ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Gli approfondimenti sulla riforma Cartabia - 3. Pensieri sparsi sul nuovo giudizio penale di appello (ex d.lgs. 150/2022)
di Carlo Citterio
Sommario: 1. Premessa: la Riforma Cartabia ha un’anima, e sollecita una modifica culturale degli operatori – 2. Sintesi introduttiva – 3. Le novità in tema di introduzione del giudizio (3.1 La dichiarazione o elezione di domicilio e lo specifico mandato per impugnare; 3.2 Il deposito dell’atto di appello) – 4. Il contraddittorio cartolare nuovo rito ordinario del giudizio penale di appello; La trattazione in presenza – 5. Il concordato anche con rinuncia ai motivi di appello – 6. L’assenza nel giudizio di appello – 7. La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale – 8. Alcune questioni rimaste aperte nel rito cartolare (8.1 La riunione ai sensi dell’art. 17 - 8.2 La rinnovazione istruttoria documentale - 8.3 Il coordinamento tra i termini di presentazione delle conclusioni e la disciplina che gli artt. 107 e 108 danno nei casi di rinuncia, revoca, incompatibilità, abbandono, in ordine al termine a difesa) – 9. La specificità estrinseca (581.1-bis) e lo spoglio preliminare (9.1 Il concetto di punto della decisione - 9.2 Aspecificità e manifesta infondatezza del motivo – 9.3 Riproposizione di questioni già disattese - 9.4 581.1-bis norma di interpretazione autentica - 9.5 Effetti dell’inammissibilità del singolo motivo per genericità estrinseca) – 10. Il recupero del principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale: quando l’azione penale si è esaurita, quale ne sia la ragione, l’azione civile prosegue davanti al giudice civile (10.4 Un ripensamento dell’approccio di giudici e avvocati alla tematica risarcitoria nel processo penale – 10.5 La necessità della espressa previsione di casi rimettibili alle Sezioni Unite in composizione mista) – 11. Il probabile rilevante impatto sul giudizio di appello delle novità in materia di sanzioni – 12. Questioni dalla (infelice) disciplina transitoria.
1. Premessa: la Riforma Cartabia ha un’anima, e sollecita una modifica culturale degli operatori
1.1 La legge 134/2021 (parte delega, parte immediatamente efficace), con il conseguente decreto legislativo 150/2022, non nasce come riforma organica del codice di procedura penale e del codice penale. Per varie ragioni (di tempi ed opportunità politiche) muove invece dal precedente progetto del ministro Bonafede (che aveva anche visto alcuni punti condivisi dalle associazioni di magistrati e avvocati penalisti) e innesta prima il lavoro della Commissione Lattanzi e quindi, dopo le valutazioni e scelte governative, dei Gruppi ministeriali di lavoro per concretizzare le diverse parti della delega. Un esempio per tutti: l’istituto dell’improcedibilità nasce perché, intoccabile per contingenti ragioni politiche l’inoperatività della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, è sostanzialmente l’unico rimedio per evitare il “fine processo mai”, un processo che (nel contesto dato di carenza di risorse umane e di mezzi, di permanente incapacità di procedere finalmente ad autentica organica ed efficace depenalizzazione ([1]), di non percorribilità politica della strada dell’amnistia per accompagnare l’impatto e le scelte delle modifiche strutturali ai codici vigenti) ha come unico evento certo di cessazione la morte dell’imputato.
Ciononostante la Riforma ha un’anima identificabile e coerente nei suoi molteplici e complessi interventi: necessita pertanto di uno studio (anche da parte dell’Accademia) non parcellizzato, perché molte soluzioni nei diversi istituti ricevono reciproca o multipla coerenza e si integrano in un disegno complessivo che può riassumersi nel cercare di portare a maggior numero di conclusione definitiva (e nel merito e non in rito) i procedimenti, prima del giudizio e comunque entro il giudizio di primo grado, evitando la prosecuzione di procedimenti non sorretti da ragionevole previsione di affermazione di responsabilità ed anticipando già in queste fasi, nel caso di condanna, la possibilità di definizione con applicazione di pene sostitutive che finora (le stesse) potevano essere applicate solo dal giudice di sorveglianza dopo anche tre gradi di giudizio. L’obiettivo palese della Riforma è quindi quello di contribuire a dare efficacia al principio costituzionale della “giustizia giusta in tempi ragionevoli”.
Tale intento tuttavia sollecita e pretende un mutamento culturale degli operatori: pubblici ministeri, avvocati difensori e giudici. E’ questo uno snodo essenziale. Occorre infatti comprendere il senso sistematico e le opportunità offerte dalle novità della Riforma ed adeguare i propri criteri di valutazione e le proprie prassi alla svolta indicata dal legislatore.
È in particolare indispensabile la consapevole accettazione e la promozione di una relazione dinamica e propositiva tra le parti e tra loro ed il giudice, ciascuno consapevole del ruolo e delle nuove responsabilità che la Riforma gli attribuisce.
Tre esempi, tra tutti:
1) gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna: ne devono conseguire archiviazione (408) o sentenze di proscioglimento (udienza preliminare, 425.3; udienza di comparizione predibattimentale a seguito di citazione diretta, 554-ter.1), senza andare a giudizi a quel punto solo esplorativi ([2]);
2) il giudice ha ora la possibilità di invitare il pubblico ministero a riformulare l’imputazione e, in mancanza, di deliberare d’ufficio la nullità del capo di imputazione disponendo la restituzione degli atti al pubblico ministero (554.bis, udienza di comparizione predibattimentale e 421.1, udienza preliminare): ciò che nasce male, in modo inadeguato, deve essere riassestato subito o subito stoppato, e questo controllo diviene responsabilità diretta anche del giudice;
3) le pene sostitutive delle pene detentive brevi [parliamo di semilibertà e detenzione domiciliare sostitutiva (4 anni), lavoro di pubblica utilità sostitutivo (3 anni), pena pecuniaria sostitutiva (1 anno)] possono essere applicate da subito, anziché dopo tre gradi di giudizio: già dalla fase delle indagini preliminari, comunque nel giudizio di primo grado (così l’imputato si sottrae alle conseguenze negative di una lunga pendenza procedimentale ed evita soprattutto le inevitabili implicazioni sulla propria vita futura di una sanzione che va applicata dopo anni).
Un nuovo approccio culturale, dunque: pubblico ministero e giudici chiuderanno il procedimento quando a bocce ferme non è probabile (non vi è la ragionevole previsione) la condanna? Il giudice fermerà il processo nato male, pretendendone il necessario assestamento o la rivisitazione dell’intenzione di procedere a un giudizio viziato? Il pubblico ministero che riceve una notizia di reato ‘vestita’ spedirà il decreto di citazione o farà al sottoposto alle indagini ed al suo difensore una saggia proposta di definizione? e il difensore confiderà solo nell’improcedibilità deliberata nei successivi eventuali gradi di impugnazione o si attiverà per chiudere subito la pendenza con la soluzione di merito più favorevole nell’interesse dell’imputato e della sua vita anche futura? e il giudice favorirà questa definizione equa e tempestiva?
1.2 Il nuovo giudizio di appello a contraddittorio scritto come rito ordinario (sempre salva la discrezionale possibilità di chiedere la trattazione in presenza) è soluzione coerente e convergente, dal punto di vista sistematico, a questo nuovo approccio culturale, quindi a questa giurisdizione responsabile che sollecita esercizio consapevole e responsabile dei poteri, dei diritti, della libertà di scelta. È e deve essere infatti attivato da un imputato appellante che (con il mandato specifico ad impugnare e comunque con la dichiarazione o elezione di domicilio rinnovate o formulate per la prima volta) associa alla volontà di promuovere il giudizio di impugnazione la conseguente assunzione di una responsabile consapevolezza dello svolgimento del grado di giudizio che lui ha chiesto.
Deve quindi essere particolarmente evidenziato che, con questo intervento, viene a sanarsi (nei limiti in cui era possibile, non trattandosi appunto di un intervento di radicale reimpostazione dell’intero processo penale) quello che era stato forse il peggior limite del codice Vassalli, esito di un lavoro preparatorio nel quale non vi era stato dialogo tra i due gradi del merito, così ciascuno risultato rispondere a logiche sostanzialmente tra loro indifferenti.
2. Sintesi introduttiva
La legge 134/2021 e il decreto legislativo 150/2022 consegnano un giudizio di appello totalmente nuovo rispetto al rito ordinario consegnatoci dal d.P.R. 447/1988 e applicato fino all’entrata in vigore della legislazione emergenziale dell’art. 23-bis decreto legge 137/2020 e successive modifiche: la soluzione sarebbe stata difficilmente immaginabile prima della grave vicenda pandemica. Il nuovo rito (camerale cartolare come regola, con trattazione orale a richiesta insindacabile di una delle parti) diviene così quello ordinario, con due peculiarità: nella sua struttura essenziale è già stato sperimentato per circa un biennio, secondo i dati statistici è stato in concreto largamente condiviso anche dalla classe forense.
La caratteristica essenziale del nuovo rito rimane quella dell’attribuzione all’appellante, e comunque sempre anche all’imputato e al suo difensore [598-bis.2], della scelta discrezionale (che viene espressamente precisato essere irrevocabile [598-bis.2]) sulla modalità di trattazione dell’impugnazione: quella cartolare in camera di consiglio, tipologia ordinaria, o quella orale con la partecipazione in presenza delle parti. Mutano innanzitutto le modalità per la presentazione dell’atto di appello e i termini per pervenire alla deliberazione [601, commi 1 e 3; 585.1-bis]; mutano i termini anche per la eventuale richiesta di un concordato per l’accoglimento di motivi [599-bis commi 1, 3, 3-bis e 3-ter, con l’abrogazione dei limiti oggettivi: 98 d. lgs. 150/2022], vi è il significativo recepimento dell’ormai consolidato parametro giurisprudenziale anche della specificità estrinseca del motivo [581.1-bis]; mutano altresì, parzialmente, la disciplina della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale [603.3-bis e 3-ter] e quella afferente la tematica della conoscenza del grado di giudizio [604.5-bis, 5-ter e 5-quater].
Radicale è invece il mutamento della relazione tra l’azione penale comunque definita e la prosecuzione dell’azione civile, nel senso del recupero pieno del principio di accessorietà della seconda nel processo penale [573, 578.1-bis].
Divengono inappellabili anche le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la nuova pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, nonché le sentenze di proscioglimento relative a delitti puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa [593.3, 428.3-quater]([3]).
3. Le novità in tema di introduzione del giudizio
3.1 La dichiarazione o elezione di domicilio e lo specifico mandato per impugnare
3.1.1 Per la proposizione dell’impugnazione è ora innanzitutto previsto che con l’atto di impugnazione delle parti private e dei difensori debba sempre essere depositata anche la dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio ([4]). La sanzione è quella dell’inammissibilità dell’atto di impugnazione [581.1-ter]. L’indicazione pare inequivoca nel senso di un deposito contemporaneo dei due documenti (l’atto di impugnazione e la dichiarazione o elezione di domicilio), con la conseguenza che, in ogni caso, solo se il secondo documento sarà depositato entro la scadenza del termine per impugnare l’appello sarà ammissibile (prescindendo da ogni altra questione sulla sua autonoma ammissibilità formale).
La presenza di tale indicazione formale del proprio domicilio da parte dell’imputato dovrà pertanto essere oggetto di specifica verifica già nello spoglio preliminare dei fascicoli pervenuti.
Si è scelto di evitare alcun automatismo, con una imposta elezione di domicilio presso il difensore che assiste l’imputato, perché foriero di potenziali problematiche sull’effettiva conoscenza della citazione per quanto attiene all’evoluzione possibile del rapporto e contatto tra difensore (pur diligente) ed assistito, dopo la proposizione dell’impugnazione. La dichiarazione o elezione di domicilio (che appunto va depositata anche quando l’atto sia materialmente redatto e depositato dal difensore) deve, per logica sistematica, essere successiva alla deliberazione della sentenza impugnata: essa infatti è appunto finalizzata a consentire la efficace e tempestiva citazione per quel giudizio di appello che proprio dall’imputato e nel suo interesse viene espressamente richiesto. Nelle indagini preliminari e nel giudizio di primo grado è fisiologico che sia lo Stato a dover cercare la persona nei cui confronti si procede e informarlo dei passaggi essenziali del procedimento e, in particolare, della fase processuale. Ma quando appellante è solo la parte privata, che è pertanto il soggetto processuale che attiva il secondo grado di giudizio che impedisce l’immediata irrevocabilità della prima decisione, era e rimarrebbe francamente poco comprensibile che l’ “attore” si possa poi sottrarre al tempestivo rintraccio per atti che sono indispensabili per giungere a quel giudizio rivisitante che proprio lui ha chiesto.
La dichiarazione o elezione di domicilio (ovviamente quest’ultima anche presso il difensore che assiste l’imputato al momento del deposito dell’atto di appello) deve quindi essere depositata sia che l’imputato abbia presenziato al giudizio sia in caso di sua assenza dichiarata dal primo giudice ([5]).
3.1.2. Per i soli imputati dichiarati assenti, invece, per proporre l’atto di impugnazione il difensore deve essere munito di specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza, da intendersi anche solo la pubblicazione del dispositivo. Tale mandato deve contenere anche la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio [581.1-ter] ([6]).
La previsione dello specifico mandato ad impugnare da parte dell’assente (per il presente si è ritenuto che la conoscenza dell’esito del primo giudizio rendesse superfluo l’incombente) mira all’evidenza ad assicurare che ogni giudizio di impugnazione si svolga in esito alla consapevole determinazione dell’imputato, così ponendosi termine alla ormai frequente casistica di giudizi di impugnazione che, attivati dal difensore, di fiducia o di ufficio, senza un previo contatto con l’assistito, vengono poi vanificati al momento dell’esecuzione della sentenza irrevocabile per accertata inconsapevolezza dell’interessato della trattazione dei relativi gradi.
È in proposito certamente opportuno richiamare il contrasto avvenuto tra le Sezioni Unite e la Corte costituzionale sul tema dell’unicità del diritto di impugnazione e quindi sulla sua possibile definitiva consumazione da parte del difensore (di fiducia o di ufficio), contrasto che contribuisce a spiegare la indilazionabile necessità dell’intervento. Le Sezioni Unite (sentenza 6026/2008) avevano affermato che l’impugnazione proposta dal difensore nell’interesse dell’imputato contumace (o latitante) precludeva alcuna restituzione in termini dell’imputato per (ri)proporre l’impugnazione già proposta e deliberata. Corte costituzionale sent. 317/2009 prende atto di tale diritto vivente e giudica la soluzione contraria alle regole costituzionali, concludendo che “è costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 24, 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., l'art. 175, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non consente la restituzione dell'imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato”.
Ora, se è quindi apprezzabile l’impostazione deontologica che la classe forense richiama per sostenere una propria anche autonoma competenza a contestare una sentenza ritenuta ‘ingiusta’, nel ritenuto interesse obiettivo pure dell’assistito non reperito e non consapevole, occorre tuttavia prendere atto della potenziale inutilità del complesso dell’attività giurisdizionale e amministrativa cui si dà in tal modo seguito ogni qualvolta le impugnazioni non siano state giudicate fondate (la casistica è ricca di vanificazione di entrambi i gradi di impugnazione, merito e legittimità; e si tratta di attività che oltretutto, quando l’attività difensiva avviene in contesto suscettibile di liquidazione dei compensi da parte dell’Erario, risulta ulteriormente onerosa anche oltre il mero impiego a vuoto delle scarse risorse, di uomini e mezzi, disponibili).
D’altra parte, ed è rilievo ricorrente ed essenziale nello studio e nell’apprezzamento della Riforma che esce dalla legge 134/2021 e dal decreto legislativo 150/2022, questo peculiare aspetto non può non essere valutato ed apprezzato alla luce della ulteriore stretta che la disciplina dell’assenza riceve sia per il primo grado [nuovi 420-bis, 420-ter.1, 420-quater, 604.5-bis] che per il giudizio di appello [604.5-ter e 604.5-quater]. Proprio tale articolata disciplina, volta ad aumentare l’aspettativa che alla regolarità formale della citazione corrisponda l’effettiva consapevolezza dell’interessato relativa alla trattazione processuale, concorre efficacemente a creare le premesse fattuali per sollecitare l’attivazione dei difensori ad un contatto personale con l’assistito, che sia caratterizzato dall’articolata spiegazione del seguito procedimentale e della necessità di una non sostituibile responsabilizzazione dello stesso interessato.
È stato condivisibilmente osservato che il mandato specifico è ora necessario anche per il sostituto del difensore assente, nominato ai sensi dell’art. 97.4 e dalla giurisprudenza di legittimità considerato legittimato a proporre autonomo efficace atto di appello ([7]), con la conseguenza che certamente ora il tema della relazione tra difensore formalmente titolare, difensore sostituto nominato ex art. 97, comma 4, e imputato assistito, si apre pure a ulteriori peculiari profili deontologici.
Consequenziale e coerente al necessario contatto personale anche in esito alla deliberazione della sentenza impugnanda è la correlativa previsione di un aumento di quindici giorni dei termini ordinari previsti dall’art. 585 per impugnare in favore dell’imputato giudicato in assenza [585.1-bis], innovazione che pure vuole contribuire a determinare le premesse fattuali per agevolare la concretezza del contatto e l’assunzione di responsabilità da parte dell’imputato.
3.2. Il deposito dell’atto di appello
Importanti innovazioni, anche rispetto alla disciplina emergenziale, sono introdotte per il deposito dell’atto di appello.
È previsto il deposito telematico, con le modalità di cui al nuovo art. 111.bis secondo le modalità che saranno previste, anche con regolamenti [nuovo 582.1]. Ad esso si accompagna la possibilità, per le sole parti private, del deposito personale anche a mezzo di incaricato nelle cancellerie del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato [582, nuovo 1-bis]. Vengono così meno la possibilità di invio a mezzo posta [è abrogato l’art. 583] e quella del deposito presso la cancelleria del tribunale o del giudice di pace dove l’appellante si trova o davanti agente consolare all’estero [abrogato il 582 comma 2] ([8]).
Si tratta di innovazione certamente idonea ad accelerare i tempi di trattazione (tema particolarmente rilevante con l’introduzione dell’istituto della improcedibilità per superamento dei termini di durata massima dei giudizi di impugnazione). Essa specialmente evita, finalmente, le incertezze nell’individuazione immediata del termine di eventuale irrevocabilità del provvedimento non impugnato, evitando così, a monte, il sorgere di situazioni delicate con riguardo tanto all’individuazione del giudice competente a deliberare su eventuali istanze (in particolare in materia di libertà personale o quanto al contenuto possibile dei relativi provvedimenti) quanto alla sussistenza effettiva dei presupposti per iniziare l’eventuale esecuzione ([9]). Con le stesse modalità si depositano motivi aggiunti [585.4] e memorie.
4. Il contraddittorio cartolare nuovo rito ordinario del giudizio penale di appello - La trattazione in presenza
4.1 Il rito camerale cartolare diviene pertanto il nuovo rito ordinario di trattazione del giudizio penale di appello, quando non vi sia una specifica tempestiva (e come detto assolutamente discrezionale) istanza di trattazione in presenza, con la conseguente oralità del contraddittorio.
La disciplina del nuovo rito si applica anche ai procedimenti davanti alla corte di assise di appello ([10]) ed agli appelli avverso le sentenze del giudice di pace ([11]). Più problematica la questione per gli appelli (ricorsi li definisce l’art. 10 d. lgs. 159/2011) nei procedimenti per le misure di prevenzione ([12]). Certamente non si applica alle procedure in cui la Corte è giudice unico del merito (mentre specialmente per gli incidenti di esecuzione o i procedimenti per riparazione per ingiusta detenzione attribuire ai difensori istanti la scelta del rito avrebbe evitato le statisticamente numerose sostituzioni di ufficio, per i primi).
Gli articoli 598-bis, 599, 599-bis, 601 e 602 disciplinano la citazione a giudizio verso la forma cartolare e la richiesta di trattazione in presenza, alla quale consegue la celebrazione in rito camerale partecipato o dibattimentale, secondo i casi. La nuova disciplina si innesta su quella emergenziale, con alcune significative modifiche.
La sequenza procedimentale vede la spedizione di un decreto di citazione al giudizio di appello che [nuovo 601.3] deve contenere anche l’avviso all’imputato e alla persona offesa che hanno facoltà di accedere ai programmi di giustizia riparativa e gli avvisi relativi alla trattazione camerale senza la partecipazione delle parti salva la esplicita e tempestiva richiesta di trattazione orale (con l’indicazione delle pertinenti modalità) ([13]). Il termine a comparire non può essere inferiore a quaranta giorni, anche per i difensori [601.3 e 5].
Legittimati alla richiesta di trattazione orale sono le parti che hanno appellato. Ma l’imputato ed i suoi difensori sono sempre legittimati a chiedere la trattazione in presenza, anche quando non appellanti.
La significativa estensione del termine a comparire (da venti a quaranta giorni) trova spiegazione nel mutamento della disciplina per la richiesta di trattazione in presenza e per la dichiarazione di concordato per l’accoglimento di uno o più motivi, nonché dei nuovi termini nel rito cartolare per la presentazione di richieste, motivi nuovi e memorie, oltre che per possibili repliche.
4.2.1. Infatti, il termine per la richiesta di trattazione in presenza è ora collegato non alla data dell’udienza ma alla data della notifica della citazione (per l’imputato rileva ovviamente il giorno dell’ultimo avviso tra imputato e difensore/i): la richiesta di trattazione in presenza (“di partecipare all’udienza”) deve essere presentata a pena di decadenza nel termine di quindici giorni da notifica o avviso dell’udienza. La parte privata può tuttavia presentarla esclusivamente a mezzo del difensore [598-bis.2.terzo periodo].
La richiesta di trattazione in presenza è espressamente dichiarata irrevocabile ([14]).
Ritorna il problema se l’imputato possa richiedere direttamente al giudice la trattazione orale, bypassando il proprio difensore: questione ancor più rilevante quando l’imputato è detenuto o agli arresti domiciliari. Il testo della norma è parzialmente diverso dal testo corrispondente nel comma 4 dell’art. 23-bis, d.l. 137/2020 e modifiche. Quest’ultimo dopo aver parlato genericamente dell’onere di richiedere la trattazione orale nei quindici giorni - liberi - precedenti l’udienza, prevedeva specificamente che l’imputato era tenuto al rispetto del medesimo termine e doveva formulare la richiesta di partecipare all’udienza a mezzo del difensore. Il secondo comma dell’art. 598-bis, dopo aver previsto nel primo periodo il diritto dell’appellante e, in ogni caso, dell’imputato o del suo difensore di chiedere di partecipare all’udienza nel termine decadenziale dato, ed aver precisato appunto l’irrevocabilità della richiesta, nel periodo successivo recita che “la parte privata può presentare la richiesta esclusivamente a mezzo del difensore”. E’ stato sostenuto che la nuova norma consentirebbe quindi all’imputato di rivolgere la sua richiesta direttamente alla cancelleria del giudice (l’ufficio matricola per il detenuto), senza informare e comunque senza veicolare la richiesta a mezzo del difensore.
In realtà non pare che la situazione giuridica sia mutata. Escludere dalle parti private che possono presentare la richiesta esclusivamente a mezzo del difensore l’imputato priverebbe la specificazione di efficace senso sistematico, posto che tutte le altre parti eventuali stanno in giudizio solo a mezzo del difensore. La indicazione dei soggetti legittimati nel primo periodo e la previsione sia del termine decadenziale di quindici giorni da notifica o avviso (primo periodo del secondo comma) che dell’irrevocabilità della richiesta nel secondo periodo, danno una disciplina generale e compiuta. Che la precisazione contenuta nel periodo successivo con la locuzione “parte privata” introduca una disciplina speciale per “parti” che nel giudizio di appello non potrebbero prendere la parola, essendo in giudizio solo a mezzo di un difensore, escludendo l’unica (l’imputato) che solo ha diritto autonomo di chiedere la trattazione in presenza (e quindi in realtà sul piano logico sarebbe l’unico interessato a norma altrimenti inutile) pare operazione esegetica francamente forzata. La relazione illustrativa non fornisce informazioni sul tema.
Quindi, se è vero che anche l’imputato può autonomamente chiedere di partecipare all’udienza, se la sua richiesta perviene direttamente alla cancelleria senza il “mezzo” del difensore non sarebbe efficace ([15]).
Il mutamento del termine di riferimento (la data della notifica della citazione in luogo della data dell’udienza) spiega il venir meno della previsione che i giorni per la richiesta debbano essere “liberi”.
4.2.2. Può convenirsi che, in ordine alla distinzione tra i due riti possibili (cartolare e in presenza), la soluzione più efficace, sotto il profilo della gestione dei ruoli di udienza e dell’impiego efficace della risorsa tempo per magistrati e avvocati, sarebbe stata quella di un sistema che consentisse che già al momento della spedizione della citazione a giudizio e dei relativi avvisi si conoscesse con quale rito il singolo processo sarebbe stato trattato, così favorendo la suddivisione delle udienze in dedicate alle trattazioni cartolari ed a quelle in presenza. E tuttavia l’unica soluzione concreta e non caratterizzata da percorsi procedimentali (come formali interpelli preventivi e simili), per loro natura complessi e forieri di molteplici impegni di notifiche e comunicazioni non compatibili con il senso della trattazione cartolare (sua speditezza) e con le risorse di cancelleria (almeno finchè anche il giudizio penale di appello non vedrà un processo telematicamente efficace per tutto ciò che attiene alle comunicazioni e citazioni delle parti) ([16]), sarebbe stata quella indicata nell’originario progetto cd Bonafede: l’indicazione della scelta già al momento del deposito dell’atto di appello. Ma è significativo che l’ampia maggioranza di coloro (magistrati e avvocati) che hanno esperienza della quotidiana giurisdizione d’appello abbiano sempre convenuto che tale soluzione avrebbe affossato il rito cartolare, tante essendo le variabili che, quantomeno per prudenza professionale, avrebbero comunque sollecitato, quando non addirittura imposto, al difensore appellante la non immediata richiesta di trattazione cartolare.
4.2.3. Dunque, per la trattazione in presenza la richiesta va depositata nel termine perentorio di quindici giorni dall’ultima notifica o avviso e, per le parti private, a mezzo del difensore.
Viene quindi confermato che anche l’imputato è legittimato alla richiesta di trattazione in presenza, ma pure che la sua richiesta deve essere depositata (nel termine perentorio) esclusivamente dal difensore. Ciò vale evidentemente anche per l’imputato che sia detenuto, o ristretto agli arresti domiciliari, per la causa per cui si procede o per altra causa (in assenza di alcuna diversa specifica previsione.
Nuovamente viene allora in rilievo il senso della nuova regola del mandato speciale ad impugnare per l’appello dell’imputato assente e della dichiarazione o elezione di domicilio per l’imputato dichiarato assente o presente al primo giudizio. E’ evidente che la visione del giudizio di appello come critica specifica alla prima decisione che introduce un ulteriore grado del processo (altrimenti conclusosi con la prima deliberazione), quando attivato a esclusiva domanda e per l’interesse dell’imputato sollecita una sua responsabilizzazione che si caratterizza innanzitutto per un contatto effettivo con il difensore, di fiducia o di ufficio che sia. Contatto effettivo che crea la precondizione pure per le informative finalizzate alla conoscenza consapevole delle modalità del seguito procedimentale.
Quanto agli imputati detenuti o altrimenti ristretti, i quindici giorni da notifica/avviso paiono sufficienti al contatto informativo da parte del difensore diligente ([17]).
4.2.3. Quando la richiesta di trattazione in presenza è ammissibile ([18]), la corte dispone che l’udienza si svolga con la partecipazione delle parti ed indica il rito con cui si procederà, camera di consiglio [599] o pubblica udienza [602]. Quindi, ad ogni richiesta di trattazione orale deve seguire il provvedimento della Corte che la dichiara ammissibile ed indica il rito, camerale o dibattimentale, con cui nella udienza già fissata si procederà nel contraddittorio orale, provvedimento che deve essere notificato ai difensori e comunicato al procuratore generale.
Nel caso di processo con pluralità di parti, è sufficiente la richiesta di trattazione orale di una sola di esse per determinare il rito in presenza per tutte le parti del processo ([19]).
4.2.4. La trattazione in presenza delle parti può essere disposta d’ufficio anche dalla corte “per la rilevanza delle questioni sottoposte al suo esame” ([20])[598-bis.3] e “in ogni caso” quando, procedendo con la trattazione cartolare, ritenga necessario disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale a norma dell’art. 603 [598-bis.4].
Nel secondo caso deve ritenersi che la determinazione di procedere alla rinnovazione istruttoria sorga in camera di consiglio, sicché la corte definirà l’udienza con un’ordinanza, che sarà comunicata alle parti con l’indicazione della data di udienza successiva in trattazione orale ([21]).
Nel primo caso la Corte può disporre la trattazione orale prima della spedizione del decreto di citazione o dopo. Le due alternative emergono chiare dal testo [598-bis.3] laddove si dispone che il provvedimento deve essere comunicato al procuratore generale e notificato ai difensori, salvo che ne sia stato dato avviso con il decreto di citazione di cui all’art. 601. Poco comprensibile un “preavviso” alle parti prima della spedizione del decreto di citazione (inizio del processo di appello), evidentemente la comunicazione al di fuori del decreto riguarda appunto il caso in cui, successivamente alla spedizione dello stesso, emerga dallo studio o dalla discussione del caso l’opportunità del contributo orale delle parti.
Quanto al termine ultimo dell’esercizio del potere d’ufficio dopo la spedizione del decreto di citazione, paiono ipotizzabili due soluzioni. La prima indica tale ultimo momento nella scadenza del termine decadenziale dei quindici giorni dall’ultima notifica/avviso. Questo termine si riferisce alle facoltà delle parti ma, oggettivamente, dopo la sua scadenza il rito è già incardinato nel cartolare camerale, con l’attivazione degli oneri delle di presentazione delle conclusioni. La seconda indica il momento ultimo nella discussione della camera di consiglio non partecipata: quella che dovrebbe concludersi con il dispositivo da comunicare alle parti [167-bis disp. att.].
Mentre la prima potrebbe apparire formalisticamente più corretta sul piano sistematico, la seconda valorizza proprio la discussione camerale, quindi il momento della decisione: è in quel momento infatti che si realizza la pienezza della conoscenza del processo e delle sue problematiche, sicchè fisiologicamente potrebbe sorgere proprio e solo in quel contesto l’esigenza di segnalare alle parti aspetti da approfondire o su cui avere un contraddittorio orale (fermo restando che, disposto il rito in presenza, nessun limite potrebbe essere posto alla discussione, salvo il solo caso dell’eventuale riqualificazione giuridica [[22]]). Ora, considerando che tendenzialmente la trattazione orale appare più adeguata per questioni “rilevanti” (in fatto o in diritto), in assenza di un espresso limite temporale ultimo normativamente indicato e tenuto conto che anche nel secondo caso, quello della rinnovazione istruttoria, vi è un passaggio dalla trattazione cartolare a quella orale, appare preferibile la seconda soluzione.
