candidature, le trasmette immediatamente e comunque entro 5 giorni dalla loro ricezione al CSM, per consentire l’attiva partecipazione del Consiglio nella fase di preselezione dei candidati.
Il Consiglio, acquisite le candidature ed i pareri dei dirigenti degli uffici giudiziari, entro 15 giorni dalla ricezione - e comunque in tempo utile per la trasmissione delle candidature alla REFG - comunica alla SSM eventuali impedimenti di natura soggettiva o derivanti da esigenze di servizio o organizzative, esponendone le ragioni.
Tra gli impedimenti di natura soggettiva, la menzionata circolare del CSM, analogamente a quanto disposto dall’articolo 10 della circolare in materia di incarichi extragiudiziari menziona espressamente:
a) la pendenza di un procedimento penale a seguito di iscrizione nominativa nel registro degli indagati;
b) la pendenza di procedimenti disciplinari nell’ambito dei quali sia stata avanzata richiesta di fissazione dell’udienza di discussione;
c) l’inizio – disposto con l’invio della relativa comunicazione all’interessato - della procedura di trasferimento d’ufficio nel caso previsto dalla seconda parte del primo capoverso dell'art 2 del regio decreto n. 511 del 31 maggio 1946, ovvero l’intervenuta delibera di trasferimento ai sensi di tale normativa;
Sono ritenuti altresì ostativi alla designazione i casi previsti dall’articolo 10 punti 2 (sottoposizione dell’interessato alle misure della custodia cautelare in carcere, arresti domiciliari e/o della sospensione dalle funzioni e dallo stipendio), 3 (condanna dell’interessato con sentenza definitiva per delitto non colposo negli ultimi 10 anni, oppure magistrato sanzionato disciplinarmente negli ultimi cinque anni computati a decorrere dalla sentenza definitiva e/o trasferito d’ufficio in via cautelare negli ultimi 3 anni computati a decorrere dalla data di pronuncia ditale provvedimento cautelare) e 4 (quando la condanna per delitto non colposo o la condanna disciplinare, per la gravità del fatto o per la relazione tra il fatto e la natura dell’incarico, possono pregiudicare per ciò solo la credibilità del magistrato o il prestigio dell’ordine giudiziario) della Circolare in materia di incarichi giudiziari, con le eccezioni ivi previste.
Non devono, poi, sussistere anche impedimenti di natura oggettiva in relazione alle esigenze di servizio ed organizzative dell’Ufficio giudiziario in cui il magistrato presta
servizio, anche tenuto conto del parere del Dirigente dell’Ufficio.
In particolare, sono da ritenersi impedimenti derivanti da esigenze di servizio:
- l’eventuale sussistenza, nell’anno antecedente alla data dell’interpello, di ritardi nel deposito dei provvedimenti, che siano significativi per durata o per numero, la cui sussistenza dovrà essere verificata sulla base del parere rilasciato dal dirigente dell’ufficio;
- il fatto che il magistrato, alla data della richiesta, sia impegnato nella trattazione di procedimenti, processi o affari di particolare complessità tali che, anche tenuto conto della fase di avanzata trattazione dei procedimenti e tenuto conto del periodo in cui lo stage avrà luogo e della durata dello stesso, possa ritenersi che l’allontanamento del magistrato potrebbe nuocere gravemente agli stessi.
È, infine, considerato impedimento di natura organizzativa, tenuto conto del periodo in cui lo stage avrà luogo e della durata dello stesso, ed in ogni caso nell’ipotesi di stage di durata superiore ai sei mesi, la provenienza da una sede di servizio che presenti un indice di scopertura dell’organico superiore al 20%; per sede di servizio si intende l’ufficio giudicante o requirente cui il magistrato è assegnato, rimanendo irrilevanti eventuali destinazioni in applicazione distrettuale o extradistrettuale. L’indice di scopertura è computato sull’organico, compresi i posti semidirettivi, tenendo conto anche delle assenze per aspettativa o per congedo straordinario, ovvero le ipotesi di esonero totale dal lavoro. Gli eventuali esoneri parziali sono computati pro quota.
Solo all’esito del vaglio da parte del CSM la Scuola Superiore della Magistratura potrà comunicare alla Rete Europea di Formazione Giudiziaria “l’elenco dei candidati proposti per lo stage di lungo termine”, tra i quali potranno essere selezionati i partecipanti da parte dell’istituzione ospitante.
L’ammissione al tirocinio di magistrati italiani è comunque eventuale, essendo rimessa la decisione finale sull’ammissione esclusivamente alle autorità ospitanti.
Una volta ricevuta la comunicazione dell’ammissione, il CSM disporrà l’esonero dal lavoro giudiziario del magistrato ammesso al programma di scambio di lunga durata.
Si è, altresì, contemplata la possibilità che, in una fase post selettiva, il Consiglio accerti la sopravvenienza di impedimenti ostativi di “particolare gravità” che implicano l’immediata comunicazione alla REFG per le conseguenti determinazioni.
Infine, il magistrato che ha partecipato ad uno degli stage di lunga durata sarà tenuto a redigere, alla scadenza del primo semestre se si tratta di stage annuale, e comunque nel termine di 30 giorni dalla cessazione dello stage, una relazione descrittiva delle attività svolte.
5. Alcune considerazioni
Si evince da quanto sopra esposto una comprensibile tensione nel rapporto tra le fondamentali quanto imprescindibili esigenze formative dei magistrati anche in campo internazionale e le esigenze operative degli uffici giudiziari che indubbiamente sono chiamati ad ulteriori sforzi lavorativi qualora uno dei loro componenti debba allontanarsi per mesi dal posto di lavoro.
E’ il CSM – e non potrebbe essere altrimenti - che è chiamato a rivestire il difficile ruolo di bilanciamento tra l’esigenza di una giustizia rapida ed efficiente che può trovare ostacoli nell’allontanamento temporaneo di magistrati dalle ordinarie attività lavorative e quella di avere magistrati professionalmente e culturalmente preparati anche in campo internazionale, destinati ad elevare la qualità (e talvolta anche a velocizzare la tempistica) di alcune attività giudiziarie.
Un delicato ruolo in materia è poi anche rivestito dai dirigenti degli uffici giudiziari che, come visto, con i loro pareri possono di fatto bloccare l’ammissione dei magistrati ai programmi di scambio. Talvolta può incidere nella formulazione dei pareri anche un approccio culturale di segno negativo verso l’attività di formazione, da taluni vista come secondaria rispetto alle esigenze di produttività giudiziaria che certi uffici sono da sempre chiamate a perseguire.
Vi è poi un altro aspetto che deve essere segnalato che è quello relativo alla impossibilità di ammettere ai programmi di scambio i magistrati provenienti da una sede di servizio che presenti un indice di scopertura dell’organico superiore al 20%.
Se anche in questo caso le ragioni di tale previsione regolamentare sono facilmente comprensibili tuttavia le stesse finiscono inevitabilmente per porsi in contrasto con le possibilità formative che dovrebbero spettare in misura eguale a tutti i magistrati senza danneggiare coloro che – di certo per fattori da loro non dipendenti – si trovano ad operare in uffici (spesso di piccole dimensioni o collocati in particolari aree del Paese) caratterizzati da una scopertura di organico superiore al 20%.
Resta solo da ricordare che è oramai obsoleta la figura del magistrato chiamato ad occuparsi di vicende esclusivamente legate a ristretti ambiti territoriali.
L’evoluzione sociale, commerciale ma anche quella criminale, portano sempre più i magistrati a confrontarsi con una casistica giudiziaria, sia nel settore civile che in quello penale, che travalica i confini nazionali.
