ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il principio di (im)modificabilità dei raggruppamenti di imprese (nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 25 gennaio 2022, n. 2)
di Domenico Bottega
Sommario: 1. Premessa. - 2. La vicenda. - 3. L’art. 48 del codice dei contratti pubblici. - 4 L’interpretazione restrittiva: l’inapplicabilità dei commi 17 e 18 alla “fase di gara”. - 5. L’interpretazione estensiva: l’applicabilità dei commi 17 e 18 anche alla “fase di gara”. - 6. L’ordinanza di rimessione alla Plenaria. - 7. La decisione dell’Adunanza Plenaria. - 8. L’antinomia assoluta. - 9. I criteri di risoluzione delle antinomie. - 10. L’interpretazione correttiva. - 11. La risoluzione dell’antinomia: l’interpretazione secondo ragionevolezza o costituzionalmente orientata. - 12. Un problema per certi versi chiuso, per altri aperto: quando si conclude “la fase di gara”? - 13. Considerazioni conclusive.
1. Premessa.
La sentenza dell’Adunanza Plenaria in commento compone il severo contrasto formatosi in seno al Consiglio di Stato sull’interpretazione del comma 19-ter dell’art. 48 del codice dei contratti pubblici e risponde, in senso affermativo, al quesito se sia consentito escludere dal R.T.I. l’impresa che, in fase di gara, abbia perso uno dei requisiti di ordini generale di cui all’art. 80, e consentire ai restanti associati di “riorganizzarsi”, senza essere pretermessi dalla selezione. La Plenaria giunge a tale esito interpretativo apparentemente senza aderire ad alcuno dei due orientamenti, bensì componendo una “antinomia assoluta” generata da una tecnica legislativa “poco sorvegliata”. Al di là del risultato ermeneutico cui si perviene, è interessante il percorso argomentativo svolto da colui che è l’interprete per eccellenza – ossia il giudice – di fronte a una (apparente) contraddizione dell’ordinamento.
2. La vicenda.
Nell’ambito della procedura di affidamento dei lavori di ampliamento alla terza corsia del tratto autostradale Firenze Sud – Incisa è accaduto che, al termine delle operazioni di gara e nelle more dell’espletamento del subprocedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta, i rapporti tra la stazione appaltante e una società mandante dell’A.T.I. aggiudicataria si siano incrinati per vicende legate ad altre commesse[1]. Tale società ha deciso allora di recedere dal raggruppamento di imprese, il quale ha domandato all’Amministrazione la possibilità di rimodulare la propria compagine interna[2].
La richiesta è stata rigettata dalla stazione appaltante, che ha quindi deciso di escludere l’intero raggruppamento dalla gara, sulla base del fatto che la mandante di cui si è detto si fosse resa responsabile di “significative e persistenti carenze nell’esecuzione di precedenti contratti d’appalto che hanno causato la risoluzione per inadempimento contrattuale”, rilevanti come causa di esclusione ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c-ter, del codice dei contratti pubblici, come pure di condotte qualificabili come “gravi illeciti professionali” di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), del codice, “tali da rendere dubbia l’integrità e l’affidabilità”, per essere gli inadempimenti “numerosi, ravvicinati nel tempo e coevi allo svolgimento della procedura di gara in oggetto”. In aggiunta, è stata rigettata la richiesta di autorizzazione alla modifica soggettiva del raggruppamento, difettando – a detta della stazione appaltante – dell’esplicitazione delle esigenze organizzative legittimanti tale domanda e in ragione del breve lasso di tempo trascorso tra i provvedimenti di risoluzione e di revoca e la comunicazione di recesso (la richiesta in parola è stata ritenuta essere “finalizzata ad eludere la perdita di un requisito di partecipazione alla gara da parte della mandante” che era incorsa nelle cause di esclusione predette[3]).
Il provvedimento è stato allora impugnato avanti il T.A.R. Toscana, che lo ha annullato, dando applicazione al combinato disposto dei commi 18 e 19-ter dell’art. 48 del codice dei contratti pubblici, in base ai quali – nella lettura offerta dal Giudice fiorentino – deve essere consentita la possibilità di modificare la composizione soggettiva del consorzio partecipante, in corso di gara e in corso di esecuzione, ove sia sopraggiunta la perdita, da parte di una società mandante, di uno o più dei requisiti morali e professionali di cui all’art. 80.
Non dello stesso avviso – nei termini di cui si dirà – si è dimostrato il Consiglio di Stato che, nell’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria da cui è poi scaturita la sentenza qui in commento, ha osservato che il dato normativo non è così perspicuo da consentire di affermare sic et simpliciter che l’interpretazione delle disposizioni conduca a un unico esito interpretativo.
Onde apprezzare la portata del problema e comprendere la soluzione offerta dal Supremo Concesso della giustizia amministrativa, vale la pena partire dal dato legislativo di riferimento.
3. L’art. 48 del codice dei contratti pubblici.
L’art. 48, d.lgs. n. 50/2016, si occupa dei “raggruppamenti temporanei e consorzi ordinari di operatori economici”, due tra le forme collaborative tra imprese di maggiore successo, finalizzate alla partecipazione alle procedure a evidenza pubblica. I raggruppamenti temporanei sono assai diffusi nel panorama delle procedure a evidenza pubblica, consentendo a più operatori, di diversa capacità economica, tecnica ed organizzativa, di eseguire commesse pubbliche congiuntamente ad altre imprese, pur mantenendo la propria autonomia[4]: la dottrina ha individuato in tale istituto una “funzione antimonopolistica”, fungendo da vero e proprio argine al predominio delle grandi imprese[5].
Ci si vuole innanzitutto concentrare sul comma 9 dell’art. 48, che sancisce il divieto di mutamento della compagine soggettiva dei raggruppamenti temporanei, da cui si fa discendere il principio di immodificabilità soggettiva del R.T.I.: principio che, originariamente, doveva intendersi esteso a tutta la procedura di gara, dalla presentazione dell’offerta alla conclusione dell’esecuzione del contratto, al fine di consentire alla stazione appaltante una verifica preliminare e piena del possesso dei requisiti di partecipazione in capo ai partecipanti, verifica che non doveva essere vanificata in corso di gara con modifiche di alcun genere[6].
Il principio aveva già subito alcune deroghe da parte dell’abrogato “codice appalti”, precisamente dall’art. 37, co. 18 e 19, oggi riprodotti e ampliati dai commi 17 e 18 dell’art. 48.
Il comma 17 inizialmente prevedeva che, “in caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione controllata, amministrazione straordinaria, concordato preventivo ovvero procedura di insolvenza concorsuale o di liquidazione del mandatario ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente codice purché abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire; non sussistendo tali condizioni la stazione appaltante può recedere dal contratto”.
Nelle medesime circostanze, per il caso in cui tali eventi colpiscano una delle società mandanti, in base al comma 18 “il mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione, direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché questi abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire”[7].
I due commi sono stati oggetto di una novella recata dal “decreto correttivo” n. 56/2017, il quale ha aggiunto una fattispecie al novero di quelle suddette in cui è consentita una modifica della compagine societaria: il caso in cui la mandataria ovvero una delle mandanti perdano, in corso di esecuzione, uno dei requisiti di cui all’art. 80. Il medesimo decreto ha altresì previsto, con l’introduzione del comma 19-ter all’art. 48, che “le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”.
Il quesito ermeneutico sottoposto alla Plenaria verte proprio intorno al combinato disposto del comma 17 ovvero del comma 18, da un lato, e il comma 19-ter, dall’altro, in particolare con riguardo alle conseguenze in capo al R.T.I., nell’ipotesi in cui la mandataria o una delle mandanti vengano a difettare di uno dei requisiti generali di partecipazione: è possibile ricorrere ai “meccanismi riparativi” di cui ai commi 17 e 18, che consentono la sostituzione del soggetto colpito dalla causa escludente, solo se la sopravvenuta perdita occorre “in corso di esecuzione”, così come testualmente prevedono i commi 17 e 18, ovvero anche se ciò accade “in fase di gara”, per effetto di quanto disposto dal comma 19-ter?
Detto in altri termini, i commi 17 e 18, riferendosi alla “perdita … dei requisiti di cui all’articolo 80” che avvenga “in corso di esecuzione” mirano a escludere l’applicazione del comma 19-ter a questa fattispecie ovvero tale specificazione deve essere letta come ultronea o inutile ovvero ancora come coerente con l’impianto dei due commi, che si occupano di quanto accade nel corso dell’esecuzione del contratto, e pertanto non osta a che operi la predetta sostituzione, anche se il venir meno di uno dei requisiti generali sopraggiunge durante la “fase pubblicistica” della competizione?
Pare utile partire dall’analisi della posizione più restrittiva, che esclude l’applicabilità del comma 19-ter alla sopravvenuta perdita in corso di gara di un requisito di cui all’art. 80, per poi passare a esaminare quella più estensiva, che invece estende l’applicazione del comma 19-ter a tutte le ipotesi elencate dai commi 17 e 18.
4. L’interpretazione restrittiva: l’inapplicabilità dei commi 17 e 18 alla “fase di gara”.
Non poche sono state le sentenze che hanno deciso secondo l’interpretazione più restrittiva, per cui il comma 19-ternon si applicherebbe in caso di sopraggiunta mancanza di uno dei requisiti di cui all’art. 80 in fase di gara.
Gli argomenti, benché affrontati talvolta in modo più analitico, talaltra con modalità espositive più sintetiche, sono sostanzialmente sempre i medesimi[8].
Il primo si fonda su un’interpretazione sistematico-letterale delle disposizioni. Il punto di partenza è che i commi 17, 18 e 19 dell’art. 48 consentono che il raggruppamento possa modificare la propria composizione in conseguenza di un evento, occorso in fase di esecuzione, che priva uno dei suoi partecipanti della capacità di contrattare con la pubblica amministrazione[9]; la modifica soggettiva del raggruppamento è eccezionalmente possibile anche “nei casi previsti dalla normativa antimafia” e in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’art. 80 da parte della mandante o della mandataria.
Quest’ultima possibilità costituisce, però – per i fautori di tale opinione –, una deroga alla regola generale dell’immodificabilità del raggruppamento temporaneo rispetto alla composizione risultante dall’impegno presentato in sede di offerta, così come è sancita dall’art. 48, comma 9.
Per tale ragione la portata applicativa del comma 19-ter, che “estende espressamente la possibilità di modifica soggettiva per le ragioni indicate dai commi 17, 18 e 19 anche in corso di gara”, deve intendersi applicabile nei limiti e “con le precisazioni contenute nei detti commi”[10], ivi inclusa quella per cui la “perdita dei requisiti di cui all’art. 80 [è] circoscritta espressamente alla sola fase esecutiva”. Pena, altrimenti, lo svilimento o comunque la riduzione a nullità dell’inciso “in corso di esecuzione”.
Il secondo argomento si basa sui principi eurounitari in materia di contratti pubblici, così come ribaditi nel corso del tempo dalla giurisprudenza interna. Il diritto comunitario – ancora una volta per i sostenitori della tesi in argomento – non ammette che nella fase pubblicistica, deputata alla scelta del miglior offerente, l’A.T.I. sia attraversata da una modifica soggettiva, mediante l’addizione di un soggetto esterno alla gara: in caso contrario, ossia se venisse ammesso alla selezione un soggetto diverso da quello che ha presentato l’offerta, si finirebbe per violare la par condicio tra i concorrenti.
La ricognizione di questo principio sarebbe stata di recente consacrata dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 9/2021[11], che si è espressa sulla cosiddetta “sostituzione in riduzione” di uno dei partecipanti a un R.T.I. e ha affermato il principio di diritto per cui “l’art. 48, commi 17, 18 e 19-ter, del d. lgs. n. 50 del 2016, nella formulazione attuale, consente la sostituzione, nella fase di gara, del mandante di un raggruppamento temporaneo di imprese, che abbia presentato domanda di concordato in bianco o con riserva a norma dell’art. 161, comma 6, l. fall, e non sia stata utilmente autorizzato dal tribunale fallimentare a partecipare a tale gara, solo se tale sostituzione possa realizzarsi attraverso la mera estromissione del mandante, senza quindi che sia consentita l’aggiunta di un soggetto esterno al raggruppamento; l’evento che conduce alla sostituzione interna, ammessa nei limiti anzidetti, deve essere portato dal raggruppamento a conoscenza della stazione appaltante, laddove questa non ne abbia già avuto o acquisito notizia, per consentirle, secondo un principio di c.d. sostituibilità procedimentalizzata a tutela della trasparenza e della concorrenza, di assegnare al raggruppamento un congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto interno tale da poter riprendere correttamente, e rapidamente, la propria partecipazione alla gara”.
Insomma, “la deroga all’immodificabilità soggettiva dell’appaltatore costituito in raggruppamento è solo quella dovuta, in fase esecutiva, a modifiche strutturali interne allo stesso raggruppamento, senza l’addizione di nuovi soggetti che non abbiano partecipato alla gara”: ciò, infatti, “contraddirebbe la stessa ratio della deroga, dovuta a vicende imprevedibili che si manifestino in sede esecutiva e colpiscano i componenti del raggruppamento, tuttavia senza incidere sulla capacità complessiva dello stesso raggruppamento di riorganizzarsi internamente, con una diversa distribuzione di compiti e ruoli (tra mandante e mandataria o tra i soli mandanti), in modo da garantire l’esecuzione dell’appalto anche prescindendo dall’apporto del componente del raggruppamento ormai impossibilitato ad eseguire le prestazioni o, addirittura, non più esistente nel mondo giuridico (perché, ad esempio, incorporato od estinto)”[12].
Tale approdo ermeneutico si porrebbe poi sul solco di una risalente giurisprudenza della Plenaria, addirittura antecedente al codice dei contratti pubblici, per cui in materia di gare pubbliche il divieto di modificazione della compagine delle associazioni temporanee di imprese o dei consorzi nella fase procedurale, ossia tra la presentazione delle offerte e la definizione della procedura di aggiudicazione, è finalizzato a impedire l’aggiunta o la sostituzione di imprese partecipanti all’A.T.I. o al consorzio con finalità elusive della legge di gara e in spregio alla tutela della par condicio[13].
Dunque, ancor prima del decreto correttivo la modificazione soggettiva dei componenti di un R.T.I. era sì ammessa ma solo in senso riduttivo, a condizione che le imprese che restano a far parte del raggruppamento risultino titolari, da sole, dei requisiti di partecipazione e di qualificazione[14].
Il terzo argomento è ancora di carattere testuale e attiene all’interpretazione letterale delle norme. A detta del Consiglio di Stato, il comma 19-ter rinvierebbe “alle ipotesi tipizzate ai precedenti commi, puramente e semplicemente, senza escludere per la perdita dei requisiti di cui all’art. 80 l’inciso «in corso di esecuzione»”: l’assenza di tale precisazione, “secondo un’interpretazione letterale e logica”, andrebbe “inteso nel senso di non consentire la modificazione soggettiva se l’evento si verifichi in corso di gara”[15].
Difatti, se “il legislatore avesse voluto estendere la rilevanza della perdita dei requisiti di cui all’art. 80 in corso di gara, lo avrebbe disposto con chiarezza, introducendo il doveroso distinguo nel testo del comma 19-ter”[16].
Tale conclusione sarebbe suffragata anche dall’impossibilità di poter “ipotizzarsi una «distrazione» del Legislatore nella formulazione della norma”: siccome il comma 19-ter è stato introdotto contestualmente alla novella dei commi 17 e 18, con la quale la fattispecie (antecedentemente non prevista) di perdita dei requisiti soggettivi è divenuta una ragione di possibile modificazione del raggruppamento, “sarebbe … del tutto illogico che l’estensione «alla fase di gara» di cui al comma 19-ter, introdotto dallo stesso ‘decreto correttivo’ vada a neutralizzare la specifica e coeva modifica del comma 18”[17] e dell’analogo comma 17.
In questi termini è dunque la tesi più restrittiva, in base alla quale le ragioni fin qui esposte dovrebbero indurre a ritenere che la perdita dei requisiti di cui all’art. 80 da parte della mandataria o di una delle mandanti “in fase di gara” determini l’esclusione dell’intero R.T.I., cui non è consentita alcuna modificazione soggettiva.
5. L’interpretazione estensiva: l’applicabilità dei commi 17 e 18 anche alla “fase di gara”.
Di diverso avviso un’altra parte della giurisprudenza amministrativa che, come la sentenza di primo grado che ha deciso il caso poi affrontato dalla Plenaria, ritiene che l’inciso “in corso di esecuzione” non osti all’applicazione del comma 19-ter anche all’ipotesi di perdita di uno dei requisiti generali in corso di gara[18].
Anche in questo caso il punto di partenza è, ovviamente, la lettera della norma: siccome i commi 17, 18 e 19 si riferiscono alla fase esecutiva del rapporto, l’estensione alla fase di gara delle modifiche soggettive esplicitamente prevista dal comma 19-ter non può che riferirsi – “senza distinzione alcuna”[19] – al complesso della disciplina recata dai tre commi.
Detto con parole diverse, l’inciso “in corso di esecuzione” riferito alla perdita dei requisiti di cui all’art. 80 sarebbe da leggersi in coerenza coi due commi (17 e 18) in cui è stato inserito, entrambi dedicati unicamente alla fase esecutiva del rapporto.
Basta leggere per intero il comma 18 per avvedersi che esso si riferisce espressamente (e solamente) alla fase esecutiva; nella parte in cui si disciplina la possibilità che la mandataria venga sostituita, si prevede infatti che “la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente Codice purché abbia i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire; non sussistendo tali condizioni la stazione appaltante deve recedere dal contratto”.
Altrettanto vale per il comma 17, nel quale è previsto che il mandatario, ove non indichi altra impresa al posto della mandante estromessa, “è tenuto alla esecuzione direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché questi abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire”.
Dunque, l’inciso aggiunto dal correttivo “…ovvero in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’articolo 80” si inserirebbe “in modo del tutto coerente ed omogeneo in tale contesto regolatorio afferente i mutamenti intervenuti in corso di esecuzione. In particolare, la locuzione «in corso di esecuzione», di cui all’inciso aggiunto, è neutra o al più superflua dato il contesto in cui è inserita”[20].
Alle medesime conclusioni – sempre secondo questa certa giurisprudenza – conduce anche la ratio della novella legislativa di cui si è detto, che sarebbe “quella di apportare una deroga al principio dell’immodificabilità alla composizione dei raggruppamenti, al fine di evitare che un intero raggruppamento sia escluso dalla gara a causa di eventi sopraggiunti comportanti la perdita dei requisiti di ordine generale da parte di un’impresa componente”[21].
Se l’obiettivo del legislatore è quello di garantire la partecipazione degli operatori non colpiti da uno degli eventi elencati nei commi 17 e 18 costituiti in raggruppamento, evitando che la patologia di un operatore travolga ingiustamente anche gli altri, salvaguardando al contempo l’interesse pubblico della stazione appaltante a non perdere offerte utili, allora non vi sarebbe alcuna “ragione di operare distinzioni fra le varie sopraggiunte cause di esclusione”[22].
Peraltro, una interpretazione siffatta esclude di per sé il rischio di abuso di tale strumento, dato che la modifica soggettiva è possibile solo nei casi di sopravvenuta carenza dei requisiti, e non nell’ipotesi di “mancanza” ab origine, sussistente fin dalla data della presentazione della domanda di partecipazione.
6. L’ordinanza di rimessione alla Plenaria.
Così ricostruito il contrasto creatosi in seno al Consiglio di Stato, si può comprendere il motivo per cui la Quinta Sezione, con l’ordinanza n. 6959/2021, lo scorso 18 ottobre 2021 ha sottoposto il seguente quesito all’Adunanza Plenaria: “se sia possibile interpretare l’art. 48, commi 17, 18 e 19-ter d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 nel senso che la modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese in caso di perdita dei requisiti di partecipazione ex art. 80 da parte del mandatario o di una delle mandanti è consentita non solo in fase di esecuzione, ma anche in fase di gara”. A tale richiesta ne è stata aggiunta una seconda, subordinata al caso in cui venisse data risposta positiva alla prima: “precisare la modalità procedimentale con la quale detta modifica possa avvenire, se, cioè, la stazione appaltante sia tenuta, anche in questo caso, ed anche qualora abbia già negato la autorizzazione al recesso che sia stata richiesta dal raggruppamento per restare in gara avendo ritenuto intervenuta la perdita di un requisito professionale, ad interpellare il raggruppamento, assegnando congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto interno tale da poter riprendere la propria partecipazione alla gara”.
Ci si dedicherà allora precipuamente a indagare le ragioni per cui il Collegio rimettente abbia ritenuto necessario coinvolgere l’Adunanza Plenaria.
L’ordinanza in parola, a differenza delle sentenze cui appartengono entrambi gli orientamenti descritti nei due paragrafi che precedono, mette innanzitutto l’accento sul dato letterale, affermando che, a ben riflettere, “non pare decisivo per ricavare la regola della fattispecie”: difatti l’inciso “in corso di esecuzione” – sulla cui presenza i fautori dell’interpretazione più restrittiva si sono concentrati per sostenere che costituisse un ostacolo all’applicazione del comma 19-ter anche all’ipotesi di sopraggiunta perdita dei requisiti di ordine generale – potrebbe essere stato inserito “per evitare il possibile dubbio interpretativo che il richiamo ai «requisiti di cui all’art. 80» vale a dire a quei requisiti – e a quell’articolo del codice – la cui verifica si compie in fase procedurale avrebbe potuto far sorgere circa l’effettivo ambito applicativo della disposizione”.
Insomma, “senza che lo si dica inutile o superfluo come fatto dal giudice di primo grado, od anche illogico”, l’inserzione di quell’inciso potrebbe avere[23] lo scopo di evitare un equivoco.
Oltre a ciò, continua il Giudice, non si può dubitare che risponda a logica “l’argomento per il quale se il legislatore, introducendo il comma 19-ter all’interno dell’art. 48, avesse voluto far eccezione alla deroga e ripristinare il principio di immodificabilità del raggruppamento in caso di perdita dei requisiti generali di cui all’art. 80 del codice in fase di gara, la via maestra sarebbe stata quella di operare la distinzione all’interno dello stesso comma 19-ter, senza dar vita ad un arzigogolo interpretativo”: è infatti ben possibile sostenere che con il rinvio alle “modifiche soggettive” dei commi 17, 18 e 19, la disposizione dovrebbe consentire la modifica del raggruppamento in fase di gara per il caso in cui si presentino una tra tutte le sopravvenienze ivi previste, compresa la perdita dei requisiti generali, senza eccezioni di sorta.
Al contempo, l’ordinanza mette in guardia dal ritenere che il problema possa essere risolto così facilmente, dato che “una distonia e contraddizione tra le norme” indubbiamente c’è ed essa ricorrerebbe su di un duplice piano.
Sul piano interno, a voler seguire l’interpretazione restrittiva e quindi consentendo la modifica soggettiva del raggruppamento in corso di gara in caso di impresa sottoposta a procedura concorsuale o raggiunta da interdittiva antimafia e non invece nel caso in cui la stessa abbia perso uno o più dei requisiti generali, si finirebbe per ammettere la riorganizzazione dell’associazione di imprese in ipotesi che paradossalmente “risultano per più versi maggiormente allarmanti per l’interesse pubblico delle altre per le quali si vuole escluso”; e ciò senza tener conto del fatto che tutte le fattispecie previste nei commi 17 e 18, benché ciascuna abbia la sua peculiarità, sono accumunate dal fatto di essere “incidenti” che denotano la perdita dell’integrità dell’operatore economico per la sua condotta professionale[24] ovvero la perdita dell’affidabilità circa la sua capacità di eseguire le prestazioni oggetto del contratto in affidamento[25].
Sempre sul piano interno, il Collegio fa notare la possibile distonia tra la possibilità, oggi concessa dai commi 17 e 18, a seguito dell’intervento del “decreto correttivo”, di modificare – in fase di esecuzione – i componenti del raggruppamento anche in caso di perdita dei requisiti di partecipazione ex art. 80, “quand’ormai la stazione appaltante ha ben poche possibilità di vagliare l’affidabilità del raggruppamento per come riorganizzatosi al venir meno di un suo componente, con ogni possibile incertezza sulla residuata capacità di esecuzione”, e l’impossibilità di operare la medesima modifica “in fase di gara quando è ancora in tempo ad effettuare ogni verifica sui rimanenti componenti”: scelta che – se il legislatore effettivamente avesse compiuto – parrebbe effettivamente poco logica.
Quanto al piano esterno, l’interpretazione estensiva non dovrebbe essere foriera di problemi, “perché se è vero che la deroga al principio di immodificabilità dei raggruppamenti per sopravvenuto assoggettamento a procedura concorsuale di un soggetto aggregato o per adozione nei suoi confronti di una misura prevista dalla normativa antimafia evita che le vicende dell’uno possano ripercuotersi su tutti gli altri, in situazioni in cui non sia incisa la capacità complessiva dello stesso raggruppamento che, riorganizzatosi al suo interno, sia ancora in grado di garantire l’esecuzione dell’appalto”, è indubbio, seguendo questa via di ragionamento, che le medesime “ragioni possano condurre a dire giustificata la deroga all’immodificabilità del raggruppamento per la perdita dei requisiti generali di partecipazione e, specularmente, a dire non giustificato un diverso trattamento di detta vicenda”.
Sembra quindi che non pochi siano gli aspetti problematici che genererebbe l’adesione alla tesi restrittiva, benché residui un problema di contraddizione tra norme, a voler sposare l’interpretazione estensiva.
Ebbene, essendosi già verificato (e prospettandosi ancora possibile) un contrasto giurisprudenziale per differente ermeneutica delle norme suddette, la Quinta Sezione ha rimesso la causa all’Adunanza Plenaria, affinché questa risponda ai quesiti sopra riportati.
7. La decisione dell’Adunanza Plenaria.
Vale la pena partire dalle conclusioni, per poi analizzare punto per punto il ragionamento offerto dall’Adunanza Plenaria. Quest’ultima ha ritenuto “che la modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese, in caso di perdita dei requisiti di partecipazione di cui all’art. 80 d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 (Codice dei contratti pubblici) da parte del mandatario o di una delle mandanti, è consentita non solo in sede di esecuzione, ma anche in fase di gara, in tal senso interpretando l’art. 48, commi 17, 18 e 19-ter del medesimo Codice. Ne consegue che, laddove si verifichi la predetta ipotesi di perdita dei requisiti, la stazione appaltante, in ossequio al principio di partecipazione procedimentale, è tenuta ad interpellare il raggruppamento e, laddove questo intenda effettuare una riorganizzazione del proprio assetto, onde poter riprendere la partecipazione alla gara, provveda ad assegnare un congruo termine per la predetta riorganizzazione”.
Prima di risolvere i quesiti devoluti, il Giudice propone alcune osservazioni preliminari, utili a “inquadrare” la tematica oggetto del contendere.