4.3.1. Scaduto il termine per la richiesta di trattazione in presenza, si è nel cartolare non partecipato, caratterizzato dal deposito di conclusioni scritte. Il riferimento rimane sempre alla data dell’udienza, ma sono mutati i termini assegnati alle parti per le proprie conclusioni.
Non vi sono più termini differenziati per la parte pubblica (erano dieci giorni) e per le parti private (cinque giorni) e viene meno l’onere di comunicazione a cura della cancelleria del giudice delle conclusioni del procuratore generale alle parti private ([23]). Ora, il procuratore generale “presenta le sue richieste” e “tutte le parti” “possono presentare motivi nuovi e memorie” fino a quindici giorni prima dell’udienza. “Tutte le parti” (evidentemente anche il procuratore generale) “possono presentare” memorie di replica fino a cinque giorni prima. L’indicazione dei quindici giorni ha consentito di assorbire la disciplina dei termini per il deposito dei motivi nuovi ex art. 585.
Si tratta di termini che debbono ritenersi tutti, anche quelli per il deposito di conclusioni/memorie, perentori: lo ha ormai affermato con insegnamento consolidato la giurisprudenza di legittimità per i termini corrispondenti previsti dal cartolare emergenziale e i nuovi testi non offrono argomento alcuno per discostarsene.
Sulle conseguenze dell’eventuale mancato deposito delle conclusioni della parte pubblica e sulla natura ordinatoria o perentoria dei due termini (quindici e cinque giorni), da intendersi comunque “non liberi” (perché non così normativamente qualificati), occorrerà nel silenzio della disciplina aver presente l’articolata giurisprudenza di legittimità formatasi prevalentemente sui corrispondenti punti e termini per il giudizio di cassazione nella precedente disciplina emergenziale (che poneva analoghi problemi interpretativi) ([24]).
La conservazione della diversa terminologia (“presenta le sue richieste”, per la parte pubblica, “possono presentare”, per le parti private) rende evidente che il procuratore generale deve presentare le sue conclusioni, mentre per le parti private tale deposito è una mera facoltà ([25]).
Nelle conclusioni possono essere depositate, per le parti civili e per gli imputati ammessi al patrocinio a spese dello Stato, le note spese con le richieste di liquidazione. L’udienza di trattazione cartolare è udienza a tutti gli effetti e il deposito delle conclusioni è attività difensiva con piena efficacia e rappresenta la modalità di partecipazione al contraddittorio cartolare, titolo che consente anche per tale fase l’indicazione della voce per la discussione, se e nei termini spettanti.
4.3.2. Avendo parificato il termine per tutte le parti (pubblica e private) ed avendo escluso alcun obbligo di comunicazione da parte della cancelleria del giudice di appello, si pone la questione di come le parti possano avere informazione del contenuto di richieste, memorie e motivi aggiunti, anche al fine di esercitare utilmente la possibilità di depositare repliche. Normativamente, la soluzione appare quella dell’attivazione della singola parte interessata, per la visione del fascicolo o la richiesta di pertinente informazione presso la cancelleria: si tratta tuttavia di problematica di elezione per buone prassi concordate tra uffici giudicanti e requirenti d’appello e avvocatura ([26]).
4.3.3. L’udienza a contraddittorio cartolare si svolge in presenza, i magistrati in camera di consiglio e un assistente, in aula, che verbalizza la trattazione dei singoli procedimenti, dando conto delle conclusioni pervenute e dei pertinenti provvedimenti adottati, man mano che gli vengono passati.
La normativa delegata ha riprodotto la previsione della comunicazione alle parti del dispositivo eventualmente deliberato, chiarendo espressamente che “il provvedimento emesso in seguito alla camera di consiglio è depositato in cancelleria al termine dell’udienza. Il deposito equivale alla lettura in udienza ai fini di cui all’articolo 545”. Quindi risulta chiarito che è il deposito, e non la comunicazione disposta dall’art. 167-bis disp. att., che per sé costituisce “pubblicazione della sentenza”, sicchè l’eventuale ritardo della comunicazione non ha alcun effetto sulla decorrenza dei termini per impugnare ([27]).
5. Il concordato anche con rinuncia ai motivi di appello
5.1. La normativa emergenziale pandemica non aveva disciplinato espressamente il coordinamento tra la procedura cartolare non partecipata e la richiesta di definizione del processo di appello con applicazione dell’istituto del concordato anche con rinuncia ai motivi di appello, lasciando così alla prassi la soluzione delle connesse inevitabili problematiche: fino a che momento la richiesta poteva essere presentata, come era acquisito il parere di condivisione del procuratore generale, qual era il rapporto tra la richiesta di applicazione del concordato e la presentazione delle conclusioni pure per l’evenienza del suo non accoglimento, qual era lo sviluppo corretto del procedimento quando il giudice d’appello nella camera di consiglio cartolare non riteneva di accogliere la richiesta.
La nuova disciplina risolve i dubbi.
5.2. La dichiarazione di concordato è ammissibile sia nel rito cartolare che in quello in presenza.
L’art. 599-bis comma 1 chiarisce che il riferimento è solo alla dichiarazione congiunta (o a due dichiarazioni distinte ma convergenti): quindi deve ritenersi che la proposta di concordato, quella che proviene solo dall’imputato o dal procuratore generale sia inammissibile, non essendo prevista alcuna procedura d’ufficio per l’eventuale acquisizione del consenso dell’altra parte (ad opera del giudice o della sua cancelleria), salvo che nel termine dei quindici giorni pervenga il consenso della controparte.
In entrambi i riti la dichiarazione di concordato deve essere presentata, a pena di decadenza e con le eventuali rinunce ad alcuni dei motivi (nelle forme dell’art. 589), entro quindici giorni (non richiesti come liberi) prima dell’udienza. Quindi nel caso di rito cartolare il termine coincide con quello per il deposito dei motivi nuovi, delle memorie e delle richieste.
Ciò significa che la parte interessata dovrà attivarsi tempestivamente per depositare entro i quindici giorni dalla data di udienza la richiesta che abbia già acquisito il consenso e quindi l’accordo dell’altra parte.
Essendo il termine dei quindici giorni previsto a pena di decadenza, la prospettiva del concordato risulta preclusa se quel termine risulta superato.
5.3. La norma chiarisce ora che, a fronte del tempestivo deposito di dichiarazione di concordato con eventuale rinuncia parziale ai motivi, quando il giudice ritiene di non poter accogliere la richiesta concordata tra le parti, se si procede con rito cartolare dispone la prosecuzione in udienza con la partecipazione delle parti, indicando se con rito camerale o in udienza pubblica; il provvedimento è notificato e comunicato alle parti, con l’indicazione della data di nuova udienza [599-bis comma 3]. In tal caso, richiesta e rinuncia parziale perdono efficacia, ma possono essere riproposte in udienza.
Se invece si sta procedendo con la partecipazione delle parti (udienza pubblica o camerale), quando ritiene di non poter accogliere la richiesta concordata dalle parti il giudice dispone la prosecuzione del giudizio [599-bis comma 3-bis] ([28]).
In ogni caso richiesta e rinuncia non hanno effetto se la corte decide in modo difforme dall’accordo [599-bis comma 3-ter]
5.4. Quanto alla possibilità di modificare il contenuto del concordato non accolto, l’unico riferimento espresso ad una riproposizione è quello contenuto nel nuovo comma 3 dell’art. 599-bis: quando la corte, procedendosi con rito cartolare, non ritiene di accogliere la richiesta concordata tra le parti, dispone la prosecuzione con nuova udienza in presenza delle parti. In tal caso, come ricordato, richiesta ed eventuali connesse rinunce parziali ai motivi di appello perdono efficacia.
Ma, ecco il punto, richiesta e rinuncia possono essere riproposte nella successiva udienza in presenza. Certamente ciò che è possibile in quella nuova sede è che in presenza le parti persuadano il collegio ad accogliere la stessa originaria richiesta avendo l’opportunità di meglio spiegare ed integrare le ragioni che hanno condotto all’accordo. Sicchè il medesimo collegio non è vincolato dalla precedente decisione di non accoglimento, deliberata nella camera di consiglio cartolare.
La questione che si pone è però se, giunti all’udienza in presenza o all’esito del rigetto del concordato deliberato nell’udienza già in presenza (sono appunto le due alternative in rito possibili), le parti possano riproporre una richiesta in termini diversi da quelli contenuti nella specifica dichiarazione di concordato depositata, a pena di decadenza, originariamente [599-bis nuovo comma 1].
Il silenzio sulla possibilità di presentare richiesta di diverso contenuto dopo il rigetto della proposta originaria, nell’udienza già originariamente in presenza [599-bis, comma 3-bis], e il senso compiuto della mera riproponibilità della medesima richiesta nel caso di rito originariamente cartolare, prima esposto, uniti alla previsione di decadenza che accompagna l’originaria compiuta richiesta congiunta potrebbero ineccepibilmente condurre a ritenere che non sia possibile/legittima la proposizione di una nuova, differente richiesta concordata.
La conclusione pare tuttavia poter essere diversa.
Deve muoversi dal caso di una dichiarazione originaria, presentata nel termine a pena di decadenza, che presenti errori nelle modalità di determinazione del calcolo della pena finale, pur a fronte di una quantificazione finale giudicabile congrua. L’interpretazione letterale rigorosa di cui si è dato conto dovrebbe condurre a considerare non emendabile l’errore, né tanto più modificabile la pena finale una volta corretto il percorso del computo, anche quando questo sia l’esito di un mero nuovo calcolo aritmetico che si limita ad essere coerente alla correzione dell’errore, fermi i presupposti condivisi e in ipotesi congrui. L’impossibilità di correggere l’esito quantitativo tenendo fermi i presupposti (riconoscimento o esclusione di circostanze aggravanti, aumento imposto per una continuazione ritenuta, ecc.) parrebbe esito interpretativo incoerente alla natura dell’istituto. Ancor più, la stessa previsione di un imposto differimento dell’udienza, insieme con il mutamento del rito (fatti procedimentali di particolare impatto nella gestione dei ruoli, in contesti di scarsità di risorse e di necessità di attenta utilizzazione del prezioso bene rappresentato dal ‘tempo di udienza’), parrebbe soluzione francamente disequilibrata se finalizzata ad un mero ripensamento sui medesimi presupposti.
Può quindi concludersi che dal punto di vista sistematico vi siano chiare indicazioni sul favore per l’applicazione dell’istituto, che ha sicuramente una portata semplificatoria e di risparmio dei complessivi tempi di lavoro di tutti gli operatori protagonisti del singolo procedimento, non solo del grado di appello ma pure dell’eventuale giudizio di cassazione (che per le sentenze deliberate con applicazione dell’art. 599-bis prevede il rito de plano per l’esito che dichiari l’inammissibilità [art. 610.5-bis]).
5.5. Concorrono al rilievo sistematico di favore per il senso dell’istituto le ragioni che hanno condotto all’abrogazione del comma 2 dell’art. 599-bis, norma che prevedeva alcune esclusioni oggettive per taluni reati.
Si tratta infatti di un intervento che ha posto fine ad un’anomalia strutturale evidente, che avrebbe dovuto fondare una seria questione di legittimità costituzionale.
A differenza dell’istituto dell’applicazione della pena su richiesta [444], il concordato sui motivi ex art. 599-bis non prevede affatto benefici sanzionatori (che tale invece è la diminuzione fino a un terzo del ‘patteggiamento’) bensì si risolve nell’accoglimento di uno o più motivi: quindi, ecco il punto essenziale, costituisce semplicemente una richiesta di deliberazione che il giudice di appello potrebbe adottare autonomamente, negli stessi termini richiesti, all’esito della discussione. Nessuna riduzione di pena che all’esito del giudizio mai potrebbe essere accordata, quindi: invece la pena dell’istituto dell’art. 444 può essere pena che mai il giudice all’esito del processo avrebbe potuto applicare, proprio perché l’accesso al rito alternativo porta un bonus potenziale di riduzione sotto il minimo edittale proprio del reato e, comunque, una modifica migliorativa della ‘pena di giustizia’ che il giudice all’esito del processo avrebbe applicato secondo i parametri generali dell’art. 133 cod. pen.. Ecco perché le esclusioni oggettive dall’istituto hanno un senso sistematico nel ‘patteggiamento’ ma non ne hanno alcuno nel concordato anche con rinuncia ai motivi.
Questa abrogazione, e le ragioni sistematiche che l’hanno fondata, contribuiscono allora ad arricchire di valenza sistematica la soluzione più favorevole: poiché il giudice di appello potrebbe comunque all’esito del giudizio adottare una deliberazione esattamente conforme alla possibile rimodulazione dell’originaria richiesta di concordato, una lettura impeditiva si risolverebbe in una preclusione francamente priva di ragione sistematica alcuna.
5.6. In definitiva, ammettere la possibilità di rimodulazione rispetto alla formulazione originaria del concordato, conduce ad unità i vari aspetti: l’istituto non è caratterizzato da premialità sanzionatoria ([29]); risponde al principio costituzionale della ragionevole durata anche per il regime impugnatorio; il favore per il contatto di persona con il giudice promuove il confronto chiarificatorio; la previsione del termine di decadenza per il deposito del concordato è funzionale ad ottimizzare i tempi di studio e lavoro e a favorire il confronto; in concreto in definitiva si arriva ad un’anticipazione di decisione che avrebbe comunque potuto essere poi adottata con possibilità di impugnazione ordinaria ed i conseguenti tempi e incombenti.
5.7. Abrogazione dei divieti previsti dall’art. 599.2 e passaggio dal rito cartolare alla trattazione orale nel caso di non accoglimento del concordato proposto in quella sede realizzano certamente un rafforzamento della negozialità in chiave deflattiva.
Molto puntuale è in proposito il rilievo ([30]) che ad essi va aggiunta la riduzione di un sesto di pena a quella applicata in esito a rito abbreviato, quando la sentenza non venga impugnata: si è notato tra l’altro che il sesto diminuisce una pena già ridotta di un terzo per il rito (pervenendosi in concreto nei pressi della metà della pena giusta ex art. 133 cod. pen.). E certamente questa disciplina [442.2-bis] pone inevitabilmente anche una indicazione forte di politica giudiziaria, rispetto al fenomeno degli appelli proposti solo per cercare di ottenere, con il concordato, diminuzioni ulteriori di pena in appello. La presenza di questa opzione (un sesto in meno per la mancata impugnazione) non può che influire sulle quantificazioni di eventuali riduzioni di pena ai sensi dell’art. 599-bis, che non dovrebbero essere pari o superiori al sesto (fatti ovviamente salvi i casi in cui a diminuzioni superiori si debba giungere a seguito di accoglimento di motivi sicuramente fondati su punti della decisione che hanno influito in modo strutturale nel percorso di calcolo della pena finale).
6. L’assenza nel giudizio di appello
6.1 La nuova disciplina ha rimodulato a fondo la possibilità del giudizio in assenza, in particolare con la rivisitazione degli artt. 420-bis e 420-quater. La notifica deve tendenzialmente avvenire a mani proprie o di persona espressamente delegata al ritiro dell’atto; occorre altrimenti che vi siano indicazioni inequivoche di una assenza dovuta a scelta consapevole e volontaria; vengono meno le presunzioni ‘nominate’, occorre una motivazione specifica su fatti procedimentali specifici; se non è possibile spiegare quest’ultima (nelle sue varie articolazioni) non si sospende ma si delibera sentenza di improcedibilità per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato: sentenza in rito, con avvisi sulle modalità del prosieguo e prescrizione sospesa, revocabile quando l’imputato é rintracciato e ha ricevuto la notifica della sentenza di (temporanea) improcedibilità. Quando l’imputato è dichiarato assente e il processo è in corso, se compare ricorrendo determinate condizioni può essere rimesso in termini per esercitare le facoltà da cui è decaduto.
6.2 Quando si procede in appello con trattazione orale, se l’imputato è appellante e le notificazioni sono regolari si procede sempre in assenza anche fuori dei casi dell’art. 420-bis. Si tratta di un corollario del fatto che l’appello è stato proposto da lui o nel suo interesse da difensore eventualmente munito di mandato speciale e che per l’atto l’imputato ha depositato la dichiarazione o elezione di domicilio. Se le notificazioni sono regolari ma l’imputato non è appellante e non ricorrono le condizioni di cui all’art. 420-bis, commi 1, 2 e 3, la Corte sospende il procedimento e dispone le ricerche per la notifica della citazione [598-ter.2]. Quando infine si procede con rito cartolare, accertata la regolarità della notifica ovviamente non è dichiarata l’assenza; se tuttavia l’imputato non è appellante e non ricorrono le condizioni di cui all’art. 420-bis, commi 1, 2 e 3, la Corte provvede con l’ordinanza di sospensione e ricerche.
La differente soluzione con il primo grado (che procede a sentenza di improcedibilità per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato: 420-quater) è data ovviamente dal fatto che vi è ormai una sentenza di merito deliberata che non potrebbe essere travolta da una seconda successiva sentenza di improcedibilità sostanzialmente temporanea.
La durata della sospensione è potenzialmente indeterminata. Se si procede per reato consumato dopo il 01/01/2020 si applica infatti la disciplina dell’art. 344-bis comma 6. Se si procede per reato consumato entro il 31/12/2019 si applica l’art. 159.1.n.3-bis ([31])
6.3 La rivisitazione della disciplina in primo grado ha un’immediata ricaduta in quella delle questioni di nullità nel giudizio di appello. La dichiarazione di assenza quando mancavano le condizioni dei primi tre commi dell’art. 420-bis determina la nullità della sentenza di primo grado, che però deve essere eccepita con specifico motivo di appello ([32]) altrimenti è sanata [604, nuovo 5-bis]: non può pertanto essere rilevata d’ufficio. Se dichiara la nullità il giudice di appello dispone la trasmissione degli atti al giudice che procedeva quando la nullità si è verificata.
Non sussiste comunque nullità [604, nuovo 5-bis, ultima parte] se risulta che l’imputato era a conoscenza della pendenza del processo ed era nelle condizioni di comparire in giudizio prima della pronuncia della sentenza impugnata.
Occorre quindi un’accurata conoscenza e valutazione di cosa è accaduto nel corso del procedimento e dalle notificazioni della citazione a imputato e difensore/i. Questa indicazione, inequivoca, pone almeno un problema nuovo, che presenta profili delicati.
Il giudice di primo grado [e quello di appello che deve valutare se sussista questa sorta di condizione ostativa alla possibilità di eccepire o rilevare ([33]) la nullità] non ha né può consultare il fascicolo del pubblico ministero, per cui diviene onere del rappresentante della parte pubblica, nei due gradi, acquisire e rappresentare i fatti di possibile pertinente rilievo procedimentale che si sono verificati nella fase delle indagini preliminari e fino all’eventuale udienza preliminare.
Ma, soprattutto, nel nuovo sistema diviene nevralgica la comprensione di quale sia stato il rapporto tra l’imputato ed il suo difensore, di fiducia o di ufficio che sia, in particolare dal momento in cui il difensore ha ricevuto l’avviso di fissazione dell’udienza. E questo aspetto, essenziale nell’economia della disciplina al fine di poter affermare o escludere anche la conoscenza della pendenza del processo, è nella conoscenza del solo difensore, quando l’imputato non sia presente ovvero manchino elementi documentali (una nomina, un’istanza, la presentazione di un certificato medico, ecc.) dal cui contenuto si possa evincere esaustivamente, anche solo sul piano logico, il dato della conoscenza della pendenza del processo (e non già del solo procedimento), se non specificamente della data dell’udienza.
Ed allora diviene fisiologia della relazione tra giudice e parti, con la nuova disciplina, che il primo nelle situazioni di incertezza possa, o debba in realtà, interpellare il difensore su quali siano stati i suoi contatti con l’imputato dal momento delle notifiche per applicare correttamente la norma. Ovvero che debba essere riconosciuto uno speculare obbligo del difensore, di fiducia o di ufficio, di rappresentare al giudice di primo grado (e dedurre specificamente e analiticamente nell’eventuale motivo di appello) l’assenza di ogni rapporto e le ragioni che la hanno determinata.
Tema nuovo nella pregnanza con cui si pone, ma che pare francamente ineludibile ([34]).
6.4 Il nuovo comma 3-ter del medesimo art. 604 prevede poi i casi nei quali, al di fuori delle ipotesi di nullità considerate dal comma precedente, il giudice di appello restituisce l’imputato nel termine per esercitare le facoltà dalle quali è decaduto (quando per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento si è trovato nell’assoluta impossibilità di comparire e, incolpevolmente, di comunicare tempestivamente l’impedimento; se, quando l’assenza è stata dichiarata fuori dei casi di notifica a mani o a persona espressamente incaricata del ritiro o rinuncia espressa a comparire o far valere un impedimento, provi di non aver avuto effettiva conoscenza del processo e non esser potuto intervenire, incolpevolmente, per esercitare le facoltà da cui è decaduto). In questi casi [604, 5-quater], se la facoltà riguarda la richiesta di applicazione dell’art. 444 ovvero l’oblazione ovvero la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ([35]), provvede direttamente il giudice di appello (e se questi rigetta le richieste di applicazione della pena o di oblazione le stesse non possono più essere riproposte).
Negli altri casi il giudice di appello annulla la sentenza e trasmette gli atti al giudice della fase nella quale può essere esercitata la facoltà da cui l’imputato è decaduto [604.5-quater].
Trattandosi di annullamento per decadenza dall’esercizio di una facoltà, va posta la questione se l’annullamento prescinda dalla specifica e vincolante dichiarazione di voler esercitare tale facoltà ovvero debba essere automatico, quindi ritenendosi poi fisiologico che restituito nel termine davanti al giudice ‘naturale’ l’imputato possa poi scegliere di non esercitare quella facoltà della cui decadenza si è doluto ottenendo l’annullamento della sentenza di primo grado. Si pensi al caso di decadenza incolpevole dalla facoltà di chiedere il rito abbreviato: presupposto dell’annullamento è la richiesta (vincolante) che si proceda con rito abbreviato ovvero la retrocessione avviene anche se solo ‘esplorativa’, riservandosi quindi l’imputato di esercitare o meno la facoltà di chiederlo?
Il principio costituzionale di ragionevole durata del processo parrebbe ostare ad una retrocessione formalistica, non strettamente funzionale al soddisfacimento di un concreto ed effettivo interesse, ed effetto, ‘riparatorio’. D’altronde, quando la richiesta di restituzione nel termine è proposta, con specifico motivo di appello o con richiesta presentata prima della discussione di appello ([36]), l’istante ha già avuto la possibilità di una piena conoscenza degli atti sia processuali (fascicolo per il dibattimento) che di indagine preliminare (fascicolo del pubblico ministero). Non pare decisiva a sostenere la tesi opposta la lettera della locuzione: “giudice della fase nella quale può essere esercitata la facoltà dalla quale l’imputato è decaduto”. Il tempo presente del verbo risulta compatibile con entrambe le interpretazioni.
La norma prevede che in ogni caso rimane ferma la validità degli atti regolarmente compiuti in precedenza [604.5-ter].
6.5 La disciplina dei nuovi commi 5-bis e 5-ter dell’art. 604 riceve un seguito specifico nella disciplina dell’annullamento con rinvio nel rito di cassazione. Infatti l’art. 623, comma 1, inserisce una lettera bb), disponendo che nel caso del comma 5-bis la Corte di cassazione disponga la trasmissione degli atti direttamente al giudice del grado e della fase in cui si è verificata la nullità; nei casi disciplinati dal comma 5-ter la trasmissione avviene al giudice del grado e della fase in cui può essere esercitata la facoltà da cui l’imputato è decaduto.
Tuttavia in entrambi i casi l’annullamento non può essere disposto se “risulta che l’imputato era a conoscenza della pendenza del processo e nelle condizioni di comparire a giudizio prima della pronuncia della sentenza impugnata”. Va notato che nella disciplina dei commi 5-bis e 5-ter questa condizione inibente è prevista solo per la nullità disciplinata dal primo. La discrasia parrebbe attribuire alla Corte di cassazione un potere di apprezzamento di merito (sia pure in relazione ad una questione procedimentale) che il giudice di appello non ha. Del resto i limiti di rilevanza dell’operatività delle ipotesi del comma 5-ter sono già indicati (ed in parte diversi) all’interno delle due ipotesi previste.
7. La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale
Due le novità, riguardanti la riformulazione del comma 3-bis e un nuovo comma 3-ter.
7.1 Sono anche due le novità nel comma 3-bis.
La prima è data dal richiamo espresso ai primi tre commi dell’art. 603. Si tratta di un chiarimento volto a ribadire che i limiti entro i quali il comma 3-bis (anche nella sua interpretazione giurisprudenziale) impone la rinnovazione di prove dichiarative lasciano tuttavia impregiudicata ogni possibilità del giudice di appello di procedere comunque alla rinnovazione quando ricorrono le condizioni indicate nei primi tre commi della norma ([37]).
La seconda porta a soluzione normativa il disagio interpretativo determinato dall’estensione, operata da SU sent. 27620 del 28/04/2016, ric. Dasgupta (e subito confermata da SU sent. 18620 del 19/01/2017, ric. Patalano) dell’obbligo di esaminare d’ufficio i dichiaranti, nei casi di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, anche ai giudizi svoltisi con rito abbreviato nei quali nessun dichiarante era stato esaminato dal giudice (nelle due ipotesi possibili degli artt. 438.5 e 441.5).
In concreto in tale ipotesi si andava in realtà ad una prima escussione procedimentale da parte di un giudice.
La modifica normativa trae spunto anche dall’evoluzione della giurisprudenza europea che aveva dato origine all’introduzione dell’art. 603.3-bis ([38]).
7.2 Il nuovo comma 3-ter dell’art. 603 dispone che quando si procede alla rinnovazione a seguito di accoglimento di richiesta ex art. 604.5-ter e 5-quater, se nel giudizio di primo grado si è proceduto in assenza perché l’imputato latitante si era volontariamente sottratto alla conoscenza della pendenza del processo [420-bis.3], la rinnovazione è disposta nei limiti previsti dall’art. 190-bis.
8. Alcune delle questioni rimaste aperte nel rito cartolare
Il raccordo tra le regole processuali del rito ordinario pre-covid19 e il rito cartolare non sempre è stato ed è agevole.
Alcune delle problematiche evidenziate dall’esperienza in corso neppure nella nuova disciplina, che rende il rito cartolare forma ordinaria del contraddittorio di appello, troveranno immediata soluzione.
8.1 Una prima problematica riguarda la possibilità di disporre la riunione ai sensi dell’art. 17 (quindi i casi della connessione ex art.12 e dell’art. 371.2 lett. b) quando appunto più procedimenti relativi al medesimo imputato sono autonomamente fissati alla stessa udienza con rito a contraddittorio cartolare.
Si pensi al caso di un (presunto) truffatore o ladro seriale, che sia stato giudicato in primo grado per reati della medesima indole in più processi, per i quali pendano autonomi procedimenti di appello: si tratta di situazioni che generalmente attivano poi uno o in genere più procedimenti in fase di esecuzione per l’eventuale riconoscimento della continuazione. In altri casi l’omogeneità delle modalità di consumazione dei reati ha un potenziale immediato rilievo probatorio sulla tematica della ripetutamente dedotta mancanza di elemento soggettivo.
Va distinta l’ipotesi che in tutti i procedimenti l’imputato sia assistito da un unico difensore da quella di un’assistenza di più difensori, ed eventualmente alcuni di fiducia ed altri di ufficio. Nel secondo caso la riunione appare obiettivamente impraticabile con il rito cartolare, per l’articolazione delle conseguenze (in presenza di più difensori di fiducia dovrebbero ‘saltare’ dopo la riunione le nomine d’ufficio e comunque anche di alcuni difensori di fiducia, in applicazione della norma sul limite dei due soli difensori che possono assistere l’imputato nell’unico procedimento, quale diviene quello di più remota iscrizione che incamera gli altri. In ogni caso la riunione assegnerebbe uno o più difensori a procedimenti il cui contenuto è loro ignoto, con la necessità quantomeno di un differimento che per sé farebbe venire meno la condizione della riunione che, secondo l’art. 17, non deve determinare un ritardo nella definizione degli stessi).
Quando però l’imputato è assistito in tutti i procedimenti dal medesimo difensore, che ha quindi redatto e presentato tutti gli autonomi atti di appello, si realizzano le condizioni della piena conoscenza che nessun pregiudizio riceverebbe dalla riunione in unico procedimento.
In questo caso si pone una questione ulteriore, riguardante la modalità di applicazione dell’art. 19, norma che richiede che la riunione (come la separazione) sia preceduta dalla interlocuzione delle parti. Deve ritenersi che l’essere il medesimo difensore destinatario informato di tutti gli autonomi decreti di citazione per la medesima udienza lo metta nelle condizioni di interloquire anche sull’opportunità della riunione, divenendo irrilevante che poi in ipotesi nelle sue conclusioni scritte autonome per ciascun procedimento non vi sia un espresso richiamo al tema della riunibilità, posto che ciò che solo rileva è l’essere stato messo nella possibilità di concludere efficacemente ([39]).
8.2. Altra questione riguarda la rinnovazione istruttoria documentale quando appunto si procede inizialmente con rito cartolare.
8.2.1. In rito si danno due diverse situazioni: quando la documentazione di cui si chiede (nella prassi non sempre specificamente per il vero) ammissione e valutazione è allegata all’atto di appello; quando la stessa viene allegata alle conclusioni se non addirittura a memorie di replica.
Nel merito, poi, paiono due le possibili tipologie di documentazione: quella che ha effettiva valenza di prova (la prova documentale) quindi in grado di influire sulla deliberazione del punto della decisione devoluto da precedente singolo motivo specifico; quella che introduce aspetti di fatto idonei a influire su punti della decisione specifici relativi al solo trattamento sanzionatorio (su cui la eventuale parte civile mai potrebbe interloquire essendo nel giudizio solo per l’esercizio di un’azione civile) e, comunque, alla situazione personale, o cautelare, dell’imputato.
8.2.2. Innanzitutto è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che, sotto il profilo formale, l’acquisizione di una prova documentale nel giudizio di appello postula che la prova richiesta sia rilevante e decisiva rispetto al quadro probatorio in atti ([40]), mentre non è necessaria la formale ordinanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ([41]). L'acquisizione di documenti dev'essere operata dopo che al riguardo sia stato assicurato il contraddittorio fra le parti, con la sanzione, in caso contrario, della inutilizzabilità dell'atto ai fini della deliberazione, ai sensi dell'art. 526 comma primo cod. proc. pen. ([42]).