I problemi di cooperazione internazionale devono oggi essere affrontati dai magistrati con un approccio moderno da operatori “europei” della giustizia – diremmo con una “mentalità europea” - che si muove tra convenzioni e decisioni delle Corti Europee all’interno di un comune spazio di libertà, sicurezza e giustizia richiamato dal titolo V del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea.
Il tutto non può che passare attraverso una attività di formazione in campo internazionale destinata alla diffusione ed all’apprendimento di regole e di modus operandi che non può prescindere dalla conoscenza delle Istituzioni europee e del loro funzionamento. Una conoscenza implementabile solo mediante la partecipazione a specifici stage e programmi di scambio da realizzarsi in loco.
La partecipazione ai programmi di scambio internazionali tra i magistrati è quindi oggi una parte imprescindibile della formazione professionale e non si può che auspicare che la stessa sia vieppiù implementata.
Focus sui programmi di scambio internazionale tra magistrati appartenenti all’Unione Europea - Editoriale
La partecipazione di magistrati italiani a esperienze di formazione presso tribunali di altri Stati dell’Unione Europea è una delle conseguenze più importanti e visibili della progressiva integrazione dei sistemi giuridici degli appartenenti alla stessa.
Negli ultimi anni si è assistito ad un aumento esponenziale dei programmi di scambio di vario tipo, sicché oggi, soprattutto tra le nuove generazioni di magistrati, questo tipo di esperienza è divenuta piuttosto comune e fa parte del bagaglio diffuso della formazione tipo.
La nostra Rivista ha pensato di dedicare a questo fenomeno in continua espansione un focus: dopo l’articolo introduttivo odierno in cui Marco Alma, componente del Comitato Direttivo della Scuola Superiore della Magistratura, illustrerà il funzionamento dei vari tipi di programmi di scambio, seguiranno nei prossimi giorni alcune testimonianze di giovani magistrati che hanno partecipato a diverse tipologie di programmi di scambio.
Intendiamo in questo modo contribuire alla divulgazione di questo importante istituto e fornire una riflessione ad opera di chi vissuto questa esperienza in prima persona.
Brasilia, luogo dell’anima, sogno della Democrazia
di Paolo Spaziani
Aeroplano suadente, Uccello in volo, Rapace che si compiace della sua potenza: il sogno di Niemeyer e di Costa si mostra così a chi arriva in aereo.
Compare anzitutto la coda, poi la lunga fusoliera scura, formata dagli edifici governativi, ordinati e diligenti; quindi le ali, che si allargano sui due lati, quasi a turbare il verde del Parque Nacional.
Quando inizia la manovra di atterraggio, il viaggiatore ha la sensazione di planare su una di esse, ma prima che l’aereo scenda di quota, scorge il blu intenso delle acque del Lago do Paranoà, oltre i due settori delle ambasciate e il Congresso Nazionale e, alla fine della Estrada de Turismo, gli sembra di vedere il capo fiero dell’aquila compiacente.
Vi è, al centro del Brasile, un altopiano ove da solo viveva il Silenzio.
Lontano dagli inferni del Mato Grosso e di Amazonas come dai paradisi di Rio e di Bahia.
Non è esatto dire che fosse un luogo disabitato perché tanti luoghi lo sono in Brasile.
Più esatto è dire che era un luogo che non esiste, una discontinuità, un non-luogo.
Ancora più esatto è dire che era un altro-luogo. Una enclave di un altro universo, lo specchio di un’altra dimensione, un luogo dell’anima.
Da esso sgorgavano tre sorgenti.
La prima dava vita al Tocantins (in lingua Tupi vuol dire “Becco del Tucano”), che tra foreste di macchia, piantagioni di soia e praterie verdeggianti, avrebbe raggiunto l’Atlantico a Marajó, quasi sfiorandolo, ma non confondendosi, col maestoso delta dell’Amazonas.
La seconda formava il São Francisco che avrebbe risalito il Nordeste, innamorandosi di Bahia, pur restandone distante, e a Canindé avrebbe creato il canyon naturale più bello del mondo, con arenarie verdi e rosa deterse dal blu cobalto delle sue acque.
La terza, questa verso sud, avrebbe aperto, con il Paranà, la porta del Pantanal misterioso, il regno di sua maestà il Giaguaro (la onça dei Guarani), capace di divorare la Luna, che tornerà, però, più luminosa, sorretta dalle ali indaco degli Ara Giacinto.
Il presidente Kubitschek decise che il luogo dell’anima tra le tre sorgenti non poteva restare in silenzio, essendo il centro del Paese.
Non diventò un luogo, restò un non-luogo, ma il genio di Costa gli tolse il silenzio sostituendolo con le persone, mentre quello di Niemeyer lo riempì di cose ordinate.
Diversamente da qualsiasi altro turista, non raggiunsi questo non-luogo in aereo ma in autobus, respirando la terra rossa della strada del Nordeste.
Provenivo da Aracaju, capitale dello Stato del Sergipe, ove avevo alloggiato in un Hotel a quattro stelle, per concedermi un po’ di relax dopo alcune notti insonni e un viaggio movimentato di rientro a Bahia.
Ma, invece di proseguire per Salvador, avevo approfittato di un passaggio per Canindé, porta del Monumento Natural do Rio Sao Francisco.
A Canindé avevo risalito il Velho Chico sino alle cascate di Paulo Afonso. Lungo il monumento naturale, si transita con piccole imbarcazioni tra budelli di roccia e acque quiete e pulite. Caverne di piscine smeraldo si alternano a spiagge di sabbia chiara ove si trova il comfort di qualche pousada.
In una di queste, poco prima della Cachoeira de Paulo Afonso, un camionista che trasportava legname a Feira de Santana mi aveva offerto un passaggio sulla BR 110. Avevo quindi proseguito in autobus, dapprima verso ovest, sino a Barreiras; quindi a sud, verso il Goiás.
Scorsi l’arco luminoso della capitale del Brasile, dopo avere superato il crinale trapuntato di eucalipti nei pressi della vecchia città di Planaltina.
Dall’alta Torre della Televisione, posta all’inizio dell’Asse Monumentale, non si apprezzava la forma di aeroplano o di uccello rapace, ma l’armoniosa struttura del progetto di Costa dava l’impressione di trovarsi sulla corda di un arco, come una freccia che sta per essere scoccata.
Dall’altra parte dell’Asse Monumentale, in prossimità del lago, le due torri del Congresso Nazionale sembravano l’obiettivo da raggiungere, la mela di Guglielmo Tell.
Viste di lontano, sembravano isolate e autoreferenziali, ma qualcuno mi spiegò che la piazza dove si trovavano, nella testa dell’uccello, si chiama Praça dos Três Poderes.
L’indomani percorsi a piedi l’Asse Monumentale.
Arrivai al Piazzale dei Ministeri nel pomeriggio inoltrato. La calda luce del sole quasi al tramonto fendeva le basse nuvole del cielo del Distrito Federal, arrossate dalla terra alzata dal vento del vicino parco.
Il pomeriggio trascorreva in una luce rossa accesissima, che dipingeva di sé tutta la città.
I sedici palazzi dalla forma cubica sembravano giovani soldati, disposti in una rigorosa adunata. Si volgevano verso di me con la fronte già aggredita dalla prossima oscurità, mentre le fiammate gialle che filtravano dal sole morente ne accendevano il lato che dava sul piazzale, ove si specchiava la corsa disordinata delle auto.
Mi scortarono, come guardie discrete, sino all’ultimo di essi, il Ministero della Giustizia, ove mi accolsero sei piccole cascate artificiali, costruite in ricordo delle molte cascate della regione.