La prima concerne la regola generale contenuta nell’art. 48, co. 9, a mente del quale “è vietata qualsiasi modificazione alla composizione dei raggruppamenti temporanei e dei consorzi ordinari di concorrenti rispetto a quella risultante dall’impegno presentato in sede di offerta”, fatto “salvo quanto disposto ai commi 17 e 18”, i quali quindi costituiscono – per espressa previsione legislativa – due ipotesi eccezionali al predetto principio.
Le due disposizioni – scrive la Plenaria – debbono essere interpretate alla luce di quanto affermato dalla propria sentenza n. 10/2021, per cui la sostituzione del mandatario o della mandante è consentita unicamente “con un altro soggetto del raggruppamento stesso in possesso dei requisiti”; negli stessi termini – ossia solo mediante una sostituzione “in diminuzione” e mai “per addizione[26]” – deve leggersi il comma 19, che ammette il recesso di una o più imprese raggruppate “esclusivamente per esigenze organizzative del raggruppamento”; è vietato valersi di questi “meccanismi” per “eludere la mancanza di un requisito di partecipazione alla gara”[27].
Il comma 9 cristallizza dunque il principio generale di “immodificabilità” della composizione del raggruppamento, di cui costituiscono eccezioni sia le due ipotesi di cui ai commi 17 e 18, richiamati dallo stesso comma 9, che quella di cui al comma 19: una pluralità di esclusioni – commenta la Plenaria – “tali per la verità (stante il loro numero) da render[e] sempre meno concreta l’applicazione” del principio in parola, se si pensa che a esse deve pure aggiungersi il più volte citato comma 19-ter[28].
Fatte tali premesse, si può quindi passare a esaminare il problema interpretativo.
8. L’antinomia assoluta.
A detta della Plenaria, la difficoltà di dare applicazione ai commi 17, 18 e 19-ter sarebbe ingenerato da una “antinomia normativa”, causata da “una tecnica legislativa non particolarmente sorvegliata”[29].
Come già si è detto, l’art. 32, co. 1, lett. h), d. lgs. 19 aprile 2017, n. 56, ha introdotto nel testo dell’art. 48, per quel che qui interessa, due modifiche: la prima ai commi 17 e 18, aggiungendo alle sopravvenienze già ivi presenti anche il “caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’art. 80”; la seconda consistente nell’aggiunta dell’intero comma 19-ter, il quale prevede che “le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”.
Per il Consiglio di Stato l’antinomia si concreterebbe nel fatto che, da un lato, “il riferimento espresso al «corso dell’esecuzione», contenuto nei commi 17 e 18, farebbe propendere per ritenere l’ipotesi di «perdita dei requisiti di cui all’art. 80», come limitata ad una sopravvenienza che si verifichi in quella fase”; dall’altro lato, che “l’ampia dizione del comma 19-ter rende[rebbe] applicabili tutte le modifiche soggettive contemplate dai commi 17 e 18 (quindi anche la predetta «perdita dei requisiti di cui all’art. 80»), anche in fase di gara”.
Prima di passare in rassegna la modalità con cui l’Adunanza Plenaria ha risolto l’antinomia, vale la pena ricordare cosa essa sia.
Il termine ‘antinomia’ significa opposizioni di norme o regole[30], incompatibilità tra di esse[31]: è la situazione per cui due norme non possono essere entrambe vere (cioè validamente applicabili)[32]. Più precisamente, perché si abbia un’antinomia è necessario che le norme appartengano allo stesso ordinamento e che le stesse abbiano lo stesso àmbito di validità (temporale, spaziale, personale, materiale). A sua volta, a seconda che l’àmbito di validità sia uguale, in parte uguale e in parte diverso, in parte uguale ma non anche in parte diverso, l’antinomia si presenta, rispettivamente, come “totale-totale”, “parziale-parziale”, “totale-parziale”[33]; gli interpreti ritengono tuttavia che solo la prima sia la vera antinomia[34], quella che viene anche denominata antinomia assoluta, posta da fonti contemporanee, entrambe generali (o entrambe speciali), equiparate gerarchicamente e ambedue competenti[35].
Non sono poi molti i casi in cui si riscontrano delle antinomie di tal fatta, non rinvenendosi poi così spesso nell’ambito di uno stesso atto normativo una incompatibilità tra disposizioni non risolvibile mediante semplice interpretazione[36]: in queste ipotesi, il contrasto è talmente importante che il più delle volte il legislatore è obbligato a intervenire direttamente, emanando una norma abrogativa o modificativa di una delle due disposizioni in conflitto[37].
Vale allora la pena di capire se, alla luce di queste coordinate, le due disposizioni che riguardano la fattispecie di nostro interesse (i commi 17 e 18, da un lato, e il comma 19-ter, dall’altro) siano effettivamente in opposizione tra loro.
Le due norme “che non possono essere entrambe vere” sono le seguenti: la prima, “in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’articolo 80, la stazione appaltante può proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico …” (così il comma 17 e specularmente il comma 18[38]) e la seconda, “le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara” (così comma 19-ter).
A onor del vero, non pare così scontato che ci si trovi davanti a un caso di antinomia: o meglio, il contrasto insanabile tra le due disposizioni si rinviene, solo se si accede a una certa lettura delle stesse; precisamente, si ha antinomia se l’inciso “in corso di esecuzione” si interpreta in senso fortemente esclusivo, ossia come “solo in corso di esecuzione”.
Diversamente, infatti, il comma 19-ter, che prevede l’applicazione dei commi 17, 18 e 19 “anche” in fase di gara, lascia chiaramente intendere che le tre disposizioni trovano applicazione di per sé in fase di esecuzione e, per effetto della novella, “anche” in quella successiva: aderendo a questa interpretazione, non si avrebbe alcuna antinomia.
Beninteso, non si intende con queste righe banalizzare o semplificare il problema ermeneutico affrontato dalla Plenaria, bensì dimostrare che l’interpretazione letterale delle disposizioni, alla luce della loro ratio, consente un’esegesi che dà loro un significato, in grado di superare i dubbi applicativi, senza, peraltro, privare di significato – o considerare tamquam non esset – l’inciso “in corso di esecuzione. Non è questa, però, la strada seguita dal Consiglio di Stato, che invece rinviene un’antinomia assoluta tra le due disposizioni sopra enunciate.
Sulla prima già si è detto molto: l’espressione “in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’articolo 80” farebbe “propendere per ritenere l’ipotesi di «perdita dei requisiti di cui all’art. 80», come limitata ad una sopravvenienza che si verifichi in quella fase”.
Sulla seconda, che genererebbe un’antinomia con la precedente, se letta nel senso per cui “l’ampia dizione del comma 19-ter” sia tale da rendere “applicabili tutte le modifiche soggettive contemplate dai commi 17 e 18 (quindi anche la predetta «perdita dei requisiti di cui all’art. 80»), anche in fase di gara”, deve ancora indugiarsi.
Si deve infatti evidenziarne in primis il carattere poco perspicuo: risulta difficilmente comprensibile, in questo specifico contesto, l’utilizzo dell’espressione ‘modifiche soggettive ivi contemplate’.
Essa rinvia evidentemente ai tre commi più volte citati, 17, 18, e 19: le “modifiche soggettive” di cui si discorre nelle tre disposizioni sono, rispettivamente, la facoltà per “la stazione appaltante [di] proseguire il rapporto di appalto con altro operatore economico che sia costituito mandatario nei modi previsti dal presente codice”, l’obbligo per il “mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, [di eseguire], direttamente o a mezzo degli altri mandanti” i lavori o i servizi o le forniture ancora da eseguire, il “recesso di una o più imprese raggruppate”.
Se così si devono intendere le “modifiche soggettive ivi contemplate”, ci si accorge ben presto che il comma 19-ter non ha alcun significato. Volendo fare un esempio concreto (prendendo il caso che ha riguardato la sentenza in commento), la norma che si ricava dalla disposizione in parola avrebbe questo tenore: “la previsione di cui al comma 18”, ossia l’obbligo per il mandatario di eseguire i servizi, nel caso in cui, il mandante, in corso di esecuzione, perda uno dei requisiti di cui all’articolo 80[39], trova applicazione anche laddove la modifica soggettiva contemplata nel comma 18, ossia la sostituzione del mandante pretermesso con altro operatore già parte del R.T.I., si verifichi in fase di gara.
Ci si avvede subitamente che non ha alcun senso prevedere l’applicazione dei commi 17, 18 e 19 “anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”; semmai, i meccanismi sostitutivi previsti da quei commi spiegheranno effetti anche laddove le sopravvenienze ivi contemplate si verifichino in fase di gara. È infatti evidente che la modifica soggettiva si potrà avere, ossia potrà dirsi autorizzabile dalla stazione appaltante, al ricorrere di uno di quelli eventi elencati dalla disposizione. Detto in altro modo, è il comma 19-ter a consentire la modifica soggettiva (ossia l’applicazione dei commi 17, 18 e 19) in fase di gara: ciò, però, non allorquando “le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”, bensì per l’ipotesi in cui quei certi “incidenti di percorso” (procedure concorsuali, perdita dei requisiti ex art. 80 ecc.) si verifichino in corso di gara.
La giurisprudenza che si è occupata del tema sembra aver ignorato un dettato legislativo così maldestro, interpretando il comma 19-ter sempre nei termini appena detti, benché non possa passare sottotraccia che anche tale formulazione letterale debba attribuirsi a una “tecnica legislativa non particolarmente sorvegliata”, per usare le parole della Plenaria.
Se questo è allora il significato – probabilmente l’unico – da attribuirsi al comma 19-ter, la norma che si ricava quanto al caso che ci riguarda sarà la seguente: “la previsione di cui al comma 18”, ossia l’obbligo per il mandatario di provvedere all’esecuzione dei servizi, nel caso in cui il mandante, in corso di esecuzione, perda uno dei requisiti di cui all’articolo 80[40], trova applicazione anche laddove la sopravvenienza contemplata nel comma 18, ossia la perdita, in corso di esecuzione, di uno dei requisiti di cui all’articolo 80, si verifichi in fase di gara.
Anche al termine della ricostruzione di questi passaggi ermeneutici, ci si avvede che non è poi antinomica la previsione di estendere determinati effetti all’ipotesi in cui un certo evento (la perdita di uno dei requisiti di cui all’articolo 80), pensato per accadere in corso di esecuzione, si verifichi invece in fase di gara.
Tale conclusione è ancora più vera, se si considera il caso ipotetico (e radicale) in cui sia al comma 17 che al comma 18 fosse anteposto l’inciso “in corso di esecuzione”, riferito a tutte le ipotesi ivi contemplate: nulla sarebbe cambiato quanto all’applicazione del comma 19-ter, che richiama le sopravvenienze ivi elencate, ossia gli accadimenti riportati dalle tre disposizioni, nella consapevolezza (del legislatore) che i tre commi hanno effetti in corso di esecuzione ed è dunque necessaria un’altra disposizione (il comma 19-ter) per estenderne la portata applicativa anche alla fase di gara.
Non ha dunque senso sostenere che il richiamo del comma 19-ter alle fattispecie elencate ai commi 17, 18 e 19 sarebbe da intendersi nei limiti e “con le precisazioni contenute nei detti commi”[41], perché è evidente che tutte quelle fattispecie si riferiscono a sopravvenienze in corso di esecuzione del contratto: se così non fosse stato, non ci sarebbe stato bisogno di introdurre il comma 19-ter ed estendere gli effetti di quelle disposizioni alla fase antecedente all’esecuzione del contratto.
Vale comunque la pena, nonostante, per quel che si è detto, si debba fare un certo sforzo per vedere un’antinomia nelle due disposizioni suddette, proseguire l’analisi del ragionamento dell’Adunanza Plenaria.
9. I criteri di risoluzione delle antinomie.
In presenza di un’antinomia – è noto – deve darsi applicazione ai cosiddetti criteri di risoluzione, che sono il criterio cronologico, quello gerarchico e quello di specialità.
Non è questa la sede per ripetere concetti risaputi e ben noti a tutti gli interpreti: ci si limerà quindi a qualche sintetica considerazione in merito. Quanto al criterio cronologico, vale la pena ricordare che esso “esprime l’essenziale temporalità di ogni ordinamento positivo”[42], andando a regolare il conflitto tra norme poste da atti normativi dello stesso tipo secondo quanto dispongono i diversi ordinamenti positivi (ad esempio, nel nostro ordinamento, le varie figure di legge: costituzionale, ordinaria, regionale; i vari tipi di regolamento: governativo, ministeriale, regionale, provinciale, comunale, ecc.). Sulla base di tale criterio si risolvono quindi “antinomie «apparenti» tra norme incompatibili poste nell’àmbito dello stesso tipo di fonte e non già tra norme appartenenti a fonti diverse”[43]. Per la soluzione di queste ultime antinomie varranno i criteri stabiliti dai singoli ordinamenti positivi, i quali, differenziando i tipi di atti normativi stabiliscono pure, esplicitamente o implicitamente, le (possibili) relazioni tra le norme corrispondenti. Il criterio cronologico si applicherà quindi in ogni altra ipotesi, con l’effetto, di carattere relativo, di incidere non sulla validità della norma abrogata, bensì sulla sua limitazione di efficacia (pro futuro).
Il secondo criterio è quello gerarchico, in base al quale, in caso di antinomia fra norme collocate a livelli gerarchici diversi, la norma superiore “rende annullabile”[44] quella inferiore irregolare: nel nostro ordinamento antinomie fra una norma costituzionale e una contenuta in una legge ordinaria vengono regolate secondo il criterio in parola (artt. 134, 136 e 138 Cost.), così come fra una norma contenuta in una legge e una contenuta in un regolamento (art. 4, co. 1, Prel.); è vero comunque che la maggior parte dei rapporti sono positivamente disciplinati sulla base della ripartizione e separazione delle competenze normative, per cui più sovente è il criterio della competenza a trovare applicazione, come sottospecie di quello della gerarchia[45].
Il terzo criterio è quello della specialità, per il quale, in caso di antinomia totale-parziale fra due norme (per cui l’àmbito di validità delle stesse è in parte uguale ma non anche in parte diverso), quella speciale fa eccezione a quella generale: l’attività si risolve, più che nella rilevazione della sola norma valida in un ordinamento, nella individuazione della norma applicabile al caso di specie, ossia nella restrizione della portata della disposizione generale e nella corrispondente applicazione della norma speciale derogatoria[46].
Venendo quindi all’applicazione dei criteri suddetti nella fattispecie di nostro interesse, la Plenaria scrive che le disposizioni in contrasto tra loro sono contestuali dal punto di vista temporale, essendo “riferibili ed introdotte dalla medesima fonte”: il che, oltre a rendere inapplicabile il criterio cronologico, impedisce pure di ricorrere a quello gerarchico e a quello di specialità.
Il Collegio passa dunque a indagare, “in applicazione dell’art. 12 disp. prel cod. civ., [la] lettera delle disposizioni” e la “«volontà del legislatore»”.
Non è questo, tuttavia, l’approccio suggerito dalla dottrina più autorevole[47]. Nel caso in cui due norme con la stessa sfera di validità, contemporanee, pariordinate e appartenenti alla stessa sfera di “competenza” normativa, entrambe generali o speciali, siano in contrasto tra loro, ossia generino un’antinomia, non vi è alcun criterio che possa soccorrere e ciò “fa sì che l’antinomia si converta in lacuna delle norme sulla normazione”[48]: difatti, il problema della coerenza dell’ordinamento giuridico si converte in una questione sulla completezza dello stesso, dal momento che anche le norme sulla normazione (e quindi i criteri di risoluzione delle antinomie) fanno parte integrante dell’ordinamento giuridico[49].
Si è cercato quindi un quarto criterio per risolvere tali antinomie insolubili: il criterio storicamente proposto “è quello che veniva tratto dalla forma della norma”[50]. Il termine ‘forma’ viene utilizzato per riferirsi al “modo di presentarsi della prescrizione”, ovverosia il “modo deontico”: obbligo (positivo), o divieto (obbligo negativo), permesso (positivo o negativo)[51]. Ci si domanda quindi se, a parità di grado, di sfera di validità, di tempo, di generalizzazione-specializzazione, sia possibile preferire l’una rispetto all’altra qualificazione del comportamento.
La risposta si trae da uno dei principi storico-positivi dell’ordinamento giuridico complessivamente inteso, per cui esso, nella sua ideologia di fondo, ha una ispirazione liberale (tendenzialmente permissiva): in sostanza, considerando i modi deontici delle norme di comportamento, bisognerebbe stabilire una precisa prevalenza fra obblighi, divieti, permessi e facoltà secondo un’interpretazione che favorisce la lex permissiva su quella imperativa[52]. Detto altrimenti, se è vero che “tutto ciò che non è comandato (obbligatorio o vietato) è permesso”, sembrerebbe allora di poter preferire, nella situazione antinomica, il permesso al comando, positivo o negativo che sia.
Ciò vale per il caso in cui la norma giuridica in esame non sia bilaterale, altrimenti la preminenza del permesso sull’imperativo si risolve, corrispondentemente, nella preferenza della norma imperativa rispetto a quella permissiva nei confronti dell’altro destinatario. Il criterio può ritenersi valido e pacificamente applicabile, quindi, solo nell’ipotesi di antinomia tra norme che non presentino il carattere della bilateralità (per esempio, tra due norme che impongono «doveri» od «obblighi» o, rispettivamente, «permessi», senza che al dovere o all’obbligo corrisponda una situazione attiva di pretesa, di diritto, di interesse giuridicamente protetto[53]).
Proprio il carattere bilaterale della norma – a ogni diritto corrisponde un dovere – ha smorzato l’entusiasmo nei confronti del criterio fin qui enunciato: è infatti evidente che quando ad una norma permissiva corrisponde una norma “imperativa”, la preminenza del permesso sull’imperativo (o, meglio, della norma permissiva sulla norma imperativa) nei confronti di uno dei due destinatari della norma o delle norme (ad es. il debitore) si risolve, corrispondentemente, nella preferenza dell’imperativo sul permesso (o, meglio, della norma imperativa su quella permissiva) nei confronti dell’altro destinatario (ad es. del creditore). Il vero problema, allora, non è di far prevalere la norma permissiva sull’imperativa, o viceversa, ma di stabilire quale dei due soggetti del rapporto giuridico, ossia quale dei due interessi in conflitto debba avere la prevalenza[54].
Il criterio, insomma, lascia la scelta all’interprete, rivelandosi quindi, più che un vero e proprio criterio di soluzione delle antinomie, “un canone ermeneutico per la composizione di disposizioni contrarie o contraddittorie e di individuazione o deduzione della norma applicabile”[55]. Sia che si tratti, ad esempio, di preferire la norma permissiva rispetto a quella imperativa, sia di ricavare da due disposizioni contrarie la norma permissiva, l’operatore-interprete non elimina né la norma imperativa nel primo caso, né alcuna delle due potenziali norme imperative (di obbligo o di divieto) nel secondo, ma semplicemente da due disposizioni o espressioni normative tra loro contraddittorie o contrarie ricava e presceglie per l’applicazione la norma permissiva.
La strada cui conduce l’applicazione del presente criterio è quindi quella della “conservazione” di entrambe le norme incompatibili, attraverso la cosiddetta interpretazione correttiva, che presuppone il riconoscimento della semplice “apparenza” dell’antinomia: in essa non vi è modificazione alcuna delle disposizioni (apparentemente) contrastanti, ma semplicemente una possibile diversa interpretazione di un’espressione contenuta nel testo normativo.
Come si è visto, invece, l’Adunanza Plenaria non ha esplorato il “criterio deontico”. E così, dopo aver registrato l’inapplicabilità dei tre criteri di risoluzione delle antinomie classici, ha affermato che non vi sarebbero “elementi utili all’interprete [che] possono essere ricavati, in applicazione dell’art. 12 disp. prel cod. civ., dalla lettera delle disposizioni”[56], né qualche aiuto esegetico potrebbe ricavarsi dalle tradizionali fonti utilizzate per ricostruire la volontà del legislatore: la relazione illustrativa al d. lgs. n. 56/2017 si riduce a “poco più di una parafrasi del testo normativo”.
Ci si propone allora di tentare la strada dell’interpretazione correttiva, onde esplorare un diverso iter che porti ad appianare il contrasto ermeneutico insorto.
10. L’interpretazione correttiva.
Già si è detto che ad avviso di chi scrive non è poi antinomica la previsione di estendere determinati effetti all’ipotesi in cui un certo evento (la perdita di uno dei requisiti di cui all’articolo 80), pensato per accadere in corso di esecuzione, poi si verifichi in fase di gara.
Ad ogni modo, è innegabile che il dettato letterale abbia provocato la formazione di due orientamenti giurisprudenziali contrapposti: per lo meno, quindi, le disposizioni di interesse danno luogo a problemi interpretativi, che devono risolversi a mezzo di appositi criteri.
I criteri interpretativi sono i medesimi strumenti che ha a disposizione il giudice, nel caso in cui non rinvenga un’antinomia assoluta insolubile, ma anche nel caso più semplice e comune in cui vi siano due norme apparentemente incompatibili. La filosofia del diritto conosce nove argomenti giuridici[57], che rappresentano un sottoinsieme del più ampio insieme degli argomenti retorici: oltre ai quattro menzionati dall’art. 12 delle Preleggi, ve ne sono altri cinque.
Il primo di essi è l’argomento letterale o, come nell’art. 12 Prel., del “significato proprio delle parole”, che invoca il rispetto del vincolo rappresentato dal significato utilizzato dal legislatore: serve a ottenere un’interpretazione meramente linguistica, cui deve sempre seguire un’interpretazione in senso stretto, o giuridica. Il secondo è l’argomento psicologico o, come nell’art. 12 Prel., dell’“intenzione del legislatore”, che richiede di attribuire a una disposizione il significato attribuitole da chi l’ha concepita. Il terzo è l’argomento a contrario, definito come l’argomento per cui, se il legislatore “ha esplicitamente prescritto una certa disciplina per un certo oggetto, ha implicitamente prescritto la disciplina opposta per qualsiasi altro oggetto”[58]. Il quarto argomento è la cosiddetta analogia legis o argomento a simili, codificata nel diritto italiano dal secondo comma dell’art. 12 Prel., per cui, “se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i princìpi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”. Questo secondo inciso dell’art. 12, per vero, è un argomento a sé stante, la cosiddetta analogia iuris, per cui si ricava una norma implicita a partire da principi (generali, ma anche costituzionali).
Vi sono poi l’argomento della dissociazione, per cui l’interpretazione conduce a distinguere dal caso generico regolato un altro sotto-caso più specifico[59]; l’argomento teleologico o della ratio legis, che richiede di interpretare una disposizione secondo la sua ratio, “in base ai fini o scopi oggettivamente perseguiti dalla norma”[60]; l’argomento sistematico, che, più che un singolo argomento, è una famiglia di argomenti, accumunati dall’esigenza “che la norma da individuare sia comunque compatibile con le altre norme ordinate in una stessa sistematica”[61]: fra gli argomenti sistematici, si ricordano quello topografico o della sedes materiae, quello dogmatico, quello della coerenza e l’interpretazione adeguatrice; vi è infine l’argomento equitativo, per il quale bisogna scegliere l’interpretazione più conforme all’equità (da intendersi come giustizia nel caso specifico) o alla giustizia (del caso generico)[62].
Ebbene, così riassunti i principi da applicarsi alla fattispecie e consideratene le sue peculiarità, vi è che l’argomento letterale, analogico, psicologico, a contrario e quello della dissociazione non sono utili per risolvere il nostro caso, benché, come già si è scritto, sia una certa lettura dell’inciso “in corso di esecuzione” ad aver esacerbato il dibattito sulla questione e ad aver reso, per alcuni, inutile la sola interpretazione letterale.
Di poco aiuto è l’argomento teleologico, che comunque è bene distinguere dall’argomento psicologico, avendo un tratto interpretativo di tipo oggettivo. L’argomento teleologico richiede di risalire “all’oggettivo scopo della legge, non alla soggettiva intenzione del legislatore”[63]: di conseguenza, mentre quest’ultima resta sempre uguale a sé stessa, l’oggettivo scopo della legge può cambiare nel tempo. L’argomento teleologico viene dunque utilizzato per fornire un’interpretazione evolutiva o innovatrice, mentre l’argomento psicologico per una lettura “originalista” o conservatrice. Nel nostro caso, trattandosi di assai disposizioni recenti, non vi è l’esigenza di adeguarle al mutato spirito dei tempi, della legge o dell’ordinamento.
Sembra, invece, decisivo l’argomento detto sistematico, in particolare il sotto-argomento topografico e quello della coerenza.
Il punctum pruriens è la presenza e la collocazione dell’inciso “in corso di esecuzione” nei commi 17 e 18. La Plenaria, così come anche il Giudice rimettente, non trovano convincente la tesi per cui tale espressione potrebbe essere superflua, benché, considerato che la tecnica legislativa è stata “poco sorvegliata”, è un risultato che non dovrebbe poi stupire molto.
Sulla possibilità di risolvere il conflitto anche attraverso una mera esegesi letterale, già si è detto. Vi è comunque un’altra ragione che giustifica quell’esito ermeneutico e l’esistenza di questa precisazione: i commi 17 e 18 sono originariamente stati concepiti come disposizioni aventi efficacia nella fase esecutiva del rapporto; i requisiti di cui all’art. 80 sono, invece e a rigore, ragioni di esclusione dell’operatore economico “dalla partecipazione a una procedura d’appalto” e la verifica dell’insussistenza di ragioni di esclusione riguarda precipuamente la fase della selezione (o comunque la fase anteriore alla stipulazione del contratto), non la fase esecutiva: del resto, benché tale condizione di “irriprensibilità morale” debba sussistere per tutta la durata dell’appalto, non vi sono dei momenti codificati nei quali, nella fase esecutiva, la stazione appaltante debba procedere a verifiche della persistenza di tali requisiti in capo all’aggiudicatario.
Insomma, sembra possibile affermare che l’inciso fosse funzionale a non creare equivoci, ossia a inserire una previsione, com’è quella della perdita dei requisiti di cui all’art. 80, tipicamente afferente alla fase procedurale, in una disposizione riguardante ciò che accade all’indomani della stipulazione del contratto.
Sempre utilizzando l’argomento topografico, sarebbe inspiegabile la scelta del legislatore di inserire un’eccezione alla facoltà consentita dal comma 19-ter in un comma che lo precede, ossia il comma 17 ovvero il comma 18. Difatti, a voler seguire questa interpretazione, l’inciso “in corso di esecuzione” a una prima lettura della norma, che proceda dal primo all’ultimo comma dell’art. 48, non avrebbe alcun significato, bensì lo acquisterebbe solo dopo aver letto il comma 19-ter. Al di là dell’“arzigogolo interpretativo” che si avrebbe, pare evidente che il legislatore non possa aver novellato le disposizioni in questo modo.