Ancora una volta, però, il rispetto del contraddittorio non comporta un autonomo incombente formale di effettivo confronto sul punto, ma impone che le parti siano poste in condizione di interloquire e far valere le loro ragioni in ordine all'assunzione di una prova: quindi conoscenza della richiesta di introduzione del documento e possibilità di interloquire, non effettiva interlocuzione specifica ([43]).
Quanto ai documenti costituenti prova documentale in senso tecnico, nessun problema di rispetto del diritto al contraddittorio pone il caso dell’allegazione del documento che si chiede di acquisire avvenuta con l’originario atto di appello. In questo caso, infatti, le altre parti che debbono o possono presentare le conclusioni sono nelle condizioni di aver conosciuto il contenuto dell’atto di impugnazione ed i suoi eventuali allegati, sicchè sono certamente stati messi nelle condizioni per potere concludere anche, o pur solo, su tale aspetto: che poi non lo facciano è irrilevante. Ciò sembrava potersi dire anche nel caso di richiesta contenuta nei motivi aggiunti ex art. 585, sempre che la stessa fosse pertinente ad uno dei punti della decisione devoluti con i motivi specifici originari (ma ora v. nota 44).
Quando i documenti costituenti prova vengano allegati alla memoria con le conclusioni e le richieste, la soluzione preferibile pare quella della loro inammissibilità: si è conclusa la fase delle richieste probatorie e delle allegazioni a sostegno dei motivi, fase che non può essere riaperta nella procedura cartolare modificando il quadro probatorio. Si tenga presente – ed è rilievo di ordine generale – che il rito cartolare deve caratterizzarsi per la tendenziale speditezza: chi intende riaprire l’istruttoria dibattimentale o comunque approfondire in necessario contraddittorio problematiche probatorie ha la via maestra ed agevole, fisiologica verrebbe da dire, della richiesta di trattazione orale, quindi non c’è alcun motivo sistematico di forzare l’estensione del rito cartolare a contraddittorio scritto ([44]). Per questo ogni situazione che per consentire l’ammissione imponga un differimento di udienza per integrare le condizioni del possibile contraddittorio dovrebbe tendenzialmente condurre all’originaria inammissibilità della richiesta per tardività non compatibile con il rito.
Anche questa volta quindi il problema va affrontato avendo attenzione al doveroso rispetto del diritto al contraddittorio in ordine all’acquisizione ed alla valutazione del documento. Nel caso di prova documentale la cui acquisizione è stata tempestivamente richiesta dovrà quindi procedersi al differimento del procedimento con passaggio alla trattazione orale in successiva udienza in presenza ([45]).
Per i documenti che si sottraggono ad un’esigenza di contraddittorio perché destinati a introdurre fatti situazioni e contesti utili alle valutazioni relative al trattamento sanzionatorio [su cui la parte civile, che esercita appunto solo un’azione civile, non può interloquire ([46])] non sussistono invece ragioni per pretendere limiti temporali anticipati rispetto alle conclusioni.
Vi è poi la situazione dell’imputato appellante che sia in misura cautelare, custodiale o meno, e colga, fisiologicamente, l’udienza di trattazione del suo appello come occasione per richiedere la rivisitazione del suo stato cautelare ([47]). Si pone il problema dell’interlocuzione con la persona offesa (costituita o meno parte civile) quando si stia procedendo per delitti che la richiedano: spesso la richiesta è infatti contenuta solo nelle conclusioni. Deve ritenersi che se l’appellante e la sua difesa non si sono per tempo attivati per far conoscere specificamente la loro istanza alla persona offesa, con rispetto dei due giorni successivi alla notifica per una loro eventuale memoria, nessuna deliberazione possa essere presa contemporaneamente alla deliberazione del dispositivo. In particolare, neppure sembra corretta la soluzione che sia sufficiente depositare le conclusioni, contenenti pure l’istanza, nei termini previsti per le stesse previsti: l’istanza di rivisitazione dello stato cautelare attiene infatti a situazione del tutto autonoma e diversa rispetto ai punti della decisione devoluti con gli originari motivi di appello, sicché non può sostenersi sussistere un onere di diligenza fisiologica della persona offesa costituita parte civile di acquisire conoscenza delle conclusioni dell’imputato per verificare che in esse non vi siano anche richieste cautelari.
8.3 Una questione particolare è quella del coordinamento tra i termini di presentazione delle conclusioni e la disciplina che gli artt. 107 e 108 danno nei casi di rinuncia, revoca, incompatibilità, abbandono, in ordine al termine a difesa, che deve essere non inferiore a sette giorni, spettante al nuovo difensore di fiducia o al difensore d’ufficio nominato dal giudice.
Due gli aspetti che vengono in rilievo.
Il primo si è posto con la disciplina emergenziale, che individuava in cinque giorni il termine per il deposito delle conclusioni della parte. Quando la nomina del nuovo difensore avveniva sei giorni prima, la tempestiva richiesta del termine a difesa avrebbe imposto al difensore revocato o rinunciante di presentare lui entro i cinque giorni le conclusioni.
Ma analogo problema si poneva nei casi in cui la rinuncia/revoca e la nomina del nuovo difensore fossero avvenute meno di sette giorni prima della scadenza del termine per concludere.
Con la nuova disciplina dei termini per concludere (quindici giorni dalla udienza) viene meno il problema del termine rispetto alla data dell’udienza, ma permane quello di una nomina del nuovo difensore che intervenga oltre il ventiduesimo giorno prima dell’udienza, quando il nuovo difensore chieda i termini a difesa.
In questa situazione dal punto di vista sistematico dovrebbe ritenersi che, quando la richiesta del termine a difesa presentata dal nuovo difensore sia stata tempestivamente comunicata al difensore revocato o rinunciante, nulla impedisca di ritenere operante il principio della permanenza dell’onere di difesa fino alla scadenza del termine assegnato al nuovo difensore (appunto art. 107, commi 3 e 4) in capo al precedente difensore, onerato pertanto della presentazione tempestiva delle conclusioni ([48]).
8.4. Ha invece già ricevuto soluzione appagante la questione del legittimo impedimento di difensore ed imputato in relazione all’udienza con contraddittorio cartolare in assenza.
Pacifica l’irrilevanza dell’impedimento dell’imputato (ha scelto il processo in assenza, non ha alcuna sua personale attivazione procedimentalizzata una volta che non abbia scelto la trattazione orale tramite il difensore), è irrilevante anche l’impedimento del difensore che non incida sul periodo immediatamente precedente la scadenza del termine per la presentazione delle conclusioni, in concreto impedendola ([49]).
9. La specificità estrinseca (581.1-bis) e lo spoglio preliminare
Nell’art. 581 è introdotto il comma 1-bis, volto a disciplinare la cd. specificità estrinseca, che può essere definita come la esplicita correlazione dei motivi di impugnazione con le ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata ([50]). In particolare, quindi, l’appello non può ignorare, o fuggire, il confronto argomentativo con le ragioni che il giudice ha esposto in sentenza per sostenere e spiegare la propria deliberazione sui singoli punti della decisione. Ovviamente questo confronto è proporzionale all’impegno argomentativo del giudice: quanto meno la statuizione su un punto della decisione è argomentata, tanto minore è l’onere di confronto argomentativo dell’appellante.
Chiaro il senso del requisito della specificità estrinseca: dare necessaria serietà all’atto di impugnazione, innalzandone la qualità e indirizzandolo verso una ricostruzione del giudizio di appello non “giudizio a tutto campo” ma “controllo sul giudizio” ([51]). Il nostro appello penale non è un gravame, tantomeno attribuente al giudice del grado successivo la possibilità di spaziare in una rivisitazione autonoma del primo giudice, officiosa e senza limiti (come, ad esempio, è nel riesame o nell’opposizione a decreto penale). E’ invece contestazione e critica del dispositivo di primo grado in relazione al contenuto degli atti processuali. Se quel dispositivo, nelle sue articolazioni, è sorretto da motivazione a sua volta specifica, sarebbe sistematicamente irragionevole consentire all’appellante di prescindere del tutto dal confronto argomentativo con le ragioni esposte dal giudice quale base necessaria della sua deliberazione: la richiesta di controllo del giudizio e sua conseguente rivisitazione che ignori le ragioni spiegate per fondare quel giudizio introduce generalmente ad una mera perdita di tempo.
Si è criticata una sorta di cassazionalizzazione dell’appello: ma è critica fuorviante, il controllo richiesto è innanzitutto controllo di merito del punto della decisione devoluto dal singolo motivo specifico; il confronto tra le argomentazioni della sentenza e le argomentazioni del motivo, sul singolo punto della decisione devoluto, può essere solo momento di partenza del lavoro del giudice d’appello, non lo esaurisce. Il giudice di cassazione confronta sentenza impugnata e motivo di ricorso; il giudice di appello confronta dispositivo e contenuto probatorio e procedimentale (secondo che il motivo censuri il merito o il rito) ed esprime apprezzamenti, “vaglia i discorsi narrativi” ([52]).
Alla specificità estrinseca si affianca la cd. specificità intrinseca: la richiesta non può essere sorretta da considerazioni generiche o astratte, o comunque non pertinenti al caso concreto, buone per tutti i casi e quindi specifiche per nessuno; occorre indicare un percorso logico-giuridico, degli elementi di fatto di quel singolo caso e di quello specifico imputato, delle considerazioni potenzialmente idonee (quando fondate) ad indirizzare effettivamente la decisione verso la riforma sollecitata dalla singola richiesta. Accertatane la presenza grafica, poi il giudice d’appello valuterà se quel percorso è idoneo o se da esso può muovere un anche diverso percorso che conduce al medesimo risultato richiesto nelle conclusioni dell’atto di appello.
Entrambe sono necessarie per determinare la specificità ([53]), e quindi l’ammissibilità, del singolo motivo che sostiene la singola richiesta di riforma.
Il testo della norma muove dal richiamo espresso alla mancanza di specificità dei motivi e abbina l’obbligo di enunciare in forma “puntuale ed esplicita” i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto ad ogni richiesta. Non pare pertanto che possa sorgere incertezza sul fatto che il riferimento all’esigenza di specificità sia solo alla lettera d) del primo comma dell’art. 581 ed alla lettera c) per i casi in cui la richiesta anche istruttoria abbia dato vita ad un motivo autonomo di contestazione di contraria deliberazione nel primo giudizio. Del resto, l’attuale comma 1 dell’art. 581 già prevede l’inammissibilità per la mancata enunciazione specifica dei requisiti indicati dalle altre lettere.
9.1. Il concetto di punto della decisione è essenziale nel giudizio di appello: delinea infatti l’ambito di ciò che concretamente e solo è devoluto al giudice del secondo grado di merito (597.1: “l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti”) e conseguentemente della parte di motivazione con cui l’appellante si deve confrontare ([54]).
Ogni volta che si parla di specificità del motivo di appello occorre dunque avere chiara la nozione codicistica di punto della decisione, chiarita e ribadita da almeno tre sentenze delle Sezioni Unite: 1/2000, Tuzzolino; 10251/2007, Michaeler; 8825/2017, Galtelli (2.2): “tutte le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione necessarie per ottenere una decisione completa su un capo” ([55]).
9.2. L’aspecificità del motivo è quindi cosa diversa dalla sua eventuale manifesta infondatezza ([56]). Nel giudizio di appello, differentemente dal giudizio di cassazione, appunto solo la prima porta all’inammissibilità del motivo, rilevabile d’ufficio e anche con mera ordinanza de plano.
9.3. Il giudizio di appello è infatti giudizio di merito. Quindi, differentemente dal ricorso per cassazione, non è inammissibile il motivo che, purché (estrinsecamente ed intrinsecamente) specifico, riproponga questioni già prospettate al primo giudice e da quello motivatamente disattese ([57]). Perché l’apprezzamento del secondo giudice su quelle stesse questioni può essere diverso, e può condividere nel merito valutazioni non condivise dal primo giudice (si pensi al tema dell’adeguatezza della pena, punto della decisione dove la logica può sorreggere un’indicazione, salvandola dall’illogicità manifesta, ma per sé mai può spiegare esaustivamente perché tra il minimo e il massimo sarebbe giusta unicamente una determinata pena posta all’interno della forbice edittale).
9.4. Il principio di diritto che afferma la nozione di specificità estrinseca è stato affermato dalle Sezioni Unite Galtelli vigendo il testo originario degli artt. 581 e 591. Pertanto, è contenuto proprio già della originaria nozione codicistica di specificità ([58]) e di fatto costituisce diritto vigente perché giurisprudenza consolidata. Ciò vale ad escludere la fondatezza di alcuna deduzione di illegittimità della dichiarazione di inammissibilità del motivo di appello per aspecificità estrinseca per gli atti di appello depositati prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo 150/2022: la si dichiarava prima, si continua a dichiararla dopo il decreto, per tutti gli atti di appello, quale che sia la data del loro deposito. Sostanzialmente, l’inserimento del comma 1.bis nell’art. 581 può qualificarsi mera norma di interpretazione autentica, la cui emanazione ‘non sorprende’ alcuno .
9.5. Per completezza, due sono gli effetti dell’inammissibilità del motivo per aspecificità estrinseca.
Innanzitutto la sua rilevabilità già in sede di spoglio preliminare dei fascicoli quando pervengono in corte di appello dal primo grado (con la conseguente definizione del procedimento con ordinanza de plano secondo l’art. 591), nel caso in cui l’atto di appello contenga quel solo motivo ovvero quando tutti i motivi siano così viziati (conseguenza: tempestiva ordinanza di inammissibilità dell’appello). Quando invece l’atto di appello contenga anche motivi ammissibili, l’inammissibilità del singolo motivo per aspecificità estrinseca permane e va rilevata in sede di camera di consiglio e conseguente motivazione della sentenza su quel punto della decisione, dovendo questa limitarsi a darne atto senza alcun ulteriore onere di argomentazione diversa dalla spiegazione succinta delle ragioni della genericità ([59]).
10. Il recupero del principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale: quando l’azione penale si è esaurita, quale ne sia la ragione, l’azione civile prosegue davanti al giudice civile
È indubbio che una delle più rilevanti innovazioni introdotte dal d. lgs.150/2022 sia la disciplina della sorte dell’azione civile, esercitata nel processo penale, una volta che l’azione penale si esaurisca, quale ne sia la ragione (proscioglimento, per assoluzione o estinzione del reato, non impugnato dalla parte pubblica; ora, anche improcedibilità per decorso dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione ex art. 344-bis; impugnazione dei soli capi civili: 573.2): il giudice dell’impugnazione penale (appello o cassazione) rinvia al giudice civile competente per lo stesso grado, il quale decide sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile.
Quindi, non un nuovo giudizio, ma la prosecuzione del precedente che giungerà al giudice civile (giudice o sezione civile competente) attraverso la riassunzione della parte interessata.
10.1. Può muoversi dalla sentenza n. 176/2019 della Corte costituzionale: investita della richiesta di dichiarare non più costituzionalmente legittima (sostanzialmente per sopravvenuta irrazionalità) la previsione dell’art. 576 secondo cui l’appello della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento, quando la sentenza risulta all’esito del decorso dei termini pertinenti impugnata solo dalla parte privata e pertanto il giudizio di appello riguarda ormai solo la pretesa civilistica, deve essere trattato dal giudice penale anziché dal giudice civile, la Corte dichiarava infondata la questione (pur confermando la natura solo accessoria dell’azione civile nel processo penale) e indicava nell’azione del legislatore i rimedi alle disfunzioni sistematiche ([60]).
Ora il legislatore è intervenuto.
Rimane fermo il potere di impugnazione della parte civile (disciplinato dall’intonso art.576) avverso i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, avverso la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio (anche abbreviato quando la parte civile abbia accettato quel rito a prova contratta) ([61]).
Ma quando la sentenza, scaduti i termini per impugnare, risulta impugnata per i soli interessi civili [dalla parte civile ma pure dall’imputato ([62])] il nuovo comma 1-bis dell’art. 573 dispone che il giudice penale prima valuti l’ammissibilità dell’appello (o del ricorso se in Cassazione) e poi, in caso di ritenuta ammissibilità, “rinvii per la prosecuzione” al giudice civile o (se corte di appello o di cassazione) alla sezione civile del medesimo Ufficio giudiziario (tabellarmente) competente.
Questa (valutazione preliminare dell’ammissibilità dell’impugnazione e, se esito positivo, rinvio al giudice o alla sezione civile competente) è la soluzione anche nei casi di dichiarazione di improcedibilità per decorso dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione (art. 578.1-bis in relazione all’art. 344-bis).
10.2 Due i principali non semplici problemi in rito.
10.2.1 Il primo si articola in due questioni: la tipologia di provvedimento con il quale il giudice penale rinvia a quello civile e il rito per deliberarlo.
Va premesso che l’inammissibilità dell’impugnazione ai soli fini civili deliberata dal giudice penale viene senz’altro dichiarata con ordinanza de plano, perché non vi è deroga specifica rispetto alla disciplina generale dell’art. 591.2.
Per il provvedimento di rinvio al giudice civile, quando invece l’appello è originariamente ammissibile, la soluzione parrebbe dover essere diversa secondo che si proceda ai sensi dell’art. 578.1-bis o dell’art. 373.1-bis.
10.2.1.1 Nel primo caso la statuizione di rinvio deve essere contenuta nel provvedimento che dichiara l’improcedibilità, trattandosi di statuizioni contestuali. Ed allora il provvedimento non pare poter essere che la sentenza, atteso che la dichiarazione di improcedibilità vanifica e sostituisce la sentenza di primo grado ([63]).
10.2.1.2 Nel secondo caso il provvedimento di rinvio parrebbe dover essere adottato con ordinanza.
Perché, irrevocabili le statuizioni ai fini penali (proscioglimento definitivo, condanna irrevocabile subito eseguibile), per le statuizioni civili si tratta – volontà esplicita del legislatore cui anche la giurisprudenza di legittimità dovrà adeguarsi, perché tradottasi in norma di legge – di un rinvio per la prosecuzione del medesimo giudizio, appunto trattato in sede penale in primo grado e da trattarsi (quando l’impugnazione è stata valutata ammissibile) nei gradi successivi in sede civile. La lettera delle norme (573.1-bis, 578.1-bis) è inequivoca. Ed è confermata dal fatto che il giudice civile che poi decide nella sede propria deve utilizzare le prove acquisite nel processo penale, insieme con quelle eventualmente acquisite nel giudizio di impugnazione (o rinvio).
10.2.2. La seconda questione in rito è se la deliberazione per il rinvio debba essere adottata in udienza aperta al contraddittorio, almeno cartolare, delle parti ovvero, quantomeno nella situazione procedimentale ex art. 373.1-bis, con provvedimento de plano.
Effettivamente, nel caso ex art. 578.1-bis la contestualità con la sentenza di improcedibilità rende la soluzione dipendente da quella, più generale, che riguarda le modalità di dichiarazione dell’improcedibilità. Sul presupposto della necessità in tal caso di un provvedimento/sentenza, il fatto che l’improcedibilità sia rinunciabile e che la prima occasione procedimentale fisiologica che l’interessato ha per esprimere la propria volontà di rinuncia coincide con il momento della dichiarazione di improcedibilità rende preferibile la soluzione della fissazione di un’ordinaria (maxi…) udienza cartolare, che del tutto verosimilmente vedrà singole trattazioni in presenza per i soli casi di volontà di rinuncia all’improcedibilità o di ragionevole timore di una dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione da contrastare con contraddittorio in presenza.
10.3. Il secondo problema riguarda modalità e contenuto della riassunzione davanti al giudice civile, nonché l’individuazione delle regole di giudizio del processo “rinviato” “per proseguire”, una volta riassunto davanti al giudice civile ([64]).
Dovendosi escludere il materiale passaggio del fascicolo integrale del processo penale al giudice civile (essendo da tutti escluso che quest’ultimo debba applicare il rito penale), la soluzione necessaria pare quella della riassunzione a mezzo atto di citazione (art. 392 cod. proc. civ., da ultimo richiamato anche dalle Sezioni Unite penali 22065/2021 Cremonini).
La questione se il giudizio davanti al giudice civile dopo il rinvio disposto dal giudice penale costituisca la prosecuzione del medesimo processo o un nuovo giudizio civile appare in buona parte solo nominalistica. Le stesse SU Cremonini (in particolare i paragrafi 17.1, 17.5 e 18) e, prima, le SU penali sent. 46688/2016, Schirru (sulla sorte della parte civile in caso di sopravvenuta irrilevanza penale del fatto per cui si procedeva) hanno argomentato sulle conseguenze del passaggio conseguente al rinvio, in termini di rito, materiale probatorio da porre a base della decisione, regole di valutazione delle prove, tutela delle aspettative di chi esercita l’azione civile nel processo penale e, specularmente, dell’imputato nei cui confronti viene esercitata l’azione civile in quella sede, indicando anche la possibilità e la rilevanza della emendatio libelli nella citazione in riassunzione. Quegli insegnamenti non sono incoerenti al concetto di “prosecuzione” contenuto nella nuova disciplina (373.1-bis e 578.1-bis). E’ infatti certo che il processo civile dopo il rinvio non è un processo che può ignorare quanto accaduto nel processo penale che si è chiuso per la definizione della relativa azione, quindi un processo che riparte sostanzialmente ‘da zero’: il materiale probatorio acquisito nel processo penale entra a far parte del compendio probatorio del giudice civile, insieme a quello eventualmente acquisito in quella nuova sede; il giudice civile deve utilizzarlo, ancorché con libertà di apprezzamento e pur non dovendo applicare le regole processuali penalistiche ([65]); la parte interessata ad attivare la riassunzione dopo il rinvio ha nell’atto di citazione la possibilità di emendare la propria impostazione in ragione dell’art. 2043 cod. civ. rispetto al diffuso sostanziale automatismo del richiamo all’art. 185 cod. pen.. Di ciò chi sceglie di esercitare l’azione civile nel processo penale è quindi avvertito.
Ancor più ora è avvertito, visto che il legislatore espressamente lo allerta con l’introduzione di un importante, essenziale, inciso nell’art. 78.1 lett. d): aver infatti prescritto che la dichiarazione di costituzione deve contenere l’esposizione delle ragioni che giustificano la domanda “ai fini civili” risponde esplicitamente all’intento di assicurare un espresso allertamento, fin dall’ingresso nel processo penale, di quale potrebbe essere l’esito del procedimento, con un passaggio ad altro giudice e con regole in parte diverse, nel caso in cui l’azione penale si esaurisse senza la contestuale definizione della pretesa civilistica ([66]).
Problematiche peculiari sono poi poste per l’impugnazione del solo responsabile civile, che dall’art. 575 è legittimato in proprio all’impugnazione contro le disposizioni della sentenza riguardati la responsabilità dell’imputato e contro quelle relative alle restituzioni, al risarcimento del danno e alla rifusione delle spese processuali ([67]).
10.4. Certo, queste problematiche generali che le novità normative inducono (specialmente per i casi del solo appello di parte civile avverso le sentenze di proscioglimento e dell’improcedibilità dichiarata in processo dove è presente la parte civile) impongono, altresì e comunque, un ripensamento dell’approccio di giudici e avvocati alla tematica risarcitoria nel processo penale.
È così necessario innanzitutto che il giudice rifletta su una maggiore e migliore applicazione del proprio potere di deliberare una statuizione potenzialmente definitiva dell’azione civile già dal primo grado, limitando le liquidazioni generiche ai casi in cui ciò è inevitabile ed assicurando, in quelle ipotesi, un accorto impiego dell’istituto della provvisionale, acquisendo sempre maggiore esperienza nella capacità di indicare autorevolmente alle parti, con una saggia provvisionale, una somma effettivamente idonea a guidare le parti private ad accordi transattivi prima dell’esaurimento dei successivi gradi di giudizio.
In secondo luogo, per il difensore, appare importante l’abbandono di una prassi diffusa di inerte accodarsi a quel che fa, o si auspica faccia, il pubblico ministero, alle clausole di stile per la costituzione di parte civile e per le richieste pertinenti, ponendo invece una particolare attenzione ad introdurre tempestivamente elementi fattuali e prove pertinenti la propria domanda civile e, al momento della presentazione delle conclusioni, non solo alla migliore e più completa loro formulazione (la provvisionale non può essere assegnata se non è espressamente richiesta…; così è pure per la provvisoria esecuzione della liquidazione definitiva), ma anche alla loro realistica adeguatezza economica.
10.5. È utile anche evidenziare che la successione delle giurisprudenze penale e civile sul rapporto tra i due settori (di cui si dà particolare conto nella nota n. 64) ed i loro contrasti ripropongono l’attualità di un problema ordinamentale particolarmente delicato: la necessità della espressa previsione di casi rimettibili alle Sezioni Unite in composizione mista (civile e penale) per evitare contrasti insuperabili tra i due settori, con grave conseguenza sul ruolo nomofilattico dell’Istituzione Corte di cassazione ma, pure, sulla sua autorevolezza.
10.6. Appare infine opportuno segnalare un ulteriore peculiare aspetto, attinente sempre al versante organizzativo, che interessa in particolare le corti di appello. Invero, inevitabilmente, un conto è che l’esito del ‘rinvio’ avvenga con destinazione ad un ufficio diverso. Tutt’altro è il caso della gestione dell’istituto dell’improcedibilità per decorrenza dei termini di trattazione dell’appello quando nel procedimento sia presente la parte civile: qui il rinvio avviene all’interno del medesimo ufficio. Certamente non ultroneo sarebbe allora porsi tempestivamente il tema dell’apporto che i magistrati addetti al settore civile potrebbero utilmente dare al settore penale, nel contesto di un’intelligente organizzazione di udienze dedicate, per consentire la definizione ‘nei termini’ del maggior numero di procedimenti penali nei quali è stata esercitata l’azione civile (così ottenendosi il duplice risultato positivo della decisione nel merito, e non in rito, di entrambe le azioni, penale e civile).
11. Il probabile rilevante impatto sul giudizio di appello delle novità in materia di sanzioni
Da ultimo, deve qui pur solo accennarsi al rilevante impatto che sul giudizio penale di appello potrebbero avere le importanti novità in tema di trattamento sanzionatorio introdotte dagli artt. 1 (inserimento dell’art. 20-bis cod. pen., pene sostitutive di pene detentive brevi, e 95; modifica dell’art. 131-bis); 2 e 3 (introduzione della procedibilità a querela e modifiche del trattamento sanzionatorio per numerosi reati); 90 (in relazione all’aumento dei reati per i quali si può richiedere la messa alla prova: art. 169-bis cod. pen. e nuovo 550.2).
Dato per scontato che tutte le pene sostitutive, in quanto migliorative della pena detentiva, possano trovare applicazione, ed anche d’ufficio, ai giudizi pendenti, non vi è dubbio che le incombenze [545-bis] relative in particolare alla messa alla prova, alla semilibertà ed al lavoro di pubblica utilità poco si concilino con la struttura del rito cartolare eventualmente pendente. Appare anzi prevedibile che, in mancanza della richiesta della parte interessata, siano le corti di appello a dover attivare il rito in presenza, più coerente ed efficace al contatto costruttivo che tali istituti in realtà pretendono tra giudice, parti, servizi dedicati.
In ogni caso, occorre riflettere sull’impatto che una procedura che prevede necessariamente più contatti tra parti e giudice determinerà nella gestione delle modalità di fissazione e trattazione dei ruoli di appello, giudizio che tendenzialmente si dovrebbe caratterizzare per la trattazione in unica udienza con sola discussione e immediata decisione. Occorre quindi approfondire anche il tema della eventuale configurabilità, in appello, di un aggiuntivo possibile peculiare requisito di specificità di richieste e programmi in tema di pene sostitutive e della necessaria tempestiva diligente attivazione della parte interessata, il rito d’appello non tollerando sistematici rinvii sostanzialmente esplorativi ([68]).
12. Questioni dalla (infelice) disciplina transitoria
Sono opportune due premesse.
12.1.1 La prima. Le modifiche alla disciplina dei giudizi di impugnazione sono contenute negli artt. 33, 34 e 35 del d. lgs. 150/2022. Il primo riguarda le norme generali sulle impugnazioni, il secondo il giudizio di appello, il terzo il giudizio di cassazione.
In particolare l’art. 33 interviene sugli articoli 573, 578, 581, 582, 585, 589, 591; introduce il nuovo art. 578-ter (poi, l’art. 98 abroga il 583 e il 582.2).
L’art. 34 interviene sugli artt. 593, 595, 599, 599-bis, 601, 602, 603, 604; introduce i nuovi artt. 598-bis e 598-ter.
12.1.2. La seconda. L’art. 94.2, nel testo originario, prevedeva una disciplina transitoria solo per alcune delle innovazioni introdotte dall’art. 34, differendone l’entrata in vigore al 31/12/2022 (la Gazzetta ufficiale che ha pubblicato il d. lgs. 150/2022 reca la data del 17/10/2022, con entrata in vigore secondo il termine ordinario dei 15 giorni, quindi al 01/11/2022).
Il d.l. 31/10/2022 n. 162 ha successivamente disposto che l’intero provvedimento entrasse in vigore il 30/12/2022. Da questa data quindi sono in vigore tutti gli interventi normativi operati dagli artt. 33 e 98.
12.2. Quindi, primo rilievo, le innovazioni relative agli artt. 573, 578, 581, 582, 585, 589, 591, il nuovo art. 578-ter e l’abrogazione degli artt. 583 e 582.2 non sono oggetto di differimento rispetto al termine ordinario, entrando subito in vigore.
12.3. Quanto all’art. 34, il testo originario dell’art. 94, comma 2 disponeva il differimento al 31/12/2022 degli interventi sugli artt. 598-bis, 599, 599-bis, 601.2, 601.3 e 601.5, 602.1. Si trattava, si noti, della sola disciplina che regolamenta la gestione del nuovo giudizio cartolare ordinario, anche nell’innesto della richiesta di trattazione orale e della presentazione dell’accordo per l’accoglimento di uno o più motivi con eventuale rinuncia ad altri.
Chiaro pertanto il senso complessivo dell’intervento: il “sistema” accesso al nuovo cartolare (inteso nella sua ampia e completa articolazione: anche passaggio alla trattazione orale e accesso e definizione con il concordato) viene differito, il resto entra in vigore.
12.4. La legge n. 199 del 30/12/2022 (pubblicata sulla ormai frequenta Gazzetta ufficiale notturna, nel caso la 304 di pari data) ha mantenuto la differenza temporale: in vigore le innovazioni dell’art. 33 al 30/12/2022; il nuovo cartolare opera per gli atti di appello che saranno depositati dal 01/07/2023.
Ha però scelto un’altra via espositiva. Anziché richiamare le singole norme codicistiche, ha richiamato, decretandone la proroga, alcune norme della disciplina del cartolare emergenziale, in particolare gli artt. 23, commi 8, primo secondo terzo, quarto e quinto periodo (per il giudizio di legittimità), 23, comma 9 (camere di consiglio anche con collegamenti da remoto, applicabile anche alla deliberazione della corte di appello ex art. 23-bis, comma 3, pure espressamente richiamato), 23-bis, commi 1 (cartolare salvo richiesta di trattazione orale), 2 (disciplina dei termini, emergenziale), 3 (appunto possibilità di camera di consiglio con collegamenti individuali da remoto), 4 (modalità di richiesta della trattazione orale) e 7 (applicabilità del rito cartolare emergenziale anche ai procedimenti di appello per le misure di prevenzione ed agli appelli cautelari, reali 322-bis e personali 310) [[69]].