Entrai quindi nella Praça dos Três Poderes, ove ricordai ciò che mi era stato detto la sera prima: accanto alle torri gemelle e alle cupole del sontuoso Congresso Nazionale vidi, sulla sinistra, il Palazzo Planalto, sede dell’esecutivo e, sulla destra, la Corte Suprema, il cui ingresso era presidiato dalla statua, incorruttibile, della Giustizia.
Erano i Tre Poteri, separati e distinti, eppure coesi e amici.
Essi non erano soli. Dinanzi al Palazzo Planaltina, quasi a vigilare sulla loro integrità, apparvero, alteri ma non minacciosi, armati ed inermi, umili ed orgogliosi, i “Guerrieri” di Bruno Giorgi.
Si stagliavano neri, alti ed imponenti nel cielo rosso di Brasilia: erano, ad un tempo, l’inarrivabile beltà dei giovani, l’amore infinito dei fratelli, il fiducioso conforto dell’amicizia, la forza incorruttibile della virtù, la risorsa insopprimibile della solidarietà, la ragione del diritto, l’umanità della giustizia, il Sogno della Democrazia.
Non erano veri guerrieri e le lance stilizzate, non strette ma poggiate sulle loro mani, non erano vere armi ma strumenti di lavoro; erano Os Candangos, gli operai che avevano costruito Brasilia, coloro che avevano realizzato un desiderio e custodito un sogno.
Il lavoro sicuro nella cosmogonia costituzionale: il “caso Ilva”
di Stella Laforgia
Sommario: 1. Premessa. - 2. Il “caso Ilva” e il conflitto tra gli interessi in gioco. - 2.1. Lo “spazio” dilatato della fabbrica. - 3. Il dispositivo regolativo dei conflitti nelle questioni ambientali dei siti produttivi: l’AIA. - 3.1. Gli interventi giudiziari e le questioni costituzionali nelle vicende Ilva. - 3.2. Il paesaggio assiologico tracciato dalla Corte costituzionale nelle vicende Ilva. - 3.3. L’ulteriore variazione in tema di conflitti istituzionali: l’intervento della magistratura amministrativa. - 4. Brevi riflessioni finali. Il bilanciamento sempre imperfetto tra lavoro e salute.
1. Premessa
Se si vuole seguire la traccia “Dignità e Sicurezza nel rapporto di lavoro”, si impone una necessaria operazione di delimitazione dei termini della questione e, ancor prima, una precisazione linguistico-concettuale di questi, soprattutto con riferimento al lemma “sicurezza”.
Quest’ultimo, tuttavia, pur considerando la sua polisemia e la conseguente estensione semantica, soprattutto se riferito al lavoro, risulta essere strettamente connesso alla “salute”.
Ma c’è di più. Infatti, una volta stabilito il nesso tra “salute” e “lavoro”, l’aggettivo “sicuro” non può più essere solo un mero attributo del lavoro ma diventa coessenziale a esso.
Dunque, il lavoro o è sicuro o non è.
Quindi, “lavoro e sicurezza” rappresenta un’endiadi indissolubile che non ha bisogno di ulteriori specificazioni. Questo, dunque, è l’assunto di partenza.
Tuttavia, se si passa dal piano deontico, cioè del dover essere, a quello di realtà, cioè dell’essere, ci accorgiamo che questo nesso non è affatto scontato, né tantomeno la sua consustanzialità.
Non solo, ma osserviamo - e questo deve interessarci quali giuristi - che l’aggettivo sicuro spesso viene separato nel discorso giuridico giuridico, laddove vengono inscenati conflitti.
Prendiamo appunto la coppia “lavoro” e “salute”: i termini di essa, lungi dall’essere considerati indissolubili, vengono posti spesso in antitesi.
Viene inscenato, appunto, un vero e proprio conflitto che riguarda una fitta trama regolativa di istituti giuridici sul tema, che finisce però per coinvolgere proprio i principi posti alla base del nostro ordinamento e che trovano la loro positivizzazione nella Carta costituzionale.
A questo punto, gli esempi potrebbero essere innumerevoli: qui si prende in considerazione un caso che può fungere da prisma per osservare, più concretamente ed efficacemente, quanto brevemente sostenuto finora. Questo è il “caso (appunto) Ilva”.
2. Il “caso Ilva” e il conflitto tra gli interessi in gioco
Se si discute di lavoro e sicurezza, infatti, viene subito in mente il colosso siderurgico di Taranto, l’Ilva, che immediatamente viene definito e collocato nell’immaginario collettivo come il “caso Ilva”[1].
Le vicende che riguardano l’Ilva, infatti, hanno assunto da anni la valenza di “caso”, a dire del suo valore paradigmatico nella storia industriale italiana, simbolo dei limiti di certa imprenditoria, dei ritardi o delle omissioni della politica, della conseguente disaggregazione sociale di alcuni territori e ormai del conclamato disastro ambientale.
Qui si osservano i conflitti tra principi appena evocati e, in particolare, la contrapposizione più drammatica, intorno alla quale si è costruita la lunga narrazione politica e mediatica, circa il polo siderurgico tarantino: quella tra salute e lavoro.
Posta così la questione, la prima domanda da porsi è se siano effettivamente questi i termini della polarizzazione tra interessi. In altri termini, è necessario, date anche le gravi implicazioni, che ne derivano sul piano concreto, individuare con esattezza, nell’ambito del caso Ilva, gli interessi sottostanti.
Infatti, esiste davvero, come ormai siamo avvezzi sentire, la dicotomia lavoro e salute?
2.1. Lo “spazio” dilatato della fabbrica
La contrapposizione tra principi - che quasi ineluttabilmente anche la magistratura segue (v, infra diffusamente) - è connessa all’adozione di un concetto di spazio (della fabbrica) che si rivela invece angusto e contraddittorio.
Infatti, in controluce rispetto alla confliggenza di interessi, vi è un’artificiosa distinzione tra un “dentro” e un “fuori” la fabbrica, come se si potessero davvero distinguere e contrapporre le ragioni di chi lavora (dentro la fabbrica) e coloro che vivono, fuori dalla fabbrica, ma nell’ambito di quello stesso territorio.
Se all’inizio di questa riflessione, nell’attribuzione di senso del lemma “sicurezza” in stretta connessione con il lavoro, si è posto l’accento sulla salute, questa scelta di fondo non impone forse, di riconsiderare anche l’ampiezza o meno del concetto di ambiente di lavoro e quello di non lavoro?
Infatti, anche le fonti legali e contrattuali in materia lavoristica ci consegnano ormai una nozione di salute come il portato della transizione da una logica burocratico-sanitaria (imperniata sul concetto di “igiene”), evidentemente concentrata sull’adempimento formale delle prescrizioni normative in materia, a una concezione “olistica” di salute che prende in considerazione tanto la tutela dei lavoratori, con particolare riguardo alle condizioni di lavoro di questi, quanto il “benessere sociale” cioè delle comunità e dei territori nei quali le aziende del settore insistono.
Così come, conseguentemente, il concetto stesso di “ambiente” – illuminato retrospettivamente dalla nuova nozione di salute, risulta dilatato oltre lo spazio dell’ambiente di lavoro fino a ricomprendere quella più generale, intesa quale salute e salubrità ecologica.
Ne deriva che l’ambiente è connesso un’idea ampia nella quale il confine tra il “dentro” e il “fuori” degli stabilimenti è labile e soprattutto mobile, laddove non vi è distinzione tra le istanze di tutela della salute dei lavoratori e quelle di coloro che vivono comunque in quell’ambito territoriale.
Nozioni di salute e ambiente, di spazio, di lavoro, che si inscrivono, peraltro coerentemente, nel rinnovato assetto costituzionale in materia. Si considerino, infatti, le modifiche di portata costituzionale agli artt. 9 e 41 Cost[2]
E, dunque, da questa nuova visione “ecosistemica” che occorre partire per acquisire consapevolezza della miopia del legislatore nella regolazione degli interessi in gioco in siffatte ipotesi.