Vi sono poi ragioni di coerenza – e si viene qui all’argomento omonimo, parte della “famiglia” dell’argomento detto sistematico – che impongono di non vedere un’eccezione, là dove essa non c’è. Il comma 19-ter, benché formulato in modo discutibile e poco perspicuo, è chiaro nei suoi intenti: rendere possibili le modifiche soggettive previste dai commi 17, 18 e 19 anche “nella fase di gara”, laddove le sopravvivenze ivi contemplate si verifichino in questa specifica fase. L’argomento della coerenza impone di non creare antinomie con altre norme collocate allo stesso livello gerarchico: è evidente, invece, che l’introduzione per via interpretativa di una eccezione a una certa regola in un luogo diverso da dove quella stessa regola è sancita non risponde a coerenza. Se il comma 19-ter avesse inteso prevedere un’eccezione, non si sarebbe espresso in termini così piani da non lasciar intendere che ve ne siano: e ciò a maggior ragione nel caso di specie, in cui la modifica dei commi 17 e 18 è coeva all’introduzione del comma 19-ter.
Decisiva si presenta infine l’interpretazione adeguatrice, ossia quell’argomento che impone all’interprete di non produrre antinomie con norme collocate a un livello gerarchico superiore. Tipica dell’interpretazione costituzionale, essa rappresenta quel sottotipo di argomentazione sistematica, che consiste nell’attribuire a una disposizione solo significati conformi a costituzione o comunque a quei principi generalissimi su cui si fonda una certa materia.
Tale metodo interpretativo si concretizza in un controllo di ragionevolezza, ossia in un esame comparativo finalizzato a stabilire se il legislatore abbia legiferato ragionevolmente, trattando casi uguali in modo uguale e casi diversi in modo diverso.
Un lettore attento delle sentenze che hanno sostenuto l’interpretazione restrittiva non avrà mancato di notare che nessun interprete è stato in grado di argomentare la ragione per cui la perdita dei requisiti ex art. 80 in fase di gara dovrebbe costituire “una colpa senza possibilità di perdono” per tutti i membri del raggruppamento di cui l’operatore economico colpito fa parte. Insomma, non vi è una buona ragione per escludere l’intero R.T.I. nel caso in cui un suo componente sia colpito, in fase di gara, da un motivo di esclusione ex art. 80; perché, se essa ci fosse, allora dovrebbe considerarsi incostituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., la mancata esclusione del R.T.I., nel caso in cui un suo associato sia colpito da un’interdittiva antimafia, attesa la maggiore gravità di questa fattispecie.
Vi è poi un ultimo aspetto che l’interpretazione secondo ragionevolezza impone di prendere in esame: il netto ridimensionamento del principio di immodificabilità dei raggruppamenti di imprese nel corso del tempo. Come peraltro la stessa Plenaria osserva, le eccezioni sono oramai talmente numerose, che pare difficile continuare a predicare l’esistenza di un principio di tal fatta in termini assoluti: vi sono le ipotesi di cui ai commi 17 e 18, l’estensione degli stessi alla fase di gara per effetto del comma 19-ter, la possibilità per l’A.T.I. di riorganizzarsi in caso di recesso da parte di una delle partecipanti.
Se è ancora sostenibile che le modificazioni ammissibili sono solamente quelle che per espressa previsione di legge vengono ritenute giustificabili, è vero comunque che il loro numero non è poi così limitato. Se quindi il principio di immodificabilità deve oggi interpretarsi in questo senso, ossia in quello per cui gli incolpevoli componenti del R.T.I. non possono essere sanzionati (ed esclusi) per il sol fatto di essersi associati con un’impresa poi ritenuta non meritevole di eseguire una commessa pubblica, sicuramente nel novero delle eccezioni deve includersi la sopravvenuta perdita di uno dei requisiti di cui all’art. 80, anche se accaduta in fase di gara.
Una conclusione diversa, poi, finirebbe per svilire la funzione antimonopolistica degli R.T.I.[64], aumentando i rischi di essere esclusi per quegli operatori che, stante la propria dimensione, sono costretti ad associarsi, e si avrebbe l’indesiderato effetto di agevolare invece quegli operatori economici che hanno in proprio tutti i requisiti per partecipare da soli alla gara.
Per tutte queste ragioni, l’inciso “in corso di esecuzione” non può essere interpretato come eccezione alla disposizione recata dal comma 19-ter.
11. La risoluzione dell’antinomia: l’interpretazione secondo ragionevolezza o costituzionalmente orientata.
Concluso il percorso argomentativo che, ad avviso di chi scrive, si sarebbe dovuto seguire per risolvere il noto quesito, può ora riprendersi il ragionamento della Plenaria, che, una volta riconosciuta l’esistenza di una antinomia assoluta, è passata a esaminare le disposizioni antinomiche dal punto di vista letterale e ha quindi preso in considerazione la voluntas legis, tuttavia senza ricavare elementi utili.
Non potendo il giudice ricorrere al non liquet in attesa dell’intervento del legislatore, l’antinomia è stata composta dal Consiglio di Stato seguendo l’iter che si appresta ad analizzare.
L’Adunanza Plenaria si dice convinta che si tratta di una “antinomia assoluta” o “totale”, non potendosi sostenere che “vi sarebbe solo una incompatibilità apparente di enunciati, stante la natura «generale» della norma espressa dal comma 19-ter e la natura «parziale» di quella ricavabile dagli incisi dei commi 17 e 18”. “È questo il caso” – continua la sentenza in commento – “che ricorrerebbe allorché si intenda sostenere che il richiamo effettuato dall’art. 19-ter (norma generale) alle «modifiche soggettive ivi contemplate» (cioè nei commi 17 e 18) vada inteso come riferito alle predette modifiche «come disciplinate» dai medesimi commi 17 e 18 (e dunque, anche nei limiti per esse imposti)”: da ciò conseguirebbe che, “mentre la norma del comma 19-ter sarebbe tranquillamente applicabile (nel suo effetto espansivo riferito alla fase di gara) a tutte le modifiche soggettive salvo quelle derivanti «dalla perdita dei requisiti di cui all’art. 80», l’enunciato «in corso di esecuzione» a queste ultime riferito introdurrebbe una norma speciale che sottrae i casi considerati alla disciplina del comma 19-ter”.
Un’ipotesi di questo genere costituirebbe però un’antinomia “totale-parziale” (o “unilaterale”), che tuttavia non ricorre nella fattispecie, viceversa occorrendo – scrive ancora la Plenaria – “- o che uno dei due enunciati nomativi aggiungesse una specificazione (ad esempio, nel caso di specie, ad una certa fase della gara), tale da escludere (eccettuare) un singolo caso dalla classe di fattispecie altrimenti disciplinata dalla norma generale; nel caso di specie, invece, le fattispecie si presentano perfettamente coincidenti; - ovvero (e quantomeno) che l’esclusione della singola fattispecie fosse prevista dalla stessa norma generale, con una delle formule usualmente utilizzate dal legislatore (ad esempio: “fatto salvo quanto previsto…etc.”), e dunque, nel caso di specie, avrebbe dovuto essere il comma 19-ter (norma generale) ad escludere la specifica ipotesi della “perdita dei requisiti di cui all’art. 80” dalla classe di fattispecie degli articoli 17 e 18 per le quali interviene l’effetto ampliativo anche alla fase di gara”.
La Plenaria, tuttavia, argomentando perché nella fattispecie ci si trovi davanti a una antinomia assoluta e non a un’antinomia totale-parziale, finisce per smentire in punto di merito l’interpretazione restrittiva di cui si è detto sopra, che allora non si comprende se sia infondata – perché postula l’esistenza di un’antinomia parziale là dove, invece, ve ne è una “assoluta” – o sia da non preferirsi per altre ragioni.
Nella sentenza si può infatti leggere che, “in difetto di previsione espressa del legislatore, l’esclusione della predetta fattispecie sarebbe il frutto di una doppia operazione dell’interprete, il quale dovrebbe dapprima applicare l’estensione prevista dal comma 19-ter alle molteplici fattispecie di cui ai commi 17 e 18 e poi limitare tale estensione ad una sola di esse per effetto di una esclusione che agirebbe per così dire «di rimbalzo» sulla norma generale. In questo caso, per effetto di un duplice percorso interpretativo (secondo un tragitto, per così dire, di «andata e ritorno»), l’interprete più che risolvere un problema di antinomia finisce per auto-attribuirsi una potestà normativa ex novo”. All’esclusione di tale ipotesi interpretativa perviene, in sostanza, anche l’ordinanza di rimessione, laddove sostiene come risponda a logica “l’argomento per il quale, se il legislatore, introducendo il comma 19-ter all’interno dell’art. 48, avesse voluto fare eccezione alla deroga e ripristinare il principio di immodificabilità … la via maestra sarebbe stata quella di operare la distinzione all’interno dello stesso comma 19-ter, senza dare vita ad un arzigogolo interpretativo. Ed al fine di escludere l’interpretazione «restrittiva», valga, da ultimo, rilevare come questa sia conseguenza di una considerazione «sovrastimata» dell’inciso «in corso di esecuzione», posto che problemi interpretativi non molto dissimili potrebbero porsi – volendo utilizzare il metodo interpretativo qui non condiviso – anche per il fatto che il legislatore, nel momento stesso in cui introduceva il comma 19-ter, non ha eliminato dai commi 17 e 18 i riferimenti ai lavori, servizi o forniture «ancora da eseguire»; cioè proprio quei riferimenti che, prima delle modifiche introdotte dal d. lgs. n.56/2017, costituivano il fondamento dell’interpretazione limitativa delle sopravvenienze soggettive alla sola fase di esecuzione”.
Queste considerazioni, in cui la (s)correttezza dogmatica dell’interpretazione restrittiva si confonde con la sua insostenibilità nel merito, conducono dunque la Plenaria ad affermare di dover risolvere l’antinomia con “il ricorso ad altre considerazioni, riconducibili ai principi di interpretazione secondo ragionevolezza ovvero secondo Costituzione (o costituzionalmente orientata), cui peraltro lo stesso criterio di ragionevolezza (riferibile all’art. 3 Cost.) si riporta”.
Il primo argomento enucleato dalla Plenaria è l’equità o comunque l’applicazione del principio di non discriminazione, tra concorrenti e tra fattispecie che debbono essere trattate nello stesso modo.
Escludere la perdita dei requisiti ex art. 80 dal novero delle fattispecie per cui è ammessa una modifica soggettiva del raggruppamento in fase di gara finirebbe per introdurre “una disparità di trattamento tra varie ipotesi di sopravvenienze non ragionevolmente supportata” e condurrebbe a un esito interpretativo “irragionevole”, dato che, nella comparazione in concreto tra le diverse ipotesi, si consentirebbe “la modificazione del raggruppamento in casi che ben possono essere considerat[i] più gravi – secondo criteri di disvalore ancorati a valori costituzionali che l’ordinamento deve tutelare, come certamente quella inerente a casi previsti dalla normativa antimafia – rispetto a quelli relativ[i] alla perdita di requisiti di cui all’art. 80”.
Non vanno nemmeno trascurate le esigenze di tutela di quelle imprese, associate nel raggruppamento, di per sé incolpevoli, che, in caso di sopravvenuto difetto di uno dei requisiti generali da parte di una società associata, finirebbero per essere resi, per colpa altrui, incapaci a contrattare con la pubblica amministrazione: tale esito esiterebbe nella creazione di una “fattispecie di «responsabilità oggettiva», ovvero una inedita, discutibile (e sicuramente non voluta) speciale fattispecie di culpa in eligendo”.
Al rigetto dell’interpretazione restrittiva milita anche uno dei principi fondamentali in tema di disciplina dei contratti con la pubblica amministrazione – tale da giustificare la previsione stessa del raggruppamento temporaneo – ossia quello di consentire la più ampia partecipazione delle imprese, in condizione di parità, ai procedimenti di scelta del contraente (e dunque favorirne la potenzialità di accedere al contratto, al contempo tutelando l’interesse pubblico ad una maggiore ampiezza di scelta conseguente alla pluralità di offerte). Ebbene, “una interpretazione restrittiva della sopravvenuta perdita dei requisiti ex art. 80, a maggior ragione perché non sorretta da alcuna giustificazione non solo ragionevole, ma nemmeno percepibile”, avrebbe come effetto – ingiusto – quello di “porsi in contrasto sia con il principio di eguaglianza, sia con il principio di libertà economica e di par condicio delle imprese nei confronti delle pubbliche amministrazioni (come concretamente declinati anche dall’art. 1 della l. n. 241/1990 e dall’art. 4 del codice dei contrati pubblici)”.
A una conclusione non dissimile era giunta pure l’ordinanza di rimessione, ove si trova affermato che “nessuna delle ragioni che sorreggono il principio di immodificabilità della composizione del raggruppamento varrebbero a spiegare in maniera convincente il divieto di modifica per la perdita dei requisiti di partecipazione ex art. 80 in sede di gara: non la necessità che la stazione appaltante si trovi ad aggiudicare la gara e a stipulare il contratto con un soggetto del quale non abbia potuto verificare i requisiti, in quanto, una volta esclusa dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 10 del 2021 la c.d. sostituzione per addizione, tale evenienza non potrà giammai verificarsi quale che sia la vicenda sopravvenuta per la quale sia venuto meno uno dei componenti del raggruppamento; né la tutela della par condicio dei partecipanti alla procedura di gara, che è violata solo se all’uno è consentito quel che all’altro è negato”.
Nella fattispecie, quindi, l’antinomia assoluta “trova soluzione inquadrando il caso concreto e le norme antinomiche ad esso applicabili nel più generale contesto dei principi costituzionali ed eurounitari, fornendo una interpretazione che renda applicabile una sola di esse in quanto coerente con detti principi, e che consente una regolazione del caso concreto con essi compatibile. In tal modo, l’interpretazione determina – in presenza di norme incompatibili ma provenienti da fonti di pari livello e contestualmente introdotte dalla medesima fonte – la applicazione di una sola di esse (quella, appunto, compatibile con le fonti sovraordinate della Costituzione e del diritto dell’Unione Europea) e la non applicazione dell’altra, recessiva perché contraria ai più volte richiamati principi”.
Un’operazione di questo tipo – a detta della Plenaria – è pienamente legittima, costituendo, da un lato, “solo una più articolata applicazione del metodo di interpretazione secondo Costituzione; per altro verso, costituisce metodo interpretativo non del tutto ignoto allo stesso legislatore ordinario, laddove questi prevede (art. 15 disp. prel. cod. civ.) la possibile abrogazione di norme “per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti”[65]; dall’altro lato, una attuazione del principio di coerenza, “che impone il superamento delle antinomie, rimettendo all’interprete, chiamato ad individuare ed applicare la regola di diritto al caso concreto, di verificare le possibilità offerte dall’interpretazione, senza necessariamente (e prima di) evocare l’intervento del giudice delle leggi”.
Benché il percorso interpretativo non sia stato lineare e si trovi una certa commistione di argomenti, comunque l’approdo della Plenaria non è assai dissimile da quello cui si è giunti in questo contributo: da un lato, in forza del richiamo all’equità e ai principi di non discriminazione, dall’altro, per effetto di un’interpretazione sistematica, che impone di considerare la topografia delle norme, di non creare antinomie con norme gerarchicamente superiori, di operare un controllo di ragionevolezza, analogo a quello che generalmente svolge la Corte Costituzionale.
12. Un problema per certi versi chiuso, per altri aperto: quando si conclude “la fase di gara”?
Un cenno a una questione che, se è risolta nel caso di specie, non lo è in via generale.
Per effetto dei commi 17, 18 e 19-ter, così come da ultimo interpretati dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria qui in commento, che una sopravvenienza tra quelle più volte citate accada “in fase di gara” ovvero nel corso dell’esecuzione del rapporto, nulla cambia: in entrambe le ipotesi è consentito ricorrere ai ben noti meccanismi modificativi.
Vale comunque la pena domandarsi, benché, come si è detto, oggi non rilevi più ai fini dell’applicazione delle norme in parola, quando la fase di gara possa dirsi conclusa.
Semplicisticamente si suole affermare che la stipulazione del contratto sia il momento in cui si conclude la parte pubblicistica della competizione. Questo insegnamento si fonda sulla disciplina che regola il riparto di giurisdizione delle controversie attinenti alle procedure di affidamento di appalti pubblici: alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo afferiscono tutti giudizi che hanno ad oggetto ciò che accade nel “tratto procedimentale” e, dunque, pubblicistico delle stesse; la fase esecutiva del relativo rapporto, invece, è riservata alla cognizione del giudice ordinario[66].
Come è noto, le procedure a evidenza pubblica hanno una “prospettiva bifasica” che caratterizza la formazione del contratto: la “procedura di affidamento”, ossia la fase propriamente pubblicistica, che si concreta in peculiari procedimenti amministrativi che esitano nella determinazione conclusiva con cui viene disposta l’aggiudicazione a favore dell’offerta selezionata; e la fase esecutiva, ossia la “stipula del contratto” e la formale assunzione degli impegni negoziali.
Siccome quest’ultima fase prefigura situazioni essenzialmente paritetiche, eventuali controversie che la riguardano sono devolute al giudice ordinario. La distinzione emerge oggi anche dall’art. 30, co. 8, del codice dei contratti pubblici, in base al quale “alle procedure di affidamento e alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici … si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione si applicano le disposizioni del codice civile”.
È altrettanto pacifico, però, che vi siano fattispecie connotate da peculiarità tali da costituire delle deroghe a tale principio, dovendosi avere bene a mente che il criterio di riparto della giurisdizione si fonda sulla situazione giuridica fatta valere. Ogni volta che l’agire della stazione appaltante attiene ad un segmento procedimentale pubblicistico, ed è collegata all’esercizio di un potere da parte dell’Amministrazione, sussisterà la giurisdizione del giudice amministrativo. Tale discrimen è determinante, tenuto conto che la valutazione dell’interesse pubblico esclude ogni rapporto paritetico, anche se sussiste un vincolo contrattuale tra le parti. Ne consegue che, nella fase privatistica, l’Amministrazione si pone con la controparte in una posizione di parità che si può definire ‘tendenziale’, in quanto può sempre verificarsi l’ipotesi che l’intervento autorizzativo sia espressione di una valutazione operata al fine primario dell’interesse pubblico. In tal caso, appare all’evidenza l’insussistenza tra le parti (pubblica e privata) di un rapporto giuridico paritetico, che invece si ravviserebbe in situazioni soggettive da qualificare in termini di diritti soggettivi e di obblighi giuridici[67].
Insomma, al fine di definire quando una gara possa dirsi conclusa il criterio del riparto della giurisdizione non è detto che sia sempre soddisfacente. O meglio, sicuramente si può affermare che la “fase esecutiva” comincia con la stipulazione del contratto (coincidendo quindi con il primo momento in cui si affaccia in questa materia la giurisdizione del giudice ordinario), ma non risponde al vero che la “fase di gara” allo stesso modo si chiuda un momento prima della predetta sottoscrizione.
Infatti, il tempo dedicato alla competizione vera e propria si chiude con l’aggiudicazione: ad essa, seguono una serie di controlli sul “possesso dei prescritti requisiti”, che, in caso di esito positivo, determinano l’efficacia dell’aggiudicazione (così l’art. 32, co. 7, d.lgs. n. 50/2016). Indi, “divenuta efficace l’aggiudicazione, e fatto salvo l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione deve avere luogo entro i successivi sessanta giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o nell’invito ad offrire, ovvero l’ipotesi di differimento espressamente concordata con l’aggiudicatario, purché comunque giustificata dall’interesse alla sollecita esecuzione del contratto”[68].
Ebbene, ci si domanda allora se debba intendersi incluso nella cosiddetta “fase di gara” il periodo di tempo intercorrente tra l’aggiudicazione e il momento in cui essa diviene efficace (ossia al termine della verifica dei requisiti dell’operatore economico utilmente classificato), così come se debba considerarsi ricompreso nella “fase di gara” l’intervallo temporale che intercorre tra quando l’aggiudicazione diventa efficace e il giorno in cui il contratto viene sottoscritto dall’aggiudicatario e dalla stazione appaltante. Ben può darsi, infatti, che in questo secondo arco di tempo l’aggiudicazione venga impugnata ovvero che la stessa sia sospesa (dal giudice o, prima ancora, per effetto delle disposizioni che regolano il cosiddetto “stand still”[69]).
Del tema qui accennato non si vuole proporre una soluzione, né esso rappresenta più un problema nel caso di nostro interesse. Resta però che l’espressione “fase di gara”, invalsa nel gergo degli operatori ma non definita dal codice, è vaga e pertanto foriera di possibili ambiguità. Un altro aspetto su cui la tecnica legislativa dovrebbe maggiormente sorvegliare.
13. Considerazioni conclusive.
Gli esiti cui si giunge seguendo il percorso interpretativo disegnato dalla dottrina e quelli cui è pervenuta l’Adunanza Plenaria, che ha argomentato più liberamente, dando ampia applicazione all’equità sostanziale, sono sostanzialmente i medesimi. Tuttavia, non possono condividersi appieno le premesse da cui il Supremo Consesso ha preso le mosse, ossia l’esistenza di un’antinomia insolubile, di cui non si sono rinvenuti gli estremi nell’analisi qui condotta. La pronuncia ha comunque il pregio, avendo dovuto colmare una lacuna o per lo meno comporre un contrasto, di aver riconosciuto che il principio di immodificabilità dei raggruppamenti di imprese è tramontato, per lo meno nei termini in cui tradizionalmente è stato predicato, e che esso oggi sopravvive in una forma temperata, frutto di un bilanciamento tra diversi principi, tra cui quello di economicità e buon andamento, per cui bisogna consentire alla stazione appaltante, là ove possibile, di non escludere inutilmente operatori economici che sono a tutti gli effetti degni di contrattare con una pubblica amministrazione; e il principio di par condicio e non discriminazione, per cui non possono essere pretermesse dal mercato degli appalti pubblici quelle società che, incolpevolmente, si sono associate con partner commerciali che, nel corso del tempo, sono stati colpiti da eventi che ne minano l’affidabilità. Più che un’antinomia tra disposizioni, la pronuncia risolve la distanza tra le diverse anime del Consiglio di Stato, finendo per sconsigliare tutte quelle decisioni che sono inutilmente punitive e penalizzanti (e quindi irragionevoli), anche per la stessa stazione appaltante, i cui interessi quegli stessi principi sono chiamati a proteggere.
[1] Nella sentenza di primo grado, T.A.R. Toscana, sez. II, 10 febbraio 2021, n. 217, si parla genericamente del fatto che “nelle more dell’espletamento del subprocedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta dell’aggiudicataria, rispetto ad altre commesse e poi ad altre gare, sono venuti ad incrinarsi i rapporti tra il mandante … (mandante al 10%) e la stazione appaltante, portando a contrapposte iniziative volte tra l’altro allo scioglimento dei rapporti in essere con reciproci addebiti di inadempimento”.
[2] Si trattava peraltro di riassegnare tra i membri restanti una quota limitata al solo 10%.
[3] Le citazioni sono tratte dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2/2022 qui commentata, che, a differenza della pronuncia di primo grado, ha riportato ampi stralci dei provvedimenti impugnati.
[4] In tema di R.T.i. si vedano, tra i moltissimi, P. Chirulli, I soggetti ammessi alle procedure di affidamento, in I contratti di appalto pubblico, a cura di C. Franchini, in Trattato dei contratti diretto da Rescigno-Gabrielli, Milano, 2010, pp. 373 ss.; R. Greco, Commento all’art. 37, in Garofoli-Ferrari, Codice degli appalti pubblici, Roma, 2011, pp. 409 ss.; S. Santoro, Nuovo manuale dei contratti pubblici, Rimini, 2011, 783 ss.
[5] Così M. Mazzamuto, I raggruppamenti temporanei di imprese tra tutela della concorrenza e tutela dell’interesse pubblico, in Riv. it. dir. pub. com., 2003, pp. 179 s.
[6] Così R. Dagostino, Commento all’art. 48, in L.R. Perfetti (a cura di), Codice dei contratti pubblici commentato, Milano, 2017, p. 501. Si vedano anche T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 6 febbraio 2017, n. 211, e Cons. St., sez. V, 20 gennaio 2015, n. 169, per cui le modifiche soggettive erano consentite unicamente dopo la stipulazione del contratto, ma non in corso di gara.
[7] Per comodità di lettura, si riporta il testo del comma 18, prima della modifica operata dal d.l. n. 56/2017: “Salvo quanto previsto dall’articolo 110, comma 6, in caso di liquidazione giudiziale, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria, concordato preventivo o di liquidazione di uno dei mandanti ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o liquidazione giudiziale del medesimo ovvero nei casi previsti dalla normativa antimafia, il mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione, direttamente o a mezzo degli altri mandanti, purché questi abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire”.
[8] Le due pronunce di riferimento sono Cons. Stato, sez. V, 28 gennaio 2021, n. 833, e sez. III, 11 agosto 2021, n. 5852.
[9] Già si sono elencati: in caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione controllata, amministrazione straordinaria, concordato preventivo o procedura di insolvenza concorsuale o di liquidazione di uno dei mandanti, ovvero, qualora si tratti di imprenditore individuale, in caso di morte, interdizione, inabilitazione o fallimento del medesimo.
[10] Così Cons. Stato n. 5852/2021 cit.
[11] Cons. Stato, Ad. Plen., 27 maggio 2021, n. 9.
[12] Così, ancora, l’Adunanza Plenaria, sent. n. 9/2021 cit.
[13] Cons. Stato, Ad. Plen., 4 maggio 2013, n. 8.
[14] Così Cons. St., sez. V, 20 gennaio 2015, n. 169, e 24 febbraio 2020, n. 1379.
[15] Così Cons. Stato n. 5852/2021.
[16] Ancora Cons. Stato n. 5852/2021.
[17] In questi termini si è espressa la sentenza n. 833/2021 del Consiglio di Stato: “Se ne trae ulteriore conferma dal fatto che proprio l’art. 18 è stato contestualmente modificato introducendo, bensì, anche la fattispecie (antecedentemente non prevista) di perdita dei requisiti soggettivi quale ragione di possibile modificazione del raggruppamento, ma espressamente limitando l’ipotesi alla fase esecutiva. Sarebbe, allora, del tutto illogico che l’estensione «alla fase di gara» di cui al comma 19 ter, introdotto dallo stesso ‘decreto correttivo’ vada a neutralizzare la specifica e coeva modifica del comma 18”.
[18] Così Cons. Stato, sez. III, 2 aprile 2020, n. 2245; nello stesso senso anche C.G.A.R.S., sez. giur., 22 maggio 2020, n. 298.
[19] Così T.A.R. Toscana n. 217/2021 cit.
[20] Così T.A.R. Toscana n. 217/2021 cit.
[21] Così T.A.R. Toscana n. 217/2021 cit.