Stanno così sorgendo dubbi sulla doverosità di applicare subito, almeno parzialmente, alcune delle norme, o loro porzioni, che erano richiamate dall’art. 94.2 nella stesura originaria, tra quelle modificate o introdotte dall’art. 33.
Si sostiene così, ad esempio, che, in vigore subito gli artt. 601, comma 5, e 599-bis, comma 1, le rispettive previsioni del termine a comparire di quaranta giorni e di quindici giorni prima dell’udienza per la presentazione del concordato dovrebbero comunque trovare immediata applicazione.
Insomma, per transitare i processi dal cartolare emergenziale al nuovo cartolare ordinario il legislatore avrebbe scelto di operare il passaggio dando, intanto, vita ad un terzo genus, un ibrido che apporterebbe al cartolare emergenziale alcuni pezzi delle novità del nuovo cartolare ordinario. A ciò, si dice, condurrebbe la interpretazione letterale delle nuove norme, chirurgicamente lette dopo aver tolto ciò che, e solo, è espressamente disciplinato nella porzione di art. 23.9 e 23-bis espressamente richiamata dall’ultima edizione dell’art. 94.2.
12.5. La soluzione esposta è palesemente priva di alcun senso sistematico, il che deve indurre l’interprete a disattendere l’interpretazione letterale chirurgica irrazionale che la sostiene.
Muoviamo dal commento alla prima proposta di modifica al testo originario dell’art. 94 del decreto legislativo 150/2022, operato dalla relazione illustrativa. Questa spiegava con estrema chiarezza che la disciplina transitoria era prevista per coordinare l’applicazione delle nuove disposizioni sull’udienza non partecipata in appello con le disposizioni “emergenziali” attualmente in vigore ed efficaci fino al 31 dicembre 2022, dettate al medesimo scopo. Dava atto che al cessare del periodo di efficacia delle disposizioni “emergenziali” sul giudizio “cartolare” in appello e cassazione, avrebbero trovato applicazione le nuove disposizioni, non del tutto sovrapponibili a quelle precedenti, ma comunque improntate allo snellimento procedurale, con elezione a modello generale di udienza quella “non partecipata” e che, a seguito del differimento dell’entrata in vigore del d.lgs. 150/2022, la cessazione dell’efficacia del modello emergenziale viene esattamente a sovrapporsi all’entrata in vigore del nuovo regime. In tale contesto si rendeva necessaria una disciplina transitoria, perché “il nuovo modello di udienza non partecipata implica la preventiva adozione di un decreto di citazione con determinati avvisi e requisiti, che sono rimodulati diversamente i termini entro i quali le parti hanno l’onere di richiedere la partecipazione in udienza e, per il giudizio di appello, per la notifica alle parti sono introdotti termini dilatori più ampi di quelli precedentemente previsti, è indispensabile dettare una disciplina transitoria che chiarisca le modalità di transizione dal precedente regime a quello nuovo”.
Da qui, tra l’altro, la soluzione della individuazione della proposizione dell’atto di impugnazione quale atto del procedimento che individua il presupposto del passaggio dal cartolare emergenziale al nuovo cartolare disciplinato dal d.lgs. 150/2022.
Quindi, la volontà del legislatore della transizione è inequivoca: cambiano i decreti di citazione ed i termini, l’immediato passaggio determinerebbe stasi nella fissazione dei processi o nella loro celebrazione.
È pertanto evidente, e comunque espressamente dichiarato, che si tratta di passaggio tra due sistemi che ruotano su termini e relazioni tra le parti differenti, due ‘pacchetti’ che sono però omogenei al loro interno: l’intento è il passaggio diretto, è quindi privo di senso sistematico, e contrario alle dichiarate intenzioni del legislatore, giungere ad un terzo sistema, ibrido e palesemente irrazionale.
I due ’pacchetti’ hanno infatti logiche stringenti nella relazione tempi/facoltà da esercitare, tra loro in parte diverse: i quaranta giorni, rispetto ai venti giorni, hanno senso solo perché sono aumentati i termini dall’udienza entro i quali presentare le conclusioni e perché per la richiesta di trattazione orale ha termine che decorre dalla notifica/avviso e non più dalla data di udienza. L’interpretazione che vorrebbe scorporare i quaranta giorni del nuovo applicandoli all’emergenziale non trova logica razionale, se non una lettura chirurgica che è però già essa stessa scelta di lettura sistematica che non trova sistema di riferimento. Associare il termine di quindici giorni dall’udienza per la presentazione dell’accordo di concordato al cartolare emergenziale, sganciandolo però dall’articolata disciplina del passaggio alla trattazione orale, non prevista dalle norme emergenziali pur richiamate, impone analogo apprezzamento (e oltretutto, nel già originario silenzio della disciplina emergenziale sulla gestione del 599-bis, inventa un termine gravoso rispetto alla situazione precedente che di fatto consentiva di proporre il concordato fino al giorno prima dell’udienza o ai cinque giorni previsti per il deposito delle conclusioni delle parti private: termine che, invece, ha piena coerenza nel nuovo, e solo nel nuovo, sistema, dove tutti concludono entro i quindici giorni prima dell’udienza, perché hanno avuto notizia del processo almeno 25 giorni prima).
Anche l’asserzione che il sistema emergenziale non comprendeva il termine a comparire di venti giorni, evinto dalla disciplina codicistica precedente, è del tutto asistematica: tutti i termini del cartolare emergenziale hanno come presupposto di partenza il termine a comparire di venti giorni, che costituisce quindi parte integrante del sistema prorogato.
In altri termini: non c’è spazio né ragione sistematica per un’interpretazione che si risolva nel creare un terzo genere di cartolare oltre il ‘vecchio’, emergenziale per gli appelli proposti fino al 30 giugno 2023, il ‘nuovo’ per le impugnazioni depositate dal 01/07/2023.
12.6. Il legislatore ha, come visto, scelto la presentazione dell’atto di appello quale atto del procedimento che àncora temporalmente il passaggio al processo cartolare ordinario.
Sia permesso dire che si tratta di una scelta quantomeno inaccorta.
Avere ancorato il momento dirimente alla data di presentazione dell’atto di appello anziché al momento di spedizione del decreto di citazione consegna al rito cartolare emergenziale tutta la pendenza alla data del 30 giugno 2022. La conseguenza è che quel rito continuerà ad essere applicato per alcuni anni (da tre ad almeno sei, attese le pendenze di alcune corti di appello) e, conseguentemente, probabilmente da settembre/ottobre 2023 per alcuni anni coesisteranno due diversi riti cartolari, quello emergenziale e quello della Riforma. Due cartolari con diversità di termini, facoltà e oneri, che si applicano contemporaneamente, determineranno sicuramente errori e incertezze, una confusione che ragionevolmente coinvolgerà innanzitutto la classe forense e, conseguentemente, i diritti delle persone interessate al processo, per la tutt’altro che improbabile falcidia da inammissibilità che la prolungata concorrenza dei due diversi regimi rende certo non solo ipotetica.
Avrebbe dovuto essere scelta, per evidenti ragioni sistematiche, la soluzione che consentiva la più anticipata partenza generalizzata del nuovo rito, che è divenuto quello ordinario: se si fosse scelto il parametro della data di emissione dei decreti di citazione, i nuovi decreti di citazione avrebbero potuto essere emessi anche sulla pendenza, senza pregiudizio (perché vi è solo rivisitazione dei tempi ma le facoltà rimangono le stesse), ed in tempi brevi (pochi mesi) il doppio regime sarebbe stato definito. E’ davvero auspicabile un ripensamento tempestivo sul punto.
12.7. Fortunatamente è stata prevista, per il deposito di impugnazioni e atti/istanze varie, la prosecuzione dell’invio dalle pec dei difensori alle pec dedicate degli uffici, già in uso. Viene così evitata la situazione, francamente irragionevole, del deposito cartolare solo presso la cancelleria del giudice a quo, che si prospettava in relazione all’abrogazione degli artt. 582.2 e 583.
12.8. In definitiva, ed in prima approssimazione.
Immediata applicazione delle abrogazioni (tra cui quelle importanti del 599-bis.2, 582.2, 583) e delle norme introdotte o modificate dall’art. 33 (tra cui il rinvio al giudice civile degli appelli di sola parte civile o sulle sole statuizioni civili, ex art. 573).
Prosecuzione del cartolare emergenziale nei termini finora applicati per tutti i procedimenti nel quale il primo atto di appello sia stato depositato prima del 30/06/2023. Primi decreti di citazione, e processi, con il nuovo cartolare ordinario per i procedimenti in cui il primo atto di appello sia stato depositato dal 01/07/2023.
Per il nuovo cartolare ordinario, quindi, se ne parlerà non prima di ottobre novembre di questo nuovo anno.
[1] È forse più che simbolico il fatto che uno dei primi atti della nuova esperienza di governo sia la introduzione di un nuovo reato, con l’art. 633-bis (legge 199/2022).
[2] Tema da approfondire rimane quello della rilevanza di questa nuova regola decisoria sulla configurabilità della gravità indiziaria quale presupposto di applicazione delle misure cautelari.
[3] L’inappellabilità opera anche per gli appelli delle sole parti civili avverso le sentenze di proscioglimento, determinandone inammissibilità assorbente rispetto al (nuovo) rinvio al giudice civile [573.1-bis]: si pensi, solo esemplificativamente, ai reati ex artt. 570.1 e 570-bis o 388, commi 1 e 5, e 328.2 cod. pen..
L’art. 88-ter del decreto legislativo 150/2022, nel testo finale modificato dalla legge 199/2022 prevede che le nuove inappellabilità connesse alla modifica dell’art. 428 operino per le sole sentenze deliberate dopo la data di entrata in vigore del decreto (quindi 01/01/2023). Non pare esservi il richiamo esplicito anche alle nuove inappellabilità introdotte dalla sostituzione del comma e dell’art. 593. Mentre l’omissione ha ragione sistematica nel fatto che la pena sostitutiva riguarderà solo le sentenze future, per le sentenze di proscioglimento non se ne coglie con immediatezza la ragione: deve ritenersi che la soluzione non possa essere diversa perché, nel silenzio del legislatore, solo l’interpretazione che parifica le due situazioni risulta coerente a razionalità costituzionale, la differenza strutturale tra improcedibilità e giudizio non parendo idonea a giustificare questa differenza. Sul tema non si rinvengono spunti utili nel la pregevole relazione dell’Ufficio del massimario (n. 68/22 del 07/11/2022, p. 58 s.).
[4] In realtà per la parte civile le notificano avvengono già sempre presso il difensore: art. 154.4. Anche per responsabile civile e civilmente obbligato per l’ammenda l’impugnazione ne presuppone l’avvenuta costituzione (84, 89.2). Rimarrebbe il querelante condannato alle spese (576.2).
[5] Gli artt. 157-ter e 161.4 (modificato dall’art. 10.1 lettere ‘l’ ed ‘o’ n. 6) indicano gli effetti di tale dichiarazione o elezione. Si ricordi che l’art. 157.8-bis è stato espressamente abrogato: art. 98.1, lett. a, d. lgs. 150/2022).
[6] Il codice prevedeva originariamente lo specifico mandato per l’impugnazione della sentenza contumaciale, tuttavia rilasciato con la nomina o anche successivamente nelle forme per esso previste [571, comma 3, seconda parte]. La previsione venne esclusa dall’art. 49 della legge 479/1999. E’ interessante rilevare che la ragione addotta nei lavori parlamentari dalla Relazione fu di consentire la possibilità dell’impugnazione della sentenza contumaciale anche al difensore d’ufficio, oltre che al difensore di fiducia, operando la soppressione dell’ultima parte del comma 3 dell’articolo 571 del codice di procedura penale, in base alla quale il difensore può proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale solo se munito di apposito mandato. Non venne quindi, apparentemente, messa in discussione la coerenza sistematica del principio che il difensore di fiducia per impugnare le sentenze contumaciali dovesse munirsi di un mandato speciale, ma si ritenne che ciò finisse per discriminare potenzialmente i difensori di ufficio, per i quali l’acquisizione di un mandato speciale, sia pure limitato alla legittimazione ad un atto di impugnazione altrimenti inibito (mandato che, pertanto, poteva non modificare la natura ufficiosa dell’assistenza legale), appariva difficoltosa. Si tenga conto che l’intervento normativo avviene prima dello sviluppo del contrasto tra Sezioni Unite (sent. 6026/2008) e Corte costituzionale (sent. 317/09), di cui si da subito conto nel testo (par.3.1.2).
[7] G. Biondi in Il giudizio di appello penale dopo la “Riforma Cartabia”, in Giurisprudenza penale web, 2022,12, p.8. Si veda per tutte Cass. Sez. 5, sent. 10697/2021.
[8] In via transitoria (nuovo art. 87-bis del d. lgs. 150/2022 come modificato dalla legge 199/2022) potrà proseguire il deposito a mezzo pec agli indirizzi dedicati attualmente in uso. Soluzione opportuna, l’altrimenti indispensabile accesso all’ufficio che ha emesso il provvedimento apparendo palesemente irrazionale e gravatorio. E’ prorogata altresì la possibilità di deposito ad agente consolare estero (art. 87 nuovo comma 6).
[9] Va ricordato in proposito che il termine del successivo grado di impugnazione decorre dai 90 giorni successivi alla scadenza del termine che il giudice ha indicato nel dispositivo per il deposito della sentenza. Il deposito a mezzo posta o in ufficio giudiziario diverso da quello che ha deliberato il provvedimento impugnato, quando in particolare avvenga, come da prassi diffusa, l’ultimo giorno utile, ‘consuma’ pertanto parte (a volte significativa) del tempo utile a far pervenire il fascicolo al giudice del grado successivo entro i 90 giorni. Il deposito telematico permette invece all’appellante di poter operare il deposito da qualsiasi luogo, senza vincolarlo ad una anacronistica e vessatoria sola presenza fisica nell’ufficio deliberante, dall’altra di avere in tempo reale notizia e visione dell’atto di impugnazione, anche al fine di individuare con tempestiva certezza il momento dell’eventuale irrevocabilità (evitando sia intempestivi inizi di esecuzione sia intervalli di incerta attribuzione della competenza a deliberare su eventuali istanze, in particolare cautelari).
[10] Cass. Sez.1 sent. 10392/2022.
[11] La nuova disciplina, infatti, costituisce il rito ordinario dell’impugnazione di appello, cui fare riferimento, in quanto compatibile, per tutti i casi in cui il giudizio di appello non sia specificamente diversamente disciplinato. Così è per l’appello avverso le sentenze deliberate dal giudice di pace, posto che l’art. 2 d. lgs. 274/2000 prevede, per l’appello avverso le sentenze penali del giudice di pace, l’applicazione della disciplina codicistica, ora modificata. Le uniche norme derogatorie sono infatti in tema di legittimazione e individuazione di provvedimenti impugnabili (artt. 36-39-bis).
[12] Gli artt. 10 e 27 disciplinano autonomamente le impugnazioni avverso le misure di prevenzione, quanto a tempi e modi. Nel periodo emergenziale era stata introdotta specifica deroga alla disciplina speciale ordinaria, con l’art. 23-bis, comma 7, d.l. 137/2020, secondo cui le disposizioni del medesimo art. 23-bis si applicavano, in quanto compatibili, anche nei procedimenti di cui agli articoli 10 e 27 del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Tale specifica estensione normativa, infatti, era necessaria per consentire le deroghe in particolare per la trattazione cartolare e da remoto. Venuto meno il regime emergenziale e non essendo stata abrogata o modificata la disciplina degli artt. 10 e 27, quella disciplina speciale riprende la propria piena efficacia. Del resto va osservato che la disciplina della prevenzione in effetti dettaglia specificamente: soggetti legittimati, termine per l’impugnazione, modalità di trasmissione del fascicolo del pubblico ministero, mancanza di effetto sospensivo dell’impugnazione, tempi per il giudizio della corte di appello, possibili esiti. Quanto all’udienza, la previsione è di un giudizio camerale, che diviene di pubblica udienza su espressa richiesta dell’interessato. L’art. 10, comma 4, precisa poi che per la proposizione e la decisione dei ricorsi si osservano, in quanto applicabili, le norme riguardanti la proposizione e la decisione dei ricorsi relativi all'applicazione delle misure di sicurezza (quindi l’art. 680 cod. proc. pen. che, tuttavia, richiama a sua volta le disposizioni generali delle impugnazioni: Cass. Sez. 1 sent. 8644/2009).
Vi sarebbe allora spazio sistematico per sostenere invece che, divenuto il cartolare in assenza il rito ordinario dell’impugnazione di appello, il decreto della corte possa (debba?) fissare un’udienza cartolare assegnando contestualmente termine per la presentazione di conclusioni scritte e memorie, ferma la possibilità dell’interessato di richiedere la trattazione in presenza (da svolgersi con rito camerale partecipato salvo che la richiesta si estenda pure alla pubblica udienza). La richiesta di trattazione in presenza e pubblica udienza che potrebbe essere richiesta dall’interessato anche quando sia il pubblico ministero a “ricorrere” avverso un decreto che abbia respinto la sua richiesta di applicazione della misura.
Va tuttavia avvertito che la proroga di applicazione anche del comma 7 dell’art. 23-bis fino al 30 giugno 2023, disposta dall’art. 94, comma 2, nel testo sostituito dalla legge 199/2022, determinerà la prosecuzione fino a tale data del regime emergenziale pure per i procedimenti in materia di misure di prevenzione e mafia.
[13] Si tratta di innovazione importante, se si tiene presente che la giurisprudenza di legittimità in relazione alla precedente disciplina emergenziale ha sostenuto che “non era causa di nullità del decreto di citazione l'omesso avvertimento all'imputato della celebrazione del giudizio con rito camerale non partecipato ai sensi dell'art. 23-bis del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, in quanto requisito non richiamato dall'art. 601, comma 6, cod. proc. pen.” (Sez. 2 sent. 45188/2021 e Sez.6 sent. 14728/2022).
[14] Si tratta di una previsione normativa idonea a risolvere la questione, che nel silenzio della disciplina emergenziale sul punto aveva avuto soluzioni giurisprudenziali diverse [nel senso della irrevocabilità già Cass. Sez.2 sent. 42410/2021 e Sez.6 sent. 22248/2021], e soprattutto sollecita i difensori ad un uso accorto e consapevole della richiesta. L’esperienza del periodo retto dalla normativa emergenziale ha invero visto non infrequenti usi disinvolti della stessa, seguita da dichiarazioni di revoca per le nel frattempo mutate condizioni dei rapporti tra le parti o per una rivisitazione dell’interesse concreto stante l’evoluzione dei rapporti tra assistito e difensore, usi disinvolti che ignoravano del tutto il fatto che le due strade (trattazione in presenza e trattazione senza la partecipazione delle parti) una volta intraprese danno vita a due percorsi procedimentali caratterizzati da oneri di attivazione e termini del tutto differenti, non recuperabili. Va quindi fin d’ora evidenziato che ad ogni richiesta di trattazione orale consegue un onere organizzativo per l’effettiva presenza del difensore istante, personale o a mezzo sostituto ex art. 102, l’assenza ponendo probabili questioni deontologiche (si tenga pure presente che una volta disposta la trattazione orale tutte le difese, oltre la parte pubblica, sono onerate della presenza, almeno quando si proceda con il rito dibattimentale della pubblica udienza: né l’eventuale ripresa della triste prassi di richiedere sostituzioni di ufficio ex art. 97.4, nel nuovo contesto di trattazione in presenza solo a seguito di una specifica richiesta della parte che poi si disinteressa, parrebbe soluzione immune da possibili rilievi deontologici; d’altra parte, anche quando l’udienza in presenza dovesse svolgersi ex art. 127, l’assenza - legittima per il rito - di chi ha pur chiesto la trattazione in presenza, imposta alle altre parti che in ipotesi nulla abbiano da dire, parrebbe porre valutazione analoga da richiedere agli organismi forensi competenti).
Incidentalmente si ricordi che pure la mancata allegazione agli atti processuali delle conclusioni inviate (tempestivamente) dalla difesa a mezzo PEC, con la loro documentata omessa valutazione, integra nullità ai sensi dell’art. 178 lett. c): Cass. Sez. 6 sent. 3913/2022 e Sez.6 sent. 46026/2021.
[15] Cass. Sez.6 sent. 15139/2022, richiamata da G.Biondi, op.cit., p. 16, a sostegno della tesi contraria, con la conseguente nullità dell’udienza e della sentenza se il processo è stato trattato con rito cartolare nonostante la richiesta diretta del solo imputato, svolge pregevoli argomentazioni non immediatamente persuasive. L’assenza di un’espressa previsione di inammissibilità o irricevibilità pare ragione decisiva: basti pensare al fatto che proprio la giurisprudenza di legittimità è pervenuta ad attribuire sostanzialmente al termine ultimo di cinque giorni per la presentazione delle conclusioni un’efficacia decadenziale, proprio e solo argomentando dal significato sistematico “imprescindibilmente” funzionale di quell’indicazione a consentire il corretto svilupparsi del contraddittorio tra le parti (Cass. Sez.6 sent. 18483/2022). Oltretutto, il diverso testo dell’attuale art. 598-bis.2 ha rinforzato la previsione con un inequivoco avverbio “esclusivamente”, con ciò in concreto affermando il carattere vincolante della previsione. Del resto, anche nella richiesta di trattazione in presenza la previsione del passaggio necessario dal difensore assume un carattere funzionale essenziale, per assicurare l’attivazione consapevole e tempestiva del medesimo e le opportune scelte strategiche. Ciò supera il possibile rilievo che ora, nel caso di ammissione della richiesta di trattazione in presenza, la corte deve emettere un decreto che viene comunicato a procuratore generale e difensori: 598-bis.2, ultimo periodo, mentre la sopravvenuta previsione (123.2-bis), secondo cui “Le impugnazioni, le dichiarazioni, compresa quella relativa alla nomina del difensore, e le richieste, di cui ai commi 1 e 2, sono contestualmente comunicate anche al difensore nominato”, dovrebbe al più porre un problema di possibile intempestività della richiesta del difensore cui sia stata comunicata la richiesta dell’assistito detenuto, che si risolve con la restituzione nel termine quando il ritardo sia causato dall’Amministrazione.
Quanto al richiamo ai principi sovranazionali, dovrebbe osservarsi che qui non si nega all’imputato il diritto di chiedere la trattazione in presenza, ma di esercitarlo con le regolamentate modalità, certo non irrazionalmente vessatorie e, in realtà, coerenti alla nuova consapevole responsabilizzazione dell’appellante di cui si è sopra argomentato.
[16] La Relazione illustrativa al d.lgs. 150/2022 rinvia <<alle “prassi virtuose” l’eventuale soluzione di far precedere la citazione in giudizio da un “interpello”, ove ritenuto utile ai fini di una più ordinata calendarizzazione delle udienze>> [p. 335, GU 19.10.2022 supplemento straordinario n.5].
[17] D’altra parte, va ricordato: che l’art. 601 nuovo comma 3 impone che il decreto di citazione avverta espressamente l’imputato destinatario dell’atto che la richiesta di partecipazione può essere presentata dall’interessato ma esclusivamente a mezzo del difensore e nel termine perentorio di quindici giorni; che l’art. 123.2-bis prevede che “Le impugnazioni, le dichiarazioni, compresa quella relativa alla nomina del difensore, e le richieste, di cui ai commi 1 e 2, sono contestualmente comunicate anche al difensore nominato”. Vi sono pertanto le premesse fattuali perché al difensore giunga anche autonomamente l’indicazione della volontà dell’assistito.
[18] Come detto, la richiesta è discrezionale, non soggetta ad alcuna condizione o ad alcun requisito attinenti al merito. Pertanto il richiamo all’ammissibilità attiene solo al rispetto del termine a pena di decadenza ed alla legittimazione. Le parti non legittimate (procura generale e parte civile quando non anch’essi appellanti) potranno solo eventualmente sollecitare la corte all’esercizio del potere di disporre d’ufficio la trattazione in presenza [598-bis.3].
[19] Cass. Sez. 1 sent. 8863/2021.
[20] Opportunamente la previsione è generica ma al tempo stesso chiara: la “rilevanza delle questioni” sottoposte all’esame della corte è locuzione che comprende così ogni aspetto, anche in fatto, che può fondare l’esigenza del giudice di appello di avere una interlocuzione diretta con le parti. Se si considera che il contraddittorio orale (quando vi è materia per approfondire e contraddire oltre quanto si è già scritto, delimitando insuperabilmente l’ambito del devoluto) è certamente la forma più idonea ad assicurare l’eliminazione di spazi che avrebbero dovuto o potuto essere riempiti per completare il percorso logico-giuridico che conduce alle proprie richieste, la ‘clausola aperta’ che la locuzione attribuisce a chi ha il dovere di deliberare va apprezzata favorevolmente. Evita tra l’altro l’inopportuno fenomeno delle cd ‘sentenze a sorpresa’.
Questo spunto normativo potrebbe essere anche l’occasione per approfondire finalmente il tema del senso, dei peculiari limiti e delle potenzialità della discussione orale nel giudizio di appello, in particolare affrontando in termini laici, e non ideologici, l’aspetto serio della possibilità ‘fisiologica’ che il collegio indichi espressamente alle varie parti i temi su cui sollecita un approfondimento (senza correre il rischio di una ricusazione…).
[21] Si pone qui un problema formale: l’ordinanza pare dover essere notificata e non solo ‘comunicata’ ai sensi dell’art. 167-bis disp. att., atteso che la Relazione illustrativa precisa che quest’ultima deve essere considerata <<mera comunicazione “di cortesia”, senza alcun valore costitutivo della conoscenza del provvedimento>> [Rel. ill. p. 335]. Ovviamente, essendo il destinatario, per le parti private, solo il difensore, quando le modalità dei due diversi istituti (‘comunicazione’ e ‘notificazione’) fossero sovrapponibili, il tutto si riduce a questione solo nominalistica.
[22] La previsione del differimento con passaggio alla trattazione in presenza (nei due possibili riti della pubblica udienza e della camera di consiglio) è per il vero espressamente prevista solo per il giudizio di cassazione (611.1-sexies). Tuttavia non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che la probabilità di una riqualificazione giuridica che apra nuovi scenari nel processo possa comunque costituire una di quelle “questioni rilevanti sottoposte all’esame” del giudice di appello che gli consentono di disporre d’ufficio la trattazione in presenza.
[23] Anche la disciplina emergenziale non prevedeva invece alcun obbligo di comunicazione di ufficio delle conclusioni di una parte privata alle altre parti, così pure ovviamente per le eventuali repliche.
[24] Sulla natura perentoria del termine dei cinque giorni per il deposito di memorie: Cass. Sez. 6, in tema di dichiarazione di astensione dalle udienze in procedimento cartolare, sent. 18483/2022 Cass. Sez. 1 sent. 35305/2021 e Sez.6 sent. 13434/2021 (che ha pertanto escluso la costituzione tempestiva nel giudizio di impugnazione della parte civile).
Sulla non configurabilità di nullità generale ai sensi dell’art. 178 lett. b) e c) nel caso di deposito tardivo delle conclusioni del procuratore generale, purché sia stata assicurata alle altre parti la possibilità di concludere: per tutte, Sez. 5 sent. 6207/2021 e Sez.6 sent. 28032/21, Sez.2 sent. 34914/2021; Sez.4 sent. 35057/2020 conferma la non configurabilità di nullità generale ma indica il rimedio del rinvio dell’udienza nel caso di comprovato effettivo pregiudizio delle altre parti; Sez.6 sent. 10216/2022 e Sez.5 sent. 20885/2021hanno ritenuto l’omesso invio telematico delle conclusioni del procuratore generale nullità ex art. 178.1 lett. c) da eccepire entro la presentazione delle conclusioni scritte presentate, nel caso, dal difensore (soluzione che pare preferibile per la gestione equilibrata dei principi configgenti e la responsabilizzazione della parte in ipotesi pregiudicata). Secondo Sez. 6 sent. 26459/2021 la nullità configurabile è quella ex art. 178 lett. b).
[25] Però Sez.1 sent. 14766/2022 ha ritenuto insussistente alcuna nullità per l’omessa presentazione delle conclusioni del procuratore generale ritenendo la partecipazione del procuratore generale al procedimento cartolare solo eventuale. La conclusione non soddisfa, sembrando sovrapporre la non necessaria presenza del rito camerale partecipato ex art. 127 o 611 con la presenza cartolare del rito senza la partecipazione fisica delle parti. In particolare la sentenza, pur articolatamente motivata, pare non confrontarsi con il dato letterale che pare francamente insuperabile quando nello stesso periodo, come rilevato nel testo, associa il “presenta” della parte pubblica al “possono presentare” delle altre parti. Con il che, quali che siano le altre discipline e le loro logiche sistematiche, nel nostro caso vi è una complessiva locuzione che inequivocamente differenzia i ruoli della parte pubblica e delle parti private.
[26] Sul punto il periodo emergenziale ha imposto modifiche organizzative a tutti, cancellerie e parti, che hanno avuto impatto rilevante sulle prassi precedenti e dovranno essere comunque riadattate all’auspicata cessazione effettiva del problema pandemico. Si tratta comunque di un settore aperto alla condivisione di prassi virtuose concordate tra i singoli uffici giudiziari giudicanti di appello, le procure generali e l’avvocatura, idonee a perseguire il risultato di un’efficace tempestiva conoscenza con il minimo impegno organizzativo, pubblico e privato.
In proposito sia consentito richiamare il Protocollo sottoscritto il 21/07/2022 dalla Corte di Appello di Venezia con la locale Procura generale e con i Consigli dell’Ordine di sei dei sette circondari del distretto che, sul punto, indica la buona prassi per cui “I difensori, ricevute le conclusioni del Procuratore Generale, depositeranno le conclusioni a mezzo PEC con invio sia alla Cancelleria della sezione competente che alla stessa Procura generale e alle altre eventuali parti, risultanti dal decreto di citazione a giudizio di appello agli indirizzi PEC in esso espressamente indicati. L’onere di invio agli indirizzi PEC delle altre parti indicate nel decreto di citazione a giudizio in appello sarà esteso anche alle memorie ex art. 121 c.p.p., alle conclusioni della Parte Civile, alle richieste di modifica e/o revoca della misura cautelare ed a qualsivoglia tipologia di atto che le parti ritengano di voler depositare in vista della celebrazione dell’udienza”.