Si prenda in considerazione ancora una volta, per tentare un’esemplificazione di quanto si va sostenendo, il dispositivo giuridico costituito dall’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale).
3. Il dispositivo regolativo dei conflitti nelle questioni ambientali dei siti produttivi: l’AIA
L’AIA viene introdotta nel nostro ordinamento quale procedimento autorizzativo al quale sono sottoposti determinati siti produttivi, dotato di un carattere conformativo, per contemperare nelle singole fattispecie, interessi conservativi di tutela ambientale con interessi di sviluppo, di natura prevalentemente produttiva, senza che vi sia, peraltro, una predeterminata gerarchia di carattere generale tra gli stessi.
Il dispositivo, pertanto, viene considerato risolutivo di ogni possibile criticità “ambientale” (evidentemente, esterna e interna alla fabbrica). Da questo punto di vista, esso risulta addirittura ieratico, pacificato, perché si basa sul presupposto che il coinvolgimento di molti soggetti istituzionali preposti alla salvaguardia della salute e dell’ambiente garantisca la conformità dello stabilimento che la ottiene a tutte le prescrizioni in materia ambientale.
Insomma, l’ottenimento dell’Aia comporta la presunzione ex se di “compatibilità” ambientale dell’attività produttiva
E’ evidente, però, che la questione è più complessa.
Si consideri, infatti, che la prima regolazione si è avuta con il d.lgs. 372 del 1999 ma che solo con il d.lgs. n. 59 del 2005 diventa operativa e viene emanata per la prima volta nel 2011.
Ebbene, proprio nello stesso arco temporale, la questione ambientale, di fatto, esplode.
3.1. Gli interventi giudiziari e le questioni costituzionali nelle vicende Ilva
A questo proposito, ci sono due momenti topici nella storia recente che segnano ognuno un passaggio e vedono interventi costanti della magistratura.
Il primo. È il 26 luglio 2012, quando il GIP Patrizia Todisco, accogliendo la richiesta della procura ionica, dispone il sequestro senza facoltà d’uso dei sei impianti dell’area a caldo ritenuti responsabili secondo le risultanze di ben due perizie (una epidemiologica e l’altra chimica) di emissioni nocive, oltre i limiti consentiti, con impatti devastanti sull’ambiente e sulla popolazione.
Il secondo. Qualche anno più tardi, nel giugno 2015, si verifica un altro incidente mortale nello stabilimento, l’ennesimo, e ne è vittima un operaio investito da materiale incandescente proveniente dall’altoforno “Afo2”.
Il PM, nella fase delle indagini preliminari, dispone, anche in questo caso, il sequestro preventivo d’urgenza, senza facoltà d’uso, dell’altoforno medesimo
La magistratura emette provvedimenti volti a bloccare parte degli impianti; il Governo, quindi il decisore politico (non il legislatore), dal 2012 interviene con la sequela dei c.d. decreti Salva-Ilva volti di fatto a neutralizzare i provvedimenti giudiziari.
Dunque, in entrambi i casi sottoposti alla Corte costituzionale la magistratura penale blocca l’attività produttiva dello stabilimento poiché considerato insicuro per la salute e sicurezza dei lavoratori e più in generale della comunità cittadina; all’inattività coattiva disposta dai Giudici reagisce il legislatore o, più propriamente, il decisore politico.
Infatti, i provvedimenti dei giudici – che hanno sostanzialmente bloccato, seppur parzialmente, gli impianti, rischiando di fermare definitivamente la produzione – hanno brutalmente richiamato l’attenzione del Governo che ha “congelato” l’operato della magistratura.
Sempre in entrambi i casi, di fronte a quelle disposizioni normative, i GIP tarantini, hanno ritenuto di rimettere al vaglio di legittimità della Corte costituzionale le norme che dispongono il dissequestro.
Con le note sentenze, n. 85 del 2013 e n. 58 del 2018, i Giudici costituzionali sono stati chiamati a pronunciarsi sulla legittimità delle norme che, nel caso di stabilimenti di interesse strategico nazionale come l’Ilva evidentemente, consentono la prosecuzione dell’attività produttiva nonostante l’emissione di provvedimenti giudiziari di sequestro dei siti che volti ad impedire quella stessa attività.
I presupposti di questa continuazione, però, effettivamente differiscono e sono alla base della diversa soluzione adottata nelle sentenze.
Nella sentenza n. 85 del 2013, la prosecuzione dell’attività viene condizionata all’osservanza di specifici limiti, disposti in provvedimenti amministrativi relativi all’AIA e assistita dalla garanzia di una specifica disciplina di controllo e sanzionatoria.
Nel caso della sentenza n. 58 del 2018, invece, il quadro regolativo è diverso e, addirittura, non si condiziona la prosecuzione dell’attività al rispetto delle prescrizioni dell’AIA, pur ritenuto l‘unico dispositivo normativo al quale l’azienda debba attenersi, richiedendosi esclusivamente la predisposizione, entro trenta giorni, di un piano che può essere addirittura provvisorio, redatto unilateralmente e, cioè, ad opera della stessa parte colpita dal sequestro dell’autorità giudiziaria, senza alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati. Tantomeno si richiede all’azienda l’adozione di misure tempestive volte a rimuovere la situazione di pericolo per l’incolumità dei lavoratori esposti dalla perdurante prosecuzione dell’attività d’impresa.
Quanto al contenuto, nel piano manca del tutto qualsiasi rinvio alla legislazione in materia di sicurezza sul lavoro e questo, come si legge nella sentenza: «… lascia sfornito l’ordinamento di qualsiasi concreta ed effettiva possibilità di reazione per le violazioni che si dovessero perpetrare durante la prosecuzione dell’attività». L’unico limite è quello temporale dal momento che si prevede che l’attività di impresa non può protrarsi per un periodo di tempo superiore a dodici mesi dall’adozione del provvedimento di sequestro (c. 2).
È evidente da quanto detto l’oggettiva differenza dei provvedimenti normativi sottoposti al vaglio costituzionale che effettivamente hanno esiti diversi. E proprio per questo, nel 2018, contrariamente a quanto avvenuto nel 2013, la norma che consentiva la prosecuzione dell’attività produttiva è stata dichiarata illegittima costituzionalmente.
3.2. Il paesaggio assiologico tracciato dalla Corte costituzionale nelle vicende Ilva
È interessante, però, soffermarsi soprattutto sulla parte delle due pronunce nelle quali i Giudici si soffermano sui correlati costituzionali delle norme ordinarie sottoposte al loro scrutinio.
Si osserva a questo proposito che la pronuncia del 2018, benché richiami espressamente quella del 2013 e ne riporti ampi brani, tuttavia inquadra in modo diverso e più nitido i termini del conflitto assiologico, correttamente circoscrivendoli all’art. 41 Cost. (la libertà di iniziativa economica come fondamento costituzionale al diritto di prosecuzione dell’attività produttiva) e al combinato disposto degli artt. 2 e 32 Cost. (tutela della salute e della vita stessa) con gli artt. 4 e 35 cost. (diritto al lavoro e tutela di tutte le forme dello stesso), considerando quest’ultimo come un tutt’uno inscindibile.
È questo è un passaggio di grande interesse e novità che porta a non polarizzare il conflitto tra lavoro/occupazione e salute come poi è passato nella vulgata corrente.