[22] Così T.A.R. Toscana n. 217/2021 cit. In questi termini si è espresso anche Cons. Stato, sez. III, 2 aprile 2020, n. 2245: “A fronte del chiaro disposto del comma 19 ter, che rinvia alle disposizioni di cui ai commi 17, 18 e 19, non sono conducenti gli argomenti che l’appellante trae dalla Relazione illustrativa al correttivo al codice (pag. 20) e dall’Atto del Governo n. 397 (pagg. 86 e 87). Né è convincente l’argomentazione dell’appellante secondo cui nel rinvio ai citati commi, il comma 19 ter farebbe salva anche la locuzione «in corso di esecuzione», perché si tratterebbe di una contraddizione palese con il contenuto dispositivo innovativo del nuovo comma aggiunto dal Legislatore del correttivo, che lo priverebbe di significato”.
[23] È d’uopo usare il condizionale, dato che nessuna fonte consente di ricostruire la precisa voluntas legis.
[24] L’ordinanza si riferisce al mancato versamento di contributi previdenziali o al mancato pagamento dei tributi, al dubbio circa l’idoneità morale conseguente all’adozione di uno dei provvedimenti della normativa antimafia.
[25] L’ordinanza si riferisce ai pregressi inadempimenti, specialmente se intervenuti con la stessa stazione appaltante, ma anche allo stato di decozione comportante l’assoggettamento alla procedura concorsuale.
[26] Ricorda la Plenaria n. 10/2021, richiamata dalla sentenza in commento, che “la modifica sostituiva c.d. per addizione costituisce ex se una deroga non consentita al principio della concorrenza perché ammette ad eseguire la prestazione un soggetto che non ha preso parte alla gara secondo regole di correttezza e trasparenza, in violazione di quanto prevede attualmente l’art. 106, comma 1, lett. d), n. 2, del d. lgs. n. 50 del 2016, più in generale, per la sostituzione dell’iniziale aggiudicatario”.
[27] La sentenza della Plenaria n. 10/2021 aggiunge che l’evento che conduce alla sostituzione meramente interna, ammessa nei limiti anzidetti, deve essere portato dal raggruppamento a conoscenza della stazione appaltante, laddove questa non ne abbia già avuto o acquisito notizia, per consentirle, secondo un principio di c.d. sostituibilità procedimentalizzata a tutela della trasparenza e della concorrenza, di assegnare al raggruppamento un congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto interno tale da poter riprendere correttamente, e rapidamente, la propria partecipazione alla gara o la prosecuzione del rapporto contrattuale”.
[28] Non si può mancare di evidenziare che, benché le ipotesi derogatorie al principio di immodificabilità siano molte, non sono tutte dello stesso genere. Ed infatti, come sottolinea la sentenza in commento, “mentre le ipotesi disciplinate dal comma 17 (con riferimento al mandatario) e dal comma 18 (con riferimento ad uno dei mandanti) attengono a vicende soggettive, puntualmente indicate, del mandatario o di un mandante, conseguenti ad eventi sopravvenuti rispetto al momento di presentazione dell’offerta”, vi è invece che l’ipotesi di cui al comma 19 attiene ad una modificazione della composizione del raggruppamento derivante da una autonoma manifestazione di volontà di recedere dal raggruppamento stesso, da parte di una o più delle imprese raggruppate, senza che si sia verificato nessuno dei casi contemplati dai commi 17 e 18, ma solo come espressione di un diverso e contrario volere rispetto a quello di partecipare, in precedenza manifestato. Ed il recesso in tanto è ammesso, non tanto in base ad una più generale valutazione dei motivi che lo determinano, ma in quanto le imprese rimanenti «abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire» e sempre che la modifica soggettiva derivante dal recesso non sia «finalizzata ad eludere un requisito di partecipazione alla gara»”. Insomma, “si tratta, dunque, nel caso disciplinato dal comma 19, di eccezione al principio generale di immodificabilità della composizione del raggruppamento del tutto diversa da quelle di cui ai commi 17 e 18, di modo che la possibilità che la stazione appaltante non ammetta il recesso di una o più delle imprese raggruppate non esplica alcun effetto sulle diverse ipotesi di eccezione, relative alle vicende soggettive del mandatario o di uno dei mandanti, disciplinate dai citati commi 17 e 18 dell’art. 48”.
[29] In risposta a coloro che – a più riprese – hanno sostenuto che non vi era, invero, nessun contrasto interpretativo, perché, se anche in passato vi fosse stato, esso doveva dirsi risolto dalla sentenza della Plenaria n. 10/2021, la medesima Adunanza scrive che “è opportuno preliminarmente precisare che tale problema non può dirsi superato e risolto per effetto di quanto incidentalmente affermato da questa stessa Adunanza Plenaria, con la propria citata decisione n. 10 del 2001 [recte, 2021] (v. par. 23.3), al contrario di come invece ritengono l’appellante e la costituita amministrazione. Come condivisibilmente osservato anche dall’ordinanza di rimessione, la questione della estensione della perdita dei requisiti di cui all’art. 80 non rappresentava affatto la questione centrale di quel giudizio, né tale problema interpretativo forma espressamente oggetto dei principi di diritto enunciati dalla citata sentenza n. 10/2001 (né di questi costituisce il presupposto logico giuridico), principi solo in relazione ai quali si esplica l’effetto nomofilattico voluto dall’art. 99 c.p.a. Si è trattato, dunque, di una affermazione incidentale, non conseguente ad una disamina argomentativa peraltro non necessaria, stante l’estraneità di questo aspetto al thema decidendum”.
[30] Così T. Mazzarese, Antinomia, in Dig. disc. priv., Torino, 1989, I, p. 348. Come ricorda l’Autrice, il termine ‘antinomia’ è utilizzato anche in altre due accezioni, diverse da quella etimologica. In una prima accezione, ‘antinomia’ designa “la contraddizione tra due proposizioni ambedue ugualmente dimostrabili” (in questo senso I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Riga, 1781, 1787); in una seconda accezione, ‘antinomia’ designa (in logica) “un enunciato tale che sia la sua affermazione, sia la sua negazione implicano una contraddizione” (tra i molti, F. von Kutschera, Die Antinomien der Logik, Freiburg-München, 1964).
[31] Così F. Modugno, Ordinamento giuridico (dottrine), in Enc. dir., Milano, 1980, XXX, p. 706.
[32] Così F. Modugno, ibidem. L’Autore aggiunge che “le due norme possono essere, quindi, o entrambe false (contrarietà) o una delle due falsa e l’altra necessariamente vera (contraddizione). Rispettivamente, la prima opposizione si verifica tra norma obbligatoria (prescrizione di fare alcunché) e norma proibitiva (prescrizione di non fare alcunché); la seconda, sia tra norma obbligatoria e norma (negativamente) permissiva o «facoltativa» (non è prescritto di fare alcunché), sia tra norma proibitiva e norma (positivamente) «permissiva» (non è prescritto di non fare alcunché). Insomma, l’obbligo è antinomico al divieto, perché tra loro contrari; l’obbligo è antinomico al permesso (negativo) e il divieto al permesso (positivo), perché tra loro, rispettivamente, contraddittori. S’intende che, mentre la soluzione della prima antinomia può risolversi significativamente nella negazione di entrambi i termini: un comportamento non è né obbligatorio né vietato, ma semplicemente permesso; la soluzione delle altre due si risolve sempre nella negazione di uno solo dei due termini: un comportamento o è obbligatorio o è facoltativo, ovvero un comportamento o è vietato o è permesso. Né può obiettarsi che un comportamento né obbligatorio né facoltativo possa risultare vietato, o che un comportamento né vietato né permesso possa risultare obbligatorio, perché in questi casi non si tratterebbe propriamente di soluzione dell’antinomia tra due norme, bensì della rilevazione di una «terza» norma che vieta o che impone il comportamento che né l’una né l’altra delle norme antinomiche vietano o impongono. D’altra parte, se un comportamento è «facoltativo» («non obbligatorio fare» = «permesso non fare») o, rispettivamente, è «permesso» («non obbligatorio non fare» = «permesso fare»), esso non è del tutto incompatibile con il comportamento «vietato», o, rispettivamente, con il comportamento «obbligatorio», dal momento che un comportamento vietato è necessariamente anche «facoltativo», e che un comportamento obbligatorio è necessariamente anche «permesso»”. Più d’interesse per il nostro caso sono le antinomie fra norme qualificative di fatti, stati di cose, oggetti. In tale ipotesi, “l’antinomia è espressa dalla diversa qualificazione che valga negazione di una norma da parte di un’altra. Si pensi ad una disposizione la quale preveda che la bandiera italiana rechi altri segni oltre quelli stabiliti dall’art. 12 cost.” (così ancora F. Modugno, op. cit., pp. 706-707).
[33] Cfr., in proposito, A. Ross, Diritto e giustizia, trad. it. a cura di G. Gavazzi, Torino, 1965, pp. 122 ss.; N. Bobbio, Teoria dell’ordinamento giuridico cit., pp. 90 ss.; G. Gavazzi, Elementi di teoria del diritto, Torino, 1970, pp. 45 s.
[34] Cfr. A. Ross, op. cit., p. 122: il riferimento è all’antinomia che “si verifica quando nessuna delle due norme può essere applicata a qualsiasi circostanza senza venire in conflitto con l’altra”. È F. Modugno a spiegare (op. cit., p. 707) che, “se si distingue, secondo una tradizione di pensiero ormai acquisita e consolidata, tra disposizioni (espressioni normative) e norme, ci si accorge che il secondo e il terzo tipo di antinomie sono «improprie» e precedono e si risolvono nell’attività interpretativa necessaria ad enucleare o ad individuare le norme”. Possono essere utili degli esempi, fatti dallo stesso Autore: “Si prenda un esempio di cosiddetta antinomia parziale-parziale: «È vietato fumare la pipa e il sigaro» è norma parzialmente antinomica rispetto all’altra: «È permesso fumare il sigaro e le sigarette»? Dalla prima disposizione si ricavano manifestamente due norme: «È vietato fumare la pipa», «è vietato fumare il sigaro». Corrispondentemente, dalla seconda disposizione si ricavano pure due norme: «È permesso fumare il sigaro»; «è permesso fumare le sigarette». Ora, delle quattro norme soltanto la seconda e la terza sono tra di loro antinomiche, in quanto hanno lo stesso àmbito di validità materiale e sono quindi affette da antinomia cosiddetta totale-totale. Ma la prima è manifestamente compatibile con la terza e la quarta, e la seconda con la quarta. Non diversamente, nel caso di cosiddetta antinomia totale-parziale, che è sempre «impropria» antinomia tra disposizioni. «È vietato fumare» ed «è permesso soltanto fumare sigarette» sono disposizioni dalle quali si ricavano, rispettivamente, una sola e due norme. Dalla seconda infatti si ricavano unitamente le norme: «È permesso fumare sigarette» ed «è vietato fumare altro: per esempio la pipa o il sigaro», di cui solo la prima è antinomica con la norma (generale) ricavabile dalla prima disposizione, ma, in quanto norma speciale, dovrebbe limitare il significato normativo della disposizione generale”.
[35] Si veda A. Celotto, Coerenza dell’ordinamento e soluzione delle antinomie nell’applicazione giurisprudenziale, in F. Modugno, Appunti per una teoria generale del diritto, Torino, 2000, p. 151.
[36] Cfr. A. Ross, op. cit., p. 123, che ricorda il caso della Costituzione danese del 1920, ove, all’art. 36, in tema di composizione della Camera alta, si stabilisce, in una prima parte, che i membri di tale assemblea non possono superare il numero di 78; mentre nella seconda parte della stessa disposizione, mediante una minuziosa regolamentazione dei criteri di nomina, risulta che il numero dei componenti della Camera alta sia di 79; A. Celotto, op. cit., p. 151, menziona il caso più recente del d.l. n. 669 del 1996, che aveva provveduto a modificare due volte — e in termini differenti — l’art. 3, co. 114, l. n. 662/1996, riguardo al regime dei beni immobiliari e dei diritti immobiliari dello Stato nelle Regioni a statuto speciale e nelle Province autonome di Trento e Bolzano. E ancora la l. n. 240/2010 (c.d. “legge Gelmini”) che all’art. 6, co. 5, in tema di stato giuridico dei professori e dei ricercatori di ruolo, aveva disposto la modifica dell’art. 1, co. 11, e, contestualmente, all’art. 29, co. 11, lett. c), aveva disposto l’abrogazione del medesimo art. 1 co. 11. In questi ultimi due casi, si è reso necessario un intervento del legislatore per porre rimedio.
[37] Cfr. F. Lisena, Un raro caso di antinomia insolubile: la disciplina delle elezioni del Parlamento europeo tra compiti del legislatore e poteri del giudice, in Giur. merito, fasc. 10, 2011, pp. 2531 ss., che ricorda un caso in cui il legislatore non è stato così tempestivo nel porre rimedio a una antinomia insolubile: trattasi del contrasto tra gli artt. 2 e 21, l. n. 18/1979, che “sussiste oramai da più di un ventennio, a partire dalla citata novella del 1984”: precisamente, “mentre l’art. 2 prevede un sistema articolato in circoscrizioni territoriali, per ciascuna delle quali è prevista l’assegnazione di un numero di seggi determinato sulla base della popolazione residente, il successivo art. 21 detta le concrete modalità di assegnazione dei seggi seguendo esclusivamente il criterio della proporzionalità politica. Si ricaverebbe, pertanto, un principio europeo di proporzionalità articolato su due livelli, entrambi meritevoli di salvaguardia: il livello della proporzionalità territoriale, attinente al rapporto tra cittadini-residenti e numero degli eletti, ed il livello della proporzionalità politica, riflettente l’impostazione fondamentale del metodo di votazione. Tuttavia, in sede di effettiva applicazione, le due norme appaiono evidentemente inconciliabili”. L’antinomia è stata al centro di un caso di cui si è occupata la giustizia amministrativa: il risultato delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, svoltesi nei giorni 6 e 7 giugno del 2009, aveva portato alla contrazione dei rappresentanti eletti nella circoscrizione territoriale dell’«Italia meridionale» (15 eletti, in luogo dei 18 seggi assegnati) e in quella delle «Isole» (6 eletti, in luogo degli 8 seggi assegnati), con il complessivo spostamento in altre circoscrizioni di cinque posti. In altri termini, in virtù del sistema di calcolo di cui all’art. 21, l. n. 18/1979, i cittadini delle due citate circoscrizioni si sono visti sottrarre dei rappresentanti rispetto a quelli che avrebbero dovuto avere in applicazione del criterio della proporzionalità territoriale. Per ogni approfondimento, si rinvia alla lettura delle sentenze del T.A.R. Lazio, Roma, n. 38638/2010, Cons. Stato n. 2886/2011 e C. Cost. n. 271/2010.
[38] “… in caso di perdita, in corso di esecuzione, dei requisiti di cui all’articolo 80, … il mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione …”.
[39] “ove [il mandatario] non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità”.
[40] Sempre a patto che non indichi altro operatore economico che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità.
[41] Così Cons. Stato n. 5852/2021 cit.
[42] F. Modugno, Norma giuridica (teoria generale), in Enc. dir., Milano, 1980, XXVIII, p. 381.
[43] Così F. Modugno, Ordinamento giuridico (dottrine) cit., p. 706, che ricorda che ad esempio, una legge ordinaria successiva non abroga un regolamento governativo anteriore contrastante, ma lo rende piuttosto illegittimo. La visione sul punto non è comunque unamime: si veda, ad esempio, V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1976, p. 180.
[44] Così M. Barberis, Filosofia del diritto, Torino, 2008, p. 196.
[45] Così M. Barberis, op. cit., p. 197. F. Modugno, op. ult. cit., p. 708-709, richiama l’insegnamento di V. CRISAFULLI contenuto in Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in Riv. trim. dir. pubbl., 1960, pp. 775 ss.; nonché, del medesimo autore, Fonti del diritto (diritto costituzionale), in Enc. dir., Milano, 1980, XVII, pp. 955 ss.; Id., Lezioni cit., 179 ss. per cui “unica ed identica essendo la ragione per cui atti e comportamenti umani raggiungono forza normativa, la tesi che la forza degli atti di creazione del diritto obiettivo si commisura alla loro origine non dovrebbe portare alla conseguenza che la forza degli atti normativi sia varia, ma unica ed identica”. Pertanto, non sarebbe “possibile distinguere tra «forza» e «forza» diverse con riferimento alle disposizioni prodotte da differenti specie di atti nei loro reciproci rapporti: la possibilità di atti di una certa specie di abrogare o modificare atti di altra specie, ovvero di resistere ad abrogazione o modifica da parte di questi ultimi, andrebbe spiegata, non con il fatto che «gli atti di una specie abbiano ‘forza maggiore’ di quelli di altra specie», ma solo con il fatto «che ‘più estesa’ è l’attività normativa legittimamente esercitabile attraverso gli atti di una specie che non sia quella esercitabile attraverso atti di altre specie»” (le citazioni di Crisafulli sono di C. Esposito, La consuetudine costituzionale, in Studi in onore di E. Betti, I, Milano, 1961). Pertanto, al criterio gerarchico dovrebbe preferirsi quello della “competenza” o della “riserva”, che addirittura potrebbe sostituire il primo.
[46] Come si è detto, trattasi più che di un’antinomia tra norme, che di un’antinomia tra disposizioni, risultando in definitiva da due disposizioni due norme compatibili tra loro, in quanto complementari: così F. Modugno, op. ult. cit., p. 710.
[47] Cfr. N. Bobbio, Teoria dell’ordinamento giuridico, Torino, 1960, p. 103.
[48] Così F. Modugno, Ordinamento giuridico cit., p. 710.
[49] O, per dirla con le parole di Carnelutti, in ipotesi di antinomia insolubile, si deve “varcare il confine del problema della «purgazione» (antinomie) per entrare in quello dell’integrazione (lacune) (così F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma, 1951, p. 79.
[50] Cfr. N. Bobbio, Teoria dell’ordinamento cit., p. 103.
[51] F. Modugno, ibidem, ricorda che “vi sono cioè tre «modi» fondamentali in cui può presentarsi la norma (di comportamento) e vi è antinomia … tra norma obbligante e norma proibitiva, tra norma obbligante e norma permissiva (negativa), tra norma proibitiva e norma permissiva (positiva)”.
[52] Così G. Tracuzzi, Esistenza e possibilità, Padova, 2020, p. 74.
[53] F. Modugno, Ordinamento giuridico cit., p. 711, nt. 114, propone questo esempio: “poste due disposizioni di una stessa legge, l’una delle quali si esprima nel senso del dovere od obbligo per una autorità governante, nel pubblico interesse, di provvedere ad alcunché, senza che sia possibile però individuare una corrispondente specifica situazione giuridica di vantaggio di chicchessia, e l’altra si esprima nel senso di consentire alla stessa autorità governante di provvedere discrezionalmente (se e quando essa lo ritenga opportuno), il criterio sembra applicabile nel senso di far prevalere la norma discendente dalla seconda disposizione su quella discendente dalla prima, dal momento che il pubblico interesse pare meglio perseguibile lasciando all’autorità competente un àmbito di discrezionalità nel quale operare le scelte che sono alla base del suo provvedere”.
[54] Così A. Franco, I problemi della coerenza e della completezza dell’ordinamento, in F. Modugno, Appunti per una teoria generale del diritto. La teoria del diritto oggettivo, Torino, 1993, p. 193. Si veda anche F. Modugno, Ordinamento giuridico cit., p. 711, per cui “la ricordata «ambiguità» del criterio può essere risoluta, al solito, ricorrendo ai princìpi generali dell’ordinamento, e alla «valutazione» che essi indirettamente operano nei confronti dei soggetti che, di volta in volta, si trovino ad essere favoriti o sfavoriti dall’applicazione dell’una o dell’altra norma. Se, per esempio, l’ordinamento protegge in particolar modo il lavoro dei minori (art. 37 comma ult. cost.) e si prospetti un’antinomia tra una norma permissiva ed una norma «imperativa» nei confronti del datore di lavoro, sarà quest’ultima a dover essere applicata per consentire al prestatore di lavoro minorile di soddisfare il suo diritto o rendere esercitabile la sua pretesa. Ma ciò equivale a dire che il criterio della preferenza della «forma permissiva» o del modo deontico «permesso» rispetto ai suoi contraddittori (obbligatorio e vietato) non è di per sé decisivo, neppure assumendo un ordinamento giuridico ispirato alla massima del «tutto è permesso tranne ciò che è vietato (o comandato)»”.
[55] Così F. Modugno, ibidem.
[56] Così si può leggere nella sentenza: “Quanto alla lettera delle disposizioni, essa non si presenta particolarmente «affidabile», tale cioè da poter desumerne un senso «fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse», non essendo in particolare coordinati gli enunciati introdotti dal d. lgs. n. 56 del 2017 con quelli originari del Codice; e di ciò costituisce dimostrazione, oltre ad altri casi non rilevanti nella presente sede, lo stesso intervento interpretativo effettuato da questa Adunanza Plenaria con la propria sentenza n. 10/2021”.
[57] Cfr. M. Barberis, Filosofia del diritto cit., p. 238.
[58] Cfr. M. Barberis, ivi, p. 241.
[59] Cfr. M. Barberis, ivi, p. 244.
[60] Cfr. M. Barberis, ivi, p. 245, che richiama J. Bell, Policy Arguments in Judicial Interpretation, Clarendon, Oxford, 1985.
[61] Cfr. M. Barberis, ibidem.
[62] Per questa ricostruzione ci si è rifatti a M. Barberis, op. cit., pp. 237-247.
[63] Cfr. M. Barberis, ivi, p. 245.
[64] Cfr. M. Mazzamuto, I raggruppamenti temporanei di imprese cit., pp. 179 ss.
[65] Se vi è, dunque, la possibilità di verificare l’intervenuta abrogazione di una norma rimettendo al giudice/interprete la verifica della incompatibilità tra due norme temporalmente successive, non sembrano sussistere impedimenti a che la medesima operazione possa riguardare norme incompatibili non successive ma coeve
[66] Cfr., ex multis e da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 10 gennaio 2022, n. 171.
[67] Cons. Stato n. 171/2022 cit..
[68] Per effetto della novella recata d.l. n. 76/2020, e la conseguente modifica dell’art. 32, co. 8, cit., “la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto deve essere motivata con specifico riferimento all’interesse della stazione appaltante e a quello nazionale alla sollecita esecuzione del contratto e viene valutata ai fini della responsabilità erariale e disciplinare del dirigente preposto. Non costituisce giustificazione adeguata per la mancata stipulazione del contratto nel termine previsto, salvo quanto previsto dai commi 9 e 11, la pendenza di un ricorso giurisdizionale, nel cui ambito non sia stata disposta o inibita la stipulazione del contratto”.
[69] A mente dell’art. 32, co. 9, d.lgs. n. 50/2016, “il contratto non può comunque essere stipulato prima di trentacinque giorni dall’invio dell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione”. Ai sensi del successivo comma 11, “se è proposto ricorso avverso l’aggiudicazione con contestuale domanda cautelare, il contratto non puo’ essere stipulato, dal momento della notificazione dell’istanza cautelare alla stazione appaltante e per i successivi venti giorni, a condizione che entro tale termine intervenga almeno il provvedimento cautelare di primo grado o la pubblicazione del dispositivo della sentenza di primo grado in caso di decisione del merito all’udienza cautelare ovvero fino alla pronuncia di detti provvedimenti se successiva. L’effetto sospensivo sulla stipula del contratto cessa quando, in sede di esame della domanda cautelare, il giudice si dichiara incompetente ai sensi dell’articolo 15, comma 4, del codice del processo amministrativo di cui all’Allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, o fissa con ordinanza la data di discussione del merito senza concedere misure cautelari o rinvia al giudizio di merito l’esame della domanda cautelare, con il consenso delle parti, da intendersi quale implicita rinuncia all’immediato esame della domanda cautelare”. La disposizione peraltro non chiarisce cosa accada in caso di rigetto della richiesta di misure cautelari monocratiche, ossia se la stazione appaltante possa dirsi libera di sottoscrivere il contratto, ovverosia debba attendere comunque la celebrazione dell’udienza camerale e il successivo provvedimento collegiale. Ma non si indugia in questa sede su questo punto.
Le linee di intervento del PNRR in tema di Giustizia. Un quadro di sintesi*
di Fulvio Gigliotti*
Sommario: 1. Premessa. Il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). - 2. Sollecitazioni "europee" alle riforme in materia di Giustizia.- 3. Le principali misure di intervento del PNRR sul tema. - 4. (Segue): l'Ufficio per il processo. - 5. (Segue): gli interventi in materia di giustizia digitale. - 6. Altri specifici interventi di settore.
1. Premessa. Il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza italiano [[1]] si inquadra, com'è noto, nel più ampio contesto del Dispositivo europeo per la Ripresa e Resilienza [[2]], elaborato all'interno del programma europeo c.d. Next Generation eu [[3]], che ha richiesto agli Stati membri di presentare un pacchetto di investimenti e riforme.
In questo contesto, l'italia ha presentato, appunto, il c.d. Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che si articola in sei Missioni (cioè, sei grandi aree di intervento) e sedici Componenti (cioè, specifiche azioni previste all'interno di ciascuna area di intervento) [[4]].
Peraltro, poichè i PNRR sono, anzitutto, piani di riforme, prima ancora che di investimenti, le linee di investimento sono collocate all'interno di una strategia di riforme che si muove lungo due direttrici fondamentali:
- le riforme settoriali, cioè misure consistenti in innovazioni normative relative a specifici ambiti di intervento o attività economiche;
- e le riforme cc.dd. di contesto, cioè d’interesse generale, che comprendono - secondo lo stesso lessico del Piano - riforme cc.dd. abilitanti, funzionali a garantire l’attuazione del Piano e in generale a rimuovere gli ostacoli amministrativi, regolatori e procedurali che condizionano le attività economiche e la qualità dei servizi erogati ai cittadini e alle imprese (come, in particolare, le misure di semplificazione e razionalizzazione della legislazione e quelle per la promozione della concorrenza); e riforme cc. dd. orizzontali, di interesse trasversale a tutte le missioni: è proprio in quest'ultimo ambito, più precisamente, che si collocano gli interventi del Piano in materia di Giustizia (nella stessa prospettiva, orizzontale, delle riforme che riguardano la P.A.).
Tali interventi, va detto subito, ancorché occasionati - soprattutto - dalla contingente stagione emergenziale, sollecitano, però, una riflessione indirizzata sul medio-lungo periodo, come d'altra parte suggerito anche da coeve iniziative di riflessione in materia di Giustizia, quale, specialmente, il c.d. Libro bianco per la Giustizia (Giustizia 2030), che - come si legge nella sua presentazione - "raccoglie le idee, l’entusiasmo e la professionalità di un gruppo di esperti – magistrati, avvocati, docenti universitari, dirigenti di uffici giudiziari, specialisti di digitalizzazione e di organizzazione dei servizi pubblici – riuniti dall’ambizione di sviluppare una visione strategica e di proporre soluzioni sistemiche per trasformare la Giustizia da elemento di crisi a motore della rinascita del Paese" [[5]].