[27] La Relazione illustrativa (p. 335) precisa espressamente sul punto che: <<Si tratta di mera comunicazione “di cortesia”, senza alcun valore costitutivo della conoscenza del provvedimento, che resta connessa al deposito del provvedimento in udienza. A tale riguardo, è espressamente previsto, nel nuovo art. 598-bis c.p.p., che il deposito della sentenza equivale alla lettura in udienza ai fini di cui all’art. 545 c.p.p., con disposizione che consente anche di individuare inequivocabilmente il dies a quo per il computo dei termini per impugnare, ai sensi dell’art. 585, comma 2, c.p.p.>>
[28] La norma viene così a confermare che non sussiste alcuna incompatibilità tra il rigetto, anche doverosamente motivato, della dichiarazione di concordato e la prosecuzione della trattazione da parte del medesimo giudice d’appello. E’ conclusione già esito di consolidato insegnamento di legittimità (per tutte, Sez.3 sent. 12061/2020 e Sez. 4 sent. 26904/2019). La soluzione ovviamente rileva anche per il caso del passaggio dalla trattazione cartolare a quella in presenza, da parte del medesimo collegio.
[29] Va ovviamente tenuta distinta la formale premialità sanzionatoria, che si risolve in una diminuzione di pena che trova origine esclusivamente nella scelta dell’istituto e può condurre a pena che altrimenti mai avrebbe potuto essere applicata per quel caso in quel processo, dalla congruità della pena che, all’interno dei limiti edittali complessivi (quindi anche tenendo conto delle riduzioni proprie di circostanze e relativi bilanciamenti, aumenti per la continuazione, ecc.), avrebbe comunque potuto essere fisiologicamente applicata dal giudice. D’altra parte il legislatore ha da tempo previsto anche una responsabilizzazione specifica della parte pubblica nel giudizio di appello, quanto alla concreta applicazione dell’istituto del concordato [599-bis.4].
[30] M. Gialuz, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della Riforma Cartabia. Profili processuali in Sistema penale, scheda 02 novembre 2022, p. 80, anche per i rilievi che la rinuncia sollecitata dalla norma è quella all’appello e non pure al solo successivo ricorso per cassazione e chela previsione temporale anticipata per il deposito del concordato è riconducibile comunque alla delega, per via della attribuita generale rivisitazione del rito cartolare.
[31] Sul punto per approfondimenti: G. Biondo, op. cit., p. 35.
[32] Sulla necessità che la deduzione di nullità in rito sia sorretta da una specifica ricostruzione del fatto procedimentale che la determinerebbe, per tutte: Cass. Sez.6 sent. 30897/2015 [è inammissibile, per difetto di specificità del motivo, il ricorso per cassazione con cui si deduca la nullità assoluta della notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello effettuata presso lo studio del difensore di fiducia, anziché nel domicilio dichiarato o eletto dall'imputato, ove il ricorrente non alleghi elementi idonei a dimostrare credibilmente che, nonostante l'esistenza del rapporto fiduciario, l'imputato sia rimasto all'oscuro della "vocatio in ius" (Fattispecie in cui la Corte ha escluso l'idoneità di una dichiarazione del difensore nella quale si affermava che l'imputato si era negato per mesi al telefono ed al portalettere, ma non si prospettava alcuna spiegazione di tale atteggiamento rispetto ai tentativi di contattarlo)]
[33] Sul presupposto che l’uso dei due termini, rilevata o eccepita, nell’ultima parte del comma 5-bis si riferisca all’iniziativa del giudice o della parte, non è agevole comprendere il richiamo al rilevare, una volta che la norma precisa che la nullità è comunque sanata dal non essere stata eccepita nell’atto di appello, all’evidenza con autonomo specifico motivo di impugnazione.
[34] È in proposito significativo che proprio la giurisprudenza richiamata alla nota 32 e quella precedente pertinente sul tema [Sez.3 sent. 44880/2014; Sez.6 sent. 490/2017; Sez.6 sent. 28971/2013; Sez.6 sent. 34558/2012] giustifichino la necessità della specificità della ricostruzione della vicenda proprio muovendo da quanto deve ritenersi avvenga fisiologicamente tra difensore ed assistito a fronte di una citazione a giudizio.
Appare in proposito rilevante anche il peculiare dovere di verità indicato dal n. 5 dell’art. 50 del codice deontologico forense: 5. L’avvocato, nel procedimento, non deve rendere false dichiarazioni sull’esistenza o inesistenza di fatti di cui abbia diretta conoscenza e suscettibili di essere assunti come presupposto di un provvedimento del magistrato. Deve ritenersi che il tema del contatto informativo con l’assistito in relazione alla fissazione e trattazione del processo ben possa costituire “fatto di cui si ha diretta conoscenza e presupposto di un provvedimento del magistrato”. Si tratta comunque e appunto di tema delicato, meritevole di approfondimento comune, ma davvero ineludibile.
[35] Qui il riferimento pare sia ai casi disciplinati dall’art. 603 più che alla rinnovazione dell’intera istruttoria di primo grado.
Il nuovo comma 3-ter dell’art. 603 prevede comunque che quando la rinnovazione è disposta a seguito di accoglimento di richiesta ex art. 604.5-ter e 5-quater, se si è proceduto in assenza in applicazione dell’art. 420-bis.3 (imputato latitante o volontariamente sottratto alla conoscenza della pendenza del processo) la rinnovazione è disposta nei limiti previsti dall’art. 190-bis.
[36] Il problema sorge perché il comma 5-ter formalmente non ripropone la preclusione costituita dalla necessità di una richiesta contenuta nell’atto di appello, espressamente invece prevista dal comma 5-bis. E’ pur vero che la locuzione “fuori dei casi previsti dal comma 5-bis” può essere intesa come riferita alla sola casistica e non anche alla disciplina, con la conseguenza che la preclusione ad eccepire/richiedere la decadenza incolpevole dalla facoltà dovrebbe comunque essere contenuta nell’atto di appello, come motivo specifico.
[37] Significativa in proposito è Sez.2 sent. 37136/2020, in caso di riforma di sentenza di assoluzione previa reiezione della richiesta dell’imputato di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per essere egli decaduto in primo grado dalla prova testimoniale, che ricorda la necessità di un autonomo apprezzamento sull’obbligo di esercitare i poteri di acquisizione anche d’ufficio dei mezzi di prova indispensabili per la decisione, in applicazione dell’art. 603.3.
[38] Il ‘ritorno’ alle Sezioni unite con una seconda pronuncia dopo soli nove mesi dalla prima deliberazione è stato palese sintomo delle reazioni di alcune sezioni allo ‘strappo’ compiuto dalla sentenza Dasgupta rispetto alla consolidata giurisprudenza di legittimità che aveva sempre escluso l’applicazione anche d’ufficio dell’art. 603 per i processi celebrati con rito abbreviato semplice. La stessa sentenza Dasgupta aveva affermato il principio con un sostanziale obiter dictum, in quanto il caso che doveva decidere riguardava un processo celebrato in udienza pubblica. E’ significativo che l’articolata motivazione abbia una sorta di salto sistematico quando passa dalla persuasiva motivazione sulla sussistenza dell’obbligo di riesaminare, esercitando gli stessi poteri esercitati dal primo giudice, prove dichiarative già esaminate e valutate in termini contestati dall’appellante, il diverso apprezzamento delle quali diviene la condizione per il passaggio dalla sentenza di proscioglimento alla sentenza di (prima) condanna, all’assunto che ragioni epistemologiche impongono che il ribaltamento della valutazione del contenuto dichiarativo debba essere preceduto sempre dal contatto orale diretto tra la fonte della prova e il giudice (quale che sia stata la modalità di assunzione della prova dichiarativa, scritta o orale, nel primo giudizio). Argomento serio, tuttavia in sé esaustivo ed idoneo a rendere assorbito il precedente ragionamento relativo ai pari poteri ed approcci tra il giudice di primo e quello di secondo grado nei processi dibattimentali.
Indubbiamente anche la recente sentenza C. eur. dir. uomo, Sez. I, 25 marzo 2021, Di Martino e Molinari c. Italia, ric. n. 15931/15 e 16459/15 ha contribuito all’intervento normativo ‘correttivo’. Tale sentenza ha infatti confermato non costituire la reformatio in peius della sentenza di assoluzione violazione dell’art. 6 §§ 1 e 3 lett. d) Cedu, anche quando non preceduta dall’esame orale delle prove dichiarative, in quanto tali prove dichiarative non erano state assunte, in entrambi i gradi di giudizio, nel contraddittorio tra le parti, a fronte della scelta dell’imputato di accedere al rito abbreviato. Sul tema v. https://www.sistemapenale.it/it/scheda/corte-edu-di-martino-molinari-overturning-appello-assoluzione-abbreviato, nonché M. Gialuz, op. cit., p. 79.
[39] Già Sez.5 ord. 936/1992 aveva chiarito che l’interlocuzione per la riunione non richiede un’autonoma preventiva convocazione delle parti in camera di consiglio, essendo sufficiente che le parti siano informate e messe nelle condizioni interloquire, secondo i casi e nel modo più consono alla fase o allo stato del processo. Il principio della rilevanza del solo essere stati messi nelle condizioni di concludere, con la conseguente sufficienza anche del passivo silenzio, è stato sostanzialmente confermato da Sez.6 sent. 6621/2006.
In termini ancor più determinanti per la nostra questione, l’inoppugnabilità dei provvedimenti di riunione o separazione, sulla base del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, a volte affermato anche per la mancata audizione delle parti (per tutte, Sez. 3, sent. 17368/2019 che richiama tutti gli artt. 17, 18 e 19, e Sez. 2 sent. 57761/2018).
Certamente l’inserimento nei decreti di citazione relativi a procedimenti per i quali si ponga il tema della riunione di un allertamento specifico potrebbe costituire buona risolutiva prassi.
Il Protocollo veneto 21/07/2022, già richiamato, nel caso in cui vengano fissati più procedimenti nei confronti del medesimo imputato innanzi alla stessa Sezione della Corte d’Appello per i quali sussistano i requisiti dell’art. 17 c.p.p. invita le parti, in caso di trattazione scritta, ad esplicitare già nelle conclusioni l’eventuale richiesta e/o adesione in merito alla riunione dei procedimenti.
[40] Per tutte, Sez.3 sent. 37879/2015.
[41] Per tutte, Sez.3 sent. 34949/2020; SU sent. 33748/2005.
[42] S.U. sent. 33748/2005.
[43] Sez.5 sent. 32427/2015.
[44] Con il nuovo rito, come già detto, vi è ora un unico termine per il deposito dei motivi aggiunti ex art. 585, delle conclusioni e delle memorie: quindici giorni prima dell’udienza. La sovrapposizione temporale tra motivi aggiunti e conclusioni pare dover quindi condurre ad escludere che, nel rito cartolare, i motivi aggiunti siano ancora momento tempestivo utile per la richiesta di acquisizione di documenti senza porre problemi di contraddittorio.
[45] In tal caso ponendosi poi la questione, cui si è già accennato, se il successivo contraddittorio orale debba essere limitato alla sola acquisizione dei documenti, salvi comunque i casi in cui la natura del contenuto del documento imponga necessariamente la rivalutazione integrale del punto della decisione, anche riconoscendo alle controparti il diritto a loro nuove produzioni o richieste di prove orali.
[46] Sicchè la Corte di cassazione esclude l’interesse della parte civile a concludere e la possibilità di rifusione delle spese di difesa per il grado: per tutte, Sez. 4 sent. 22697/2020.
[47] La deliberazione di appello è la fase tendenzialmente conclusiva dell’apprezzamento di merito complessivo sul fatto e quindi sull’adeguatezza del trattamento sanzionatorio e delle effettive prognosi cautelari.
[48] Poi, rimane sempre la considerazione della differenza tra ciò che attiene alla legittimità e ciò che attiene all’opportunità. Sempre, però, facendo attenzione al caso delle condotte di possibile abuso del diritto: SU sent. 155/2012.
[49] Cass. Sez.6 sent. 18483/2022 ha ritenuto irrilevante la dichiarazione del difensore di adesione ad iniziativa associativa di astensione dalle udienze proclamata per data successiva alla scadenza dei cinque giorni (considerati perentori).
Nel rito a trattazione orale, invece, rileva l’impedimento anche dell’imputato: Sez.6, sent. 1167/2022.
[50] Finora principio di diritto enunciato della giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite (sent. 8825/2017, ric. Galtelli), secondo la quale l'appello è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata.
“L’appello presuppone decisioni soggette a critica” (F. Cordero, Procedura penale nona edizione, p. 1115), il che rende del tutto appropriata la pretesa giurisprudenziale che il motivo devolvente il singolo punto della decisione spieghi innanzitutto le ragioni di confutazione anche del percorso argomentativo della sentenza che si impugna.
[51] M. Gialuz, op. cit., p. 76 e 78.
[52] F. Cordero, op. cit., p. 1117 (“Sul punto se e quanta fede meriti il testimone, affiorano residui d’una logica del sentimento: terreno vietato al supremo laboratorio”).
Sia qui consentito un ricordo personale dell’esperienza, straordinaria, in Corte di cassazione: “Avvocato, niente sprazzi di vita in Cassazione” l’intervento bloccante di un autorevole presidente di sezione al difensore di parte civile che, per sostenere una tesi e dimentico del contesto del giudizio di legittimità, aveva iniziato a commentare le implicazioni di affermata sofferenza cagionata da una certa condotta in un certo contesto.
[53] “Quel che conta, invece, è che, al di là della dispositio prescelta, vengano rivelati, con evidenza e precisione, quali siano i temi controversi e le ragioni del “perché no” agli argomenti del giudice a quo, per un verso, e del “perchè sì” alle richieste difensive per un altro”, E.Fragasso, Appunti sparsi sull’inammissibilità delle impugnazioni, in Archivio penale, 2018, n. 1, 5 s..
[54] La distinzione tra giudizio di merito e giudizio di legittimità è tutta qui: il ricorso per cassazione, infatti e invece, “attribuisce alla Corte di cassazione la cognizione del procedimento limitatamente ai motivi proposti” (609.1).
Conseguentemente, investito della cognizione dell’intero punto della decisione da un motivo specifico ad esso pertinente, il giudice di appello può accogliere la richiesta per ragioni del tutto diverse da quelle enunciate nel motivo, così come può rigettare il motivo per ragioni del tutto diverse da quelle argomentate dal primo giudice (nel secondo caso non si ha allora quella che tecnicamente si definisce una ‘doppia conforme’, perché muta il percorso argomentativo logico-giuridico e quindi il ricorrente può proporre alla Cassazione tutte le censure anche non proposte al giudice di secondo grado). In altri termini, investito della cognizione sul singolo punto della decisione da un motivo specifico, il giudice di appello verifica con pieni poteri se giudica condivisibile il dispositivo su quel punto o no, all’esito di un confronto tra il dispositivo ed il contenuto degli atti processuali, ‘guidato’ anche dal motivo specifico: nel primo caso conferma, nel secondo modifica in tutto o in parte la prima sentenza. Il giudice di cassazione, invece, deve limitarsi a valutare fondatezza, infondatezza o inammissibilità del singolo motivo; giudica il motivo solo in relazione alla motivazione della sentenza e conseguentemente annulla, con o senza rinvio, la sentenza di appello (quando il motivo è fondato), altrimenti rigetta o dichiara inammissibile il ricorso, a prescindere da cosa personalmente ritenga in ordine all’adeguatezza del dispositivo al caso: valuta, quindi, che la decisione d’appello è stata presa senza violazioni di legge e vizi di motivazione, non se essa è anche adeguata al caso. Splendida, sul punto, la sintesi di Ernesto Lupo in Alla ricerca di linee guida affidabili per una motivazione concisa, Rivista Giustizia Insieme – 2-3/2009 – Aracne editrice: “L’atteggiamento del magistrato della Cassazione che mira a risolvere il caso a lui affidato nel modo che ritiene giusto (andando, se mai, al di là dei risultati di una mera verifica della correttezza logica della sentenza impugnata), se può sembrare espressione di uno scrupolo positivo (se non, addirittura, encomiabile), non tiene conto che a tale Istituzione è affidato il privilegio di dire l’ultima e definitiva parola sulla controversia, ma tale privilegio trova, nell’ordinamento, il proprio contrappeso nel rispetto dell’accertamento di fatto, il quale è riservato al giudice del merito; onde la soluzione legale e giusta della controversia deve essere il risultato finale della somma dei compiti propri dei due tipi di giudicanti; il che implica un atteggiamento dei giudici di legittimità di self restraint nell’esame e nella valutazione del giudizio di fatto”.
[55] SU Michaeler: “la nozione di "capo della sentenza" è riferita soprattutto alla sentenza plurima o cumulativa, caratterizzata dalla confluenza nell'unico processo dell'esercizio di più azioni penali e dalla costituzione di una pluralità di rapporti processuali, ciascuno dei quali inerisce ad una singola imputazione; tanto che per capo deve intendersi ciascuna decisione emessa relativamente ad uno dei reati attribuiti all'imputato. Può quindi affermarsi che il capo corrisponde ad "un atto giuridico completo, tale da poter costituire da solo, anche separatamente, il contenuto di una sentenza: "la decisione" che conclude una fase o un grado del processo" può, dunque, "assumere struttura monolitica o composita, a seconda che l'imputato sia stato chiamato a rispondere di un solo reato o di più reati"; nel primo caso, nel processo è dedotta un'unica regiudicanda mentre, nel secondo, "la regiudicanda è scomponibile in tante autonome parti quanti sono i reati per i quali è stata esercitata l'azione penale".
“Il concetto di "punto della decisione" ha una portata più ristretta, in quanto riguarda tutte le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione necessarie per ottenere una decisione completa su un capo, tenendo presente, però, che non costituiscono punti del provvedimento impugnato le argomentazioni svolte a sostegno di ciascuna statuizione: se ciascun capo è concretato da ogni singolo reato oggetto di imputazione, i punti della decisione, ai quali fa espresso riferimento l'art. 597, comma 1, c.p.p., coincidono con le parti della sentenza relative alle statuizioni indispensabili per il giudizio su ciascun reato; in primo luogo, l'accertamento della responsabilità e la determinazione della pena, che rappresentano, in tal senso, due distinti punti della sentenza. Ne consegue che ad ogni capo corrisponde una pluralità di punti della decisione, ognuno dei quali segna un passaggio obbligato per la completa definizione di ciascuna imputazione, sulla quale il potere giurisdizionale del giudice non può considerarsi esaurito se non quando siano stati decisi tutti i punti, che costituiscono i presupposti della pronuncia finale su ogni reato, quali l'accertamento del fatto, l'attribuzione di esso all'imputato, la qualificazione giuridica, l'inesistenza di cause di giustificazione, la colpevolezza, e - nel caso di condanna - l'accertamento delle circostanze aggravanti ed attenuanti e la relativa comparazione, la determinazione della pena, la sospensione condizionale di essa, e le altre eventuali questioni dedotte dalle parti o rilevabili di ufficio. Alla stregua della distinzione tra capi e punti della sentenza - applicata nell'esperienza giudiziaria non sempre con la dovuta chiarezza - deve ritenersi che la cosa giudicata si forma sul capo e non sul punto, nel senso che la decisione acquista il carattere dell'irrevocabilità soltanto quando sono divenute irretrattabili tutte le questioni necessarie per il proscioglimento o per la condanna dell'imputato rispetto ad uno dei reati attribuitigli. Nel caso di processo relativo ad un solo reato la sentenza passa in giudicato nella sua interezza, mentre nell'ipotesi di processo cumulativo o complesso la cosa giudicata può coprire uno o più capi e il rapporto processuale può proseguire per gli altri, investiti dall'impugnazione, onde, in una simile situazione, è corretto utilizzare la nozione di giudicato parziale. I punti della sentenza non sono, invece, suscettibili di acquistare autonomamente autorità di giudicato, potendo essere oggetto unicamente della preclusione correlata all'effetto devolutivo delle impugnazioni (tantum devolutum quantum appellatum) ed al principio della disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni, da cui consegue che - in mancanza di un motivo di impugnazione afferente una delle varie questioni la cui soluzione è necessaria per la completa definizione del rapporto processuale concernente un reato - il giudice non può spingere la sua cognizione sul relativo punto, a meno che la legge processuale non preveda poteri esercitabili ex officio (v. art. 597.5: ndr)”.
In particolare, non può essere condiviso il pensiero di Franco Cordero relativamente alla ricostruzione del trattamento sanzionatorio come unico punto della decisione, del quale le varie articolazioni (entità pena base, singole circostanze e loro eventuale bilanciamento, ecc.) sarebbero mere ‘questioni’: dedotta una (l’entità della pena) tutte le altre lo sarebbero, e pretendere la devoluzione con motivo specifico delle singole ‘questioni’ comporterebbe assimilare il motivo di appello al motivo di ricorso, che perderebbe la flessibilità del gravame, oltretutto generando motivi fluviali (F. Cordero, op. cit., 1130 s.). La ricostruzione delle Sezioni Unite (punti della decisione quali statuizioni suscettibili di autonome considerazioni per giungere alla decisione finale, il resto essendo argomenti a sostegno delle statuizioni o richieste sui singoli punti) è più convincente e, soprattutto, è l’unica che consente quei limiti dell’effetto evolutivo (597.1), superabile solo nei tassativi casi del 597.5, che altrimenti salterebbe. Del resto, fondata la lettura del Maestro, parrebbe non avere senso sistematico la limitazione del potere d’ufficio al solo riconoscimento delle attenuanti (597.5), a quel punto la mera richiesta di riduzione di pena contenendo tutte le possibili alternative dell’intero percorso logico-giuridico per giungere alla pena finale.
[56] Lo hanno ribadito e ben spiegato le Sezioni Unite Galtelli: “il sindacato sull'ammissibilità dell'appello, condotto ai sensi degli artt. 581 e 591 cod. proc. pen., non può ricomprendere - a differenza di quanto avviene per il ricorso per cassazione (art. 606, comma 3, cod. proc. pen.) o per l'appello civile - la valutazione della manifesta infondatezza dei motivi di appello. La manifesta infondatezza non è infatti espressamente menzionata da tali disposizioni quale causa di inammissibilità dell'impugnazione. Dunque, il giudice d'appello non potrà fare ricorso alla speciale procedura prevista dall'art. 591, comma 2, cod. proc. pen., in presenza dì motivi che siano manifestamente infondati e però caratterizzati da specificità intrinseca ed estrinseca”. Questo insegnamento inequivoco non risulta certamente superato dall’endiadi (“in forma puntuale ed esplicita”) inserita nel nuovo comma 1-bis dell’art. 581) che secondo alcuni avrebbe aperto anche alla inammissibilità per manifesta infondatezza del motivo: in realtà basta osservare che “forma puntuale ed esplicita” è locuzione che si riferisce all’esistenza e non alla valutazione di merito di un contenuto critico specifico alla motivazione che sorregge nella sentenza impugnata la deliberazione sul singolo punto della decisione (v. anche G. Biondi, cit., p.4). E’ in proposito significativo che la Relazione illustrativa indichi essere avvenuta (solo) la codificazione del requisito della genericità estrinseca dei motivi di impugnazione: in definitiva, lettera e ragione della norma non consentono affatto di sostenere legittimata pure l’inammissibilità per manifesta infondatezza (il che non necessariamente è positivo: se è comprensibile la preoccupazione della classe forense sulla astratta possibilità di un’anticipazione di un apprezzamento di pieno merito sottratta al contraddittorio che potrebbe essere solo differito, con la presentazione di un ricorso per cassazione, tuttavia l’esperienza giurisdizionale quotidiana manifesta tutt’altro che infrequente la presenza di motivi di appello che, formalmente specifici anche estrinsecamente, presentano palese inconsistenza).
[57] S.U. Galtelli: “E proprio la diversità strutturale tra i due giudizi deve indurre ad escludere che la riproposizione di questioni già esaminate e disattese in primo grado sia di per sé causa di inammissibilità dell'appello. Il giudizio di appello ha infatti per oggetto la rivisitazione integrale del punto di sentenza oggetto di doglianza, con i medesimi poteri del primo giudice ed anche a prescindere dalle ragioni dedotte nel relativo motivo. Invece il giudizio di cassazione può avere per oggetto i soli vizi di mancanza, contraddittorietà, manifesta illogicità della motivazione, tassativamente indicati nella lettera e) dell'art. 606 cod. proc. pen.; con la conseguenza che il motivo di ricorso non può, per definizione, costituire una mera riproposizione del motivo di appello, perché deve avere come punto di riferimento non il fatto in sé, ma il costrutto logico-argomentativo della sentenza d'appello che ha valutato il fatto. Per contro - lo si ribadisce - se nel giudizio d'appello sono certamente deducibili questioni già prospettate e disattese dal primo giudice, l'appello, in quanto soggetto alla disciplina generale delle impugnazioni, deve essere connotato da motivi caratterizzati da specificità, cioè basati su argomenti che siano strettamente collegati agli accertamenti della sentenza di primo grado”.
[58] Si tenga presente che le Sezioni Unite Galtelli sono precedenti anche alla modifica dell’art. 581 introdotta dalla cd legge Orlando, n. 103 del 23/06/2017, pubblicata sulla GU 154 del 04/07/2017 ed entrata in vigore il 03/08/2017. La sentenza delle Sezioni Unite infatti è stata deliberata all’udienza del 27/10/2016 e depositata il 22/02/2017.
[59] Non esiste infatti una sorta di proprietà transitiva dell’ammissibilità da un motivo ammissibile a quelli inammissibili.
[60] “Su un piano diverso, rileva il lamentato aggravio nei ruoli d’udienza dei giudici penali dell’impugnazione in una situazione di elevati carichi di lavoro – denunciato, pur non senza ragione, dalla Corte rimettente – che richiede adeguati interventi diretti ad approntare sufficienti risorse personali e materiali, rimessi alle scelte discrezionali del legislatore in materia di politica giudiziaria e alla gestione amministrativa della giustizia”.
[61] Sentenza che nei casi indicati dall’art. 652 fa stato anche nei confronti del danneggiato nel giudizio civile per le restituzioni ed il risarcimento del danno.
[62] Giova ricordare che, in tal caso, l’impugnazione per i soli interessi civili non sospende l’esecuzione delle disposizioni penali del provvedimento impugnato: 573.2. Il che comporta, tra l’altro, che nei procedimenti relativi a reati consumati prima del 01/01/2020, cui si applica ancora l’istituto della prescrizione, se la sentenza è impugnata ai soli fini civili deve essere messa subito in esecuzione, a nulla rilevando l’ulteriore decorso del tempo ai fini di una futura eventuale prescrizione, ormai irrilevante.
[63] Che, secondo il nuovo art. 175-bis disp. att., nel caso di rinvio per dichiarata improcedibilità dell’azione penale ai sensi dell’art. 344-bis deve essere deliberata entro sessanta giorni successivi al maturare dei termini di durata massima.
Dopo la sentenza Corte costituzionale 111/2022 parrebbe che l’udienza con rito cartolare sia la soluzione più congrua (sussistendo un interesse al confronto quantomeno sull’ammissibilità dell’appello e la sentenza della Corte delle leggi lasciando nessun spazio a procedure che concludendosi con sentenza non prevedano alcuna forma di contraddittorio prima della deliberazione).
[64] Ricordato che l’art. 193 dispone che “nel processo penale non si osservano i limiti di prova stabiliti dalle leggi civili, eccettuati quelli che riguardano lo stato di famiglia o di cittadinanza”, é necessaria una pur sintetica storia della vicenda del giudizio di rinvio in sede civile, in applicazione dell’art. 622:
1. Le acque quiete:
-1.1. S.U. 35490/2009 Tettamanti (se 129.2 evidenza, se PPC 530.2):
- In presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129 comma secondo, cod. proc. pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento.
- All'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, oppure ritenga infondata nel merito l'impugnazione del P.M. proposta avverso una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell'art. 530, comma secondo, cod. proc. pen..
-1.2. Sez. U., Sentenza n. 40109/2013, Sciortino:
1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite, può così essere enunciata: «se, nel caso in cui il giudice di appello abbia dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato, senza 3 motivare in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini delle statuizioni civili, a seguito di ricorso per cassazione proposto dall'imputato, ritenuto fondato, debba essere disposto l'annullamento della sentenza con rinvio allo stesso giudice penale che ha emesso il provvedimento impugnato ovvero al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell'art. 622 cod. proc. pen.»…
…A diversa conclusione non può condurre neppure la considerazione che la disciplina che rinvia al giudice civile ogni questione superstite sulla responsabilità civile nascente dal reato rende inevitabile l'applicazione delle regole e delle forme della procedura civile, che potrebbero ritenersi meno favorevoli agli interessi del danneggiato dal reato rispetto a quelle del processo penale, dominato dall'azione pubblica di cui può ben beneficiare indirettamente il danneggiato dal reato. Si tratta però di evenienza che il danneggiato può ben prospettarsi al momento dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale, di cui conosce preventivamente procedure e possibili esiti, comprese le eventualità che in presenza di cause di estinzione del reato o di improcedibilità dell'azione penale venga a mancare un accertamento della responsabilità penale dell'imputato e che in caso di translatio judici l'azione per il risarcimento del danno debba essere riassunta davanti al giudice civile competente per valore in grado di appello. Resta naturalmente fermo che, in presenza di un danno da reato, il danneggiato, in sede di rinvio, può sollecitare davanti al giudice civile anche il riconoscimento del danno non patrimoniale, negli ampi termini definiti dalla giurisprudenza civile (per tutte, da ultimo, Sez. U civ., n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605490 e 605491). Sul versante delle aspettative dell'imputato, poi, il perseguimento dell'interesse a un pieno accertamento della sua innocenza, anche ai fini della responsabilità civile, può ben essere assicurato dall'opzione di rinuncia alla prescrizione (art. 157, comma settimo, cod. pen.) o all'amnistia (ex Corte cost., sent. n. 175 del 1971). 12. Va conseguentemente enunciato il seguente principio di diritto: «In ogni caso in cui il giudice di appello abbia dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato (o per intervenuta amnistia), senza motivare in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini delle statuizioni civili, a seguito di ricorso per cassazione proposto dall'imputato, ritenuto fondato dalla corte di cassazione, deve essere disposto l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell'art. 622 cod. proc. pen.».
-1.3. Sez. 4, Sentenza n. 5901/2019:
Nel caso di accoglimento del ricorso per cassazione della parte civile avverso una sentenza di assoluzione in tema di responsabilità medica per reato omissivo improprio, nel conseguente giudizio civile l'accertamento del nesso causale tra la condotta omessa e l'evento verificatosi va svolto facendo applicazione della regola di giudizio propria del giudizio penale, vale a dire quella della ragionevole, umana certezza dell'esito salvifico delle condotte omesse, alla stregua delle informazioni in ordine all'ordinario andamento della patologia riscontrata e delle peculiarità del caso concreto, non mutando la natura risarcitoria della domanda proposta, ai sensi dell'art. 74 cod. proc. pen, innanzi al giudice penale.