In realtà, nella pronuncia del 2013, si assisteva ad uno spostamento continuo dei termini della polarizzazione assiologica: la Corte costituzionale individuava soltanto sommariamente i beni oggetto del suo scrutinio che risultava così superficiale e sommario. Infatti, nel dichiarare la legittimità delle norme contenute nel cd. decreto “Salva-Ilva”, i giudici costituzionali ne individuavano la ratio nella realizzazione di un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, ed in particolare tra quello alla salute (art. 32 Cost.), da cui derivava il diritto all’ambiente salubre, e il diritto al lavoro (art. 4 Cost.). Rispetto a questo, si può innanzitutto osservare che veniva fornita una nozione di “diritto al lavoro” limitata ai livelli occupazionali, accedendo ad un’idea meramente quantitativa del lavoro. Che fosse così, è confermato da diversi stralci della pronuncia il cui argomento principale era quello emergenziale: si parlava tanto di emergenza ambientale – dato il pregiudizio arrecato all’ambiente e alla salute degli abitanti del territorio circostante – quanto di quella occupazionale, considerato che l’eventuale chiusura dell’ILVA avrebbe determinato la perdita del posto di lavoro per migliaia di persone, direttamente dipendenti dello stabilimento o interessate dall’indotto.
Certo, in quella sentenza si considerava la grave compromissione della salubrità dell’ambiente e della salute della popolazione, ma si riteneva che le prescrizioni dell’AIA potessero essere sufficienti quantomeno a ridurne gli effetti. Al centro del ragionamento, dunque, veniva posto il problema occupazionale e, tuttavia, il lavoro in quest’accezione non era considerato ex se ma diveniva un precipitato logico dell’iniziativa economica, le cui ragioni, queste sì, diventavano assorbenti. Il lavoro diveniva così soltanto uno dei tanti fattori della produzione, “degradato” a mera occupazione ed in questo senso era contrapposto al diritto alla salute. Lo sbandierato dissidio tra salute e lavoro altro non celava che il vero conflitto tra salute ed impresa.
Se così non fosse stato e il bilanciamento avesse effettivamente riguardato il diritto al lavoro e quello alla salute, quest’ultimo avrebbe avuto un epilogo in ogni caso tragico: morire di lavoro o morire senza lavoro. Di questa tragicità sembrano molto più consapevoli i Giudici costituzionali.
E infatti, i termini assiologici delle due sentenze sono profondamente diversi.
Cionondimeno, la sentenza del 2018 nel mettere molto più condivisibilmente a fuoco la questione, si ferma purtroppo a questo, senza mettere in discussione l’ordine assiologico equiordinato come riconosciuto nel 2013. Qui invece si affermava che tutti i principi/diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non sarebbe possibile pertanto individuare uno di essi che possa prevalere in maniera assoluta sugli altri; tantomeno si riteneva che la definizione dell’ambiente e della salute come «valori primari» data dalla medesima Corte implicasse una “rigida” gerarchia tra diritti fondamentali. Così si attribuiva alla Costituzione la previsione di un continuo e vicendevole bilanciamento tra principi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi.
Ebbene, si deve ammettere che si fa una certa fatica a ritenere che la seconda sentenza (quella del 2018), benché molto diversa nell’esito dall’altra, sia portatrice di un ordine tassonomico differente e cioè in grado di condurre il bilanciamento ad un altro esito; basti considerare che, se il decisore politico avesse previsto un presupposto diverso, la seconda pronuncia della Corte costituzionale sarebbe stata molto probabilmente del tutto allineata alla prima.
Certo, in quest’ultima, la Corte non si inerpica sul percorso valoriale e non tange neppure l’argomento della tirannia dei valori che in sostanza è il nucleo centrale della sentenza del 2013; tuttavia, non ha messo in discussione, almeno non esplicitamente, l’assunto secondo il quale la qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa che non potrebbero essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto.
Seguendo questo percorso, ne consegue che il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza.
La concatenazione logica degli argomenti conduce alla conclusione enfatica sancita nella sentenza del 2013 e sulla quale non prende posizione la sentenza del 2018 che, se nel bilanciamento si privilegiasse un diritto rispetto agli altri, questo diverrebbe “tiranno”.
Infatti, se il bilanciamento fosse ad un certo punto inibito e dunque i valori non fossero in un ordine mobile e dinamico, «… si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme (che sembra contestuale ed indistinto n.d.r.), espressione della dignità della persona».
Ma, come più recentemente dimostra un altro filone giurisprudenziale, questa volta amministrativo, il bilanciamento, specie se affidato ad un meccanismo regolativo parziale e formalistico come quello dell’AIA, non garantisce, sul piano dell’effettività, la piena soddisfazione di interessi primari quali, in questo caso, quelli connessi alla salute e salubrità dei lavoratori e dei territori sui quali l’Ilva insiste.
Insomma, si può arrivare al paradosso, così come di fatto è successo, che l’AIA sia rispettata ma si continuino a registrare alti livelli di inquinamento e un elevato tasso di malattia correlate a questo.
Dunque, non si tratta di tirannia di un valore, di un principio su un altro, ma dell’effettività della tutela dei diritti dei soggetti coinvolti.
3.3. L’ulteriore variazione in tema di conflitti istituzionali: l’intervento della magistratura amministrativa
Ancora una volta, rispetto al paesaggio legalistico-formale che nell’AIA trova la sua espressione più compiuta, il principio di realtà irrompe.
È il 27 febbraio 2020 quando Taranto viene invasa da fumi provenienti dal sito siderurgico; il Sindaco, perciò, emette un’ordinanza avente ad oggetto “Il rischio sanitario derivante dalla produzione dello stabilimento siderurgico ex Ilva – Arcelor Mittal di Taranto – emissioni in atmosfera dovute ad anomalie impiantistiche – Ordinanza di eliminazione del rischio e, in via conseguente, di sospensione delle attività”.
L’ordinanza sindacale è stata emanata ai sensi degli artt. 50, co. 5 e 54, co. 4 del d.lgs. n. 267 del 2000 (Tuel) che conferiscono al Sindaco un potere di intervento in casi urgenti e contingibili a difesa della salute pubblica.
Proprio su questi elementi, i presupposti del potere sindacale e l’ambito di intervento hanno costituito, come è intuibile, l’oggetto di una querelle innanzi ai Giudici amministrativi conclusasi in prima istanza con il rigetto dell’impugnativa proposta da Arcelor Mittal, nella qualità di gestore dell’impianto e da Ilva, nella qualità di proprietaria[3] e, invece, con il riconoscimento delle ragioni di queste ultime da parte del Consiglio di Stato[4].
A parte l’estrema diversità degli esiti giudiziari, ciò che preme sottolineare è che al centro delle valutazioni dei magistrati amministrativi c’è proprio l’AIA. Per esempio, il Tar Lecce ritiene legittimo l’intervento del Sindaco dal momento che, come confermato dalle risultanze conseguenti alla preventiva e corposa richiesta di informative e pareri rivolta da questi a tutti i soggetti istituzionalmente preposti alla vigilanza in materia sanitaria, a Taranto si è determinata una situazione di grave pericolo per la salute pubblica non risolvibile, evidentemente, con i poteri tipici e nominati nonché secondo l’ordine delle competenze e delle modalità procedimentali stabilite dall’ordinamento. La difesa delle ricorrenti, invece, si arrocca esclusivamente sull’AIA considerata garanzia ex se della legittimità della condotta dell’azienda, e, dunque, asserisce, con un vero e proprio salto argomentativo, l’insussistenza di qualsiasi responsabilità nella causazione dell’inquinamento.
Certo l’AIA sancisce il punto di equilibrio in ordine all’accettabilità e alla gestione dei rischi che derivano dall’attività oggetto della autorizzazione, ma essa ha una serie di limiti: vi sono, intatti, come acquisto dall’istruttoria dei giudici leccesi, delle sostanze che non vengono inserite nell’ambito dell’AIA e che, invece, sarebbero responsabili di patologie mortali molto gravi e diffuse nel territorio tarantino.