E non è un caso che i due documenti (la Sezione del PNRR in tema di Giustizia; e il predetto Libro Bianco per la Giustizia) presentino programmi in qualche modo paralleli e convergenti, non soltanto sul piano degli obiettivi generali (digitalizzazione, organizzazione strutturale della giurisdizione; implementazione della giurisdizione alternativa), ma anche degli interventi specifici (ad es., in tema di organizzazione del processo civile).
2. Sollecitazioni "europee" alle riforme in materia di Giustizia.
Nel considerare le misure di intervento del PNRR in tema di Giustizia - che è quanto qui interessa - occorre anzitutto premettere che specifici interventi in questo ambito rientravano nelle raccomandazioni rivolte all'Italia dall'Unione europea.
Già la Relazione per Paese 2020 relativa all'Italia, presentata dalla Commissione UE il 26 febbraio 2020 [[6]], aveva evidenziato, infatti, che la durata dei contenziosi civili e commerciali in Italia continua a costituire un problema, manifestando altresì, quanto al processo penale, preoccupazioni per i tempi lunghi del processo a livello di appello; e aveva concluso, pertanto, recando - tra le altre - la raccomandazione (n. 4) a "ridurre la durata dei processi civili in tutti i gradi di giudizio, razionalizzando e facendo rispettare le norme di disciplina procedurale, incluse quelle già all'esame del legislatore; migliorare l'efficacia della lotta contro la corruzione riformando le norme procedurali al fine di ridurre la durata dei processi penali".
In linea con questi rilievi, poi, la Raccomandazione del Consiglio dell'Unione, del 20 maggio 2020, sottolineava le criticità con riguardo alla "lunghezza delle procedure, tra cui quelle della giustizia civile" (punto 24 dei "considerando"), e manifestava preoccupazione rispetto ai "tempi di esaurimento dei procedimenti penali presso i giudici d'appello" (punto 27), raccomandando quindi all'Italia, tra l'altro, di adottare provvedimenti, tra il 2020 e il 2021, diretti al fine di "migliorare l'efficienza del sistema giudiziario e il funzionamento della pubblica amministrazione" (raccomandazione n. 4).
3. Le principali misure di intervento del PNRR sul tema
A queste richieste, appunto, si è proposto di dare una risposta il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, (anche) con specifiche misure di intervento in tema di Giustizia.
Per grandi linee, gli interventi programmati (da realizzare, secondo la prospettiva del Piano, attraverso lo strumento della delega legislativa: cioé, mediante leggi di delegazione al Governo delle misure di intervento), dovranno soprattutto dirigersi verso:
- la riforma del processo, civile e penale;
- la deflazione del contenzioso tributario;
- la riforma dell'ordinamento giudiziario;
- la riorganizzazione strutturale degli uffici giudiziari.
Attraverso tali misure, evidentemente, si persegue l'obiettivo di fondo della riduzione dei tempi della Giustizia, che - forse ambiziosamente - il PNRR stima nell'ordine della riduzione della durata media dei processi civili di più del 40 per cento e dei processi penali di circa il 25 per cento [[7]], con un potenziale impatto di crescita, nel lungo periodo, dello 0,5 per cento in termini di PIL, consumi privati e investimenti totali [[8]].
In questo scenario - nel quale, pure, trovano spazio specifiche misure di riqualificazione e valorizzazione dell'edilizia giudiziaria, in chiave ecologica e digitale - due fondamentali linee portanti (diciamo così, "trasversali") del Piano risultano essere:
- per un verso, l'obiettivo – espressamente enunciato – di portare a piena attuazione il c.d. Ufficio per il processo;
- nonché, per altro verso, quello di aumentare il grado di digitalizzazione della Giustizia.
Dal primo punto di vista, il Piano si propone la massiccia implementazione e stabilizzazione del c.d. Ufficio per il processo, avviato, sperimentalmente, a partire dall'anno 2014.
Secondo le prospettive presentate nel Piano, ciò dovrebbe contribuire in modo decisivo alla realizzazione di alcuni obiettivi strategici da realizzare entro la prima metà del 2026, quali, in particolare:
- l'abbattimento dell’arretrato civile (cioè dei processi pendenti che hanno già superato i termini di tolleranza della c.d. Legge Pinto) del 90%, in tutti i gradi di giudizio;
- l'abbattimento dell’arretrato della giustizia amministrativa del 70% in tutti i gradi di giudizio;
- la riduzione del 40% della durata dei procedimenti civili e la riduzione del 25% della durata dei procedimenti penali (come anche ricordato, di recente, dal Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, nel suo intervento del 4 settembre 2021 al Forum Ambrosetti di Cernobbio).
Obiettivo intermedio è, invece, l'abbattimento dell’arretrato civile già del 65% in primo grado e del 55% in appello, entro la fine del 2024 (non senza assicurare un monitoraggio continuo sulla formazione di nuovo arretrato al fine, evidentemente, di scongiurare che ciò abbia a realizzarsi): e ciò perché, com'è noto, l'erogazione degli importi accordati dall'Unione europea ha luogo progressivamente, solo man mano che gli obiettivi programmati vengono conseguiti in misura adeguata, essendo altrimenti prevista la sospensione dei pagamenti e l'adozione di misure dirette a garantirne il raggiungimento.
Tutti gli obiettivi, peraltro, sono di sistema, dovendo quindi essere valutati complessivamente, a livello nazionale e non dei singoli Uffici giudiziari.
4. (Segue): l'Ufficio per il processo.
In questo quadro, come si è anticipato, un ruolo fondamentale viene assegnato al consolidamento dell'Ufficio per il processo.
Si tratta, com'è noto, di una struttura organizzativa a supporto dell'attività del magistrato, introdotta, in via sperimentale, dal D. L. n. 90/2014, presso le Corti di Appello e i Tribunali ordinari, impiegando personale di cancelleria e i tirocinanti della Giustizia di cui all'articolo 73 D.L. n. 69/2013; struttura poi estesa (dal D.L. n. 168/2016) anche alla giustizia amministrativa e integrata, nella sua composizione, dalla successiva assegnazione ad essa di giudici onorari di pace (dal D.L. 117/2016) [[9]].
Successivamente, il Consiglio Superiore della Magistratura ha anche adottato, nel corso del 2019, apposite Linee guida per l'Ufficio per il processo, prevedendo che la struttura possa «essere assegnata a supporto di uno o più giudici professionali o di una o più sezioni, valutati, a tal fine e in via prioritaria, il numero delle sopravvenienze e delle pendenze a carico di ciascuna sezione o di ciascun magistrato, e tenuti in considerazione gli obiettivi perseguiti con i programmi di gestione»[[10]].
La novità introdotta sul punto dal PNRR, dunque, non riguarda tanto la presenza di tale modello organizzativo (modello in effetti, già esistente e diretto a proiettare l'attività giurisdizionale verso una dimensione che travalica quella per così dire solitaria del magistrato, richiedendo, al contrario, di sviluppare l'attitudine a una diversa impostazione della propria funzione e del proprio lavoro, calibrandola sulla cooperazione e sulla capacità di organizzazione, indirizzo e confronto con altri soggetti, nel comune sforzo, pur nella diversità di ciascun ruolo, di migliorare l'efficienza del sistema Giustizia).
Piuttosto, il vero elemento di novità è costituito dal tentativo di fare uscire l'Ufficio per il processo dal livello della mera sperimentazione, in una prospettiva che guarda al suo progressivo consolidamento e che richiama l'attenzione sull’importanza del fattore organizzativo [[11]] nella dimensione giudiziaria [[12]].
Proprio al fine - su questo punto - dell'attuazione del Piano, il D.L. 9 giugno 2021, n. 80, all'art. 11, ha autorizzato l'assunzione, seppure a tempo determinato, di ben 16.500 unità di personale, con profili professionali diversificati, da destinare all'Ufficio per il processo, in una prospettiva tendente alla possibile stabilizzazione della struttura di supporto all’attività dei magistrati, con la finalità di «garantire la ragionevole durata del processo, attraverso l’innovazione dei modelli organizzativi ed assicurando un più efficiente impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione»[[13]].
Su queste basi, il primo bando per l'Ufficio per il processo, relativo a 8.171 unità (scaduto il 23 settembre 2021), ha visto la presentazione di circa 66.000 domande, con un’età media dei candidati compresa tra 30 e 40 anni e con prevalenza di laurea magistrale, conseguita nel 77,8% dei casi in materie giuridiche (un secondo bando è programmato per il 2023).
Parallelamente, poi, è stato anche adottato, dal Ministero della Giustizia, un bando per un progetto da 51 milioni di euro col quale le Università (che risulteranno assegnatarie dei fondi) dovranno contribuire ad individuare un nuovo modello di organizzazione della Giustizia; e ciò - come è stato detto, assai di recente, dal Ministro Cartabia in apertura di un webinar organizzato dal Ministero insieme alla crui - al fine di mettere in atto un “cambio di paradigma” da parte delle stesse Università, diretto a consentire una rinnovata formazione dei giuristi del futuro [[14]].
5. (Segue): gli interventi in materia di giustizia digitale.
Un secondo profilo "trasversale" di intervento in materia di Giustizia è dato, poi, dal tema della digitalizzazione del sistema giudiziario: l'obiettivo di una "giustizia digitale" rappresenta con sufficiente sicurezza, infatti, il futuro dell'organizzazione del lavoro giudiziario, diventando perciò inevitabile anche l'acquisizione di competenze di carattere tecnologico-informatico sempre più particolareggiate [[15]].
Invero, molto dipenderà dal modo in cui sarà concretamente "declinata" la digitalizzazione della Giustizia; in proposito, peraltro, la linea di tendenza sembra ormai sempre più decisamente orientata verso una preponderante transizione digitale anche nel settore Giustizia [[16]], come ad es. è reso evidente dalle conclusioni presentate dal Consiglio dell'Unione europea (che si leggono in G.U.C.E. n. 342 del 4 ottobre 2020), la cui lettura è molto istruttiva al riguardo.
Il Consiglio, infatti, pur riconoscendo l'opportunità del mantenimento di procedure non digitali tradizionali, sollecita lo sviluppo di soluzioni digitali per l'intero iter dei procedimenti giudiziari, invitando gli Stati membri e l'UE a intensificare gli sforzi orientati verso questa direzione.
E in questa prospettiva, le conclusioni del Consiglio non mancano di sottolineare che «la promozione delle competenze digitali nel settore della giustizia è necessaria per consentire a giudici, procuratori, operatori giudiziari e altri professionisti del diritto di utilizzare e applicare le tecnologie e gli strumenti digitali in modo efficace», raccomandando, correlativamente, la necessità di una adeguata formazione degli operatori medesimi «per poter trarre vantaggio dall'uso delle tecnologie digitali, compresa l'intelligenza artificiale» (della quale vengono indicati i possibili risvolti pratici), invitando la Commissione a «promuovere opportunità di formazione in materia di alfabetizazione e competenze digitali» anche per i magistrati.
Nel medesimo senso, d'altra parte, indirizza anche la "Carta etica europea" sull'utilizzo dell'intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari, elaborata dalla Commissione europea per l'efficienza della Giustizia e adottata il 3 dicembre 2018 [[17]], la quale si diffonde anche sulle prospettive della c.d. giustizia predittiva, evidenziandone potenzialità e limiti [[18]].
Che quello descritto rappresenti, ragionevolmente, il quadro più verosimile delle "nuove competenze" da maturare, acquisire e consolidare è ampiamente confermato, d'altra parte, dalle stesse posizioni ufficiali espresse a livello eurounitario.
Basterà qui richiamare, ad es., la Comunicazione della Commissione europea n. 713/2020, sulla strategia europea di formazione giudiziaria 2021-2024, la quale richiama l'attenzione proprio, tra l'altro, sulla necessità di una significativa digitalizzazione della giustizia e della possibile promozione dell'impiego dell'intelligenza artificiale nel settore Giustizia.
Il PNRR, in coerenza con la prospettiva appena delineata, dedica quindi ampia attenzione agli interventi diretti a favorire il processo di digitalizzazione del Paese [[19]].
6. Altri specifici interventi di settore.
Sotto altro aspetto, poi, il PNRR ha previsto ambiti di intervento prioritario in materia di Giustizia, soprattutto attraverso quattro riforme fondamentali:
- quella del processo penale;
- quella del processo civile e delle cc.dd. ADR;
- quella diretta alla riduzione del contenzioso tributario, specialmente in Cassazione;
- e, infine, quella dell'ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della Magistratura.
Per tutte queste riforme - alcune delle quali già approdate a primi risultati normativi [[20]] - sono state costituite dal Ministero apposite Commissioni di Studio, per la elaborazione di specifiche proposte di riforme.
Soprattutto le prime due (dei processi penale e civile), peraltro, hanno determinato consistenti discussioni, anche sulla base di alcuni pareri critici resi dal Consiglio Superiore della Magistratura e di significative prese di posizione contrarie di autorevoli esponenti dell'Accademia e di importanti rappresentanze della professione forense.
Non è possibile, naturalmente, entrare - in questa sede - nel dettaglio delle specifiche discussioni sorte rispetto a ciascun settore di intervento, perché questo richiederebbe altrettante autonome relazioni e relativi dibattiti.
Sembra quindi sufficiente limitarsi - in poche e rapidissime battute conclusive - a qualche riflessione sulle più rilevanti questioni a tal riguardo sollevate.
A) Quanto al settore penale, com'è noto, pur essendo stati apprezzati altri profili della riforma complessivamente proposta (dagli interventi in tema di riti alternativi alla valorizzazione della c.d. "giustizia riparativa"), due aspetti hanno destato speciale preoccupazione (e, talora, anche radicali dissensi):
- l'assoggettamento all'indirizzo della determinazione legislativa parlamentare della definizione di criteri di priorità nell'esercizio dell'azione penale [[21]];
- e, soprattutto, l'introduzione, per i giudizi di gravame (appello e Cassazione), del meccanismo della c.d. improcedibilità per superamento di limiti temporali prefissati: limiti, peraltro, tendenzialmente - e salve talune "limature" (per lo più transitorie) introdotte in extremis - assai ristretti (due anni per l'appello e uno per la Cassazione) [[22]].
In proposito, che - in effetti - la novella introdotta (com'è noto, ormai già tradotta in legislazione vigente) risulti davvero in linea con gli stessi obiettivi di partenza - quali parzialmente derivanti anche dalle sollecitazioni europee - non appare facilmente predicabile: la richiesta da soddisfare, invero, atteneva ai tempi dei procedimenti di gravame - sul presupposto, però, della loro celebrazione - mentre non sembra risposta davvero adeguata quella del taglio radicale del numero dei procedimenti (taglio che, in determinate realtà territoriali giudiziarie sarà pressoché inevitabile).
B) Relativamente al processo civile, invece, mentre hanno trovato sufficiente consenso gli interventi in tema di valorizzazione degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (ADR) [[23]], la questione che maggiormente ha fatto discutere è quella delle cc.dd. preclusioni istruttorie: cioè della introduzione di una disciplina che imponga alle parti del processo civile - fin dall'udienza di apertura del procedimento [[24]] - la completa e puntuale delimitazione iniziale dell'oggetto della controversia e dei mezzi istruttori dedotti [[25]].
Senza poter entrare, al riguardo, nei dettagli tecnici della disciplina dettata allo scopo, basterà qui ricordare che da diversi fronti - e anche da parte del Consiglio Nazionale Forense - sono state manifestate serie preoccupazioni, sia per una possibile compromissione del diritto di difesa che, paradossalmente, per forti riserve sulla stessa idoneità effettiva di una tale misura a semplificare e ridurre i tempi di trattazione delle controversie, considerato che, per un verso, la disciplina così dettata costringerà prudenzialmente le parti, sotto il profilo istruttorio, a "dedurre tutto il deducibile" (con possibile appesantimento del fascicolo); e che, per altro verso, rimarrà altamente probabile che gli uffici in sofferenza ritardino comunque la definizione del giudizio, rinviando a lunghissimo termine le udienze per l'assunzione dei mezzi istruttori e la decisione.
Non meno problematiche si annunciano, peraltro, le ulteriori riforme programmate in tema di Giustizia, avuto specialmente riguardo a quelle in materia di ordinamento giudiziario e di riforma del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) [[26]].
Non va trascurato, tuttavia, che la più gran parte degli interventi programmati - come si è già anticipato - riguarda principi di delega legislativa, per cui la concreta attuazione delle misure proposte - nei limiti, ovviamente, delle possibilità tecniche offerte dallo strumento della legislazione delegata - potrà in certa misura giovarsi delle sollecitazioni e dei dibattiti che ne precederanno l'adozione, rendendo quindi altamente preziosi momenti di riflessione come quello oggi proposto, e altri che verranno, anche a carattere più specificamente tematico.
*Costituisce, omesse le parole di circostanza, e con l'aggiunta delle note, il testo della Relazione presentata al Convegno Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (P.N.R.R.): quadro normativo e misure di esecuzione degli investimenti - Catanzaro (umg) - 1 ottobre 2021
*Ordinario di Diritto Privato nell'Università Magna Graecia di Catanzaro (umg) - Direttore dell'Ufficio Studi del Consiglio Superiore della Magistratura
[[1]] Che può essere direttamente scaricato, in formato pdf, visitando l'indirizzo https://italiadomani.gov.it/it/home.html.
L'elenco e la consultazione dei singoli Piani nazionali presentati è disponibile all'indirizzo
https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro/recovery-coronavirus/recovery-and-resilience-facility_en#national-recovery-and-resilience-plans.
Ampia informazione sul tema, con specifico riguardo alle misure attuative, nel contributo di P. Casalino, La fase di prima attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza: gestione, momitoraggio e controllo. Principi trasversali e condizionalità per il corretto utilizzo delle risorse europee, in http://www.rivistacorteconti.it/, 5/2021, 5 SS.
Una essenziale esplicazione del Piano nel volume di V. Vacca, Guida al piano Nazionale di Ripresa e Resilienza - pnrr, Pisa, Pacini giuridica, 2021.
[[2]] Istituito dal Regolamento (ue) 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021.
[[3]] Il "pacchetto" per la ripresa da Covid-19 (Recovery Fund), istituito dal Consiglio europeo nel luglio del 2020, stanzia risorse per circa 750 miliardi di euro, di cui poco più di 191 miliardi risultano destinati per l'attuazione del pnrr italiano (denominato Italia domani, sul quale, per informazioni essenziali, si può utilmente consultare l'indirizzo Internet https://italiadomani.gov.it/it/home.html).
Un'approfondita disamina delle questioni connesse al Recovery Fund si trova nei saggi (di diversi AA.) raccolti nel volume Recovery Fund e ruolo della Corte dei conti, Quaderno n. 1/2021 della Rivista della Corte dei conti, Roma, 2021.
[[4]] Il Piano può essere consultato e scaricato visitando l'indirizzo Internet https://italiadomani.gov.it/it/home.html (le successive citazioni di rinvio a singole pagine del Piano fanno riferimento alla versione pdf scaricabile dal predetto indirizzo).
Le Missioni del Piano riprendono le sei grandi aree di intervento (pilastri) individuate nel Dispositivo europeo per la Ripresa e Resilienza (transizione verde; trasformazione digitale; crescita intelligente, sostenibile e inclusiva; coesione sociale e territoriale; salute e resilienza economica, sociale e istituzionale; politiche per le nuove generazioni, l’infanzia e i giovani).
[[5]] Il testo del Libro Bianco è disponibile on line, all'indirizzo Internet https://www.giustizia2030.it. Una specifica valutazione del predetto Libro Bianco, anche alla luce delle prospettive oggi dischiuse dal pnrr è nel contributo di C. Castelli, Giustizia 2030. Un libro bianco per la giustizia e il suo futuro, in www.questionegiustizia.it (fasc. 3/2021).
[[6]] Per il testo v. https://ec.europa.eu/info/sites/default/files/2020-european_semester_country-report-italy_it.pdf.
[[8]] La stima è effettuata «sulla base di un recente studio della Banca d’Italia, basato su dati microeconomici a livello di impresa», in forza del quale si è ritenuto che «l’insieme degli effetti di una riforma della giustizia può essere simulato attraverso la relazione che intercorre tra la durata dei processi e la produttività del sistema economico. Lo studio mostra come la riduzione nella durata dei processi pari a circa il 15 per cento, intercorsa tra il 2008 e il 2016 a seguito di una serie di innovazioni introdotte da diversi provvedimenti legislativi, abbia innescato un miglioramento della produttività totale dei fattori (TFP) pari allo 0,5 per cento. Alla luce di tale risultato» - prosegue il Piano - «si ipotizza che le nuove iniziative di riforma del settore giudiziario possano avere effetti addizionali della stessa portata di quelli descritti, gradualmente e su un orizzonte di cinque anni dal momento della loro implementazione» (così a pag. 265 del pnrr, da cui sono tratti i periodi tra virgolette che precedono).
[[9]] Sulle novità introdotte dal D. Lgs. n. 116/2017 v. G. Reali, Il giudice onorario di pace e l'ufficio del processo, in Foro it., 2018, 12 ss.
[10] Per un commento alle richiamate Linee Guida v. G. Grasso, L'attuazione dell'ufficio per il processo, in Foro it., 2019, 409 ss.
[11] E ciò perché, come ha di recente ricordato il Ministro della Giustizia nell'intervento al quale più sopra si faceva cenno, «finora il lavoro del magistrato è stato sempre un lavoro squisitamente individuale. Con l’ufficio del processo diventa, invece, un lavoro di equipe. È come se in una sala operatoria finora il chirurgo avesse lavorato da solo o al massimo con qualcuno che gli passava i ferri. Ora entra in sala tutta un’equipe di infermieri, assistenti, anestesisti, specialisti. Il lavoro del decidere" - continua il Ministro - "non può che spettare al magistrato, come solo il chirurgo può mettere la mano sul bisturi nei passaggi decisivi, ma il lavoro di supporto potrà essere svolto con l’aiuto di altre risorse».
[12] Nè è da escludere, peraltro, che tutto ciò possa riflettersi anche nell'attività della formazione giudiziaria, la quale dovrà sviluppare sempre più, prevedibilmente, quelle metodologie cc.dd. di apprendimento partecipativo sulle quali diffusamente si intratteneva, già da tempo, il Manuale della Rete europea di formazione giudiziaria, proprio al fine di promuovere la maturazione di competenze relazionali (di indirizzo, organizzazione e confronto) che proprio un metodo di tipo esperienziale più facilmente potrà favorire.
[13] Gli addetti all'Ufficio, in particolare, supporteranno i magistrati nello studio dei fascicoli, nelle ricerche giurisprudenziali e dottrinali, nella redazione di bozze di provvedimenti semplici e in altre attività a carattere pratico-materiale (come, ad esempio, il controllo di regolarità delle notifiche).
[14] È chiaro, peraltro, che - come evidenziato da G. Reali, L'ufficio per il processo, in Lavoro Diritti Europa, 2021, 2 ss. (citaz. a pag. 19) - «il successo (auspicabile ed auspicato) di tali importanti novità organizzative è legato a triplo filo vuoi all’effettiva (e duratura) attribuzione di mezzi e di adeguate risorse finanziarie da destinare al personale inserito nella struttura, vuoi alla capacità dei capi degli uffici di coordinare, organizzare e integrare tra loro le diverse e ben più numerose professionalità che vi faranno parte, vuoi dalla disponibilità dei magistrati togati ad accogliere il nuovo metodo di lavoro “in squadra” per tentare di raggiungere l’atteso e improcrastinabile obiettivo dell’efficienza e del miglioramento qualitativo e quantitativo della giustizia civile».
[15] A ben guardare, infatti – al di là delle conoscenze di base necessarie per confrontarsi con un determinato ambiente digitale (si pensi, specialmente, alla c.d. "consolle del magistrato") – una particolare esperienza informatica è richiesta, oggi, soltanto (come reso evidente dalla Circolare CSM in materia, del 26.10.2016 e s.m.i.) per i Magistrati referenti distrettuali per l'innovazione e l'informatica (cc. dd. RID) e per i Magistrati di riferimento per l'innovazione e l'informatica (cc.dd. MAGRIF).
[16] Su tale prospettiva v., per tutti: A Garapon-J. Lassègue, La giustizia digitale. Determinismo tecnologico e libertà, Bologna, 2021; F. Fimmanò-I.S.I. Pisano-G. Buccarella, Giustizia digitale. Processi telematici e udienza da remoto, Milano, 2021.
[17] Per una rapida informazione di sintesi sul tema v. D. Onori, Intelligenza artificiale e Giustizia. I principi della "Carta etica europea", in https://www.centrostudilivatino.it.
[18] Il tema della c.d. giustizia predittiva è ormai da tempo all'attenzione della riflessione giuridica; ex multis v.: S. Arduini, La scatola nera della decisione giudiziaria: tra giudizio umano e giudizio algoritmico, in BioLaw Journal - Rivista di BioDiritto, 2021, 453 ss.; E. Battelli, Giustizia predittiva, decisione robotica e ruolo del giudice, in Giust. civile, 2020, 281 ss.; F. Donati, Intelligenza artificiale e giustizia, in Riv. AIC, 2020, 415 ss.; V. Zambrano, Algoritmi predittivi e amministrazione della giustizia: tra esigenze di certezza e responsabilità, in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi, 2020, 611 ss.; C. Castelli-D.Piana, Giustizia predittiva. La qualità della giustizia in due tempi, in Questione Giustizia, 2018, 153 ss.
V., inoltre, L. Viola, Overruling e giustizia predittiva, Milano, 2020.
[19] Non va trascurato, infatti, che proprio la digitalizzazione è una delle sei missioni fondamentali del Piano, anche perché, come ricordato in apertura del pnrr, «per quanto concerne la transizione digitale, i Piani devono dedicarvi almeno il 20 per cento della spesa complessiva per investimenti e riforme»: proprio per questa ragione «la digitalizzazione e l’innovazione di processi, prodotti e servizi rappresentano un fattore determinante della trasformazione del Paese e devono caratterizzare ogni politica di riforma del Piano». Conseguentemente, il Piano riserva specifica considerazione al profilo appena indicato, proponendosi di «aumentare il grado di digitalizzazione della giustizia, mediante l’utilizzo di strumenti evoluti di conoscenza (utili sia per l’esercizio della giurisdizione sia per adottare scelte consapevoli), il recupero del patrimonio documentale, il potenziamento dei software e delle dotazioni tecnologiche, l’ulteriore potenziamento del processo (civile e penale) telematico».
[20] Per la riforma del processo penale v., in particolare, la L. n. 134/2021, sulla quale, per una prima riflessione, A. Natale, La c.d. "riforma Cartabia" e la giustizia penale, in Questione Giustizia, 24 marzo 2022; G. De Marzio, La riforma Cartabia e il nuovo regime dell'improcedibilità per decorso dei termini del giudizio di impugnazione, in Foro it., 2021, 213 ss.
Per gli interventi sul processo civile v. la L. n. 206/2021, su cui, ad es., C. Cecchella, Riforma del processo civile: le disposizioni in vigore dal 22 giugno 2022, in www.altalex.com.