Sez. 4, Sentenza n. 27045/2016:
Nel caso di accoglimento del ricorso per cassazione della parte civile avverso una sentenza di assoluzione, nel conseguente giudizio di rinvio, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità commissiva, il giudice civile è tenuto ad applicare le regole di giudizio del diritto penale e non quelle del diritto civile, essendo in questione, ai sensi dell’art. 185 cod. pen., il danno da reato e non mutando la natura risarcitoria della domanda proposta, ai sensi dell’art. 74 cod. proc. pen., innanzi al giudice penale.
-1.4. La Cassazione civile si adegua parzialmente, rivendicando autonomie di valutazioni ma non in termini sistematici generali
(sintesi da brano di Sez.3 civ 15859/2019, che richiama per confutare) “È stato affermato, da una giurisprudenza peraltro risalente (e non utile ai fini che occupano il collegio, come meglio si dirà più innanzi) che, pur quando si tratti di rinvio dopo annullamento delle sole disposizioni civili di sentenza penale, i limiti e l'oggetto del giudizio di rinvio sono fissati dalla sentenza di cassazione, sicché anche in questo caso il giudice di rinvio è chiamato a compiere l'esame della controversia, rimanendo entro il solco tracciato da questa ultima sentenza" (Cass. 26 luglio 1985, n. 4353; 22 marzo 1991, n. 3063; 29 aprile 1994, n. 4164), precisandosi ancora che l'efficacia preclusiva riconosciuta alla sentenza di cassazione riguarda non soltanto le questioni dedotte nel giudizio di legittimità ma anche quelle che in tale giudizio avrebbero potuto essere prospettate dalle parti o rilevate d'ufficio dalla Corte di cassazione quale necessario presupposto della sentenza, come ad esempio l'esistenza di un giudicato interno. Pertanto anche in caso di rinvio dopo annullamento delle sole disposizioni civili di sentenza penale, i limiti e l'oggetto del giudizio di rinvio sono fissati esclusivamente dalla sentenza di cassazione, la quale non può essere sindacata o elusa dal giudice di rinvio neppure se fosse eventualmente erronea (Cass. 28 giugno 1997, n. 5800). 12.2.1. In ordine al contenuto dell'atto di riassunzione, appare poi consolidato l'insegnamento (di recente, Cass. 19 dicembre 2017, n. 30529) secondo cui "l'atto di riassunzione della causa innanzi al giudice di rinvio, poiché non dà luogo ad un nuovo procedimento, ma ad una prosecuzione dei precedenti gradi di merito, non deve contenere, ai fini della sua validità, la specifica riproposizione di tutte le domande, eccezioni e conclusioni originariamente formulate, essendo sufficiente che siano richiamati l'atto introduttivo del giudizio ed il contenuto del provvedimento in base a cui avviene tale riassunzione. Ne consegue che il giudice innanzi al quale sia stato riassunto il processo non incorre nel vizio di ultrapetizione qualora pronunci su tutta la domanda proposta nel giudizio ove fu emessa la sentenza annullata e non sulle sole diverse conclusioni formulate con il suddetto atto di riassunzione". 12.3. Quanto alla disciplina processuale, si è ritenuto che anche il regime dei nova sia quello proprio del giudizio di rinvio disciplinato dall'art. 394 cod. proc. civ., cioè quello "del divieto per le parti di nuova attività assertiva o probatoria, che non si renda necessaria in conseguenza della pronuncia di cassazione". 12.3.1. In particolare, con riguardo alla delicata tematica dell'utilizzabilità o meno, nel giudizio di rinvio, della testimonianza resa dalla persona offesa in sede penale, si è ritenuto … che essa conservi il suo valore di prova giacchè in tal caso continuano ad applicarsi in parte qua le regole proprie del processo penale e la deposizione giurata della parte civile, ormai definitivamente acquisita ed ineludibile, deve essere esaminata dal giudice di rinvio esattamente come avrebbe dovuto esaminarla il giudice penale se le due azioni non si fossero occasionalmente separate (Cass. 14 luglio 2004, n. 13068).
2. La tempesta perfetta
- 2.1. La Cassazione civile “si ribella” ai principi enunciati nella giurisprudenza penale:
Sez. 3, Sentenza n. 15859/2019
“Nel giudizio civile di rinvio ex art. 622 c.p.p. si determina una piena "translatio" del giudizio sulla domanda civile, sicché la Corte di appello civile competente per valore, cui la Cassazione in sede penale abbia rimesso il procedimento ai soli effetti civili, applica le regole processuali e probatorie proprie del processo civile e, conseguentemente, adotta, in tema di nesso eziologico tra condotta ed evento di danno, il criterio causale del "più probabile che non" e non quello penalistico dell'alto grado di probabilità logica, anche a prescindere dalle contrarie indicazioni eventualmente contenute nella sentenza penale di rinvio…
[61 pag. di motivazione, con la teorizzazione sistematica della materia]
… Si deve conseguentemente dubitare che la Corte di cassazione penale abbia il potere di stabilire, in sede di annullamento con rinvio al giudice civile, quali siano le regole e le forme da applicare in tale giudizio, poiché tale compito deve ritenersi demandato integralmente al giudice civile di appello, ed alla stessa Corte di cassazione civile investita dell'eventuale impugnazione della decisione emessa in sede di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen… …Va, pertanto, definitivamente affermato che, essendo ormai intervenuto un giudicato agli effetti penali, ed essendo venuta meno, con l'esaurimento della fase penale del giudizio, la ragione stessa di attrazione dell'illecito civile nell'ambito delle regole della responsabilità penale, risulta coerente con la stessa ragion d'essere dell'intero assetto normativo destinato a disciplinare la materia che la domanda risarcitoria, quale precipitato di una complessa chimica interdisciplinare, venga esaminata secondo le regole proprie dell'illecito aquiliano - regole le cui peculiarità appaiono consolidata conseguenza della attuale funzione della responsabilità civile, volta all'individuazione del soggetto su cui, secondo il sistema del diritto civile, far gravare le conseguenze risarcitorie del danno verificatosi nella sfera giuridica della vittima, e non (più) a comminargli una sanzione (penale)…
Ma già:
Sez. 3, Sentenza n. 9358/2017
In materia di rapporti tra processo penale e civile, la sentenza di proscioglimento dell’imputato per intervenuta prescrizione del reato, passata in giudicato, non esplica alcuna efficacia vincolante nel giudizio civile di danno, anche quando lo stesso si svolga nelle forme del giudizio di rinvio conseguente a quello penale, ex art. 622 c.p.p., giacché rispetto ad esso, sebbene regolato dagli artt. 392-394 c.p.c., non è ipotizzabile un vincolo paragonabile a quello derivante dall’enunciazione del principio di diritto ex art. 384, comma 2, c.p.c.
Sez. 3, Sentenza n. 19430/2016
Il principio, affermato dalla Corte EDU, secondo cui l'art. 6 della CEDU impone di rinnovare l'istruzione dibattimentale ogni qualvolta si intenda riformare la sentenza assolutoria di primo grado (cd. "overturning") ha rilievo solo in ambito penalistico e non è applicabile ai giudizi risarcitori civili, governati - in tema di accertamento del nesso causale tra condotta illecita e danno - dalla diversa regola probatoria del "più probabile che non", e ciò tanto più ove venga richiesta in appello l'affermazione della responsabilità del presunto danneggiante negata, invece, dal giudice di primo grado (cfr. Corte EDU 21 settembre 2010, Marcos Barrios c. Italia).
Sez. 3, Ordinanza n. 9799/2019
Premesso che, nell'accertamento della sussistenza di determinati fatti, il giudice civile valuta liberamente le prove raccolte in sede penale, in modo del tutto svincolato dal parallelo processo penale, l'utilizzabilità o meno delle dichiarazioni rese da una coimputata ai sensi dell'art. 192 c.p.p. è questione che riguarda esclusivamente le regole che presiedono alla formazione della prova nell'ambito del processo penale, non assumendo alcun rilievo nel giudizio civile, teso a verificare la fondatezza degli addebiti mossi ai fini della decisione sulla domanda di risarcimento civile.
- 2.2. La Cassazione penale si ritrae (…sia allora il giudice penale a trattare anche il solo civile, se entrato nel processo penale, quando deve continuare a discutersi di responsabilità…)
Sez. 6, Sentenza n. 28215/2020
In caso di annullamento, per mancata rinnovazione dell'assunzione di prove dichiarative decisive, della sentenza di appello, che, in accoglimento del gravame della parte civile, abbia riformato, con condanna ai soli effetti civili, la decisione assolutoria di primo grado, il rinvio per nuovo giudizio va disposto dinanzi al giudice penale, in quanto non è applicabile l'art. 622 cod. proc. pen., permanendo, nonostante l'irrevocabilità della sentenza di assoluzione, un interesse penalistico alla vicenda, sotto il profilo della necessaria applicazione del principio di rilievo costituzionale del "giusto processo", anche in presenza di questioni relative ai soli profili civilistici della stessa.
Sez. 4, Sentenza n. 11958/2020
In caso di annullamento, per mancata rinnovazione dell'assunzione di prove dichiarative decisive, della sentenza di appello che, in accoglimento del gravame della parte civile, abbia riformato, con condanna ai soli effetti civili, la decisione assolutoria di primo grado, il rinvio per nuovo giudizio va disposto dinnanzi al giudice penale. (Conf. Sez. 4, n. 12174/2020, non massimata).
<<…11. Prima di affrontare il concreto thema decidendum, è opportuno chiarire che è ad esso estraneo il contrasto interpretativo maturato tra Corte penale e Corte civile in ordine alle regole che la Corte d'appello civile è tenuta ad applicare una volta investita, dalla Corte di cassazione penale, del rinvio ai sensi dell'art. 622 c.p.p. E neppure è questa la sede per prendere posizione in favore dell'uno o dell'altro orientamento, semmai solo per pronosticare che arroccamenti, sull'una o sull'altra, potrebbero pregiudicare l'unità della nomofilachia della Corte. È sufficiente, dunque, e solo per ragioni di completezza, ricordare che la contesa ermeneutica, originata dal silenzio serbato in proposito dall'art. 622 citato, vede schierate, da un lato, la Corte penale, secondo la quale il giudice civile del rinvio è tenuto, per evitare il rischio di aggirare l'accertamento del reato compiuto dal giudice penale e di determinare un danno da reato che prescinda dai limiti e dall'oggetto fissati nella sentenza penale, a valutare la sussistenza della responsabilità dell'imputato secondo i parametri decisori e le regole probatorie del diritto penale (si pensi, ad es. alla prova della sussistenza del rapporto di causalità tra condotta ed evento e al canone "dell'oltre ogni ragionevole dubbio" posto a presidio della valutazione degli elementi per pronunciare condanna) e non facendo applicazione delle regole proprie del giudizio civile (sez. 4 n. 5901 del 18/1/2019, Oliva Paolo c/ Navarra Giuseppe, Rv.275122; n. 5898 del 17/1/2019, Borsi Marco, Rv. 275266; n. 412 del 16/11/2018, dep. 2019, De Santis Raffaele, Rv. 274831; sez. 6 n. 43896 del 8/2/2018, Luvaro Angela, Rv. 274223; sez. 4, n. 34878 del 8/6/2017, Soriano, Rv. 271065; sez. 2, n. 28959 del 10/5/2017, Fasulo, Rv. 270364); dall'altro, la Corte civile che mette in campo una serie di argomentazioni per giungere a conclusioni diametralmente opposte (cfr., in particolare, Sez. 3 n. 15859 del 18 aprile 2019)… … Occorre, dunque, ripensare l'art. 622 cod. proc. pen. quale norma funzionale a ottenere il bilanciamento del principio di economia processuale, per il quale deve evitarsi il permanere di questioni civili nei ruoli penali, con la necessità, propria del principio del giusto processo tratteggiato nei termini anzidetti, di cristallizzare davanti al giudice penale l'accertamento del fatto illecito da cui origina il danno. Pertanto, il problema della individuazione, ai sensi dell'art. 622 o dell'art. 623 cod. proc. pen., del giudice al quale va devoluta la cognizione delle questioni civili residue, originariamente correlate a un fatto-reato, non può prescindere dalla verifica dell'oggetto della cognizione devoluta al giudice penale, chiamato a decidere degli effetti civili di una vicenda in cui l'accusato sia stato assolto in via definitiva, a seconda, cioè, che l'accertamento del fatto-reato possa dirsi o meno definitivamente concluso davanti al giudice penale, investito delle questioni civili in virtù del meccanismo processuale definito dall'art. 576, comma 1, primo periodo, ultima parte; accertamento regolato, nonostante l'assoluzione definitiva, dalle regole proprie del giudizio 21 penale, ivi compreso l'art. 603, comma 3, cod. proc. pen., nella lettura datane dal diritto vivente. Un ruolo decisivo, a tal fine, gioca proprio la forza "espansiva" dello statuto inderogabile dell'imputato: i suoi effetti si riverberano direttamente sul versante della definitività dell'accertamento del fatto-reato devoluto al giudice penale, in virtù del meccanismo processuale sopra richiamato, ancor prima che sul piano del condizionamento conoscitivo dell'accertamento penale rispetto al giudizio civile che consegue all'applicazione dell'art. 622 cod. proc. pen. Si tratta di interpretazione del tutto coerente con il testo della norma: l'utilizzo dell'avverbio "solamente" autorizza, infatti, una lettura dell'art. 622 cod. proc. pen. secondo la quale non rientra nell'annullamento "solamente" delle "disposizioni o ... capi che riguardano l'azione civile" un thema decidendum in cui ancora si controverta della sussistenza del fatto-reato secondo le regole proprie del processo penale, allorché le doglianze in tal senso formulate dall'accusato abbiano trovato positivo riscontro nella decisione di annullamento del giudice di legittimità penale. Solo allorché tale accertamento sia compiuto, nel rispetto dei canoni di giudizio del giusto processo, potrà effettivamente apprezzarsi quella dissoluzione del collegamento tra la pretesa risarcitoria del privato e l'accertamento del fatto-reato come operato nel processo penale e, quindi, il venir meno di ogni interesse penalistico correlato a quella vicenda, che giustifica il trasferimento al giudice civile della cognizione sui residui aspetti civilistici di essa, nei termini già sopra ampiamente chiariti, anche alla stregua dei precedenti di questa Corte di legittimità, penale e civile. Rispetto a tale profilo specifico, si dissente infatti dalle argomentazioni rinvenibili nella sentenza n. 15859 del 18 aprile 2019 della terza sezione civile di questa Corte: non è l'intervento del giudicato assolutorio agli effetti penali a far venir meno la ragione dell'attrazione dell'illecito civile nell'ambito delle regole della responsabilità penale, bensì il venir meno di ogni residuo della cognizione del giudice penale in ordine a un impianto accusatorio rispetto al quale l'accusato/danneggiante ha approntato la sua difesa nel processo penale, perché così previsto dalla legge. Tale lettura … consente anche di neutralizzare i profili di problematicità che attengono al diverso e dibattuto piano del condizionamento gnoseologico tra giudizio penale e processo civile. Viene, infatti, meno ogni necessità di ribadire la valenza extra penale di principi cardine dell'ordinamento posti a presidio di diritti fondamentali, come quello dell'accusato ad avere un processo giusto anche ai fini dell'accertamento del fatto di reato produttivo del danno, oggetto della domanda civile azionata nel processo penale, e di proseguire, dunque, il confronto che contrappone il comparto civile a quello penale e sul quale si apprezza lo sforzo interpretativo operato dalla sezione terza civile di questa Corte nella sentenza più volte richiamata… Il rinvio al giudice penale anziché a quello civile, peraltro, costituisce una garanzia del diritto di tutte le parti a non vedere stravolte, alla fine di un lungo processo, le regole probatorie e quelle logiche sulla responsabilità che lo hanno governato fino a quel momento, determinandone il progressivo posizionamento>>
3. L’indirizzo per la soluzione (in costruzione…)
- 3.1. Corte costituzionale 176/2019 respinge un tentativo disperato sul 576 (ma davvero è ora, visti i carichi conseguenti alla scarsa influenza dei riti alternativi, razionale che il giudice penale mandi in prescrizione i reati per trattare le sole pretese civilistiche, dopo un primo compiuto apprezzamento di infondatezza: quando pertanto la ‘ex-vittima’ è ormai solo attore puro?)
- 3.2 (In relazione ad art.6.2 CEDU, giurisprudenza Cedu e disciplina sulla presunzione di innocenza) Corte costituzionale 182/2021, chiamata a pronunciarsi sull’art. 578, sostanzialmente vira: (pare dire) nessuna violazione del principio di innocenza: attenti alle parole e comunque parametri civilisti già nel processo penale [prezioso il contributo sulla sentenza di B. Lavarini, Presunzione di innocenza “europea” e azione civile nel processo penale: un difficile compromesso fra tutela del prosciolto e salvaguardia del danneggiato in Giurisprudenza costituzionale, 4/2021, p. 1785]:
<<…Secondo la Corte EDU, terza sezione, sentenza 20 ottobre 2020, Pasquini contro Repubblica di San Marino, «senza una tutela che garantisca il rispetto dell’assoluzione o della decisione di interruzione in qualsiasi altro procedimento, le garanzie del processo equo di cui all’art. 6 [paragrafo] 2, rischiano di diventare teoriche o illusorie», sicché, in seguito ad un procedimento penale conclusosi con un’assoluzione o con una interruzione, la persona che ne è stata oggetto è innocente agli occhi della legge e deve essere trattata in modo coerente con tale innocenza in tutti i successivi procedimenti che la riguardano, a meno che si tratti di procedimenti giudiziari che diano luogo ad una nuova imputazione penale, ai sensi della Convenzione… In realtà – per le ragioni che si vengono ora ad esporre – si ha che, nella situazione processuale di cui alla disposizione censurata, che vede il reato essere estinto per prescrizione e quindi l’imputato prosciolto dall’accusa, il giudice non è affatto chiamato a formulare, sia pure “incidenter tantum”, un giudizio di colpevolezza penale quale presupposto della decisione, di conferma o di riforma, sui capi della sentenza impugnata che concernono gli interessi civili… Da una parte il principio di diritto (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 maggio-15 settembre 2009, n. 35490 [è la sentenza Tettamanti] – secondo cui, in deroga alla regola generale, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, quando, in sede di appello, sopravvenuta l’estinzione del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili – presuppone, per un verso, il carattere “pieno” o “integrale” della cognizione del giudice dell’impugnazione penale (il quale non può limitarsi a confermare o riformare immotivatamente le statuizioni civili emesse in primo grado, ma deve esaminare compiutamente i motivi di gravame sottopostigli, avuto riguardo al compendio probatorio e dandone poi conto in motivazione); per altro verso, non presuppone (né implica) che il giudice, nel conoscere della domanda civile, debba altresì formulare, esplicitamente o meno, un giudizio sulla colpevolezza dell’imputato e debba effettuare un accertamento, principale o incidentale, sulla sua responsabilità penale, ben potendo contenere l’apprezzamento richiestogli entro i confini della responsabilità civile … può accedersi all’interpretazione conforme agli indicati parametri interposti… Il giudice dell’impugnazione penale, nel decidere sulla domanda risarcitoria, non è chiamato a verificare se si sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, in cui si iscrive il fatto di reato di volta in volta contestato; egli deve invece accertare se sia integrata la fattispecie civilistica dell’illecito aquiliano (art. 2043 cod. civ.). Con riguardo al “fatto” – come storicamente considerato nell’imputazione penale – il giudice dell’impugnazione è chiamato a valutarne gli effetti giuridici, chiedendosi, non già se esso presenti gli elementi costitutivi della condotta criminosa tipica (commissiva od omissiva) contestata all’imputato come reato, contestualmente dichiarato estinto per prescrizione, ma piuttosto se quella condotta sia stata idonea a provocare un “danno ingiusto” secondo l’art. 2043 cod. civ., e cioè se, nei suoi effetti sfavorevoli al danneggiato, essa si sia tradotta nella lesione di una situazione giuridica soggettiva civilmente sanzionabile con il risarcimento del danno. Nel contesto di questa cognizione rilevano sia l’evento lesivo della situazione soggettiva di cui è titolare la persona danneggiata, sia le conseguenze risarcibili della lesione, che possono essere di natura sia patrimoniale che non patrimoniale. La mancanza di un accertamento incidentale della responsabilità penale in ordine al reato estinto per prescrizione non preclude la possibilità per il danneggiato di ottenere l’accertamento giudiziale del suo diritto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, la cui tutela deve essere assicurata, nella valutazione sistemica e bilanciata dei valori di rilevanza costituzionale al pari di quella, per l’imputato, derivante dalla presunzione di innocenza… … Una volta dichiarata la sopravvenuta causa estintiva del reato, in applicazione dell’art. 578 cod. proc. pen., l’imputato avrà diritto a che la sua responsabilità penale non sia più rimessa in discussione, ma la parte civile avrà diritto al pieno accertamento dell’obbligazione risarcitoria… …Con la disposizione censurata il legislatore ha operato un bilanciamento tra le esigenze sottese all’operatività del principio generale di accessorietà dell’azione civile rispetto all’azione penale (che esclude la decisione sul capo civile nell’ipotesi di proscioglimento) e le esigenze di tutela dell’interesse del danneggiato, costituito parte civile >>
[La domanda rimasta aperta: ma allora lo schema è 1) verifica 129, 2) prescrizione e definizione azione penale, 3) valutazione della responsabilità ai soli fini civili e con criteri civili - nel merito, sulle prove? – e se la domanda civile viene rigettata pure per il parametro ex 530.2 cod. proc. pen. niente più assoluzione penale e quindi superamento della giurisprudenza sul punto chiarissima di SU Tettamanti? . Da tener presente che qui la peculiarità è che le due decisioni, quella che delibera la prescrizione e quella che statuisce sulla responsabilità ai soli fini civili, sono contenute nel medesimo dispositivo e quindi ‘nascono’ contestualmente, solo la successione logico sistematica distinguendole temporalmente]
3.3. S.U. 22065/2021 Cremonini conferma l’originaria interpretazione dell’art. 622 quanto all’individuazione del destinatario del rinvio, ma apre al mutamento dei criteri di valutazione dopo il rinvio al giudice civile: “Può dunque essere enunciato il seguente principio di diritto: "In caso di annullamento ai soli effetti civili, da parte della Corte di Cassazione, per la mancata rinnovazione in appello di prova dichiarativa ritenuta decisiva, della sentenza che in accoglimento dell'appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, abbia condannato l'imputato al risarcimento del danno, il rinvio per il nuovo giudizio va disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello".
<<…Punto di partenza non può che essere l'incipit dell'art. 622, così letteralmente formulato: "fermi gli effetti penali della sentenza". Al riguardo, tale formulazione induce a ritenere che la stessa voglia significare che tutto ciò che riguarda il versante penale del fatto non può più essere posto in discussione e la cognizione delle questioni di natura civilistica passa, quando occorre, al giudice civile competente per valore in grado di appello, come emerge dal testo della norma. La ratio dell'art. 622 va ravvisata, cioè, in linea con la richiamata autonomia e separatezza dell'azione civile, nella volontà di escludere la perdurante attrazione delle pretese civili nel processo penale una volta che siano definitive le statuizioni di carattere penale… 12. Applicando tale principio alla fattispecie de qua non vi è dubbio che anche un'assoluzione dell'imputato in primo grado, oggetto di appello ex art. 576 cod. proc. pen. della sola parte civile, ribaltata in appello ai soli fini della responsabilità civile, determina il passaggio in giudicato della sentenza di assoluzione agli effetti penali e non può più essere posta in discussione. Anche in tale caso, si tratta di effetti penali che restano "fermi" (secondo la formulazione del richiamato art. 622), con conseguente rinvio - in ipotesi di accoglimento del ricorso dell'imputato - al giudice civile competente per valore in grado di appello. Dunque, se anche l'art. 573 cod. proc. pen. prevede che «l'impugnazione per i soli effetti civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale», non possono residuare dubbi, senza neppure la necessità di evocare a conforto la citata sentenza delle Sezioni Unite Sciortino, sull' esigenza che il rinvio in conseguenza della pronuncia di annullamento debba essere disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello … 15. Tirando le fila del ragionamento, la Corte ritiene che la definitività e l'intangibilità della decisione adottata in ordine alla responsabilità penale dell'imputato, determinate dalla pronuncia con cui la Corte di cassazione annulla le sole disposizioni o i soli capi che riguardano l'azione civile (promossa in seno al processo penale), ovvero accoglie il ricorso della parte civile avverso il proscioglimento dell'imputato, provoca il definitivo dissolvimento delle ragioni che avevano originariamente giustificato, a seguito della costituzione della parte civile nel procedimento penale, le deroghe alle modalità di istruzione e di giudizio dell'azione civile, imponendone i condizionamenti del processo penale, funzionali alle esigenze di speditezza del procedimento. Con l'esaurimento della fase penale, essendo ormai intervenuto un giudicato agli effetti penali ed essendo venuta meno la ragione stessa dell'attrazione 36 dell'illecito civile nell'ambito della competenza del giudice penale, risulta coerente con l'assetto normativo interdisciplinare sopra descritto che la domanda risarcitoria venga esaminata secondo le regole dell'illecito aquiliano, dirette alla individuazione del soggetto responsabile ai fini civili su cui far gravare le conseguenze risarcitorie del danno verificatosi nella sfera della vittima. L'annullamento e il conseguente rinvio al giudice civile competente comporta, in caso di riassunzione, l'assunzione della veste di attore-danneggiato della parte civile e di convenuto-danneggiante da parte di colui che nel processo penale rivestiva il ruolo di imputato… 17.1. Alla luce di quanto sopra esposto va affermato che il giudizio avanti al giudice civile designato ex art. 622 cod. proc. pen. è da considerarsi come un giudizio civile disciplinato dagli artt. 392 e ss cod. proc. civ. a seguito di riassunzione dopo l'annullamento della Corte di Cassazione ai soli effetti civili. In tal senso depongono la rubrica e il testo del citato art. 622 che utilizzano il verbo "rinvia" con riferimento all'effetto della statuizione penale, così evocando l'istituto del "rinvio" in sede civile quale disciplinato dagli artt. 392 e ss cod. proc. civ. … E proprio in ragione della scissione determinatasi a seguito della valutazione compiuta dal giudice penale non può, invece, ipotizzarsi il potere della Corte di cassazione penale di enunciare il principio di diritto al quale il giudice civile del rinvio deve uniformarsi. Lo stesso tenore letterale dell'art. 393 cod. proc. civ. - secondo il quale alla ipotesi di mancata, tempestiva riassunzione del giudizio consegue l'estinzione dell'intero processo - avalla la tesi della fase autonoma del giudizio civile di "rinvio" a seguito di annullamento da parte della Corte di cassazione penale. Dall'affermata natura del giudizio conseguente alla pronuncia di annullamento come giudizio riconducibile alla disciplina del giudizio ex art. 392 cod. proc. civ. 41 consegue che la Corte di cassazione penale non ha il potere di enunciare il principio di diritto al quale il giudice civile dovrà uniformarsi. Verificatosi un giudicato agli effetti penali, appare ragionevole che all'illecito civile tornino ad applicarsi le regole sue proprie, funzionali all'individuazione del soggetto su cui, secondo il sistema del diritto civile, far gravare il costo di un danno e non la sanzione penale. 17.2. La configurazione del giudizio conseguente all'annullamento in sede penale ai soli effetti civili (art. 622) come giudizio autonomo rispetto a quello svoltosi in sede penale consente alle parti di introdurlo nelle forme civilistiche previste dall'art. 392 cod. proc. civ. nonché di allegare fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno diversi da quelli che integravano la fattispecie di reato in ordine alla quale si è svolto il processo penale. Ciò giustifica anche l'emendatio della domanda ai fini della prospettazione degli elementi costitutivi dell'illecito civile, sempre che la domanda così integrata risulti connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio. L'emendatio, ma non la mutatio della domanda, garantisce al danneggiato di "espandere" la domanda risarcitoria allegando elementi rientranti nella fattispecie di responsabilità prevista dall'art. 2043 cod. civ. Al contempo, l'emendatio consente al danneggiante di evitare di subire la perdita di un grado di giudizio in conseguenza della scelta della controparte. 17.3. La natura autonoma del giudizio civile comporta conseguenze anche con riferimento all'individuazione delle regole processuali applicabili in tema di nesso causale e di prove, in ragione della diversa funzione della responsabilità civile e della responsabilità penale e dei diversi valori in gioco nei due sistemi di responsabilità. Il giudizio penale mette al centro dell'osservazione la figura dell'imputato e il suo status libertatis, quello civile il danneggiato e le sue posizioni soggettive giuridicamente protette. Le Sezioni Unite civili, con la sentenza n. 576 del 11/01/2008, hanno affermato che il nesso di causa nella responsabilità civile trae origine dallo stesso fondamento normativo dettato dagli artt. 40 e 41 cod. pen. per la responsabilità penale, secondo il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, attenuato dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base della quale, all'interno della serie causale, occorre dare rilievo solo a quegli eventi che non appaiano, ad una valutazione ex ante, del tutto inverosimili; tuttavia il nesso causale si differenzia quanto al regime probatorio applicabile in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi, vigendo, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, la 42 regola della preponderanza dell'evidenza "del più probabile che non", mentre nel processo penale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio". 17.4. Le questioni attinenti al diritto di difesa delle parti possono essere risolte alla luce dei principi che governano l'istruzione probatoria nel processo civile e, cioè, il principio di disponibilità delle prove (art. 115 cod. proc. civ.) e quello del libero convincimento (art. 116 cod. proc. civ.) che giustificano il potere del giudice civile di apprezzare le prove, anche cd. atipiche, ovvero tutti quegli strumenti probatori che, seppure non tipizzati nell'elencazione codicistica, siano astrattamente idonei a concorrere all'accertamento dei fatti di causa. Il mutamento delle regole probatorie a seguito dell'annullamento ex art. 622, contrariamente a quanto sostenuto dall'orientamento minoritario, non pone problemi sotto il profilo delle esigenze difensive delle parti, danneggiato e danneggiante, che fino a quel momento hanno scelto e commisurato la loro attività difensiva a regole probatorie diverse. 17.5. La già richiamata sentenza Sez. U, Schirru, ha affermato che «il diritto della parte civile già costituita nel processo penale che si conclude con l'annullamento dei capi della sentenza concernenti i suoi interessi non rimane, peraltro, menomato al punto da dovere - quella- espletare il proprio onere probatorio come se l'istruttoria già compiuta in sede penale fosse rimasta totalmente azzerata». La giurisprudenza civile di legittimità riconosce, infatti, al giudice civile, adito per il risarcimento del danno, l'onere del riesame dei fatti emersi nel procedimento penale, pure conclusosi con sentenza assolutoria. Oltre le già citate (al paragrafo 15) Sez. U civ., n. 1768/2011 e Sez. 3 civ., n. 1665/2016, è opportuno ricordare l'orientamento ormai consolidato in sede civile secondo il quale, alla luce del diritto vivente, mancando una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti se ed in quanto non smentite dal raffronto critico - riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato - con le altre risultanze del processo; quindi, la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, con la conseguenza che è insindacabile, in sede di legittimità, il" peso probatorio" di alcune testimonianze rispetto ad altre, in base al quale il giudice di secondo grado sia pervenuto ad un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo giudice (Sez. 3, n. 19430 del 30/06/2016, Rv. 642595; 43 I r Sez. 3, n. 11511 del 23/5/2014, Rv. 631448-01; Sez. 3, n. 13054 del 10/06/2014, Rv. 631274-01). In conclusione, l'art. 622 cod. proc. pen. permette la restituzione della cognizione dell'azione civile al giudice naturale, confermando che il fatto integra illecito civile, così preservando le peculiarità che distinguono la responsabilità civile rispetto a quella penale. 18. La conclusione sopra prospettata non comporta la violazione delle regole del giusto processo e dello statuto dell'imputato - convenuto danneggiante - il quale, con pienezza di diritti e nel rispetto del contraddittorio, può prospettare le sue tesi dinanzi al giudice civile. Sotto tale ultimo profilo va sottolineato che la regola del contraddittorio (art. 2697 cod. civ.) permea il giudizio civile al pari di quello penale. Non può neanche ravvisarsi la violazione della ragionevole durata del processo, in quanto la parte civile ha la possibilità di far valere l'azione civile, senza la necessità di instaurare ex novo un giudizio risarcitorio e il giudice civile dovrà tener conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale…>>
- 3.4. Da ultimo, in relazione all’istituto introdotto dall’344-bis, il nuovo art. 578, comma 1-bis ha disposto che Quando nei confronti dell'imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, e in ogni caso di impugnazione della sentenza anche per gli interessi civili, il giudice di appello e la Corte di cassazione, se l'impugnazione non e' inammissibile, nel dichiarare improcedibile l'azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell'articolo 344- bis, rinviano per la prosecuzione al giudice o alla sezione civile competente nello stesso grado, che decidono sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile.