I Giudici di Palazzo Spada, invece, si concentrano esclusivamente sulla sussistenza dei presupposti del potere di ordinanza, i quali richiedono come detto la comprovata inidoneità o inefficacia degli altri rimedi predisposti dall’ordinamento, ritenendosi l’AIA assolutamente in grado di assicurare il contemperamento di tutti gli interessi in gioco.
4. Brevi riflessioni finali. Il bilanciamento sempre imperfetto tra lavoro e salute
Dall’ingorgo istituzionale (magistratura /Governo), dall’intervento di Giudici diversi [magistratura del lavoro chiamata in materia di infortuni sul lavoro; magistratura penale per le ipotesi di reato del management e degli organi istituzionali coinvolti nelle diverse vicende; magistratura penale in tema di deprezzamento immobili), magistratura amministrativa (rispetto ai conflitti istituzionali Sindaco-Governo)] si può desumere che il dispositivo normativo costituito dall’AIA mostra la sua incapacità di dare risposta a tutti gli interessi, spesso confliggenti.
Infatti, non solo questo agisce, come detto, solo sul crinale formale ma non è in grado per come è concepito di censire tutti i rischi connessi a un’attività complessa come quella del siderurgico di Taranto.
L’AIA, allora, risulta insufficiente come può esserlo qualsiasi traduzione, sul piano normativo, del bilanciamento dei diritti e delle libertà costituzionali su questioni come quella trattata.
Il bilanciamento appare, infatti, imperfetto sin dall’individuazione dei beni oggetto di misurazione e valutazione.
Già nell’individuazione di interessi contrapposti tra coloro che sono dentro e coloro che sono fuori la fabbrica emerge il primo errore di metodo che falsa poi ogni valutazione successiva.
Inoltre, pur accedendo all’idea di un’individuazione di interessi e che il lavoro e la sicurezza sub specie di tutela della salute dei lavoratori coincidano, al bilanciamento rispetto agli altri principi non si può ricorrere ad oltranza.
Infatti, nella nostra Costituzione i principi sono chiaramente ordinati in modo tassonomico e non equi-ordinato (come, peraltro, il dispositivo giuridico dell’Aia presuppone).
Il lavoro e la salute sono concetti indissolubili, così come sono preminenti rispetto ad altri. Per esempio, alla libertà di iniziativa economica.
Il rispetto assoluto per il lavoro e per la salute attengono al principio personalistico - centralità della persona - che corre lungo tutto il reticolato costituzionale e che trovano nella dignità sociale il loro compimento.
Infatti, il lavoro - e solo quello sicuro - assicura a colui che quel lavoro svolge la sua dimensione di dignità per sé e rispetto alla sua comunità sociale. Ecco, perciò, apparire uno dei termini, quello iniziale della traccia che ci si è data all’inizio di questo contributo, e si chiude così il cerchio della riflessione che vedeva il lavoro connesso alla salute e, in questo modo, alla dignità.
Alla luce di queste riflessioni, si può rivolgere un invito a chi ha il delicatissimo compito di decidere su questioni così drammaticamente delicate: ricordarsi che i principi sono ordinati nella carta costituzionale in modo diseguale. Il lavoro sicuro è sicuramento uno di quelli sovraordinati rispetto agli altri, destinato, per necessità, a prevalere.
Se si tira il filo del lavoro, scarnificandolo, si mette a dura prova tutto l’assetto democratico che su esso si basa; è il lavoro, infatti, a garantire il patto di cittadinanza e quindi l’emancipazione dal bisogno materiale, la libertà e quindi il riconoscimento dei diritti civili e sociali che, insieme, realizzano la dignità sociale.
[1] Sia consentito sul tema il riferimento a S. Laforgia, “Se Taranto è l’Italia”. Il caso Ilva, in Lavoro e Diritto, 2022, 1; pp. 29 ss.
[2] Gli artt. 9 e 41, modificati con l. cost. dell’11 febbraio 2022 n. 1, risultano così rispettivamente riformulati: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l'ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali»; «L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali». Ai sensi dell’art. 9 Cost. la Repubblica, da sempre impegnata nella promozione dello sviluppo della cultura e nella ricerca scientifica e tecnica nonché nella tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione, è per effetto della modifica altresì tenuta alla tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. Tuttavia, è il riferimento stesso al “patrimonio” quale complesso di risorse che sono proprie di una determinata comunità insediata in un territorio e il fatto che la titolarità sia attribuita alla Nazione – che non coincide con il popolo ma comprende le generazioni passate e prossime – a caricare la disposizione di significato e a giustificare l’esistenza di limiti alla disponibilità di esso da parte della generazione presente. Così nel secondo comma dell’art. 41 Cost. sono stati inseriti nuovi e diversi limiti all’esercizio dell’iniziativa economica privata, accanto a quelli preesistenti relativi all’utilità sociale, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, come il limite del danno alla salute e all’ambiente; la modifica del terzo comma d’altro canto aggiunge una seconda finalità dell’attività di indirizzo e coordinamento dell’attività economica, pubblica e privata, prevedendo che questa debba essere altresì orientata a fini, oltre che sociali, anche ambientali.
[3] Sent. Tar sez. Lecce (I), 13.02.2021, n. 249 in www.giustizia-amministrativa.it.
[4] Cons. Stato (IV sezione), 21.06.2021, n. 1482 in www.giustizia-amministrativa.it.
Riflessioni a margine di un dibattito sul metodo giuridico[i]
di Fabio Francario
Sommario: 1. Il “cosa” e il “come” - 2. Diversità di metodo per diverse figure di giurista - 3. Sul metodo giuridico dello studioso accademico - 4. Ulteriori spunti di riflessione critica.
1. Il “cosa” e il “come”.
Sovente accade, specie nei tempi più recenti, che le conclusioni di un convegno di studi vengano preparate in anticipo, con l’effetto di aggiungere una vera e propria nuova relazione al dibattito che si dovrebbe invece concludere. A volte ciò avviene senza nemmeno aver presenziato allo svolgimento dei lavori congressuali.
Voglio tranquillizzare subito i presenti precisando che non intendo seguire questa modalità. Mi limiterò a raccogliere gli spunti offerti dalle relazioni ascoltate per i profili che mi hanno maggiormente suggestionato, mettendo insieme e cercando di riordinare al meglio gli appunti presi durante l’ascolto.
Inizierei da una cosa della quale in verità non si è affatto parlato, ma che credo sia di sicuro e concreto interesse per tutti gli appartenenti alla comunità scientifica accademica e che è esemplare per sintetizzare le diverse problematiche che si agitano sul tema del metodo giuridico. Mi riferisco alla prassi ormai invalsa del c.d. referaggio o più in generale della necessità di sottoporre a valutazione la produzione scientifica individuale. Impossibile appartenere alla comunità scientifica accademica senza esserne soggetti o attivamente, in quanto valutatori, o passivamente, in quanto autori del prodotto scientifico sottoposto appunto a valutazione. In un modo o nell’altro, come docenti universitari, siamo tutti coinvolti nel processo valutativo. Il nesso di questo primo appunto con il tema dell’odierno incontro emerge quasi testualmente dai format in uso per i referaggi, che presentano quasi sempre nella griglia di valutazione, quasi fosse obbligatorio, il riferimento al profilo del metodo scientifico seguito. Occorre precisare se il metodo è corretto o meno; se il lavoro svolto è corretto o meno sotto il profilo metodologico.