[21] Sul tema v., di recente, anche per diversi spunti critici, G. Monaco, Riforma della giustizia penale e criteri di priorità nell'esercizio dell'azione, in www.federalismi.it, 23 marzo 2022.
[22] In proposito v.: G. Leo, Prescrizione e improcedibilità: problematiche di diritto intertemporale alla luce della giurisprudenza costituzionale, in www.sistemapenale.it, 16 febbraio 2022; A. Nappi, Appunti sulla disciplina dell’improcedibilità per irragionevole durata dei giudizi di impugnazione, in Questione Giustizia, 2021, 176 ss. Alla riforma della giustizia penale è interamente dedicato il fascicolo n. 4/2021 di Questione Giustizia (con contributi, spesso critici, di diversi Autori).
Per una trattazione specifica v. anche B. Romano-A. Marandola (a cura di), La riforma Cartabia. La prescrizione, l’improcedibilità e le altre norme immediatamente precettive, Pisa, 2021.
[23] Esprime apprezzamento sul punto (pur manifestando riserve su altri profili della riforma) A.M. Tedoldi, Le adr nella delega per la riforma del processo civile, in Questione Giustizia, 2021, 142 ss.; formula, invece, alcune rilevanti osservazioni critiche anche sul tema specifico degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie A.M. Zumpano, Le adr nella delega per la riforma del processo civile, ivi, 135 ss.
[24] Nella versione originaria della proposta di riforma, la preclusione maturava già con riguardo agli "atti introduttivi" del giudizio, laddove nella successiva rielaborazione della stessa si è collocata la preclusione lungo una scansione temporale (articolata su tre termini diversi) che va dagli atti introduttivi alla prima udienza.
[25] Analitica considerazione dei vari aspetti della riforma è contenuta nei contributi (di diversi Autori) ospitati nel fascicolo n. 3/2021 di Questione Giustizia, interamente dedicato alla novella.
Sul tema specifico delle preclusioni istruttorie v., per molteplici riserve e perplessità, M. Gattuso, La riforma governativa del primo grado: le ragioni di un ragionevole scetticismo e alcune proposte organizzative ancora possibili, in Questione Giustizia, 2021, 59 ss.
[26] Sebbene anche con riferimento ai diversi propositi di riforma della giustizia tributaria non siano mancate perplessità e preoccupazioni (v., ad es.: E. Della Valle, La riforma della giustizia tributaria nei ddl di fonte "senatoriale", in www.rivistadirittotributario.it, 1 aprile 2022; M. Basilavecchia, Riforma della giustizia tributaria. Una "storica" prima pietra, tra luci e ombre, in www.ipsoa.it), è soprattutto la riforma dell'ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della Magistratura che ha sollevato le più forti resistenze e riserve (quotidianamente presenti, non solo nelle riviste specializzate, nel dibattito sul tema).
L’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione europea: qualche breve valutazione sulla legittimità, sulla proporzionalità della misura e sui suoi effetti non discriminatori
di Beatrice Rossilli
Sommario: 1. Il caso. Breve ricognizione dei sette quesiti rivolti alla Corte di Giustizia Europea dal giudice del lavoro di Padova. – 2. L’autorizzazione condizionata della Commissione Europea alla messa in commercio dei vaccini anti COVID-19 e la procedura accelerata prevista dal Regolamento (CE) 507/2006. Il potrei ma non voglio del Tribunale a sospendere gli effetti di un atto europeo. – 3. La compatibilità dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 con il principio generale di proporzionalità… - 4.…e il principio di non discriminazione – 5. Valutazioni conclusive alla luce degli ultimi aggiornamenti normativi.
1. Il caso. Breve ricognizione dei sette quesiti rivolti alla Corte di Giustizia Europea dal giudice del lavoro di Padova.
L’ordinanza di rinvio alla Corte di Giustizia in commento è stata disposta il 7 dicembre 2021 dal giudice del lavoro di Padova, nell’ambito del giudizio promosso ex art. 700 c.p.c. da un’infermiera che, essendosi sottratta alla somministrazione del vaccino anti COVID-19 aveva subito la sospensione dall’Albo professionale e la sospensione del rapporto di lavoro intrattenuto con la struttura sanitaria presso la quale risultava occupata, ai sensi e per l’effetto dell’art. 4 d.l. n. 44/2021.
È oramai notorio che il legislatore, con l’art. 4 del d.l. n. 44/2021 - convertito con modificazioni dalla L. n. 76/2021 - ha introdotto nell’ordinamento l’obbligo vaccinale[1] gravante nei confronti degli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario attuando, in questo modo, la rigorosa riserva di legge contenuta nell’art. 32 Cost. in materia di trattamenti sanitari obbligatori[2].
L’effetto che la legge riconduce all’inadempimento dell’obbligo vaccinale è la sospensione dall’esercizio della professione e il venir meno del diritto del lavoratore a ricevere la retribuzione o qualunque altro compenso o emolumento.
Il datore di lavoro, nel caso di specie, preso atto dell’inosservanza di tale obbligo e valutata l’impossibilità di adibire la lavoratrice ad altre mansioni, anche inferiori, predisponeva nei suoi confronti il provvedimento di sospensione. Sul punto, è bene chiarire che nella versione originaria dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 – applicabile ratione temporis ai fatti in causa - diversamente dalla disposizione attualmente in vigore, il legislatore prevedeva al comma 8[3] una particolare ipotesi di ius variandi verticale in pejus (ulteriore rispetto a quelle già previste dai commi 2 e 4 dell’art. 2103 del c.c.), successivamente eliminata dal d.l. n. 172/2021 che con l’art. 1 comma 1 lett. b) ha sostituito l’art. 4[4]. Evidentemente, lo ius variandi sarebbe stato strumentale alla possibilità per il lavoratore di proseguire lo svolgimento della prestazione, deputandolo a mansioni che non implicassero contatti interpersonali o, comunque, il rischio di diffusione del contagio.
La facoltà del datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni diverse o inferiori, lascia intendere che, in un primo momento, l’intenzione del legislatore dovesse essere quella di limitare “ove possibile” l’ipotesi di sospensione del rapporto contrattuale (e della retribuzione) a casi limite.
Ritenendo illegittimamente sospeso il suo rapporto di lavoro, la lavoratrice impugnava il provvedimento di sospensione dinanzi al Tribunale chiedendo di essere riammessa in servizio e invocando, a sostegno del proprio ricorso, argomenti sia in fatto che in diritto.
Il giudice di prime cure, riservandosi di decidere, sospende il procedimento e rinvia gli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sottoponendole ben sette quesiti.
Com’è noto, la competenza pregiudiziale di cui è titolare la CGUE si erge lungo due direttrici, vale a dire che i giudici nazionali possono porre alla Corte tanto questioni di interpretazione che questioni di validità del diritto dell’Unione[5]. In questo secondo caso il controllo di validità in sede pregiudiziale viene esercitato sugli atti posti in essere dalle Istituzioni europee.
Nell’ordinanza in commento, si riscontrano entrambe le tipologie di rinvio (rinvio di interpretazione/rinvio di invalidità).
Guardando ai quesiti trasmessi dal g.l. di Padova, si evince che la maggior parte di essi sono connessi al quesito “madre” avente ad oggetto il dubbio di validità dell’atto attraverso il quale la Commissione europea ha autorizzato la messa in commercio dei vaccini anti COVID-19.
Tuttavia, rinviando al prossimo paragrafo il doveroso approfondimento su quanto appena accennato, è ora opportuno passare al vaglio i quesiti contenuti nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale.
Il Tribunale chiede alla Corte di Giustizia di chiarire: 1) se l’autorizzazione condizionata emessa su parere favorevole EMA in relazione ai vaccini in commercio possa ancora essere considerata valida alla luce dell’art. 4, Regolamento n. 507/2006; 2) se possa ritenersi sussistente una deroga all’obbligo vaccinale valida nei confronti di quegli operatori sanitari guariti dal Covid-19 e, pertanto, divenuti immuni; 3) se, in ragione della condizionalità dell’autorizzazione dei vaccini, i sanitari obbligati possano opporsi all’inoculazione fintantoché non sarà accertato che non vi siano controindicazioni e che i benefici siano superiori a quelli di altri farmaci anti-COVID-19 oggi in commercio; 4) se sia legittima la sospensione dal posto di lavoro senza diritto alla retribuzione per il sanitario non vaccinato, o se sia necessario prevedere una gradualità delle misure sanzionatorie, in ossequio al principio fondamentale di proporzionalità; 5) se la verifica della possibilità di utilizzazione in forma alternativa del lavoratore debba avvenire nel rispetto del contraddittorio e, quando ciò non avvenga, se ai sensi dell’art. 41 della Carta di Nizza si configuri il diritto al risarcimento del danno.
Il giudice ha poi posto due ulteriori quesiti:
6) se la normativa interna che da un lato, permette al personale sanitario dichiarato esente dall’obbligo vaccinale di esercitare la propria attività purché nel rispetto dei presidi di sicurezza, e dall’altro, prevede la sospensione automatica senza retribuzione del sanitario che - divenuto immune a seguito del contagio - non voglia sottoporsi al vaccino senza indagini mediche, possa ritenersi compatibile con il principio di non discriminazione, il cui rispetto è imposto dal Regolamento n. 953/2021[6].
7) se la normativa nazionale che obbliga alla vaccinazione anche il personale sanitario che, sebbene proveniente da altro stato membro, si trovi nel territorio italiano ai fini dell’esercizio della libera prestazione dei servizi e della libertà di stabilimento, possa ritenersi rispettosa del Regolamento n. 953/2021.
2. L’autorizzazione condizionata della Commissione Europea alla messa in commercio dei vaccini anti COVID-19. Il potrei (?) ma non voglio del Tribunale a sospendere gli effetti di un atto europeo.
Una volta presentati i quesiti posti dal Tribunale è possibile riprendere le fila del discorso di sopra solo accennato. Ebbene, si è testé rilevato che la maggioranza dei quesiti possono ritenersi connessi al primo tra quelli elencati nel paragrafo precedente.
In effetti, il quesito relativo alla questione di validità dell’atto autorizzatorio emanato dalla Commissione, attraverso il quale essa ha abilitato la messa in commercio dei vaccini, appare essere la barriera da valicare, e la soluzione affermativa eventualmente predisposta dalla Corte di Giustizia in sede di competenza pregiudiziale configura, a tutti gli effetti, la fondamentale premessa per poter rispondere a molti degli altri successivi quesiti.
Detto in altre parole, se la Corte di Giustizia riterrà illegittima l’autorizzazione della Commissione, i quesiti connessi a tale questione di validità, saranno inevitabilmente assorbiti.
È bene ora soffermarsi sull’autorizzazione della Commissione e su quali siano le argomentazioni giuridiche sulle quali risultano essersi diramati i dubbi di validità avanzati dal giudice del lavoro di Padova.
Ai sensi dell’art. 3 del Regolamento (CE) n. 726[7] del 31 marzo 2004 si legge, al primo comma “Nessun medicinale (…) può essere immesso in commercio nella Comunità senza un'autorizzazione rilasciata dalla Comunità secondo il disposto del presente regolamento”.
Ciò significa che, alla luce della normativa europea sul punto, qualunque azienda farmaceutica desideri commercializzare un vaccino nel territorio dell’UE dovrà richiedere ex ante l’autorizzazione all’agenzia europea del farmaco (EMA), competente a valutare la sicurezza, l'efficacia e la qualità dello stesso[8].
Se l'EMA formula un parere favorevole al rilascio dell’autorizzazione, allora la Commissione può procedere alla commercializzazione del vaccino sul mercato dell'UE.
Tuttavia, l’ordinamento sovranazionale si è dotato di uno strumento normativo, azionabile al verificarsi di particolari situazioni d’emergenza, che permette vengano rapidamente messi a disposizione - in tutto il territorio unionale - medicinali in grado di fronteggiarle.
Si tratta della procedura di autorizzazione condizionata all’immissione in commercio, contenuta nel Regolamento (CE) n. 506 del 29 marzo 2006.
Si badi bene, non si tratta di una procedura più asciutta o scarna rispetto alla procedura ordinaria, al contrario, si tratta di uno strumento la cui cifra è senza dubbio quella della celerità – funzionale a domare la circostanza emergenziale che ne presuppone e giustifica l’impiego[9] – ma dove gli ulteriori passaggi si realizzano in un secondo momento, vale a dire ex post rispetto all’effettiva diffusione del medicinale.
In circostanze di questo tipo, comunque, l’EMA svolge un esame accurato ed approfondito di tutte le prove fornite dalle aziende farmaceutiche istanti.
Malgrado non siano stati forniti dati clinici completi in merito alla sicurezza e all’efficacia del medicinale,
l’art. 4 del presente Regolamento definisce le condizioni da rispettare affinché possa essere rilasciata l’autorizzazione all’immissione in commercio: a) il rapporto rischio/beneficio del medicinale risulta positivo; b) è probabile che il richiedente possa in seguito fornire dati clinici completi; c) il medicinale risponde ad esigenze mediche insoddisfatte; d) i benefici per la salute pubblica derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superano il rischio inerente al fatto che occorrano ancora dati supplementari.
Allo stato, sono molteplici i vaccini per i quali risulta che la Commissione abbia autorizzato la loro immissione in commercio condizionata[10] per fronteggiare l’epidemia.
Nell’ordinanza in commento si evince che il nocciolo sul quale si fonda il dubbio di validità delle autorizzazioni vaccinali emesse dalla Commissione nutrito dal Tribunale di Padova e su cui dovrà pronunciarsi in sede pregiudiziale la Corte di Giustizia, insiste proprio su questo punto, vale a dire, l’effettivo perfezionamento delle condizioni previste ex art. 2 par. 1 del Regolamento n. 506/2006.
Per il giudice il maggior grado di incertezza si concentrerebbe sulla condizione di cui alla lettera c).
A fondamento delle sue perplessità menziona la presenza di cure alternative[11] rispetto a quelle vaccinali, già allora disponibili in ambienti ospedalieri, meno pericolose e aventi anch’esse un’alta efficacia di prevenzione.
Tra le condizioni contemplate dall’art. 4 del Regolamento, secondo la ricostruzione del giudice, questo tassello andrebbe a compromettere il verificarsi di quella che ammette il rilascio dell’autorizzazione solo in quanto il medicinale “risponde ad esigenze mediche insoddisfatte”. Per ciò deve intendersi, come spiega lo stesso Regolamento al par. 2, “una patologia per la quale non esiste un metodo soddisfacente di diagnosi, prevenzione o trattamento autorizzato nella Comunità”.
Tale dato, pertanto, andrebbe a minare la legittimità dell’autorizzazione condizionata e, secondo il Tribunale, ciò comporterebbe l’invalidità dell’atto di diritto dell’Unione Europea in questione ritenendo perciò necessario l’intervento della CGUE.
È bene chiarire che, in queste poche pagine, non si ha nemmeno l’ambizione di tentare di sciogliere questioni afferenti ad un dibattito complesso che neppure il Tribunale ha inteso fronteggiare. Un’operazione di questo tipo, infatti, merita evidentemente un’ampia conoscenza tecnica medico-scientifica e una confacente capacità critica che non possono essere eluse. Rimanendo, però, nel campo giuridico è possibile fare qualche considerazione in merito all’ordinanza di rinvio in commento.
La prima considerazione che si intende offrire concerne la scelta del giudice del lavoro di Padova di richiamare la giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di potere cautelare riconosciuto ai giudici nazionali, e quale significato è possibile attribuirle alla luce del caso di specie.
Il Tribunale, infatti, prima di porre il primo quesito da rinviare alla CGUE, riconosce di non essere competente a dichiarare l’invalidità degli atti delle istituzioni comunitarie, salva la possibilità per il giudice nazionale di ordinare la sospensione cautelare fino a che la Corte non abbia statuito sulla questione di validità.
È utile forse ricordare, infatti, che quando viene operato un rinvio pregiudiziale e in attesa della pronuncia della Corte, questa riconosce alle giurisdizioni degli Stati membri il potere di sospendere non solo l’efficacia di provvedimenti nazionali fondati su atti dell’Unione[12] di cui la validità è incerta, ma anche il potere di sospendere l’efficacia di leggi ed atti dell’Unione[13] della cui legittimità comunitaria venga investita la Corte in via pregiudiziale.
Ebbene, si è detto più volte che la Commissione ha accordato l’immissione in commercio di tutti i vaccini tramite autorizzazione, ed effettivamente, tale atto ha natura di decisione.
Quale valore dare, dunque, alla scelta di richiamare tale giurisprudenza della CGUE?
Effettivamente, sebbene la mossa giocata dal Tribunale desti un po’ di curiosità, il motivo sembrerebbe essere uno e uno soltanto. Se – come emerge dalla citata giurisprudenza comunitaria - la condizione affinché il giudice nazionale attribuisca la tutela cautelare è che egli ravvisi dei seri dubbi di validità dell’atto comunitario, probabilmente, tale presupposto non risulta essersi realmente verificato.
È plausibile sostenere, infatti, che, proprio per questo, il giudice abbia voluto “passare la palla” direttamente alla Corte di Giustizia, informando che sebbene egli avrebbe potuto sospendere l’efficacia dell’atto, ha voluto comunque lasciare alla Corte la “responsabilità” di una scelta di questo tipo, rimandando tutti gli effetti del caso (giuridici e non solo) al momento in cui, semmai, essa dovesse pronunciarsi rispetto all’ invalidità dell’atto stesso.
A latere, un altro aspetto su cui riflettere è poi connesso all’effettiva capacità del giudice nazionale di sospendere l’efficacia di una decisione emessa dalla Commissione che, sebbene sia da qualificarsi come diritto europeo derivato, non ha natura di atto legislativo[14].
La seconda considerazione che qui si propone insiste, invece, sul dubbio di validità che aleggia sulla decisione della Commissione di autorizzare l’immissione in commercio dei farmaci attraverso la procedura condizionata.
Ora, staremo a vedere come si pronuncerà sul punto la Corte di Giustizia ma non può sottacersi il valore determinante che assume, nel caso di specie, l’ultimo capoverso del par. 1 dell’art. 4 del Regolamento n. 726/2004:“nelle situazioni di emergenza di cui all’articolo 2, paragrafo 2, può essere rilasciata un’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata anche in assenza di dati farmaceutici o preclinici completi purché siano rispettate le condizioni di cui alle lettere da a) a d) del presente paragrafo.”
Ebbene, anche quindi volendo aderire alla posizione assunta dal giudice del lavoro di Padova rispetto alla mancata configurazione della condizione di cui alla lett. c) dell’art. 4, è anche vero che lo stesso Regolamento sembra prevedere una sorta di rimedio ulteriore finalizzato a fronteggiare emergenze sanitarie, quale evento determinante un grave rischio per la salute pubblica. Il par. 2 prevede la possibilità di rilasciare l’autorizzazione a patto che si verifichino almeno due essenziali condizioni (lett. a; lett. d) a fronte delle quattro elencate nell’articolo.
La presenza di queste due condizioni sarebbero sufficienti, pertanto, al rilascio dell’autorizzazione e nell’ordinanza di rinvio nulla viene eccepito sul punto dal Tribunale.
3. La compatibilità dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 con il principio generale di proporzionalità…
Lo spazio a disposizione impone necessariamente di circoscrivere l’indagine sull’ordinanza di rinvio in commento e, pertanto, nel corso dei paragrafi successivi ci si soffermerà solamente su almeno altri due dei quesiti rivolti dal Tribunale di Padova alla Corte di Lussemburgo.
Come già indicato precedentemente, il giudice di Padova si è così rivolto: “Dica la Corte di Giustizia se, nel caso del vaccino autorizzato dalla Commissione in forma condizionata, l’eventuale non assoggettamento al medesimo da parte del personale medico sanitario nei cui confronti la legge dello Stato impone obbligatoriamente il vaccino, possa comportare automaticamente la sospensione dal posto di lavoro senza retribuzione o se si debba prevedere una gradualità delle misure sanzionatorie in ossequio al principio fondamentale di proporzionalità”.
È forse doveroso, dapprima, svolgere qualche considerazione di ordine formale rispetto al quesito così rivolto alla Corte di Giustizia.
Quando quest’ultima viene adita in funzione della sua competenza pregiudiziale, essa è chiamata a fornire al giudice nazionale a quo, unicamente, la propria interpretazione sulle norme del diritto europeo[15] (norme dei Trattati; atti di diritto derivato; accordi stipulati dall’UE; principi generali del diritto dell’UE).
In altre parole, ciò significa che la Corte non può pronunciarsi sull’interpretazione di una norma del diritto interno né può pronunciarsi direttamente sulla compatibilità di una norma nazionale con il diritto dell’Unione, sebbene, tuttavia, sia oramai sdoganato anche un uso alternativo della competenza pregiudiziale.
Spesso, infatti, la Corte si è dichiarata competente a decidere questioni che sebbene formalmente vertessero sulla portata di un principio o di una disposizione del diritto dell’Unione, permettevano comunque di “mettere in discussione” una norma di diritto interno di cui si dubitava la conformità a quel diritto.
Sembra, tuttavia, che in questo caso il giudice di Padova si sia spinto un po’ oltre, ritenendo di potersi rivolgere alla Corte chiedendo che si pronunciasse direttamente sulla compatibilità di una norma interna con il principio generale di proporzionalità.
Ad ogni modo, non c’è dubbio che spetti esclusivamente alla Corte l’apprezzamento circa la ricevibilità o meno di tale quesito.
In questa sede, comunque, è utile svolgere qualche riflessione rispetto all’ipotizzato dubbio di compatibilità della disposizione in questione con il principio di proporzionalità, di derivazione comunitaria.
Nell’ordinamento sovranazionale tale principio trova specifica espressione nell’art. 5 par. 4 TUE volto a stabilire che, in virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati. In altre parole, i mezzi impiegati devono essere adeguati per il raggiungimento del fine voluto.
Occorre distinguere, tuttavia, il principio di proporzionalità ex art. 5 par. 4 TUE e il principio generale avente lo stesso nome, individuato dalla giurisprudenza e riconosciuto quale principio generale del diritto comunitario[16]. Da un lato, infatti, si ha il principio di cui all’art. 5 par. 4 che riguarda – come riportato- il rapporto tra le competenze comunitarie e quelle degli Stati membri. Dall’altro, invece, si ha il principio generale, affermatosi quale strumento di protezione dei singoli nei confronti delle istituzioni o delle autorità degli Stati membri, quando queste agiscono in un settore rientrante nel campo d’applicazione dei Trattati.
Più che differenziare questi due principi, si potrebbe dire, piuttosto, che il principio di proporzionalità enunciato ai sensi dell’art. 5 par. 4 sia una specifica applicazione del principio generale di uguale denominazione.
In tema di principio di proporzionalità è doveroso, inoltre, dare conto di un’ulteriore disposizione, contenuta nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (la c.d. Carta di Nizza), l’art. 52 par. 1, la quale precisa che qualunque limitazione apportata all’esercizio dei diritti e delle libertà sanciti dalla stessa Carta, possa essere imposta esclusivamente solo laddove si mostri quale misura necessaria al raggiungimento di una “finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”.
La giurisprudenza unionale[17] ha declinato il principio di proporzionalità attraverso tre passaggi: 1) il controllo sulla verifica dell’idoneità dei mezzi perseguiti rispetto allo scopo prefissato; 2) il controllo sulla necessarietà della misura (al presentarsi di due o più misure ugualmente idonee al raggiungimento dello scopo, è necessario ricorrere alla misura meno restrittiva); 3) il controllo sulla proporzionalità in senso stretto (si deve accertare che il sacrificio subito dalla posizione individuale giuridicamente tutelata sia proporzionata all’interesse pubblico perseguito dall’autorità).
Il principio esige, pertanto, che i sacrifici e le limitazioni di libertà imposti ai singoli non eccedano quanto necessario per il raggiungimento degli scopi pubblici da perseguire e, in particolare che siano idonei e necessari a questo stesso fine, evitando di imporre ai privati sacrifici superflui.
Nel caso di specie, si potrebbe dire che il diritto su cui l’art. 4 del d.l. n. 44/2021 pone una limitazione è il diritto a svolgere le prestazioni o mansioni che “implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”[18].
Nel suo apprezzamento circa l’effettiva violazione del principio di proporzionalità perpetrata dal legislatore italiano, la Corte di Giustizia, pertanto, orienterà il proprio giudizio sulla base delle valutazioni sopraesposte.
Non vi sono dubbi che la questione in oggetto sia particolarmente delicata, come dimostra anche l’ampio contenzioso[19] che la norma ha ingenerato sin dalla sua entrata in vigore.
D’altronde, si tratta di valutazioni che la Corte dovrà effettuare non potendo esimersi dal confrontarsi anche con i dati e le informazioni di natura medico-scientifica, necessari per potersi esprimere in tema di idoneità e adeguatezza della misura (l’obbligo vaccinale) per il raggiungimento dell’interesse pubblico perseguito (la cessazione dello stato di emergenza sanitaria).
Bisogna evidenziare, inoltre, che il giudice fa riferimento al principio di proporzionalità relativamente alla misura sospensiva dell’operatore sanitario non vaccinato, qualificando quest’ultima come misura sanzionatoria e ipotizzando l’assenza di adeguatezza della sospensione proprio alla luce di una maggiore gradualità della misura sanzionatoria che, alla luce del quesito rivolto alla Corte ha ritenuto si potesse assicurare, a fronte del mancato rispetto dell’obbligo vaccinale.
Ebbene, tuttavia, sembrerebbe comunque scorretto riferirsi alla gradualità della sanzione disciplinare in quanto si ricordi che, proprio sul tema della qualificazione della sospensione quale misura sanzionatoria, il Governo –chiarendolo, poi, in modo ancora più esplicito nel d.l. n. 172/2021[20]– specifica che la sospensione dal lavoro debba intendersi quale conseguenza discendente dal mancato configurarsi del requisito essenziale per l’esercizio della professione.
Come si evince dalla lettura della norma, la sospensione si determina quale effetto legale del mancato adempimento all’obbligo vaccinale e non si assiste a nessun intervento disciplinare da parte del datore di lavoro.
4. …E il principio di non discriminazione.
Il terzo quesito che si intende analizzare è stato sollevato d’ufficio dal Tribunale di Padova. Sebbene il giudice ammetta nell’ordinanza che nessuna delle parti abbia invocato il Regolamento n. 953/2021[21], egli ritiene che tale atto normativo assuma, invero, un certo rilievo nella controversia e, difatti, chiede alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sull’ipotetico contrasto tra l’art. 4 comma 11 del d.l. n. 44/2021 e il Regolamento (UE) n. 953/2021.
Il considerando n. 36 del citato Regolamento recita: “È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate”.