[65] Che le prove acquisite nel processo penale non possano essere ignorate dal giudice civile cui il processo è “rinviato” (altra cosa il punto dei criteri di loro valutazione) è ora esito di specifico obbligo di legge. Gli artt. 578.1-bis, primo comma ultimo periodo e 573.1-bis dettano regola inequivoca: il giudice civile cui il processo è stato rinviato “decide sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel processo civile”. Le due norme sono dichiaratamente di raccordo per il passaggio, manifestazione inequivoca della volontà di un legislatore che sta disciplinando espressamente e solo gli effetti di quel passaggio, sicchè il giudice civile ne è vincolato (in altri termini, il contesto è del tutto diverso dai possibili contrasti tra giurisprudenze di legittimità penali e civili, come accaduto nel passato: qui il legislatore si è espresso).
[66] In assenza di una disciplina transitoria specifica, la ragione sistematica dell’inserimento di questo inciso di intensa rilevanza sistematica potrebbe fondare l’individuazione del momento di applicabilità della nuova disciplina dell’appello di sola parte civile (quindi il rinvio al giudice civile ex art. 573) ai soli processi per i quali la costituzione di parte civile è avvenuta dopo l’entrata in vigore della Riforma. La soluzione tuttavia non solo è strettamente legata alla sorte che viene data al quesito sugli eventuali limiti di emendatio libelli consentita in sede di citazione per riassunzione del giudizio davanti al giudice civile, dopo il rinvio disposto dal giudice penale, ma in realtà deve ora tener conto del fatto che le SU Cremonini hanno insegnato il loro principio di diritto (argomentato come appena sopra esposto) sulla situazione normativa ancora precedente la modifica della lettera d) dell’art. 78, la quale così viene a chiarire ed indirizzare piuttosto che a innovare radicalmente. In ogni caso, l’intervento in corso sulle discipline transitorie, come approvato dal Senato, non riguarda il nuovo testo dell’art. 373, da ritenersi quindi in vigore per gli atti di appello depositati dopo il 01/01/2023.
[67] Per la sua impugnazione relativa alle sole statuizioni civili, che non contestino la responsabilità dell’imputato, le nuove regole dell’art. 573, comma 1-bis, e 578, comma 1-bis, trovano sicuramente applicazione, così come per le sue impugnazioni sulle spese, nei casi disciplinati dagli articoli 541.2 e 542.
Più problematica appare invece la futura applicazione dell’art. 587.2, il quale prevede che l’impugnazione proposta dal responsabile civile, purché non fondata su motivi esclusivamente personali, giovi all’imputato anche agli effetti penali. Qui ci troviamo di fronte ad una impugnazione che, in relazione alla natura ed alla legittimazione del soggetto che la propone, è per i soli interessi civili: quando si tratti dell’unica impugnazione, pertanto, se ammissibile l’appello deve essere rinviato al giudice civile per la trattazione. Ma quell’appello, se devolve il punto della decisione relativo all’affermazione di responsabilità, quando accolto, e non in relazione a motivi esclusivamente personali, giova all’imputato anche agli effetti penali: l’imputato, nonostante l’irrevocabilità della sua condanna, non impugnata, dovrebbe pertanto essere assolto (con formula adeguata alle ragioni dell’accoglimento dell’appello del responsabile civile). Ma certamente non può essere il giudice civile a dare applicazione all’effetto estensivo dell’art. 587.3, quindi assolvendo il già imputato. Sembra miglior soluzione assegnare quindi al giudice penale dell’esecuzione (per tutte, Cass. Sez. 6, sent. 29408/2018), attivato da istanza dell’imputato o della parte pubblica che abbia notizia di quell’esito, la competenza a pronunciarsi sull’effetto estensivo della sentenza emessa dal giudice civile nei confronti del responsabile civile. Naturalmente, tale apprezzamento dovrà tener conto dei parametri probatori utilizzati dal giudice civile per accogliere l’appello del responsabile civile, ragionevolmente dovendosi escludere l’effetto penale assolutorio quando tale accoglimento sia stato determinato da criteri probatori diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nel processo penale.
[68] Utile in proposito è il richiamo alla giurisprudenza consolidata in tema di applicazione degli artt. 464-bis e 464-ter (per tutte, quanto alla produzione del programma di trattamento o di richiesta, da intendersi tempestiva, della sua elaborazione: Cass. Sez. 6, sent. 9197/2020).
[69] Art. 23-bis
1. … fuori dai casi di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, per la decisione sugli appelli proposti contro le sentenze di primo grado la corte di appello procede in camera di consiglio senza l'intervento del pubblico ministero e dei difensori, salvo che una delle parti private o il pubblico ministero faccia richiesta di discussione orale o che l'imputato manifesti la volontà di comparire.
2. Entro il decimo giorno precedente l'udienza, il pubblico ministero formula le sue conclusioni con atto trasmesso alla cancelleria della corte di appello per via telematica ai sensi dell'articolo 16, comma 4, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, o a mezzo dei sistemi che sono resi disponibili e individuati con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati. La cancelleria invia l'atto immediatamente, per via telematica, ai sensi dell'articolo 16, comma 4, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, ai difensori delle altre parti che, entro il quinto giorno antecedente l'udienza, possono presentare le conclusioni con atto scritto, trasmesso alla cancelleria della corte di appello per via telematica, ai sensi dell'articolo 24 del presente decreto.
3. Alla deliberazione la corte di appello procede con le modalità di cui all'articolo 23, comma 9 [23.9 Nei procedimenti civili e penali le deliberazioni collegiali in camera di consiglio possono essere assunte mediante collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Il luogo da cui si collegano i magistrati e' considerato Camera di consiglio a tutti gli effetti di legge. Nei procedimenti penali, dopo la deliberazione, il presidente del collegio o il componente del collegio da lui delegato sottoscrive il dispositivo della sentenza o l'ordinanza e il provvedimento e' depositato in cancelleria ai fini dell'inserimento nel fascicolo il prima possibile. Nei procedimenti penali le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle deliberazioni conseguenti alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio, svolte senza il ricorso a collegamento da remoto].
Il dispositivo della decisione e' comunicato alle parti.
4. La richiesta di discussione orale e' formulata per iscritto dal pubblico ministero o dal difensore entro il termine perentorio di quindici giorni liberi prima dell'udienza ed e' trasmessa alla cancelleria della corte di appello attraverso i canali di comunicazione, notificazione e deposito rispettivamente previsti dal comma 2. Entro lo stesso termine perentorio e con le medesime modalità l'imputato formula, a mezzo del difensore, la richiesta di partecipare all'udienza.
7. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche nei procedimenti di cui agli articoli 10 e 27 del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, e agli articoli 310 e 322-bis del codice di procedura penale. In quest'ultimo caso, la richiesta di discussione orale di cui al comma 4 deve essere formulata entro il termine perentorio di cinque giorni liberi prima dell'udienza.
Recensione al volume di Pasquale Fimiani “La tutela penale dell’ambiente. I reati e le sanzioni. Il sistema delle responsabilità. Le indagini, il processo e la difesa”
di Nicola Pisani
La “tutela penale dell’ambiente” di Pasquale Fimiani è un’opera, giunta alla quarta edizione, frutto di una ricerca attenta e di continuo aggiornamento, che fornisce un quadro completo del mini-sistema, del diritto penale dell’ambiente.
L’Autore, infatti, sempre in una prospettiva di ricostruzione sistematica, riesce a delineare lo stato dell’arte del diritto penale dell’ambiente, facendo le voci della più autorevole dottrina con i prevalenti e i più recenti orientamenti giurisprudenziali, non solo in materia penale, ma anche civile e della amministrativa.
Come afferma lo stesso Fimiani, del resto, trascorsi sette anni dall’entrata in vigore della Legge n. 68 del 2015, era giunto il momento di fare il punto sul sistema degli eco-delitti.
Il primo capitolo tratta di alcune questioni di parte generale declinate nella prospettiva specifica della responsabilità per reati in materia di ambiente.
Nel primo paragrafo[1], nello specifico, si evidenzia che nell’individuazione di questi ultimi il riferimento fondamentale è rappresentato dalla Direttiva 19 novembre 2008, n. 2008/99/CE[2], che prevede un elenco analitico di fattispecie rispetto alle quali si configura l’obbligo euro-unitario di tutela. Si tratta di ipotesi di compromissione o messa in pericolo la salubrità ambientale, nel duplice profilo di aggressione a specifiche componenti naturalistiche (specie ed habitat naturali protetti, ovvero aree naturali protette) ovvero agli elementi fondamentali delle acque e del suolo.
Sul primo versante, viene in evidenza la c.d. “protezione integrale” del territorio e dell’eco-sistema, da cui discende che ogni attività umana di trasformazione dell’ambiente all’interno di un’area protetta deve essere valutata in relazione alla primaria esigenza di tutelare l’interesse naturalistico, da intendersi preminente su qualsiasi indirizzo di politica economica o ambientale di diverso tipo[3].
Sul versante della compromissione della salubrità ambientale, invece, risulta centrale la nozione di inquinamento, enunciato a livello normativo come “introduzione diretta o indiretta, a seguito di attività umana, di sostanze, vibrazioni, calore o rumore nell’aria, nell’acqua o nel suolo, che potrebbero nuocere alla salute umana o alla qualità dell’ambiente, causare il deterioramento di beni materiali, oppure danni o perturbazioni a valori ricreativi dell’ambiente o ad altri suoi legittimi usi”.
Rispetto ai due ambiti così delineati, la materia del paesaggio, peraltro, risulta estranea alla tutela dell’ambiente in senso stretto[4], anche se l’Autore ne giustifica la trattazione nel capitolo XII[5] in ragione delle plurime interferenze con tale nucleo essenziale di tutela.
Merita attenzione il secondo paragrafo[6], dedicato all’analisi dello statuto costituzionale e convenzionale delle misure di prevenzione disciplinate dal d.lgs. n. 159/2011.
Nel paragrafo incentrato sulla responsabilità nelle strutture complesse private[7], il tema dell’individuazione dei soggetti responsabili è declinato, correttamente, alla luce del principio di responsabilità per il fatto proprio.
In presenza di delega di funzioni in materia ambientale, specifica l’Autore, l’obbligo del delegante di vigilanza alta sulla complessiva gestione del rischio da parte del delegato, per come risulta dal combinato disposto degli artt. 16, comma 3, e 30, comma 4, d. lgs. n. 81/2008 estensibile alla materia ambientale, deve intendersi assolto allorché il modello organizzativo adottato sia idoneo e nel contempo efficacemente attuato dall’ente. La tesi dell’applicabilità della disciplina della delega in materia di sicurezza sul lavoro alla materia ambientale ci sembra accoglibile. Si tratta di applicazione analogica di norma di favore non in contrasto con il principio di tassatività.
Anche il tema delle qualifiche di fatto in materia di reati ambientale muove dall’affermazione del principio della effettività delle funzioni: “tutti i soggetti che di fatto esercitano funzioni di amministrazione e di gestione dell’insediamento dal quale originano i reflui, senza che tale responsabilità assuma carattere oggettivo ed automatico, ma a titolo di colpa, intesa in senso ampio, ovvero conseguente non soltanto a comportamenti commissivi, ma anche per inosservanza del dovere di adottare tutte le misure tecniche ed organizzative di prevenzione del danno da inquinamento”[8]. Sul punto, tuttavia, le conclusioni non sono del tutto convincenti. L’attribuzione di posizioni di garanzia sembra collegarsi alla mera gestione dell’insediamento da cui originano i reflui. Volendo applicare l’art. 2639 c.c. che disciplina i presupposti delle qualifiche di fatto, sembra necessario specificare la caratura giuridica dei poteri che il soggetto esercita; detto altrimenti: non può essere un mero potere naturalistico idoneo a fondare una responsabilità per omesso impedimento.
Il secondo capitolo si dipana attraverso una disamina puntuale delle fattispecie delittuose previstie dal codice penale.
Il primo paragrafo[9] affronta in modo dettagliato i reato previsti prima della Legge n. 68 del 2015, che ha cercato di colmare il vuoto normativo colmato con l’introduzione del Libro II del titolo VI bis “Dei delitti contro l’ambiente” (articoli da 452-bis a 452-terdecies).
Alla carenza di fattispecie a tutela dell’ambiente nel codice penale la giurisprudenza aveva, peraltro, da tempo risposto ad esempio applicando la figura del disastro innominato, sia doloso che colposo (rispettivamente artt. 434 e 449 c.p.), in presenza di un evento di inquinamento o di contaminazione straordinariamente grave e complesso, avente un carattere di prorompente diffusione tale da esporre a pericolo la pubblica incolumità.
Erano stati inclusi nella nozione di disastro innominato anche fenomeni quali l’imponente contaminazione di siti mediante accumulo sul territorio e sversamento nelle acque di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi o le immissioni tossiche suscettibili di incidere sull’ecosistema e sulla qualità dell’aria respirabile, in modo da determinare imponenti processi di deterioramento, di lunga e lunghissima durata, dell’habitat umano[10]: era nata così la figura del disastro sanitario introdotta nei processi Eternit e Porto Marghera di fonte pretoria[11].
Alle difficoltà di adattamento delle fattispecie previste dagli artt. 434 e 449 c.p evidenziate dalla dottrina e dalla stessa Corte costituzionale, il legislatore del 2015 ha risposto con l’introduzione del reato di disastro ambientale ex art. 452-quater c.p.[12].
Come spiega l’Autore, esso si configura “fuori dei casi previsti dall’art. 434” nei confronti di chiunque “abusivamente” cagiona un disastro ambientale. La norma prevede che costituiscono disastro ambientale, alternativamente, l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema, l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali e l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.
La fattispecie incentrata sull’offesa alla pubblica incolumità è stata sin da subito oggetto di considerazioni critiche.
Viene evidenziato come il termine offesa sia in sé comprensivo sia del danno che del pericolo per il bene giuridico protetto, mentre la pubblica incolumità, quale concetto di relazione tra un fatto e una pluralità indeterminata di soggetti, è insuscettibile di essere direttamente danneggiata. Ne consegue che, secondo l’Autore, il delitto in esame non potrebbe che ritenersi di mera condotta e non di evento[13].
Per altro verso, invece, si osserva che la condotta non è in alcun modo specificata, mancando qualsiasi riferimento, tra gli elementi costitutivi della fattispecie, a fatti di deterioramento, compromissione od alterazione dell’ambiente, di un ecosistema, o di una singola componente ambientale.
L’Autore ritiene, tuttavia, che l’intenzione del legislatore sia quella di sanzionare assai severamente un’ipotesi di disastro ambientale prodotta da qualunque condotta di deterioramento, compromissione od alterazione dell’ambiente, di un ecosistema od anche di una singola componente ambientale quando da essa derivi un’offesa alla pubblica incolumità che sia qualificata da speciale rilevanza. Se così non fosse, infatti, si sarebbe d fronte a una fattispecie sostanzialmente superflua[14].
Il terzo capitolo[15] è dedicato fattispecie criminose incentrate sui provvedimenti autorizzatori generali (A.I.A. ed A.U.A.) e di controllo del pericolo di incidenti rilevanti connessi con all’uso di sostanze pericolose oltre che all’inquinamento idrico. Nello specifico, secondo i dettami della Corte costituzionale (sentenza n. 85/2013, par. 10.1), l’A.I.A. costituisce l’esito della confluenza di plurimi contributi tecnici e amministrativi in un unico procedimento, nel quale trovano simultanea applicazione i principi di prevenzione, precauzione, correzione alla fonte, informazione e partecipazione, che caratterizzano l’intero sistema normativo ambientale.
Sul punto pregevole è lo sforzo compiuto nella esplicazione delle regole di carattere amministrativo richiamate all’interno delle fattispecie penali esaminate.
Il quarto capitolo[16] si concentra sulla tutela penale dell’inquinamento idrico, partendo dalla fondamentale distinzione tra scarico e rifiuto, per poi individuare il concetto di acque reflue industriali ed esaminare nello specifico le violazioni al regime amministrativo, il superamento dei valori limite di emissione e le regole di campionamento, e gli illeciti che consistono nella violazione delle regole di gestione degli impianti di depurazione e trattamento di acque reflue, di quelle per l’utilizzazione agronomica e per la gestione delle acque meteoriche di dilavamento e di prima pioggia.
Da evidenziare, inoltre, i capitoli dal quinto al nono incentrati sulla tematica dei rifiuti.
Nello specifico, viene enucleato l’oggetto della tutela[17], il sistema delle responsabilità[18], la violazione degli obblighi procedimentali[19] per poi procedere ad un’analisi dettagliata dei reati di abbandono, deposito e discarica di rifiuti e della violazione dei divieti di miscelazione e combustione dei rifiuti[20].
L’Autore fa notare, peraltro, come siano intervenute modifiche significative nella disciplina sui rifiuti con il recepimento delle direttive in materia di economia circolare che, senza mutare in via diretta le disposizioni penali, hanno inciso sulla loro applicabilità, attraverso le cd. modifiche mediate delle fattispecie criminose.
Ius novum è ravvisabile anche all’interno disciplina della classificazione dei rifiuti[21], sia per un intervento chiarificatore della Corte di Giustizia, sia alla luce della valorizzazione delle linee guida del Sistema nazionale per la protezione ambiente.
Una ampia disamina è riservata al reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti[22], quanto alla struttura, ai criteri per l’individuazione della competenza e ai rapporti con i reati di criminalità organizzata: l’analisi strtturale delle due fattispecie fa emergere la vaporosità di quest’ultima fattispecie, ad avviso chi scrive, affetta da un deficit di determinatezza.
Il capitolo decimo[23] si occupa della bonifica dei siti e dei reati che sanzionano la violazione del procedimento per essa previsto, con ampia citazione della giurisprudenza civile, amministrativa e sovranazionale. Interessante è la parte del volume ove l’Autore si occupa degli effetti della successione nella carica e delle vicende societarie sul regime di responsabilità (fusione, incorporazione, cessione di azienda)..
Il capitolo undicesimo[24] si occupa della responsabilità penale nella materia dell’inquinamento acustico ed atmosferico, mentre il successivo[25] esamina, congiuntamente, gli aspetti penalistici di tutte le materia riconducibili al concetto di protezione integrale enunciato nel primo capitolo, quali la biodiversità e le aree protette, affrontando in tale contesto anche la tutela penale del paesaggio (interessata dalla recente legge n. 22/2022) ed il reato di incendio boschivo.
Alla tematica della responsabilità degli enti da reato ambientale è dedicato il capitolo tredicisimo. [26]
L’art. 25-undecies del d. lgs. 8 giugno 2001, recante l’individuazione dei reati ambientali presupposto della responsabilità degli enti, è stato modificato dalla legge n. 68 del 2015[27], che, come anzidetto, ha introdotto nel codice penale i delitti contro l’ambiente.
Ad esso si affiancano, a seguito della legge n. 22 del 2022, nel catalogo dei reati presupposto, all’art. 25-septiesdecies, i reati di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni paesaggistici e l’art. 25-duodevicies, con riferimento al reato di devastazione e di saccheggio di beni paesaggistici.
Illuminanti le parole di Palazzo: “essendo i nuovi ecodelitti reati a condotta libera caratterizzati da una nota di illiceità speciale della stessa (il famoso avverbio ‘abusivamente’), ne viene che l’accertamento del reato presupposto finirà necessariamente per concentrarsi sull’evento finale offensivo e sulla violazione delle norme e prescrizioni amministrative realizzata nell’esercizio dell’attività imprenditoriale”, con la conseguenza che “la dimensione corporativa della responsabilità ex d. lgs. 231/2001 finisce per agevolare il suo accertamento rispetto agli ecodelitti più di quanto avvenga invece nella dimensione individuale”.
Con riguardo, in particolare, ai suindicati criteri di imputazione del reato presupposto all’ente previsti dall’art. 5 del d. lgs. n. 231/2001[28], l’Autore richiama si riporta all’orientamento delle sezioni unite che hanno chiarito che i due termini di interesse e vantaggio hanno riguardo a concetti giuridicamente diversi, alternativi e concorrenti tra loro. Si può, infatti, distinguere tra un interesse a monte per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell’illecito, da un vantaggio obiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato ex ante. L’interesse è, dunque, il criterio soggettivo indagabile ex ante, mentre il vantaggio è il criterio oggettivo da valutare ex post[29].
La specificità della materia ambientale ha, inoltre, indotto l’Autore ad alcune utili riflessioni sul ruolo dell’organismo di vigilanza.
Viene, a tal fine, richiamata sempre la sentenza delle Sezioni Unite Thyssen del 2014[30], ove, proprio in materia ambientale e della sicurezza - ribadendosi che l’efficace attuazione del modello organizzativo richiede che l’OdV sia dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo – si esclude che detto requisito sia integrato allorché sia nominato componente il “responsabile dell’area ecologica, ambiente e sicurezza”, in quanto “le verifiche avrebbero riguardato l’operato di un dirigente chiamato ad essere un giudice di sé stesso e dotato di poteri disciplinari” privo del requisito dell’indipendenza.
Viene, altresì, menzionata dall’Autore, in una prospettiva di continuo aggiornamento, la sentenza del 2022[31] che ha chiuso la vicenda Impregilo. Nella stessa si afferma che l’OdV, pur non dovendo essere necessariamente un organo esterno alla struttura organizzativa dell’ente, ove sia stato posto alle dirette dipendenze del Presidente del consiglio di amministrazione, non offre sufficienti garanzie di autonomia nell’esercizio dei poteri di iniziativa e controllo.
L’Autore si esprime, inoltre, correttamente, in senso critico rispetto alla tesi propensa ad affermare la posizione di garanzia dei componenti dell’OdV, emersa in una dottrina minoritaria[32]
Il capito quattordici[33] è interamente dedicato all’estinzione delle contravvenzioni ambientali tramite l’adempimento delle prescrizioni impartite dall’organo di vigilanza.
Al riguardo, merita attenzione il paragrafo che riguarda il rapporto tra il procedimento impostato sulle prescrizioni al contravventore e il processo penale, che ha costituito uno dei versanti problematici dell’applicazione del d.lgs. n. 758 del 1994.
L’Autore, ripercorrendo i recenti arresti giurisprudenziali[34], afferma che la violazione della procedura amministrativa estintiva non può condizionare l’esercizio dell’azione penale, alla luce del principio di obbligatorietà della stessa. Ben potrà, pertanto, il contravventore, anche in caso di mancato perfezionamento della suddetta procedura, fruire dell’estinzione del reato in sede giudiziaria nella stessa misura agevolata, purché lo richieda.
Il capitolo XV[35] è dedicato, invece, alle indagini e al processo.
Secondo l’Autore la disciplina ambientale, infatti, impone agli organi di controllo il dovere di intervenire una volta venuti a conoscenza dell’evento inquinante e da questo momento essi assumono una posizione di garanzia la cui omissione può fondarne la responsabilità per omesso impedimento 40 cpv c.p. [36].
Nell’ambito di tale potere-dovere di controllo, sono spesso necessari accertamenti di natura tecnica, consistenti in un’attività di prelievo di campionatura e successiva analisi, anche strumentale quando si tratta di verificare il superamento di standars, come nel caso di inquinamento acustico od elettromagnetico.
Con particolare riguardo al processo, oltre all’approfondimento del tema del ripristino ambientale, della tutela della persona offesa e della sua partecipazione al processo, anche in forma associata, viene segnalato l’impatto sulla materia ambientale della causa di non punibilità per la speciale tenuità del fatto[37], prevista dall’art. 131-bis c.p. e introdotta dal d.lgs. n. 28 del 2015[38].
I limiti edittali rendo l’istituto potenzialmente applicabile alla gran parte dei reati previsti dal T.U.A., ai reati ambientali previsti da altre norme speciali e, quanto ai delitti contro l’ambiente introdotti dalla Legge n. 68 del 2015, al delitto di inquinamento ambientale colposo e a quello di impedimento del controllo.
Il decreto legislativo di riforma del codice penale e di procedura penale, nel modificare l’art. 131-bis c.p., non ha previsto i reati ambientali tra quelli la cui gravità esclude la speciale tenuità del fatto.
In tale prospettiva, dunque, anche altri delitti ambientali, quali quelli di inquinamento ambientale e di traffico ed abbandono di materiale radioattivo, puniti nel minimo, nella forma base non aggravata, con la pena di due anni di reclusione, ben potrebbero rientrare tra quelli per i quali si può applicare la causa di non punibilità della speciale tenuità del fatto.
Al contempo, l’Autore evidenzia che è da escludere il reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, pur avendo una pena edittale minima di un anno, stante la natura abituale.
Quanto ai reati ambientali permanenti, anche omissivi, quali l’omessa bonifica, deve ritenersi esclusa l’applicabilità dell’art. 131-bis fintantoché la permanenza non sia cessata, in ragione della perdurante compressione del bene giuridico per effetto della condotta delittuosa[39].
Va infine segnalato l’ultimo capitolo, incentrato sull’istituto della confisca nei reati ambientali, centrale nel contrasto alle attività criminali in danno dell’ambiente [40].
In conclusione, l’opera rappresenta, un contributo validissimo alla scienza del diritto penale dell’ambiente, e al contempo, uno strumento di orientamento e ‘contenimento’ della prassi giudiziaria.
[1] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 1-4.
[2] Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla tutela penale dell’ambiente, recepita con il d.lgs. n. 121/2011 ed ulteriormente attuata con la legge n. 68/2015 recante l’introduzione dei delitti ambientali nel codice penale.
[3] Cons. Stato, sez. VI, n. 7472/2004. Nella stessa prospettiva, cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 1269/2007. Per esplicazioni sulla teoria della protezione integrale dell’ambiente quale elemento distintivo della disciplina delle aree protette, si rinvia a DI PLINIO – FIMIANI (a cura di), Aree naturali protette, Milano, 2008, 15.
[4] Per la distinzione tra tutela del paesaggio e tutela dell’ambiente, cfr. Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, causa C-206/13, in Riv. giur.amb,2014, III-IV, 339, con nota di GRATANI La tutela del paesaggio a raffronto con la materia ambientale e il diritto UE.
[5] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 1048-1075.
[6] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 4-12.
[7] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 67-85.
[8] Cass. pen., sez. III, n. 20512/2005, in una fattispecie relativa all’inquinamento idrico.
[9] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 93-124.
[10] Cass. pen., sez. I, n. 7941/2015, in Dir. pen. cont., 24 febbraio 2015, con nota di ZIRULIA, Eternit, il disastro è prescritto. Le motivazioni della Cassazione.
[11] Cfr. Cass. pen., sez. IV, n. 4675/2007, in Cass. pen., 2009, VII-VIII, 2837, con nota di DI SALVO, Esposizione a sostanze nocive, leggi scientifiche e rapporto causale nella pronuncia della Cassazione sul caso “Porto Marghera”.
[12] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 156-171.
[13] BELL- VALSECCHI, Il nuovo delitto di disastro ambientale: una norma che difficilmente avrebbe potuto essere scritta peggio, cit. che ricordano come in dottrina si sia affermato che l’incolumità pubblica è un “ interesse di per sé inesistente in natura, ma funzionale alla tecnica di anticipazione della tutela, vale a dire un’oggettività giuridica creata dal Legislatore penale per consentire una difesa prodromica dei beni individuali, da forme di offesa diffusive, pluridirezionali e tendenzialmente incontrollabili” (GARGANI, Reati contro l’incolumità pubblica, Tomo I, Reati di comune pericolo mediante violenza, in Trattato di diritto penale, diretto da GROSSO, PADOVANI, GAGLIARO, Giuffrè, 92).
[14] Conformemente RUGA RIVA, I nuovi ecoreati, cit., 34, secondo il quale il fatto tipico previsto dall’art. 452-quater, n.3, è “pur sempre un fatto di contaminazione, come risulta anche dalla rubrica della disposizione”, ma se condivisibilmente tale fatto coincidesse con quelli descritti dai numeri 1 e 2, “la disposizione non avrebbe senso, posto che non integrerebbe un disastro alternativo, bensì aggiuntivo a quello tipizzato nei primi due numeri”.
[15] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 225-270.
[16] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 271-361.
[17] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 363- 520.
[18] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 521- 590.
[19] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 591- 660.
[20] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 661- 802.
[21] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 803- 876.
[22] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 876- 915.
[23] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 917- 970.
[24] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 971- 1021.
[25] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 1023 -1084.
[26] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 1085- 1176.
[27] Sul punto cfr. PALAZZO, I nuovi reati ambientali. Tra responsabilità degli individui e responsabilità dell’ente, in Dir. Pen. cont., 25 maggio 2018.
[28] Sul punto cfr. DE FALCO, Interesse e vantaggio dell’ente in tema di infortuni e malattie professionali: i rischi di un eccessivo automatismo e l’esigenza di un apprezzamento razionale e concreto, in Resp. amm. soc. ed enti, 2019, II, 55.
[29] La sintesi che segue è tratta dalla sentenza delle Sezioni Unite Thyssen n. 38343/2014.
[30] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, p. 1123.