Lo spunto ci conduce immediatamente al cuore del tema oggetto del presente convegno se solo ci si domanda come si giudica corretto un lavoro sotto il profilo metodologico, quali criteri debba seguire il valutatore e se vengono sempre seguiti dei criteri univoci. Non so se in fondo in fondo sia un bene o un male, ma non credo che abbiamo tutti lo stesso metro di giudizio nel valutare un contributo sotto tale profilo. Non mi riferisco ovviamente al significato intrinseco di quello che è stato detto dall’autore del contributo sottoposto a valutazione, alle conclusioni raggiunte dal lavoro scientifico esaminato. La valutazione di “cosa” è stato detto impinge sul diverso profilo della originalità o meno del contributo scientifico.
Nella parte in cui s’interessa del metodo, il valutatore si preoccupa del “come”, non del “cosa”. Non si preoccupa cioè di vedere se il contributo è originale o meno, ma come si è svolto il lavoro, com'è stata condotta l'indagine, in che modo è stata svolta la ricerca, “come” ha proceduto l'autore. Non già “cosa” ha detto, perché ciò implicherebbe entrare nella valutazione del merito del contributo, e non del metodo seguito.
Il profilo del metodo consuma dunque una valutazione che dovrebbe essere aliena da margini di opinabilità, non fosse altro per la gravità delle sue conseguenze: se il lavoro non è metodologicamente corretto, vuol dire che non è scientificamente accettabile; che l'Accademia non lo può accettare come contributo. Se il diritto è scienza, vuol dire che le conclusioni raggiunte devono poter essere verificabili; nel senso che, riproducendo lo stesso metodo seguito dall’autore, si raggiungono le medesime conclusioni in ordine ad un dato fenomeno o realtà giuridica.
Senza dunque entrare nel merito di cosa abbia detto l’Autore, per stabilire se il lavoro è stato condotto correttamente, il valutatore dovrebbe dunque valutare innanzi tutto se l’Autore abbia preso in osservazione i dati dell'esperienza giuridica. La considerazione può sembrare ovvia e banale, ma non lo è affatto, come dimostra l’incertezza più volte emersa nel dibattito odierno sul concetto stesso di esperienza giuridica.
2. Diversità di metodo per diverse figure di giurista.
Come è stato più volte sottolineato nei diversi interventi, la nozione di esperienza giuridica non è semplice, ma complessa; nel senso che identifica, nel loro insieme, esperienze in realtà molto diverse tra loro. Ripercorrendo un dibattito radicato nella tradizione, Vincenzo Cerulli Irelli ha ben rappresentato la tendenza ad assorbire il problema del metodo in quello della giusta selezione del dato giuridico oggetto di osservazione, focalizzando l’attenzione sulla dialettica del ragionar per valori e principi, seguendo un metodo induttivo o deduttivo, o per fattispecie, attraverso un lavoro di sussunzione. E Margherita Ramajoli ha ben sottolineato che, sia se si muova dal sistema, sia che si muova dal caso problematico, il metodo giuridico deve saper sempre coniugare pensiero sistematico e pensiero problematico.
Muovendo dall’osservazione che la nozione di esperienza giuridica non è univoca, credo si possa però fare un’ulteriore considerazione; e cioè che la nozione non è univoca (anche) perchè sullo scenario dell’esperienza giuridica si muovono tre attori protagonisti. C'è il cultore della materia, l'accademico, lo studioso teorico del diritto; c'è poi il magistrato, il giudice che deve applicare le norme per risolvere conflitti insorti nei singoli casi di specie tra parti concretamente interessate alla definizione di una lite; e c'è anche il legislatore, chi fa le norme, chi fa le leggi e cose di questo genere. Il lemma “giurista” indica quindi situazioni diverse, che diversamente si muovono nello scenario dell’esperienza giuridica e approcciano il dato giuridico con differenti finalità.
La considerazione che a mio avviso è giusto trarre da questa constatazione è dunque che ciascuna categoria debba avere ed applicare un metodo giuridico suo proprio, che cioè alle diverse categorie di giuristi corrispondano metodi giuridici diversi. Voglio con ciò dire che, se ragioniamo sul metodo ed allarghiamo il dato dell'esperienza giuridica fino a comprendere tutte e tre le categorie, dobbiamo raggiungere la conclusione che il metodo giuridico impiegato varia in ragione del ruolo proprio di ciascuna categoria. Il metodo giuridico dello studioso non è cioè lo stesso del normatore, di chi fa le norme; e non è nemmeno lo stesso del magistrato, del giudice.
Lo studioso teorico deve muovere dall’osservazione della letteratura, della giurisprudenza e della legislazione - normazione. Il giudice deve invece trovare, più o meno in base alle leggi, partendo cioè dal dato normativo, la soluzione giusta per il caso concreto. Non deve seguire lo stesso metodo del giurista accademico. Il metodo è diverso. Anzi. Guai se il giudice, come spesso poi in realtà accade, si mette a fare accademia quando produce una sentenza. E’ cosa in verità deprecabile, ma tuttavia frequente, che vengano prodotte sentenze in forma di trattato giuridico. Quando ciò avviene, spesso e volentieri si perde la sequenza logica di stretta consequenzialità sulla quale dovrebbe fondarsi la decisione (premessa, conseguenza e conclusione). Quando ciò avviene, la decisione sembra voler fondare la propria autorevolezza nel dato quantitativo, piuttosto che qualitativo, e sembra voler nascondere la ratio decidendiinabissandola nelle diverse decine di pagine in cui viene articolata la motivazione. Cosa che, peraltro, avviene in barba alla declamazione del principio di sinteticità, che viene fatto gravare solo sui pratici avvocati che si azzardano a fare ricorsi innanzi al giudice amministrativo, ed è chiaro ed evidente sintomo della debolezza del principio applicato. Più la sentenza è lunga, meno ne è comprensibile il principio realmente affermato. Questa inclinazione della giurisprudenza a farsi dottrina è stata ben sottolineata da Pierluigi Portaluri, unitamente ai rischi in essa insiti. La sentenza, dunque, non deve fare accademia e il metodo di valutazione della sentenza è pertanto necessariamente diverso da quello che deve seguire il giurista studioso. Il giurista “giudice” deve fare una sentenza giusta. Bisogna poi ovviamente intendersi su cosa esattamente significhi trovare la soluzione giusta nel caso concreto, ma si aprirebbe un altro discorso (per non lasciare incompiuto il riferimento, posso rinviare agli atti del convegno di Modanella del maggio 2017, pubblicati in F. Francario, M.A. Sandulli, La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Napoli, 2018).
Diverso è anche il metodo del giurista “legislatore”. Egli non deve seguire lo stesso metodo del giudice. Non si deve preoccupare di giustificare più di tanto il perché arrivi a determinate conclusioni. Ci sarà sì un preambolo che recherà le motivazioni delle statuizioni, ci saranno relazioni e atti preparatori che serviranno a giustificare il potere pubblicistico che viene esercitato. Dal punto di vista del metodo, però, una norma è corretta se ha rispettato le fonti ad essa superiori, che ne limitano il possibile contenuto secondo principi gerarchici o di competenza. Se prendiamo l’atto normativo per eccellenza, la legge, è corretta se viene fatta rispettando la Costituzione. E così il decreto delegato, se rispetta la legge di delega; e il regolamento, se rispetta le norme aventi forza e valore di legge. A ciò si possono poi aggiungere i requisiti generali di metodo indicati da Crisafulli, i caratteri generali che una norma deve possedere. La generalità e l'astrattezza della formulazione, cosa che oggi come oggi è sempre più difficile rinvenire in un atto normativo.
La conclusione che si raggiunge è quindi che il metodo giuridico si può e si deve differenziare a seconda della categoria del giurista che opera nel concreto dell'esperienza giuridica.
3. Sul metodo giuridico dello studioso accademico.
Il chiarimento raggiunto ci aiuta a capire meglio quale deve essere il ruolo specifico del giurista accademico, dello studioso del diritto.