Il comma 11 dell’art. 4 d.l. n. 44/2021[22], riconosce la possibilità, ai libero-professionisti nei confronti dei quali - per comprovate “specifiche condizioni cliniche” - è prevista ex lege un’eccezione all’obbligo vaccinale (“la vaccinazione non è obbligatoria e può essere omessa o differita”), di proseguire l’esercizio dell’attività lavorativa osservando le misure di prevenzione igienico sanitarie contenute nel Protocollo di sicurezza adottato con decreto del Ministro della salute, di concerto con i Ministri della giustizia e del lavoro e delle politiche sociali.
Secondo il giudice di Padova, pertanto, il trattamento discriminatorio si consumerebbe proprio in questa previsione.
Da un lato, si ha il lavoratore non vaccinato poiché renitente alla somministrazione del vaccino; dall’altro, si ha il lavoratore non vaccinato in ragione di accertati pericoli di salute.
Sebbene in via astratta entrambi i lavoratori risultano essere sprovvisti del requisito essenziale per l’espletamento della propria attività professionale[23], il legislatore fa discendere due diversi trattamenti: la sospensione dal rapporto di lavoro e della relativa retribuzione al primo, l’adibizione a diverse mansioni – confacenti a scongiurare la diffusione del rischio di diffusione del contagio – e l’adozione delle misure igienico-sanitarie indicate dal Protocollo di sicurezza, al secondo.
In attesa di apprendere il responso della Corte di Giustizia circa l’effettiva violazione della norma europea e dovendo necessariamente escludere dalle riflessioni che di seguito si cercherà di sviluppare, le questioni afferenti il conflitto tra norme nazionali e sovranazionali, si vuole provare di seguito ad avanzare qualche valutazione sul caso di specie, non potendo esimersi dal ricorrere all’aiuto-guida della giurisprudenza della Corte di Giustizia.
A prescindere dal considerando di cui al Regolamento citato nell’ordinanza in commento, si ricorda che il principio di non discriminazione è uno dei principi generali dell’ordinamento sovranazionale, sancito dall’art. 21 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea[24] che la Corte di Lussemburgo ha più volte riconosciuto quale diritto soggettivo direttamente invocabile dai privati[25].
In altre parole, ciò significa che per la giurisprudenza della Corte di Giustizia, il principio di non discriminazione ha efficacia diretta nei confronti dei singoli e, pertanto, abilita il giudice nazionale a disapplicare una norma nazionale che si ponga in contrasto con tale principio[26].
Ora, anzitutto, oltre a cercare di individuare la natura della discriminazione generata dalla disposizione di cui al comma 11 art. 4, d.l. 44/2021, è bene anche indagare rispetto a quale sia il motivo su cui la discriminazione si fonderebbe.
Relativamente a quest’ultimo punto, la questione non è semplice: il Regolamento n. 953/2021 prescrive che è necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta a svantaggio delle persone non vaccinate “per esempio per motivi medici” o “perché non hanno ancora avuto l'opportunità di essere vaccinate”.
Dalla lettera della disposizione, tuttavia, si evince che il legislatore europeo abbia richiamato solo in via esemplificativa alcuni dei motivi posti alla base della mancata vaccinazione, lasciando ciò intendere che è possibile configurarne ulteriori.
Si pensi ad esempio a tutti coloro che hanno assunto preoccupanti posizioni di obiezione e di contrasto alla campagna vaccinale, mossi da uno scetticismo generalizzato nei confronti degli studi scientifici che negli ultimi anni sono stati promossi al fine di fronteggiare la pandemia da Covid-19, che hanno condotto alla diffusione dei vaccini.
Oppure, senza spingersi a tali estremismi, si pensi a tutti coloro che hanno scelto di non sottoporsi alla somministrazione del vaccino perché spaventati dagli effetti collaterali che si sarebbero potuti registrare, ad esempio – come è avvenuto nel caso di specie- nel caso in cui si fosse già stati contagiati dal virus.
Generalizzando, può dirsi che in via astratta il fil rouge che lega queste diverse posizioni assunte da soggetti privi dello status di vaccinato è una convinzione personale che, ai sensi dell’art. 21 par. 1 della Carta di Nizza, configura una delle cause di discriminazione per cui è prevista una tutela.
In materia di discriminazione fondate anche sulle convinzioni personali per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro vi è la direttiva 2000/78/CE[27] che fornisce la nozione di discriminazione diretta e indiretta basata su uno dei motivi di cui all’art. 1 della stessa direttiva.
Nel caso del citato comma 11 art. 4, in via astratta, potrebbe individuarsi una sorta di discriminazione indiretta, la quale si ritiene sussistere quando “una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano (una determinata religione o) ideologia di altra natura (…)”.
È bene segnalare che il giudice di Padova non sembra tenere in conto che il comma 11 art. 4, limiti il trattamento più favorevole agli operatori sanitari esenti dall’obbligo per ragioni mediche, a coloro che prestino la loro attività in regime di lavoro autonomo.
La norma non si riferisce, pertanto, a coloro che svolgono la loro prestazione in regime di subordinazione: il decreto prevede, infatti, per i sanitari impiegati per i quali la vaccinazione è omessa o differita, il cambio di mansioni (ius variandi orizzontale) senza decurtazione della retribuzione.
Ad ogni modo, in via astratta, è possibile rinvenire un trattamento meno favorevole nei confronti di coloro che volontariamente decidono di non adempiere all’obbligo vaccinale, a maggior ragione se si pensa che nella versione definitiva dell’art. 4 è stato espunto il comma che prevedeva la possibilità di modifica delle mansioni, anche inferiori, per i sanitari reticenti al vaccino.
Provando a seguire il ragionamento del giudice ed esemplificando, può dirsi che il trattamento presumibilmente discriminatorio consisterebbe nel fatto che, sebbene il medico che non voglia vaccinarsi e il medico che non possa vaccinarsi costituiscano entrambi lo stesso rischio di promanazione del virus, la norma preveda per quest’ultimo un trattamento sicuramente più svantaggioso (come visto, una volta accertata l’inosservanza dell’obbligo si verifica “la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”).
Bisogna segnalare, tuttavia, che guardando alla direttiva 2000/78, l’art. 2, par. 2, lett. b), dispone che la disposizione, il criterio o la prassi che pongono in una posizione di particolare svantaggio “le persone che professano una determinata (…) ideologia (…)” non determinano una discriminazione indiretta se “siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”.
Come chiarito e precisato nel d.l. n. 44/2021, lo scopo primario dell’imposizione della somministrazione del vaccino nei confronti degli esercenti le professioni sanitarie e degli operatori di interesse sanitario è quello di “tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”.
Se dunque, da un lato, può ritenersi sussistere l’oggettiva giustificazione e la legittima finalità della disposizione, dall’altro, sul giudizio relativo alla proporzionalità delle misure impiegate per il conseguimento della stessa, invece, può concludersi dicendo che tale quesito rivolto alla CGUE viene in parte assorbito dal quesito - già analizzato nelle pagine precedenti - in tema di conformità della norma interna al principio di proporzionalità. Dovrà attendersi, pertanto, la pronuncia della Corte di Giustizia.
5. Valutazioni conclusive alla luce degli ultimi aggiornamenti normativi.
Come più volte indicato precedentemente, l’art. 4 è stato più volte aggiornato.
Come è noto, sulla scorta di tale disposizione, ne sono state emanate altre[28] – tutte concorrenti a raggiungere il medesimo scopo di tutela della sicurezza pubblica – che hanno ampliato il perimetro soggettivo della platea degli obbligati a sottoporsi alla vaccinazione.
Il d.l. n. 24 emanato il 24 marzo 2022 ha apportato alcune modifiche all’art. 4: ha, da un lato, prorogato il termine ultimo entro il quale vige l’obbligo vaccinale nei confronti degli operatori sanitari[29] e, dall’altro, sembrerebbe delineare un’ipotesi di eccezione alla sospensione del rapporto di lavoro e relativa retribuzione dell’operatore sanitario non vaccinato.
La disposizione, infatti, chiarisce che un soggetto non vaccinato che abbia contratto il virus, una volta guarito, possa porre istanza all’Ordine professionale territorialmente competente, il quale dovrà disporre la cessazione della sospensione “sino alla scadenza del termine in cui la vaccinazione è differita in base alle indicazioni contenute nelle circolari del Ministero della salute”[30].
Si tratta, sicuramente, di una novità rilevante che sembra tuttavia generare qualche contraddizione con la disposizione di cui al primo comma, quando il legislatore assurge il vaccino quale “requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative”.
Il sanitario non vaccinato, contagiato e poi guarito, infatti, non può più essere sospeso e potrà proseguire la sua attività lavorativa benché in difetto di quel requisito di cui, ora, la stessa norma sembrerebbe metterne in discussione l’imprescindibilità.
Ovviamente non è dato, allo stato, prevedere come la Corte di Giustizia si esprimerà su questi e sugli ulteriori quesiti rivolti dal giudice del lavoro di Padova. Non ci sono dubbi, tuttavia, che il suo intervento configurerà una fondamentale direttrice per i giudici nazionali che dovranno fronteggiare l’ampio contenzioso che, rispetto a questo tema, inevitabilmente, si potenzierà.
[1] In generale, in tema di obbligo vaccinale previsto per gli operatori sanitari si rinvia a: P. Pascucci e C. Lazzari, Prime considerazioni di tipo sistematico sul d.l. 1 aprile 2021, n. 44, in Dir. sic. lav., 2021, 1, p. 153; C. Pisani, Vaccino anti-covid: oneri e obblighi del lavoratore alla luce del decreto per gli operatori sanitari, in Mass. giur. lav., 2021, 1, p. 151; V.A. Poso, Dei vaccini e delle «pene» per gli operatori sanitari. Prime osservazioni sul D.L. 1° aprile 2021, n. 44 (G.U. n. 79 del 1° aprile 2021), in Labor, 10 aprile 2021; F. Scarpelli, Arriva l’obbligo del vaccino (solo) per gli operatori sanitari: la disciplina e i suoi problemi interpretativi, Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi. Conversazioni sul lavoro a distanza da agosto 2020 a marzo 2021, promosse e coordinate da V.A. Poso, 3 aprile 2021, p. 6. Ancora, su questa Rivista v. le interessanti posizioni emerse in M. Basilico, Per operatori sanitari e socioassistenziali è il momento dell’obbligo vaccinale? Intervista di M. Basilico a F. Amendola, R. De Luca Tamajo e V. A. Poso, 30 marzo 2021.
[2] Tra la dottrina costituzionalista che si espressa sul tema, si rinvia per tutti a F. Grandi, L’art. 32 nella pandemia: sbilanciamento di un diritto o “recrudescenza” di un dovere?, Costituzionalismo.it, 1, 2021; v. anche l’intervista a Sabino Cassese comparsa sul quotidiano il Mattino, il 30.12.2020, quando il dibattito circa l’opportunità dell’obbligo vaccinale iniziava poco a poco ad accendersi: “la Costituzione prevede trattamenti sanitari obbligatori, purché siano disposti con legge e rispettino la persona umana”.
[3] La versione originaria del comma 8, art. 4 d.l. n. 44/2021 recitava: “(…) il datore di lavoro adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, diverse da quelle indicate al comma 6, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio.” Si noti che il discrimine rispetto alla disciplina generale del demansionamento consisteva nel fatto che in tale speciale ipotesi non si rinveniva il diritto alla conservazione del livello di inquadramento. Come detto in precedenza, nella versione attualmente in vigore dell’art. 4, è stata eliminata la possibilità di modificare le mansioni, anche in pejus, dell’operatore sanitario che violi l’obbligo vaccinale. L’unica ipotesi di ius variandi è attualmente prevista per coloro nei confronti dei quali non vige l’obbligo di vaccinazione per ragioni di salute ex art. 4 comma 7 del d.l. n. 44/2021, così come modificato dal d.l. n. 172/2021: “Per il periodo in cui la vaccinazione di cui al comma 1 è omessa o differita, il datore di lavoro adibisce i soggetti di cui al comma 2 a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2”. In dottrina, sul punto, v. anche M. Verzaro, Ecce lex! L’obbligo di vaccinazione per gli operatori sanitari, LDE, 2, 2021, 12.
[4] Il legislatore è intervenuto più volte sul testo dell’art. 4, d.l. n. 44/2021: dapprima in sede di conversione, la l. n. 76/2021 ha disposto, con l’art. 1 comma 1, la modifica dei commi 1,3,5,6, e 8. Successivamente, il Governo in funzione delegata ha sostituito per intero la disposizione con l’art. 1 comma 1 lett. b del d.l. n. 172/2021. In sede di conversione, la l. n. 3/2022 ha disposto l’introduzione del comma 1-bis dell’art. 4 e la modifica dei commi 2,3,4,5, e 6.
[5] In generale, si rinvia a G. Tesauro, Alcune riflessioni sul ruolo della Corte di Giustizia nell’evoluzione dell’Unione Europea, DUE., 3, 2013, 483 ss.; L. Garofalo, Sulla competenza a titolo pregiudiziale della Corte di Giustizia secondo l’art. 68 del Trattato CE, DUE, 4, 2000, 805 ss.
[6] Cfr. Regolamento (UE) 2021/953 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 giugno “su un quadro per il rilascio, la verifica e l'accettazione di certificati interoperabili di vaccinazione, di test e di guarigione in relazione alla COVID-19 (certificato COVID digitale dell'UE) per agevolare la libera circolazione delle persone durante la pandemia di COVID-19”.
[7] Cfr. “Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio del 31 marzo 2004 che istituisce procedure comunitarie per l'autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso umano e veterinario, nonché istituisce l'agenzia europea per i medicinali (EMA)”.
[8] Cfr. Capo I, artt. 55 e ss. del Reg. (CE) n. 726/2004.
[9] Cfr. i considerando del Reg. n. 726/2004. Cfr. il considerando n. 2: “Nel caso di determinate categorie di medicinali, al fine di rispondere a necessità mediche insoddisfatte dei pazienti e nell’interesse della salute pubblica, può tuttavia risultare necessario concedere autorizzazioni all’immissione in commercio basate su dati meno completi di quelli normalmente richiesti e subordinate ad obblighi specifici (…) Le categorie interessate sono (…)i medicinali da utilizzare in situazioni di emergenza in risposta a minacce per la salute pubblica riconosciute dall’Organizzazione mondiale della sanità o dalla Comunità nel quadro della decisione n. 2119/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 settembre 1998, che istituisce una rete di sorveglianza epidemiologica e di controllo delle malattie trasmissibili nella Comunità (…). E ancora, cfr. lo stesso art. 2 che nel definire il campo di applicazione del Regolamento, dispone che “si applica ai medicinali per uso umano di cui all’articolo 3, paragrafi 1 e 2, del regolamento (CE) n. 726/2004” purché appartenenti alle categorie specificate ai numeri successivi. Al numero 2 si legge: “medicinali da utilizzare in situazioni di emergenza in risposta a minacce per la salute pubblica, debitamente riconosciute dall’Organizzazione mondiale della sanità ovvero dalla Comunità nel contesto della decisione n. 2119/98/CE”. La situazione d’emergenza, pertanto, deve essere tale da configurare una minaccia alla salute pubblica. Ebbene, risulterà forse ultroneo rammentare che, il 30 gennaio 2020, l’epidemia da COVID-19 è stata dichiarata dall’OMS un’emergenza sanitaria. Risulta perfezionato, pertanto, il presupposto contestuale che giustifica il ricorso a tale procedura condizionata.
[10] Il vaccino Comirnaty di Pfizer-BioNtech è stato il primo vaccino ad essere stato autorizzato in Unione Europea: il 21 dicembre 2020 dall'Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) e il 22 dicembre dall'Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). Il vaccino Spikevax (Moderna) è stato autorizzato dall'EMA il 6 gennaio 2021 e il 7 gennaio 2021 dall'AIFA.
Vaccino Vaxzevria di AstraZeneca - il 29 gennaio è stato autorizzato dall’EMA e il 30 gennaio dall’AIFA.
Vaccino Janssen (Johnson & Johnson) - l'11 marzo è stato autorizzato dall'EMA e il 12 marzo 2021 dall'AIFA
Vaccino Nuvaxovid (Novavax) - il 20 dicembre è stato autorizzato dall’EMA e il 22 dicembre dall'AIFA. La lista dei vaccini attualmente autorizzati è consultabile al seguente link vaccini COVID-19 | Agenzia europea per i medicinali (europa.eu).
[11] Il riferimento è alle cure degli anticorpi monoclonali e alle cure antivirali orali. Per approfondimenti si rinvia al sito dell’AIFA, Emergenza COVID-19 | Agenzia Italiana del Farmaco (aifa.gov.it).
[12] Cfr. CGUE, 19.06.1990, n. 213, Foro it. 1992, IV,498, cfr. anche, forse la più nota, sentenza Simmenthal, CGUE, 9.03.1978, n. 106, DeJure.it, e cfr. la più recente CGUE, 13.03.2007, n.432, RDint. 2007, 4, 1196.
[13] Cfr. punto n. 20 della sentenza Zuckerfabrik “La tutela cautelare garantita dal diritto comunitario ai singoli dinanzi ai giudici nazionali non può variare a seconda che essi contestino la compatibilità delle norme nazionali con il diritto comunitario oppure la validità di norme del diritto comunitario derivato, vertendo la contestazione, in entrambi i casi, sul diritto comunitario medesimo.”
[14] Si noti, infatti, che le sentenze riportate dal Tribunale nell’ordinanza di rinvio in tema di sospensione dell’efficacia di atti da parte dei giudici nazionali, avevano tutti ad oggetto atti aventi natura normativa.
[15] Cfr. art. 267 TFUE
[16] Cfr. diffusamente, L. Daniele, Diritto dell’Unione Europea, Giuffrè Editore, 2020, o ancora, cfr. dello stesso A., Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e Trattato di Lisbona, DUE, 2008, 4, 655-659.
[17] Cfr. CGUE, 07.09.2006, n. 310, DeJure.it; CGUE, 16.10.1991, n. 24, DeJure.it; CGUE, 11.03.1987, nn. 279, 280, 285, 286, DeJure.it.
[18] Cfr. il comma 6 dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 nella sua formulazione originaria.
[19] Per una rassegna della giurisprudenza in tema di obbligo vaccinale per le professioni sanitarie si rinvia ad A. De Matteis, Dal Tribunale di Belluno al Consiglio di Stato 20 ottobre 2021 n. 7045. Uno sguardo sulla giurisprudenza in tema di obbligo di vaccino, Labor, 5 novembre 2021. Un interessante commento alla sentenza del CdS dell’ottobre 2021 è fornita da F. Gambardella, Obbligo di vaccinazione e principi di precauzione e solidarietà (nota a Consiglio di Stato, sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045), su questa Rivista, 30 novembre 2021. Si segnala, inoltre, l’ordinanza di rinvio alla Corte Costituzionale del 22 marzo 2022, n. 351, del Consiglio di Giustizia amministrativo per la regione Sicilia in tema di legittimità dell’obbligo vaccinale, inedita a quanto consta.
[20] Come detto in precedenza, l’art. 4 d.l. n. 44/2021 è stato sostituito integralmente dal d.l. n. 172/2021. L’ art. 1 lett. b) modifica, tra gli altri, anche il comma 4 e chiarisce: “L'atto di accertamento dell'inadempimento dell'obbligo vaccinale è adottato da parte dell'Ordine professionale territorialmente competente, all'esito delle verifiche di cui al comma 3, ha natura dichiarativa e non disciplinare, determina l'immediata sospensione dall'esercizio delle professioni sanitarie ed è annotato nel relativo Albo professionale”.
[21] Cfr. REGOLAMENTO (UE) 2021/953 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 giugno 2021 su un quadro per il rilascio, la verifica e l'accettazione di certificati interoperabili di vaccinazione, di test e di guarigione in relazione alla COVID-19 (certificato COVID digitale dell'UE) per agevolare la libera circolazione delle persone durante la pandemia di COVID-19.
[22] Nella formula attualmente vigente dell’art. 4, questa disposizione è contenuta nel comma 8.
[23] Cfr. art. 4 comma 1, d.l. n. 44/2021: “La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati”.
[24] Cfr. art. 21, par. 1, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: “è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”.
[25] Cfr. CGUE, 15.01.2014, n.176, in DRI, 2014, 4 , 1178, nt. Corti; CGUE, 19 aprile 2016, n. 44, DeJure.it; CGUE 17 aprile 2019, n. 414, DeJure.it; CGUE, 14 marzo 2017, n. 157, DeJure.it; CGUE, 11 settembre 2018, n. 68, DeJure.it.
[26] Cfr. in generale, più di recente, sul tema, M. Barbera, S. Borelli, “Principio di eguaglianza e divieti di discriminazione”, CSDLE.It, 451/2022.
[27] Nel nostro ordinamento, la direttiva 2000/78/CE è stata attuata dal d.lgs n. 216/2003.
[28] Cfr. art. 4-bis; 4-ter; 4 ter.1; 4 ter.2; 4 quater, d.l. n. 44/2022.
[29] Cfr. art. 8, comma 1, lett. a), d.l. n. 24/2022. Allo stato, il termine è il 31 dicembre 2022.
[30] Cfr. art. 8, comma 1, lett. b), punto 2, d.l. n. 24/2022.
L’assegno di divorzio: un punto di equilibrio tra autoresponsabilità e solidarietà
di Rita Russo
Sommario: 1. La funzione compensativo-perequativa dell’assegno di divorzio - 2. La modificazione dello status e la funzione dell’assegno periodico - 3. Considerazioni conclusive.
1. La funzione compensativo-perequativa dell’assegno di divorzio
La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 24250 dell’8 settembre 2021, ribadisce e specifica i principi già affermati dalle sezioni unite della Corte nel 2018[1], secondo le quali l'assegno di divorzio non ha solo una funzione assistenziale, diretta a mantenere per il coniuge divorziato lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma anche una funzione perequativo-compensativa. Se in sede di divorzio si accerta squilibrio economico tra i due coniugi e che uno dei due è rimasto privo di occasioni di lavoro e di carriera per essersi dedicato alla famiglia, contribuendo così al benessere economico del gruppo familiare, ma sacrificando le proprie possibilità di entrate economiche autonome, questo contributo deve essere ricompensato.
In tal modo sono state accolte le esigenze di modernizzazione del tradizionale orientamento giurisprudenziale, negli anni oggetto di critiche da parte della dottrina, secondo il quale l'assegno di divorzio aveva una funzione essenzialmente assistenziale, una sorta di prolungamento dei doveri di assistenza materiale e morale che caratterizzano il matrimonio, ritenendosi che il suo scopo fosse di assicurare la conservazione del tenore di vita matrimoniale. Una idea dell'assegno divorzile che nel tempo è stata superata, man mano che ci si è resi conto che la solidarietà non è mero assistenzialismo e che va bilanciata con il principio di autoresponsabilità, in virtù del quale ciascuno deve organizzarsi con i propri mezzi e non dipendere dagli altri.
Seguendo questa linea, l’ordinanza n. 24250/2021 afferma che, sciolto il vincolo coniugale, in linea di principio ciascun ex coniuge deve provvedere al proprio mantenimento, tuttavia tale principio è derogato, in base alla disciplina sull'assegno divorzile, oltre che nell'ipotesi di non autosufficienza di uno degli ex coniugi, anche nel caso in cui il matrimonio sia stato causa di uno spostamento patrimoniale dall'uno all'altro coniuge, "ex post" divenuto ingiustificato, spostamento patrimoniale che in tal caso deve essere corretto attraverso l'attribuzione di un assegno, in funzione compensativo-perequativa. Pertanto, ove ne ricorrano i presupposti e vi sia una specifica prospettazione in tal senso, l'assegno deve essere adeguato a compensare il coniuge economicamente più debole, in funzione perequativo-compensativa, del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali - che il coniuge richiedente l'assegno ha l'onere di dimostrare nel giudizio - al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, rimanendo, in tal caso, assorbito l'eventuale profilo assistenziale.
Si tratta di un intervento che aggiunge un ulteriore tassello alla faticosa ricerca di un punto di equilibrio tra il principio di autoresponsabilità e quello di solidarietà post-coniugale[2].
La sentenza delle sezioni unite del 2018 ha infatti lasciato aperte diverse questioni. Sono stati espressi dubbi sulla reale portata innovativa della sentenza, e su quanto la funzione assistenziale, storicamente ritenuta prevalente sulle altre, possa realmente diventare recessiva rispetto alla funzione perequativo-compensativa: in altre parole se le due funzioni dell'assegno di divorzio debbano ritersi equivalenti oppure se l'una sia prevalente sull'altra[3]. Inoltre, il criterio del tenore di vita, apparentemente abbandonato, riemerge nel momento in cui deve quantificarsi in concreto il valore dell’impegno domestico e familiare che ha comportato la rinuncia alla carriera. Il coniuge che abbia rinunciato ad una carriera professionale avviata e sicura può senz’altro pretendere un riconoscimento di questo sacrificio, come è altresì ragionevole che quello che non ha rinunciato ad una specifica professionalità abbia meno da pretendere. È stato però osservato che se c'è un "lavoro casalingo" da retribuire, esso andrà monetizzato sulla base di una valutazione solidaristica che tenga conto delle reali condizioni reddituali e patrimoniali del coniuge forte e non in base a criteri estrinseci. Il che significa che l'assegno non potrà parametrarsi automaticamente né all'entità del potenziale reddito che il coniuge avrebbe percepito qualora si fosse dedicato all'attività di cui era - in atto o in potenza - capace, né al costo del lavoro domestico, dovendosi tener conto, al contrario, che in virtù dei principi solidaristici e della lettera stessa della legge, l'assegno deve essere misurato sul reddito del coniuge forte[4].
Del resto, lo stesso art. 5 della legge sul divorzio impone che l’assegno sia proporzionato alle sostanze ed ai redditi del soggetto obbligato, diversamente, più che una funzione solidaristica avrebbe una funzione risarcitoria, forse anche in termini punitivi, il che porrebbe qualche problema di compatibilità con i principi fondamentali che regolano lo scioglimento del matrimonio.
Il divorzio, in Italia, non è né una conseguenza della colpevole violazione dei doveri coniugali, né un recesso per mutuo dissenso, quanto piuttosto la presa d’atto che la comunione materiale morale di vita tra i coniugi si è dissolta e non si può ricostituire, in base ad indici normativi predeterminati, dei quali quello statisticamente più rilevante è il decorso del tempo (oggi breve) nella condizione di coniugi legalmente separati.
La funzione risarcitoria dell'assegno di divorzio è quindi residuale ed è appena accennata dalla stessa normativa, la quale stabilisce che nella quantificazione dell'assegno può tenersi conto delle ragioni della decisione. In verità, nella formulazione dell’art. 5 della legge sul divorzio neppure la funzione perequativo-compensativa ha un così grande risalto, mentre è piuttosto evidente la funzione assistenziale, insita nel fatto stesso che si preveda un assegno periodico.