La risposta in verità dovrebbe essere semplice: lo studioso, non pressato dall’esigenza di definire una lite concretamente insorta in un caso di specie, né da quella di definire in maniera generale e astratta regole di condotta che devono essere osservate per la definizione delle liti o per prevenirne l’insorgere, dovrebbe preoccuparsi di ricomporre gli istituti giuridici che il dato più o meno disordinatamente proposto dal formante giurisprudenziale e da quello normativo consentono di ricostruire. Secondo principi informatori comuni ai diversi dati o fenomeni giuridici.
È importante intendersi sul fatto che i principi non sono solo quelli che siano esplicitamente dichiarati tali in un enunciato legislativo. Anche, e forse soprattutto, sono quelli che non sono espressamente dichiarati dal legislatore, ma che emergono dalla logica intrinseca del dato positivo, come principi generali della materia o dell’ordinamento. Ancora più importante è ricordare, come ben sottolineato da Marco Mazzamuto, che l’enucleazione di questi principi è compito precipuo della dottrina. La riconduzione dei diversi dati, nelle loro reciproche relazioni, in istituzioni giuridiche ricostruite secondo un principio di coerenza logica, la sistemazione dei diversi fenomeni giuridici in insiemi coerenti, è compito irrinunciabile per la dottrina, che non avrebbe altrimenti ragion d’essere se pensasse di poter limitare il proprio contributo soltanto alla mera comunicazione e diffusione della conoscenza del dato giurisprudenziale o normativo. Per far ciò, basterebbe e avanzerebbe un bravo giornalista.
La ricostruzione teorica degli istituti giuridici è invece un’attività di fondamentale importanza per garantire l’effettivo rispetto del principio democratico di eguaglianza da parte dell’ordinamento. La possibilità di confrontare la decisione del caso giurisprudenziale o un precetto normativo con un parametro di ragionevolezza preesistente è garanzia verso la possibilità di arbitrio tanto del giudice, quanto del legislatore. L’arbitrarietà o irragionevolezza del favor che venga eventualmente riservato dall’uno o dall’altro diventa visibile (e ove possibile censurabile nelle forme e nei modi previsti dall’ordinamento) se ed in quanto il raffronto con la disciplina e i principi informatori dell’istituto applicato, sia esso di diritto sostanziale o processuale, rende evidente che la scelta compiuta dal giudice o dal legislatore non appare spiegabile in base ai principi e alle regole dell’istituto ma contrasta con esse. Altra cosa è, ovviamente, se si è invece di fronte a scelte e decisioni, legislative o giurisprudenziali, che, consapevolmente e dichiaratamente, ritengono opportuno innovare l’ordinamento revisionando o aggiornando l’istituto medesimo.
4. Ulteriori spunti di riflessione critica.
Oggi come oggi, il ruolo del giurista teorico è messo fortemente in crisi dai processi di globalizzazione, nel momento in cui questi tendono a rendere labili i confini tra le materie e obsoleti gli istituti tradizionalmente impiegati.
La vulgata dominante o, se si preferisce il mainstream imperante, vuole infatti che, oggi come oggi, il giurista debba aprirsi e confrontarsi con gli altri Saperi e non debba chiudersi in una torre d’avorio. Questo perché si ritiene che la società contemporanea, sempre più caratterizzata da processi di globalizzazione e di integrazione delle scienze e delle conoscenze, non possa più prescindere da forme di comunicazione più immediate e comprensibili dei Saperi e, soprattutto, da una sostanziale omogeneizzazione dei Saperi stessi che è frutto del loro reciproco intrecciarsi unicamente intorno ai rispettivi fundamentals, come ha ben rappresentato Fulvio Cortese.
Questo è un punto molto delicato sul quale occorre intendersi. Proprio e in special modo se intenda confrontarsi con gli altri Saperi, il giurista deve stare attento innanzi tutto a non perdere il tratto identitario del proprio Sapere, il che significa che il dato proprio dell’osservazione scientifica del giurista accademico rimane pur sempre il mondo del diritto, fatto di norme, giurisprudenza e istituti ricostruiti dalla letteratura giuridica. Il confronto suppone necessariamente la diversità. Se questa viene meno, non c’è più nemmeno la possibilità di confronto. In fondo, come ha ben ricordato Marco Mazzamuto, così è sempre stato e propugnare oltre misura l’eclettismo scientifico implica solo alimentare la crisi del diritto compromettendo il livello di civiltà dell’ordinamento.
Il tema è particolarmente delicato per lo studioso del diritto amministrativo, in quanto, a seguire i processi di omogeneizzazione in atto, si rischiano di perdere le caratteristiche di specialità, che contraddistinguono la materia non per il solo fatto che la pubblica amministrazione è necessariamente destinataria di tale disciplina, ma perché i rapporti giuridici e i conseguenti sistemi di garanzia ubbidiscono a principi informatori diversi rispetto a quelli tipici del diritto civile o dei privati cittadini. Procedimentalizzazione, unilateralità e tipicità degli effetti giuridici governano l’attività di tutela di interessi superindividuali; rilevanza dell’elemento volontaristico e atipicità degli effetti giuridici governano la tutela degli interessi individuali. Le prime vittime dei processi di omogeneizzazione sono le realtà che perdono la ragion d’essere della propria specialità e, nel caso del diritto amministrativo, la posta in gioco è l’abbandono di modelli che creano rapporti giuridici finalizzati ad apprestare garanzie nei confronti dell’esercizio del potere amministrativo.
V’è certamente una crisi delle categorie tradizionali nello spiegare e orientare il mondo giuridico del dover essere, aggravata dalla crescente incapacità del legislatore d’intervenire dettando discipline che abbiano le caratteristiche della stabilità, della generalità e dell’astrattezza e che, almeno in ambito nazionale, diventa invece sempre più amministratore di interessi particolari. Se le categorie tradizionali non sono più in grado di spiegare il presente, vuol dire che ne vanno ricostruite e messa a sistema di nuove, ma la giurisprudenza, come non ha mancato di sottolineare Pierluigi Portaluri, non può essere lasciata sola nell'occupazione degli spazi lasciati vuoti dal legislatore, altrimenti cresce il rischio che la giustizia trasmodi in arbitrio. La giustizia è una questione troppo importante perché se ne occupino solo i giudici. Così si legge nel manifesto della rivista alla quale tanti di noi collaborano nella sezione diritto e processo amministrativo nel preciso intento di rivitalizzare quello che una volta era il genere letterario, tipico del giurista, delle c.d. note a sentenza (per tutti v. G. Morbidelli, Le note a sentenza di Aldo M- Sandulli, in Giustiziainsieme.it, 2 marzo 2022). E’ una scommessa intellettuale che tanti di noi hanno fatto nel convincimento che giurisprudenza e dottrina debbano svolgere ciascuna il proprio ruolo mantenendo vivo un dialogo ispirato a un confronto non autoreferenziale: il giudice deve preoccuparsi di trovare la soluzione giusta nel caso concreto; la dottrina deve preoccuparsi di valutare la coerenza sistematica della singola pronuncia nell'insieme dell'ordinamento. Il dialogo, tra giurisprudenza e dottrina, che valorizzi le rispettive competenze e vocazioni è indispensabile per assicurare quanto più possibile il rispetto del principio della certezza del diritto e con esso l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.
[i] L’articolo riproduce le conclusioni del convegno tenutosi presso l'Università degli Studi Roma Tre il 1 marzo 2022 su Il confronto nel metodo giuridico, i cui atti sono in corso di pubblicazione nel volume a cura di F. Aperio Bella, A. Carbone, E. Zampetti, Il confronto nel metodo giuridico, Napoli, 2023.
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