Di ciò è consapevole la Corte di legittimità che afferma, nell’ordinanza in esame, che l'assegno risponde, anzitutto, ad un'esigenza assistenziale, che le sezioni unite non hanno affatto inteso cancellare e danno invece per scontata. Ed ancora che la misura dell’assegno deve essere stabilita in misura adeguata innanzitutto a garantire, in funzione assistenziale, l'indipendenza o autosufficienza economica dell'ex coniuge, intesa in una accezione non circoscritta alla pura sopravvivenza ma ancorata ad un criterio di normalità, avuto riguardo alla concreta situazione del coniuge richiedente nel contesto in cui egli vive, nel qual caso l'assegno deve essere adeguato a colmare lo scarto tra detta situazione ed il livello dell'autosufficienza come individuato dal giudice di merito. Infine, l’ordinanza in esame considera anche la funzione perequativa dell’assegno, ma senza entrare specificamente nel dettaglio del parametro utilizzabile, limitandosi a ripetere ancora una volta la formula della compensazione del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali.
È questo infatti il nodo non ancora sciolto dalla giurisprudenza, e che difficilmente, almeno allo stato della vigente legislazione, potrà essere sciolto: una vera e propria perequazione tra le posizioni dei due coniugi, che consenta ad entrambi di ricominciare ciascuno la propria vita in posizione di parità, richiederebbe non tanto la attribuzione di un assegno periodico, quanto la ripartizione del patrimonio o la corresponsione di un capitale una tantum. Il che porta l'interprete a interrogarsi sulla effettiva modernità del nostro sistema e sulla sua capacità di fornire risposte tanto rapide quanto, nella realtà dei fatti, è rapida la dissoluzione e la ricostituzione dei legami familiari. Quand’anche i coniugi abbiano accettato il regime legale della comunione dei beni -che però è un regime derogabile- né in sede di separazione né in sede di divorzio si procede alla divisione dei beni comuni; sebbene la comunione legale si sciolga nel momento in cui i coniugi vengono autorizzati a vivere separati dopo l'esito negativo del tentativo di conciliazione, il processo di divisione dei beni comuni segue la via ordinaria e non è il giudice della separazione né il giudice del divorzio ad operare questa ripartizione, salvo che non debba recepire un accordo delle parti sul punto[5].
2. La modificazione dello status e la funzione dell’assegno periodico
La previsione normativa che il coniuge separato o divorziato debba corrispondere all'altro un assegno periodico si lega, anche per ragioni storiche, all'idea che il coniuge economicamente più debole abbia diritto a conservare un certo tenore di vita, e che debba essere l’altro a provvedervi, assioma che a sua volta è un retaggio dell’idea che la moglie debba essere mantenuta dal marito.
Nel nostro ordinamento, mentre l'istituto della separazione legale è previsto nel codice civile e quindi vanta una nobiltà di antica data, il divorzio è relativamente recente. È naturale pertanto che il legislatore degli anni ‘70 nel regolare dei rapporti economici tra gli ex coniugi si sia ispirato, in certa misura, alle regole già stabilite per la separazione, istituto che originariamente aveva una funzione eminentemente conservativa dello status matrimoniale, in vista di una possibile ed auspicata riconciliazione; mentre oggi la separazione è essenzialmente un mezzo per conseguire il divorzio.
La funzione conservativa della separazione si invera(va) anche nel riconoscimento del diritto del coniuge economicamente debole a mantenere lo stesso tenore di vita, diritto fondato sulla persistenza del dovere di assistenza morale e materiale, che si attua(va) tramite una continuativa assistenza da parte dell’altro, tenuto a corrispondergli ogni mese una somma di denaro; in altre parole, una dipendenza economica a tempo indeterminato, ovvero, secondo alcuni detrattori dell’istituito, una rendita parassitaria. Non diversamente si è ragionato in tema di assegno di divorzio, pur se si è fatto riferimento non già alla persistenza del dovere di assistenza materiale e morale -incompatibile con lo scioglimento del vincolo - bensì alla trasformazione di questo dovere nella cosiddetta solidarietà post-coniugale. Ciò spiega perché inizialmente la funzione dell'assegno divorzile era considerata eminentemente assistenziale, mentre oggi si inizia a mettere in discussione anche la stessa funzione assistenziale dell'assegno di separazione, nonostante la giurisprudenza di legittimità continui ad affermare che l’assegno di separazione presuppone la permanenza del vincolo coniugale e che esso è correlato al tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio, diversamente dall’assegno divorzile, svincolato da detto criterio[6]; anche se poi questa indipendenza dal criterio del tenore di vita trova un suo limite, come sopra si è detto, nella necessità che anche l’assegno di divorzio sia comunque parametrato ai redditi ed alle sostanze del soggetto obbligato.
La progressiva valorizzazione del principio di autoresponsabilità nonché il progressivo perdersi della funzione conservativa della separazione e l’accentuarsi della sua funzione di “anticamera” del divorzio, unitamente alla riduzione dei tempi necessari per conseguirlo, inevitabilmente comporta che in tutta una serie di casi la differenza tra assegno di separazione e assegno di divorzio, netta in teoria, rischia di sfumare e non di poco nella pratica. Il coniuge separato deve essere consapevole che la separazione è una condizione tendenzialmente di breve durata e che nella maggior parte dei casi non prelude a una riconciliazione bensì allo scioglimento del vincolo, in seguito al quale l'assegno di divorzio sarà riconosciuto sulla base di presupposti diversi oppure non sarà riconosciuto affatto. Ciò a maggior ragione nel momento in cui sarà attuata pienamente la riforma preannunciata dalla legge delega numero n. 206 del 2021, che prevede la possibilità di proporre contestualmente la domanda di separazione e divorzio.
Queste regole, e la loro lettura evolutiva, sono poi da inquadrare nella attuazione del principio di parità morale e materiale dei coniugi, il quale richiede che il sostegno sia reciproco, senza graduazioni o differenze, ma anche solidale, il che significa che chi ha maggiori risorse economiche deve condividerle con chi ne ha di meno.
È stato correttamente osservato che parità e solidarietà si coniugano con il principio di autoresponsabilità, in particolare ove ci si ponga nella prospettiva del divorzio. L’assunzione del principio di autoresponsabilità può avvenire alla sola condizione che sia assicurata tra i coniugi, o quasi ex coniugi, quale base di partenza per la futura vita separata una effettiva perequazione in ordine alla partecipazione a quella complessiva economia familiare cui ciascuno abbia contribuito nel corso della convivenza, ponendosi il rimedio alle sperequazioni venutesi a determinare eventualmente nella situazione patrimoniale delle parti, in dipendenza delle scelte comuni in ordine alla conduzione della vita familiare[7].
Il che ci riporta a quello che è il limite stesso della previsione di un assegno periodico, poiché esso non può riequilibrare in senso pieno ed intero le posizioni dei due coniugi se non in un'ottica di periodica assistenza e sostegno economico nella quotidianità. Ciò potrebbe non essere pienamente satisfattivo delle esigenze del coniuge economicamente più debole che voglia rendersi indipendente ed ispirare la propria vita futura al principio di autoresponsabilità. Ad esempio, l’ex coniuge che privo di redditi propri al momento del divorzio, volesse raccogliere i frutti della sua collaborazione familiare domestica e monetizzarli, al fine di investirli in una attività imprenditoriale o artigianale che costituisca una fonte di reddito, potrebbe non essere in condizioni di conseguire questo risultato, perché la corresponsione del capitale (una tantum) è possibile solo su accordo tra le parti. Inoltre, la divisione dei beni comuni, ammesso che ci siano beni comuni, è un procedimento lungo, che richiede tempo ed investimento di risorse economiche a meno che, anche in questo caso, non vi sia un accordo tra le parti.
Allo stesso modo la previsione dell'assegno periodico, quale che sia la sua funzione, si può rivelare insoddisfacente per le esigenze del coniuge economicamente più forte che, divorziando, pur se è consapevole di dovere destinare una parte del suo reddito e del suo patrimonio a sostegno del coniuge economicamente più debole, vorrebbe ragionevolmente quantificare ex ante queste obbligazioni anche al fine di sapere quanto potrà investire nella ricostituzione di nuovi legami familiari.
3. Considerazioni conclusive.
A legislazione invariata e finché si prevede che sia l'assegno periodico il mezzo principale di regolazione rapporti tra ex coniugi, il superamento della prospettiva assistenzialistica può avvenire valorizzando la funzione dell'autonomia privata, anche attraverso la negoziazione assistita.
Non si può negare infatti che da tempo sia in atto un procedimento di de-giurisdizionalizzazione dello scioglimento del matrimonio, intesa come restituzione del matrimonio all’area dell’autonomia privata.
Il matrimonio dei coniugi senza figli da tutelare si può sciogliere oggi in virtù di due dichiarazioni di volontà rese a distanza di sei mesi l’una dall’altra davanti all’ufficiale di stato civile (legge162/2014). Si scioglie inoltre, anche nel caso in cui i coniugi abbiano figli, in virtù di un procedimento di natura essenzialmente privatistica (negoziazione assistita). Infine, gli uniti civilmente (legge 76/2016) accedono direttamente al divorzio dopo avere preannunciato la loro intenzione di porre fine all’unione all’ufficiale di stato civile.
La più recente legislazione valorizza quindi l'importanza dell'autonomia privata anche nella fase di scioglimento del vincolo e non soltanto in quella della regolamentazione degli effetti di detto scioglimento. Non sarebbe pertanto in contrasto con questo percorso di progressiva riduzione della funzione di controllo dell'autorità giudiziaria, una maggiore apertura al riconoscimento di efficacia e validità degli accordi che le parti possono stipulare per riequilibrare le situazioni di disparità economica.
Occorre però fare i conti con la nostra giurisprudenza di legittimità, la quale afferma che sono nulli gli accordi in vista di un futuro divorzio e che l’assegno una tantum in sede di separazione non vale come anticipazione di assegno di divorzio [8].
Tuttavia, ciò non impedisce che si tenga conto, in sede di divorzio, delle attribuzioni permanenti (un immobile, un capitale) che sono state fatte nel giudizio di separazione, sicché il coniuge che svolgeva attività domestica può arrivare al divorzio dotato di mezzi (più o meno) adeguati[9].
A maggior ragione, se le attribuzioni patrimoniali hanno un intento di sistemazione dei rapporti economici della coppia, e finalità compensative; poiché le attribuzioni in sede di separazione consensuale sono a vario titolo, potrebbe in futuro configurarsi la possibilità di compensare anticipatamente, in via consensuale, anche quello che è stato l’impegno del coniuge nella vita matrimoniale.
Gli assetti economici della separazione servirebbero in questo caso non soltanto ad assicurare al coniuge economicamente più debole il mantenimento sia pure temporaneo del tenore di vita matrimoniale, ma anche a porre le basi per una razionale distribuzione delle risorse economiche in vista del divorzio.
In questi termini, la previsione di consentire alle parti di presentare con un unico ricorso la domanda di separazione e la domanda di divorzio, per quanto possa apparire a prima vista una forma di divorzio immediato introdotta per la via processuale anziché come istituto di diritto sostanziale, ha tuttavia quantomeno il pregio di spingere le parti a dichiarare manifestamente le loro intenzioni e cioè dire se nella loro separazione prevale l’aspetto conservativo o quello dissolutivo.
Ciò potrebbe consentire - una volta che si decida di giocare a carte scoperte - di dare spazio ad accordi di adeguata sistemazione dei rapporti patrimoniali dei coniugi, avendo ben chiare le prospettive su ciò che può essere giudizialmente riconosciuto ed in quali tempi.
[1] Cass. sez. un. n. 18287 del 11/07/2018: “All'assegno divorzile in favore dell'ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell'autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate”.
[2] V. anche Cass. civ. Sez. VI - 1 Ord., 04/09/2020, n. 18522; Cass. civ. Sez. I Ord., 02/10/2020, n. 21140
[3] CASTELLANI G. La ricerca di un equilibrio tra autoresponsabilità e solidarietà post-coniugale, in Famiglia e Diritto, 2021, 10, 904
[4] SESTA M. “L'assegno di divorzio: in viaggio di ritorno al tenore di vita?” in Famiglia e Diritto, 2022, 1, 79
[5] A lungo di è dibattuto sulla ammissibilità dei trasferimenti immobiliari in sede di separazione e divorzio e soltanto di recente la questione è stata risolta, in termini positivi, da Cass. sez. un. n. 21761 del 29/07/2021.
[6] Cass. civ. sez. I n. 17098 del 26/06/2019; Cass. civ. sez. I, n. 5605 del 28/02/2020.
[7] QUADRI E. La quarta stagione del divorzio: le prospettive di riforma, in Divorzio 1970-2020
[8] Si veda Cass. civ. sez. I n. 2224 del 30/01/2017; Cass. civ. sez. I, n.4424. del 21/02/2008,
[9] Si vada ad es. Cass. civ. sez. I n. 15064 del 09/10/2003 “Diversa è l'ipotesi in cui le parti abbiano già regolato i propri rapporti patrimoniali e nessuna delle due richieda un assegno (tale regolamento, infatti, non necessariamente comporta la corresponsione di un assegno "una tantum", potendo le parti avere regolato diversamente i propri rapporti patrimoniali e riconosciuto, sulla base di ciò, la sussistenza di una situazione di equilibrio tra le rispettive condizioni economiche con conseguente non necessità della corresponsione di alcun assegno), nel qual caso l'accordo è valido per l'attualità, ma non esclude che successivi mutamenti della situazione patrimoniale di una delle due parti possa giustificare la richiesta di corresponsione di un assegno a carico dell'altra”.
Tatuaggi e concorsi per l’arruolamento nelle forze armate (nota a Consiglio di Stato. 16 febbraio 2022 n. 1167)
di Carmine Filicetti
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa - 2. Sull’inidoneità derivante da tatuaggi - 3. Riflessioni conclusive.
1. Premessa: la vicenda contenziosa
La sentenza che si annota affronta il tema del “tatuaggio[1]” considerato nella sua relazione con il concetto di decoro dell’uniforme.
La questione origina dall’esclusione dell’appellante dal concorso per il reclutamento di 2165 volontari in ferma prefissata quadriennale per l’anno 2015 nell’Esercito italiano, nella Marina Militare e nell’Aeronautica Militare, indetto con il bando di concorso pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, quarta serie speciale, n. 95 del 5 dicembre 2014.
La stessa veniva esclusa per non aver superato una prevista prova fisica e, in particolare, per il mancato superamento delle prove dei piegamenti sulle braccia e, avverso tale determinazione negativa, la predetta appellante ha proposto ricorso giurisdizionale dinanzi al T.A.R., con richiesta di misure cautelari, anche monocratiche.
Con decreto presidenziale veniva sospeso il provvedimento di esclusione e con successiva ordinanza collegiale veniva confermata la misura interinale di sospensione del provvedimento di esclusione.
Successivamente, in esecuzione dell’indicata ordinanza cautelare, l’attuale appellante è stata nuovamente convocata dalla Commissione di concorso per essere sottoposta ai previsti accertamenti psico-fisici nuovamente esclusa per la presenza di un tatuaggio posto sulla cute del lato sinistro del collo, ritenuto non compatibile con i requisiti concorsuali.
L’ornamento, posizionato sul collo, veniva ritenuto non compatibile con i requisiti previsti dalla procedura concorsuale; in ragione di tale vulnus, anche questa, successiva, esclusione veniva gravata dall’appellante con ricorso per motivi aggiunti.
Successivamente, il TAR adito si pronunciava dichiarando l’improcedibilità in quanto non vi era stata impugnazione della graduatoria finale del concorso ritualmente pubblicata.
Si proponeva, dunque, appello all’interno del quale veniva mossa censura visto che la dichiarazione di improcedibilità per la mancata impugnazione del Decreto dirigenziale pareva erronea in quanto con quest’ultimo provvedimento veniva approvata la graduatoria relativa alla seconda immissione nell'Esercito come VFP 4, mentre l’appellante rientrava nella prima immissione di VFP 4 e venivano altresì riproposti tutti i motivi non esaminati dal giudice di prime cure.
Nel merito della questione del tatuaggio e, per quanto rileva in questa sede, l’appellante ha individuato un grave vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione, derivante dall’esclusione direttamente collegata alla presenza della figurazione cutanea, poiché, dal canto suo, l’esistenza non poteva comportare ex se l'esclusione dal concorso essendo necessario a tal fine che esso sia deturpante o contrario al decoro dell'uniforme o ancora possibile indice di personalità abnorme.
Ancora, si spiegava come nel caso di specie il tatuaggio consisteva in “un piccolo e quasi invisibile tatuaggio in prossimità dell'orecchio sinistro e dell'attaccatura dei capelli, il quale non presenta certamente le caratteristiche suindicate” censurando, comunque, le mancate valutazioni di merito da parte dell’Amministrazione visto che l’appellante era già in cura, da molti mesi, per un trattamento laser chirurgico volto all'eliminazione definitiva del tatuaggio in questione.
Inoltre, l’appellante sottolinea come il tatuaggio in questione era già impresso sulla sua pelle all'atto del primo arruolamento, momento in cui non ha comportato effetto alcuno, né in detta sede nè in relazione al prolungamento della rafferma dei VFP1.
Il Consiglio di Stato, tuttavia, si è determinato per il rigetto del ricorso in quanto la pronuncia, oggi in nota, precisa che anche se il ricorso non fosse stato improcedibile sarebbe stato comunque infondato nel merito circa la legittimità dell’esclusione dell’appellante per la presenza del tatuaggio sul collo che, in quanto visibile, rappresenta elemento di inidoneità.
2. Sull’inidoneità derivante da tatuaggi
La rilevanza che assumono i tatuaggi nell’ambito dei concorsi per le forze armate è pregnante.
Tale rilevanza va posta in relazione alla famigerata uniforme, ovvero l'insieme dei capi di vestiario, corredo ed equipaggiamento che contraddistinguono gli uomini e le donne delle Forze Armate.
Tatuaggio ed uniforme costituiscono dunque una sorta di ossimoro, poiché se è vero che il vestiario e gli accessori costituiscono l’elemento distintivo della funzione dei pubblici poteri dei quali sono investiti i militari e le forze dell’ordine tutte nello svolgimento del proprio servizio; il tatuaggio appare come una sorta di “neo” capace di inquinare e svilire quella che è la funzione che l’uniforme figura, altresì, l’appartenenza a una specifica Nazione e a una determinata Forza Armata, ricordandone la Storia e le tradizioni sia di una che dell’altra: l’uniforme rappresenta, dunque, la sintesi della storia e delle tradizioni dell’organizzazione militare.
Sono numerosissime le pronunce giurisprudenziali che negano l’accesso alle Forze Armate per la presenza di segni più o meno evidenti per le ragioni ripercorse dalla pronuncia in commento che si muove sulla granitica scia disegnata dai massimi organi della G.A[2].
Orbene, i Giudici di Palazzo Spada richiamano quanto previsto dal Bando di Concorso (pubblicato in G.U. Serie Speciale n.95 del 5/112014) il quale prevede che la commissione dovrà giudicare inidonei i concorrenti che presentino tatuaggi allorquando, per la loro sede ovvero per la raffigurazione risultino contrari al decoro dell’uniforme.
Pertanto, risulta irrilevante la posizione del tatuaggio quando rappresenta una forma di disonore delle istituzioni ovvero indice di personalità inidonea; se invece, il tatuaggio è posizionato in una parte del corpo scoperta dalla divisa è in ogni caso elemento di inidoneità per l’accesso alle forze armate.
Invero, ormai, consolidata giurisprudenza ritiene che il tatuaggio sia causa di esclusione ove esso sia posizionato nelle parti del corpo scoperte dalla divisa anche qualora esso non rappresenti un disonore per le istituzioni[3]. In tali ipotesi, la commissione non detiene alcuna discrezionalità, non dovendo eseguire alcuna valutazione, bensì dovendo esclusivamente prendere atto degli esiti di un mero accertamento tecnico[4].
Altresì è meritevole di attenzione il punto della pronuncia relativo alla circostanza che il tatuaggio dell’appellante sia in via di rimozione.
Ciò che conta e rileva, secondo il giudice adito, è la presenza visibile del tatuaggio al momento della proceduta concorsuale e in quel preciso momento che la valutazione si cristallizza e, tale accertamento, non è pervaso da discrezionalità alcuna dunque in nessun caso può essere valutato il percorso di rimozione intrapreso[5].
A tale scopo è necessario il richiamo ai principi generali che regolano i concorsi pubblici per cui i requisiti recati nella lex specialis debbono essere posseduti al termine della presentazione delle domande. Ebbene anche se nell’ipotesi della verifica dei requisiti psicofisici tale termine è posticipato al momento della visita medica (momento effettivo di accertamento) non si può riconoscere valenza a fatti ultronei intervenuti successivamente[6].
In tale fattispecie, infatti, la commissione medica è chiamata alla verifica circa la riconducibilità della situazione di fatto accertata nella fattispecie astratta che disciplina le cause di esclusione.
Pertanto, nel caso che ci occupa, la commissione non ha fatto altro che segnalare la presenza del tatuaggio in una zona non coperta dall’uniforme e, pertanto, rientrante nelle ipotesi di inidoneità prescritte, rendendo superfluo qualsivoglia valutazione sulla entità ovvero significato dello stesso[7].
L’esigenza della non visibilità del tatuaggio, per collegarci al concetto di ossimoro, è strettamente collegata alla visibilità dell’uniforme, necessità che raggiunse l’apice durante il periodo napoleonico: i soldati dell’imperatore corso iniziarono a indossare copricapi sempre più ingombranti e accessori oltremodo luccicanti, il tutto per acquisire un aspetto tanto più imponente e maestoso quanto era più alto il grado del milite.
3. Riflessioni conclusive
La posizione della giurisprudenza è chiara e consolidata sull’inidoneità recata dai tatuaggi nell’ambito dei concorsi per l’accesso nelle forze armate.
Con sentenza n. 658/2020 i Giudici di Palazzo Spada ritenevano irrilevante la rimozione in corso d’opera del tatuaggio, costituendo anche il residuo del tatuaggio sbiadito (ma ancora visibile) legittima causa di esclusione dal concorso.
Difatti, il “residuo di un tatuaggio”, in via di rimozione non lo rende invisibile bensì elemento valutabile dalla commissione medica che senz’altro accerta la causa di esclusione. Né tanto meno è ipotizzabile la possibilità di posticipare la visita medica al momento della completa rimozione del tatuaggio poiché contrasterebbe con il generale principio di imparzialità e di parità di trattamento dei candidati.
È pur vero però che si scorge una inversione di rotta nella giurisprudenza più recente che non ritiene “sufficiente la mera visibilità di un tatuaggio per giustificare l’esclusione di un candidato dal concorso, indipendentemente dal fatto che il tatuaggio risulti deturpante dell’immagine del militare o possa risultare indicativo di personalità abnorme. Sebbene, quindi, la presenza di un tatuaggio su una parte del corpo non coperta dall’uniforme sia rilevante al fine della valutazione di idoneità, si deve escludere l’automatismo tra la visibilità del tatuaggio e l’esclusione dal concorso per l’accesso al Corpo di polizia penitenziaria, essendo necessario che la Commissione di concorso, esercitando la propria discrezionalità tecnica, valuti se il tatuaggio, oltre che visibile, costituisca causa di non idoneità in quanto deturpante o contrario al decoro per le istituzioni ovvero in quanto indicatore di personalità abnorme”[8].
Dunque, aver impresso sul proprio corpo una raffigurazione di qualsivoglia entità o specie non comporta, o non dovrebbe comportare ex se l’inidoneità ai concorsi relativi all’accesso delle Forze Armate.
Come detto, gli uomini e le donne che indossano la divisa rappresentano un’istituzione a tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica e per tanto sono chiamati a possedere requisiti più stringenti rispetto a quelli richiesti per gli altri concorsi pubblici.
La disciplina è chiara nella previsione dell’inammissibilità dei candidati che abbiano tatuaggi su parti del corpo non coperti da divisa nonché nelle ipotesi di raffigurazioni che chiaramente rappresentino un disonore per l’uniforme indossata nonché evidenzino una personalità abnorme.
È l’amministrazione al momento delle verifiche che deve accertare esclusivamente la presenza di segni scoperti dalla divisa ed eventualmente valutare la portata di tatuaggi che si collocano in zone coperte dalla stessa.
È forse il caso di inquadrare in modo più stringente le ipotesi di inammissibilità derivante da tatuaggi?
[1] Tatüàggio s. m. [dal fr. tatouage, der. di tatouer «tatuare»]. – 1. a. Deformazione artificiale permanente dei tessuti cutanei, ottenuta mediante segni indelebili prodotti per puntura dall’inserzione sotto la cute di sostanze coloranti senza alterare la superficie epidermica. Per estens., il disegno ottenuto sulla pelle mediante tale pratica in treccani.it.
[2] Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 01/04/2016, n. 1300 E’ legittimo il provvedimento di esclusione dal concorso a posti di vice revisore tecnico di Polizia giudiziaria a carico di una candidata in ragione di un tatuaggio disegnato sul polpaccio della gamba destra e non copribile dalla gonna della divisa.
[3] Ex multis T.A.R. Roma, (Lazio), sez. I, 22/09/2016, n. 9903 “La presenza di un tatuaggio in zona visibile è sufficiente per giustificare l’esclusione del candidato dal concorso, indipendentemente dal fatto che il tatuaggio in questione possa risultare deturpante o indicativo di personalità abnorme”.
[4] Sul punto si veda Cons. Stato Sez. IV, 09/03/2020, n. 1690; Cons. Stato, sez. IV, 3 ottobre 2019 n. 6640; Cons. Stato, Sez. IV, 18/03/2011 n. 1690.
[5] v. T.A.R. Roma, (Lazio), sez. III, 12/05/2015, n. 6860 “Non può essere reputato deturpante un tatuaggio, peraltro in fase di rimozione, di centimetri 4×5 che raffiguri un motivo floreale. La non immediata percepibilità visiva della presenza di un tatuaggio non consente di ritenere che la sua presenza risulti in contrasto con il prototipo di figura istituzionale, il che rende irragionevole e sproporzionata – rispetto alle finalità presidiate dalla disciplina di riferimento – l’esclusione del ricorrente dal concorso”.
[6] Di tale avviso, Cons. Stato, Sez. IV, 27 gennaio 2020, n. 658; Cons. Stato Sez. IV, 30/06/2020, n. 4109; Cons. Stato Sez. II, 01/09/2021, n. 6155.
[7] Sul punto T.A.R. Salerno, (Campania), sez. I, 03/03/2015, n. 463
Il tatuaggio costituisce legittima causa di esclusione dalle procedure concorsuali indette per l’assunzione di personale militare o, comunque, in divisa, solo quando le dimensioni o i contenuti dell’incisione sulla pelle siano rivelatori di una personalità abnorme, ovvero quando questa sia oggettivamente deturpante della figura o incompatibile con il possesso della divisa medesima. Quindi è onere dell’Amministrazione fornire, all’atto della esclusione, concreta e puntuale motivazione in ordine alle ragioni per le quali, di volta in volta, il tatuaggio sia stato ritenuto preclusivo dell’assunzione o incompatibile con il possesso della divisa.
[8] Cfr. TAR Lazio sez. V n. 2063/2022
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