[31] Decisione favorevolmente accolta dalla dottrina (Piergallini, Una sentenza “modello” della Cassazione pone fine all’estenuante vicenda “Impregilo”, in sistemapenale.it, 27 giugno 2002).
[32] DOVERE, Riflessioni in merito al rischio penale per i componenti dell’organismo di vigilanza per il caso di grave infortunio sul lavoro, in Resp. amm. soc. ed enti, 2016, I, 77, partendo dal rilievo che l’assenza di poteri impeditivi autonomi non ha sottratto il responsabile del servizio di protezione e prevenzione dall’essere titolare di una vera e propria posizione di garanzia, giusta Sezioni Unite Thyssen, pur sottolineando le differenze esistenti con i membri dell’OdV, considera non plausibile né eccessivo prevedere che “un potere di interferenza in contesto cooperativo che tende a valorizzare l’assolvimento di una funzione di prevenzione indiretta, possa orientare per un’estensione agli stessi di una posizione di garanzia”.
[33] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 1137- 1176.
[34] Cass. pen. sez. III, n. 3671/2018, che richiama le conformi n. 7678/2017, n. 20562/2015, n. 5864/2011 e n. 26758/2010.
[35] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 1177- 1258.
[36] Cass. pen., sez. III, n. 3634/2011, con riferimento alla condotta di funzionari Arpa che, venuti a conoscenza dell’esistenza di rifiuti interrati, “non procedevano ad alcun controllo sostanziale sulle operazioni di rimozione e smaltimento del rifiuto, di tal che non impedivano che lo stesso fosse gestito come semplice terra, consentendone il conferimento con il codice errato in discarica non autorizzata”.
[37] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 1207- 1217.
[38] Per i primi commenti nella materia ambientale, v. LEGHISSA, Il fatto di particolare tenuità e i reati ambientali, in lexambiente.it, 5 maggio 2915 e RAMACCI, Note in tema di non punibilità per particolare tenuità del fatto e reati ambientali, in lexambiente.it, 30 marzo 2015.
[39] Ex plurimus, Cass. pen., sez. III, n. 30383/2016, n. 19977/2020 e n. 15029/2021, secondo cui la natura permanente del reato non è di per sé sola ostativa all’applicabilità dell’art. 131-bis c.p., evocando a sostegno il dictum di Sezioni Unite n. 13681/2016).
[40] FIMIANI P., La tutela penale dell’ambiente, Giuffrè, Milano, 2022, 1259- 1305.
L’Ufficio per il processo: la parola ai funzionari (la Corte d’Appello civile)
Intervista di Ernesto Aghina a Carlotta Tedeschi (Brescia) e Angela Calcaterra (Palermo)
Proseguendo nella disamina delle valutazioni sulla funzionalità dell’Ufficio per il processo offerte dai funzionari chiamati a comporlo (iniziate su questa rivista con la Corte di Cassazione: L’Ufficio per il processo: la parola ai funzionari (la Corte di Cassazione), si offrono ora le considerazioni di alcuni funzionari delle Corti d’Appello (di Brescia e di Palermo) che espongono le specifiche attività loro demandate, le principali criticità emerse nella fase di esordio, il rapporto tra supporto ai giudici ed alle cancellerie e (soprattutto) alle modalità di affiancamento alla specifica attività giudiziaria, in cui si rileva la principale difformità organizzativa tra i vari uffici.
Il confronto delle risposte offerte, per il settore civile, dalla dott.ssa Carlotta Tedeschi (per la Corte d’Appello di Brescia) e dalla dott.ssa Angela Carcaterra (per la Corte d’Appello di Palermo), attive in uffici molto diversi tra loro, consente una comparazione di qualche interesse, evidenziando una tendenziale uniformità organizzativa, se pure con comprensibili differenze legate alle peculiarità degli uffici (ad es. in riferimento alla partecipazione o meno alle udienze ovvero all’intensità del supporto dei funzionari alle cancellerie).
Il campione di riferimento degli uffici di secondo grado merita una specifica considerazione, sia in riferimento alle intrinseche tipologie funzionali dell’appello, sia con riguardo alle difficoltà collegate al supporto alla giurisdizione, ove si consideri l’esperienza non entusiasmante (se pur certamente difforme) dei giudici ausiliari.
Vengono evidenziate modalità organizzative sostanzialmente simili, ed anche le comuni criticità (iniziali) di carattere logistico e (sopravvenute) relativamente alle progressive scoperture di organico.
Comune la valutazione (positiva) dell’apporto formativo offerto dai magistrati e dal personale di cancelleria, nonché l’ottimismo verso i risultati concreti offerti dall’attività dell’ U.P.P., che saranno oggetto di prossima valutazione periodica da parte del ministero.
Più in generale, per una verifica dell’attività degli U.P.P.P., si segnala l’analisi operata dall’ A.N.M. (se pure relativa ad un campione ridotto di distretti), in occasione del recente congresso nazionale, e consultabile sul sito web: Microsoft PowerPoint - Presentazione_UPP_XIV_CommissioneANM _ 6.1.pptx (associazionemagistrati.it) .
1. La formazione iniziale è risultata coerente rispetto alle attività da svolgere?
(TEDESCHI) Si, le settimane successive alla presa in servizio sono state interamente dedicate all’attività di formazione.
Tale attività ha avuto ad oggetto sia nozioni di carattere sostanziale e processuale afferenti ai principali macrosettori del diritto, sia gli strumenti applicativi che avremmo dovuto utilizzare (nel mio caso specifico il SICID e la Consolle essendo stata assegnata alla Prima Sezione Civile della Corte di Appello).
A tal fine abbiamo frequentato le lezioni teoriche caricate sull’apposito sito istituzionale predisposto dal Ministero della Giustizia (giustizia.lezione-online.it), e svolto attività di carattere pratico, affiancando il personale amministrativo ed i magistrati.
Infine abbiamo effettuato apposite lezioni di approfondimento dei principali programmi informatici, le quali ci hanno consentito di comprendere molteplici modalità di utilizzo degli stessi, che abbiamo utilizzato nel corso di questi mesi per l’avvio di differenti progetti.
(CALCATERRA) La formazione iniziale predisposta dal Ministero della Giustizia e resa fruibile attraverso la piattaforma “Giustizia – Lezione online” (https://giustizia.lezione-online.it/) si è rivelata solo parzialmente coerente rispetto alle attività che siamo stati chiamati a svolgere. Tale risultato è, probabilmente, dovuto all’inevitabile genericità di un programma che si proponeva di avviare i nuovi funzionari alle tante e variegate mansioni previste, non potendo però prevedere in che modo lo svolgimento delle stesse avrebbe effettivamente preso corpo in ciascun ufficio giudiziario.
Il maggiore, nonché fondamentale, contributo alla nostra formazione è stato spontaneamente offerto dal personale già in servizio presso le cancellerie, nonché dai magistrati di ciascuna sezione.
2. Quale il rapporto percentuale tra attività di supporto alla cancelleria e ai giudici?
(TEDESCHI) Per quanto concerne il settore civile, principalmente la nostra attività è finalizzata al supporto dei magistrati, eseguendo unicamente in via residuale attività di supporto alla cancelleria.
(CALCATERRA) L’attività svolta è, tendenzialmente, per il 70% di tipo giurisdizionale e per il 30% di supporto alla cancelleria.
Per quanto riguarda l’attività di supporto al giudice, il funzionario U.P.P. si occupa concretamente di studiare, ogni settimana, i fascicoli delle cause che verranno trattate in udienza, con particolare attenzione a quelle iscritte per la prima comparizione, affiancando a tale mansione quella di studio dei fascicoli relativi alle cause in decisione e alla stesura delle bozze di sentenze.
L’attività di supporto alla cancelleria risulta diversificata in base alle peculiari esigenze di ciascun ufficio. Nelle sezioni civili della Corte d’Appello di Palermo si concretizza, essenzialmente, nell’accettazione giornaliera degli atti del processo telematico, nella partecipazione alla turnazione per la preparazione, la gestione e lo scarico delle udienze, nella pubblicazione delle sentenze e, per taluni fra noi, nello svolgimento di attività in materia di spese di giustizia.
3. Quali compiti ti sono concretamente attribuiti nella collaborazione all’attività giudiziaria? Partecipi all’udienza?
(TEDESCHI) Al fine di realizzare la riduzione delle pendenze, in osservanza agli obiettivi previsti dal Piano Nazionale di Resilienza e Resistenza, analizzo e studio i fascicoli che mi vengono assegnati, individuando la normativa applicabile, effettuando le ricerche giurisprudenziali inerenti le tematiche trattate e predisponendo una bozza di sentenza.
Effettuo periodicamente il controllo di istanze o richieste relative a tali fascicoli.
Monitoro la proposizione di cause riconducibili ai filoni giurisprudenziali maggiormente ricorrenti. Realizzo le attività amministrative di supporto che mi vengo indicate.
Partecipo settimanalmente alle udienze e alle camere di consiglio della Sezione.
Inoltre, nel corso di questi mesi abbiamo realizzato vari progetti di digitalizzazione ed innovazione, fra i quali un sistema di circolazione delle pronunce della Corte di Appello ai Tribunali del Distretto, un progetto di monitoraggio dei dati statistici ed avviato il progetto della giustizia predittiva.
(CALCATERRA) Nei primi mesi, dopo l’assunzione, i magistrati ci hanno prevalentemente affidato attività di studio dei fascicoli iscritti per l’udienza di prima trattazione e di compilazione delle relative schede riassuntive, nonché lo svolgimento di approfondimenti giurisprudenziali delle tematiche giuridiche rilevanti.
Tali mansioni sono state presto affiancate da quelle di studio dei fascicoli relativi alle cause in decisione e di stesura delle bozze di sentenze e/o di provvedimenti semplici.
Si è, inoltre, rivelata particolarmente importante la partecipazione dei funzionari alla gestione e alla ri-organizzazione dei ruoli ai fini dello smaltimento delle cause più risalenti. In tale prospettiva sono state fissate diverse udienze straordinarie per la trattazione e, laddove opportuno, decisione con l’ausilio dei funzionari U.P.P. dei giudizi così individuati.
Le peculiarità del processo in grado di appello rendono tendenzialmente superflua la partecipazione alle udienze. Risulta, invece, di maggiore utilità lo svolgimento delle attività preliminari alle stesse. Tra queste spiccano lo studio dei fascicoli iscritti per la prima trattazione (con particolare attenzione alle questioni relative alle istanze di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza impugnata e alle richieste istruttorie), le verifiche inerenti la regolarità delle notifiche, la tempestività del gravame e l’avvenuta trasmissione del fascicolo di primo grado, fino alla redazione, se richiesto dal magistrato, delle ordinanze rese in udienza e/o di scioglimento di riserva.
4. Lo smart-working è utilizzato? Se sì, in che rilievo? È stato utile? E che tipo di attività è stata assegnata?
(TEDESCHI) Si, a seguito della stipulazione di specifici accordi individuali in materia, abbiamo la possibilità di svolgere l’attività lavorativa in smart working in due giornate prestabilite.
Al termine di ogni giornata compilo un report indicando tutte le attività svolte.
Durante le giornate in smart working effettuo i medesimi compiti che svolgerei in ufficio, potendo utilizzare gli applicativi (SICID e Consolle) anche da casa tramite le dotazioni informatiche che mi sono state fornite.
Egualmente, mi è possibile frequentare i corsi di formazione presenti sull’apposita piattaforma ministeriale.
(CALCATERRA) Sì, la Corte d’Appello di Palermo ha iniziato ad autorizzare lo smart-working a partire da giugno. Ciascuno dei funzionari U.P.P. usufruisce di uno o due giorni di smart-working a settimana, durante i quali si dedica, salvo diverse esigenze dell’ufficio, alla stesura delle bozze di provvedimenti giurisdizionali decisori e alla produzione di schede riassuntive delle principali questioni relative ai fascicoli fissati per la prima udienza di trattazione.
L’espletamento di parte dell’attività lavorativa in modalità agile appare fondamentale sia in ragione delle mansioni, prevalentemente di tipo giurisdizionale, che siamo tenuti a svolgere, sia a fronte del contesto in cui attualmente ci ritroviamo a lavorare, caratterizzato dalla condivisione di spazi ristretti e da strumenti di lavoro limitati.
5. L’organizzazione dell’UPP prevede una attribuzione del funzionario al singolo magistrato o alla materia? Quali i vantaggi o le criticità della scelta organizzativa adottata?
(TEDESCHI) Ognuno di noi è stato assegnato ad un singolo magistrato della Sezione: tale scelta si è rivelata particolarmente funzionale, in quanto è stato possibile istaurato un confronto diretto con i consiglieri, dai quali abbiamo potuto imparare la metodologia utilizzata per lo studio dei fascicoli e le tecniche di redazione delle bozze di provvedimento.
(CALCATERRA) Nella Corte di Appello di Palermo, l’organizzazione dell’Ufficio per il processo, attualmente, prevede un’assegnazione tendenziale del funzionario al singolo magistrato. Tale scelta organizzativa si è resa necessaria, dopo la suddivisione dei funzionari tra le sezioni, a fronte della difficoltà nell’individuazione di materie dai confini determinati, data la scarsa serialità del contenzioso in grado di appello. In ogni caso, poiché i funzionari U.P.P. sono a disposizione della sezione di riferimento, l’assegnazione al singolo magistrato non pregiudica la possibilità per il singolo di svolgere attività richieste da altri giudici dell’ufficio.
All’inizio, tale tipo di organizzazione ha comportato alcune difficoltà, per lo più connesse alla novità della figura e alla necessità per i magistrati meno abituati a forme di collaborazione di prendere confidenza con un metodo di lavoro del tutto inedito. Con il passare del tempo, tuttavia, la scelta di suddividerci in gruppi, ciascuno facente capo a un diverso magistrato, si è rivelata particolarmente funzionale perché ha consentito a tutti i funzionari, soprattutto a quelli con minore esperienza in materia di collaborazione con gli uffici giudiziari, di acquisire rapidamente un metodo di lavoro (quello del magistrato di riferimento).
6. Le mansioni svolte si sono rivelate in linea con le tue aspettative?
(TEDESCHI) Personalmente i compiti che mi sono stati attribuiti non solo si sono rivelati in linea con le mie aspettative, ma risultano anche particolarmente stimolanti e formativi.
(CALCATERRA) Ho svolto il mio periodo di tirocinio formativo ex art. 73 D.L. 69/2003 presso la stessa sezione della Corte d’Appello di Palermo a cui sono stata assegnata come funzionario U.P.P. Le mie aspettative erano, dunque, necessariamente condizionate dalla mia esperienza pregressa. Le mansioni che svolgo come funzionario si sono rivelate sostanzialmente in linea con le attività che pensavo sarei stata chiamata a svolgere una volta assunta.
7. Quali sono state le maggiori criticità riscontrate nello svolgimento del lavoro?
(TEDESCHI) Non ho riscontrato criticità nello svolgimento del mio lavoro, anzi penso che l’Ufficio per il processo rappresenti un’opportunità per poter fornire un contributo concreto ad un più efficiente funzionamento del nostro sistema giudiziario, consentendoci inoltre di esprimere le nostre potenzialità.
(CALCATERRA) Le maggiori criticità sono date dalla carenza di spazi e di strumenti adeguati allo svolgimento dell’attività lavorativa, nonché dalla difficoltà nel trovare un metodo di organizzazione del lavoro efficiente e idoneo al raggiungimento dell’obiettivo di smaltimento dell’arretrato che il legislatore si era prefissato.
8. Si è avuta una generale percezione dei progressi organizzativi e operativi dell’ufficio di appartenenza?
(TEDESCHI) Si, i dati statistici relativi al primo semestre di avvio dell’Ufficio per il processo presso la Corte di Appello di Brescia hanno registrato il raggiungimento degli obiettivi intermedi prefissati, evidenziando anche dati superiori alla media nazionale.
(CALCATERRA) Direi di sì dal punto di vista dell’attività di supporto alla cancelleria, soprattutto in termini di riduzione dei tempi di lavoro.
Si ha, invece, una percezione diversa in relazione all’attività di supporto al giudice. L’obiettivo di smaltimento dell’arretrato giudiziario che si era prefissato il legislatore, infatti, si scontra con la specificità del contenzioso in grado di appello, caratterizzato da una maggiore complessità e, soprattutto, da una minore serialità rispetto a quello del primo grado. Tali aspetti rendono inevitabilmente più lento il processo di decisione delle cause e di smaltimento dell’arretrato, nonostante il supporto dei nuovi funzionari.
9. In che misura percentuale si rilevano attualmente scoperture nell’organico dell’ U.P.P. presso la tua Corte di Appello?
(TEDESCHI) Attualmente la percentuale di scopertura dell’organico risulta essere indicativamente del 10%.
(CALCATERRA) Attualmente, solo 48 funzionari dei 60 previsti dalla pianta organica delle sezioni civili sono in servizio presso la Corte d’Appello di Palermo. Molti funzionari, peraltro, sono stati recentemente assunti per sopperire ai vuoti in organico creati, nei mesi immediatamente successivi alla stipula del contratto di lavoro, dai dimissionari vincitori di altri concorsi.
Tale dato dovrà essere presto aggiornato, alla luce dell’elevato numero di funzionari U.P.P. risultati vincitori del concorso INPS, i cui orali non si sono ancora conclusi.
La principale ragione di tale “esodo” va individuata nella precarietà della nostra posizione lavorativa, precarietà che si inserisce in un contesto storico caratterizzato, per la prima volta dopo decenni, dall’offerta di tante opportunità lavorative, nel settore pubblico, a tempo indeterminato.
Anche la situazione di continuo ricambio di personale e di incertezza, per i funzionari U.P.P. in servizio, in ordine alla stabilità della propria posizione lavorativa influisce negativamente sull’efficienza del nuovo ufficio.
Gli approfondimenti della dottrina sulla riforma Cartabia - 2. Un filtro più potente precede un bivio più netto: nuove possibili prospettive di equilibrio tra udienza preliminare, riti speciali e giudizio nel quadro della riforma Cartabia
di Andrea Cabiale e Serena Quattrocolo*
Il lavoro fornisce un contributo a prima lettura sulle innovazioni in materia di udienza preliminare, giudizio e procedimenti speciali, apportate dal decreto attuativo della ‘riforma Cartabia’, illustrandone le principali caratteristiche e alcuni nodi interpretativi.
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Udienza preliminare: una protagonista dalla scarsa presenza scenica - 2.1. Il controllo giudiziale sulla formulazione dell’imputazione. - 2.2. La corrispondenza dell’imputazione agli atti. - 2.3. Un filtro a maglie ristrette. – 3. Le multiformi novelle in materia di giudizio. - 3.1. La calendarizzazione delle udienze. - 3.2. Le richieste di prova. - 3.3. Il deposito di relazioni peritali e tecniche. - 3.4. Mutamento del giudice e documentazione delle prove dichiarative. - 3.5. Contestazioni suppletive dibattimentali e procedimenti speciali. - 4. Il restyling dei riti speciali. - 4.1. Giudizio abbreviato. - 4.2. Patteggiamento. - 4.3. Giudizio immediato. - 4.4. Procedimento per decreto. - 4.5. Sospensione del procedimento con messa alla prova. – 4.6. Le idee rimaste nel cassetto.
1. Introduzione
La prossima entrata in vigore del d.lgs. 150/2022 spinge a riflettere, in termini complessivi, sullo snodo essenziale dell’esercizio dell’azione penale e dei diversi percorsi che a seguito di esso il processo può intraprendere.
Nel contesto dei numerosi focus che questa Rivista dedica alla imminente entrata in vigore della riforma della giustizia penale[1], il presente contributo si concentra sui temi dell’udienza preliminare, del giudizio e dei riti alternativi. Sono ambiti nei quali l’intervento riformatore si calibra in misura differenziata - più netto e incisivo sulla fisionomia stessa dell’udienza preliminare, più di contorno su giudizio e riti alternativi – rispondendo però ad un obiettivo coerente, ovvero quello di correggere le disfunzioni che oltre trent’anni di applicazione pratica del nuovo codice di procedura penale hanno messo in luce. Riflettendo, come è avvenuto in ogni passaggio del percorso di riforma – a partire dai lavori della Commissione Lattanzi, fino al testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 17 ottobre 2022 – sulla realtà applicativa e non soltanto sulla coerenza sistematica delle norme, i lavori si sono concentrati sulla necessità di reagire a prassi, abitudini, strategie di corto respiro e veri propri vizi che in questi decenni hanno impedito alle norme del codice del 1988 di raggiungere gli obiettivi che le avevano ispirate e dettate[2]. In tale scenario, al di là del classico tema della scarsa appetibilità dei procedimenti speciali – che, nonostante le frequenti riforme, non hanno mai raggiunto tassi tali da ‘liberare’ i ruoli del giudizio nei termini decisivi che la stessa legge delega 81/1987 aveva immaginato – è evidente la centralità dell’udienza preliminare, snodo che certamente, tra le grandi novità del nuovo codice, ha fatto registrare il peggior risultato operativo[3]. E proprio dall’udienza preliminare prende le mosse questo contributo, specificandosi sin d’ora che - per ragioni di autonomia sistematica del tema dell’assenza dell’imputato - non sarà qui analizzata la nuova disciplina degli artt. 420 bis ss.c.p.p.
2. Udienza preliminare: una protagonista dalla scarsa presenza scenica
Altamente significativo, in una riforma volta al raggiungimento dell’efficienza del processo penale, è il ruolo giocato dallo snodo dell’esercizio dell’azione penale. In più punti del d.lgs. 150/2022 si pone attenzione all’innesco del processo e a tutti i relativi presupposti e conseguenze, come i tempi per la determinazione del pubblico ministero sull’eventuale esercizio dell’azione penale, le modalità di notificazione degli atti introduttivi del processo, i filtri giurisdizionali sugli atti imputativi… Proprio quest’ultimo profilo accende i riflettori sul tema dell’udienza preliminare, arrivata, con la riforma in commento, ad un ‘tagliando’ profondo ed incisivo, in ragione della diffusa insoddisfazione circa la sua stessa natura, sui ruoli dei suoi protagonisti, sul significato dei suoi esiti.
Due temi principali caratterizzano gli interventi sull’udienza preliminare: un primo momento di ricalibratura - se necessaria - della imputazione, con le interpolazioni integrate degli artt. 421 e 423 c.p.p.; il secondo momento, incentrato sulla regola di giudizio, profondamente modificata. Qui di seguito si cercherà di ripercorrere tutti gli aspetti più significativi della novella dalla imminente entrata in vigore.
2.1. Il controllo giudiziale sulla formulazione dell’imputazione
Quanto al primo momento, è sufficiente qui ricordare la forte contrapposizione tra dottrina e giurisprudenza in tema di genericità, imprecisione e incompletezza del capo di imputazione formulato dal pubblico ministero nella richiesta di rinvio a giudizio[4]. L'assenza di una esplicita previsione di invalidità dei requisiti enunciati dall’art. 417 c.p.p. non ha mai rappresentato per la dottrina un limite all’accertamento del vizio dell’imputazione generica o carente rispetto agli atti di indagine, in forza della disciplina generale dell’art. 178 c.p.p., secondo alcuni sotto il profilo della lett. c, con un regime di rilevabilità intermedio, secondo altri sotto il profilo della lett. b, iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale, con un regime di rilevabilità assoluto. Al contrario, la giurisprudenza ha sempre escluso la sussistenza di una invalidità. Il sedimentarsi di tale contrapposizione aveva portato le Sezioni Unite, con la nota sentenza Battistella[5], a ritenere addirittura abnorme l’atto con il quale il giudice dell’udienza preliminare, rilevata la violazione dell’art. 417 lett. b c.p.p., avesse restituito gli atti al pubblico ministero per la riformulazione della imputazione, senza previo invito a quest’ultimo alla modifica della medesima, nel senso indicato dagli atti contenuti nel fascicolo[6].
La soluzione emersa già nella proposta Lattanzi e trasfusa nel d.lgs. 150/2022 rappresenta una sintesi delle posizioni, contrapposte, di dottrina e giurisprudenza, non tanto per un malcelato spirito salomonico, ma in linea con il rafforzamento del controllo giurisdizionale sulla corrispondenza tra imputazione formulata dal p.m. e atti del procedimento, che si ripropone anche nella udienza predibattimentale, innanzi al tribunale in composizione monocratica.
In primo luogo, la nuova formulazione dell’art. 421 co. 1 c.p.p. impone al giudice un preliminare ed esplicito controllo sulla sufficiente specificità della imputazione. L’espressa previsione della delibazione giurisdizionale riveste, in questa come nella ‘parallela’ sede della udienza predibattimentale, il presupposto per un immediato intervento ortopedico che possa più efficacemente orientare l’imputato (e il p.m., ove previsto), verso la scelta di un rito alternativo, concentrando in apertura dell’udienza le questioni relative alla validità della imputazione[7]. Alcuni elementi sottolineano l’assoluta rilevanza della interpolazione. Tale funzione è rimarcata dalla collocazione, prima della apertura della discussione, della verifica giurisdizionale. Nel silenzio della attuale formulazione normativa, lo spazio operativo dello ‘schema Battistella’ si colloca più agevolmente nel corso o al termine della discussione, sulla scorta di un più plausibile intervento argomentativo della difesa, piuttosto che di un dovere officioso del giudice dell’udienza preliminare. Per più di una ragione, l'anticipazione e l’officializzazione del controllo di non genericità del capo di imputazione non è priva di riflessi sull’autonomia organizzativa del pubblico ministero. Non solo, infatti, tale controllo diviene da meramente eventuale - affidato perlopiù alla iniziativa della difesa - a necessario, perché posto tra gli adempimenti del giudice, ma finisce per ridurre sensibilmente la discrezionalità del pubblico ministero nelle scelte relative alla strategia accusatoria. Se è vero, infatti, che il nuovo vaglio dell’art. 421 c.p.p. mira a intercettare tutte le ‘imperfezioni’ della richiesta di rinvio a giudizio, ovvero quelle situazioni in cui l’atto imputativo non sia redatto con la chiarezza e la precisione prescritte dalla lett. b dell’art. 417 c.p.p., non si può negare che queste si possono più facilmente misurare in termini relativi, grazie alle risultanze delle indagini contenute nel relativo fascicolo. Sebbene la relazione di accompagnamento al d.lgs. 150/2022 sottolinei espressamente la natura formale dei vizi che questo primo controllo ha di mira[8], non si può escludere che la genericità dell’imputazione possa emergere,o emergere più chiaramente, da un raffronto, da parte del giudice, con il materiale investigativo.
Su questo primo controllo, si innesterà il ricordato ‘schema Battistella’, normativizzato attraverso la novella, che prevede l’invito del g.u.p. al pubblico ministero a riformulare l’imputazione – ovviamente nel senso tracciato dagli atti di indagine - previa discussione con le parti. Nell’ipotesi in cui il p.m. non proceda, il giudice pronuncerà anche d’ufficio la nullità dell’atto di imputazione e restituirà gli atti al rappresentante dell’accusa, per la riformulazione del capo di imputazione. Dal punto di vista sistematico, si perpetua l’insanabile contrasto logico già denunciato da ampia dottrina, con riguardo al ‘protocollo’ creato dalle S.U. Il vizio che il giudice rileva e pronuncia è una invalidità della richiesta di rinvio a giudizio, evidentemente riconducibile a una nullità generale, inerente all’iniziativa del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale[9] e, pertanto, soggetta a regime di rilevabilità assoluto[10]. Pragmaticamente, però, tale nullità risulta sanabile dall’intervento ‘perfettivo’ del pubblico ministero, suggerito dal giudice dell’udienza preliminare, che formalmente fa della richiesta di rinvio a giudizio una fattispecie complessa, a formazione progressiva e non istantanea. Certamente si tratta di una soluzione non lineare sul piano sistematico che, tuttavia risponde ad una necessità profondamente radicata in tutta la riforma: partendo dall’analisi della realtà, provare ad incidere su di essa, con soluzioni che, a volte, possono apparire anche non armoniche sul piano dell’ordine astratto del sistema.
Ove il pubblico ministero accolga l’invito del giudice, si procederà secondo le rinnovate regole dell’art. 423 c.p.p., su cui qui di seguito, dovendosi richiamare all’attenzione che l’imputazione modificata, in termini di precisione, si riterrà validamente contestata a tutti coloro i quali siano presenti in aula, anche attraverso collegamento a distanza. La precisazione del co. 1 bis dell’art. 421 c.p.p. non è certamente superflua, poichè non potrebbe trovare qui piena e diretta attuazione la nuova disciplina dell’art. 420 c.p.p., in forza della quale si debbano ritenere presenti all’udienza anche coloro che abbiano depositato richiesta di rito alternativo formulata per iscritto o a mezzo di procuratore speciale. Infatti, proprio la rettifica dell’imputazione suggerita dal giudice in forza del nuovo art. 421 c.p.p. può chiaramente innescare l’opportunità di riformulare o annullare[11] la richiesta di rito speciale già presentata ed ora espressamente considerata dall’art. 420 c.p.p. come equipollenza della presenza. All’imputato non presente in persona o da remoto, dunque, il verbale recante la modifica della imputazione deve essere notificato (anche se ai sensi del rinnovato art. 420 c.p.p. questi deve considerarsi presente), entro un termine non inferiore a dieci giorni prima della data fissata nel medesimo per il rinvio dell’udienza preliminare.
2.2. La corrispondenza dell’imputazione agli atti
A sua volta, l’art. 423 co. 1 bis, introdotto dal d.lgs. 150/2022, istituisce un ampio controllo del giudice dell’udienza preliminare sulla imputazione – ivi comprese la qualificazione giuridica e le circostanze aggravanti (o quelle che possono determinare l’applicazione di misure di sicurezza) – sulla base degli atti del procedimento. Consegue dall’interazione tra le norme degli artt. 421 co. 1 e 423 co. 1 bis, un duplice momento di controllo giurisdizionale: il primo, come già osservato, volto a suggerire interventi che intercettino vizi evidenti della imputazione, tutti interni alla richiesta di rinvio a giudizio, i quali possono o incentivare il ricorso a riti alternativi, o portare alla tempestiva regressione del procedimento, prima dell’inutile compimento delle attività dell’udienza preliminare. Il secondo, incentrato sugli esiti della discussione in udienza preliminare e il raffronto con gli atti contenuti nel fascicolo, che possono mettere in luce, grazie al contraddittorio tra le parti, aporie sfuggite al vaglio iniziale sulla imputazione.
Se nella nuova formulazione dell’art. 421 co. 1 il controllo sulla specificità della imputazione è solo implicitamente legato agli atti contenuti nel fascicolo, nel nuovo comma 1 bis dell’art. 423 c.p.p. l’aggancio è, invece, esplicito, con l’effetto di consacrare la necessaria corrispondenza della imputazione che esce dal filtro dall’udienza preliminare al contenuto degli atti raccolti. Insomma, si instaura per effetto del regime normativo di prossima entrata in vigore un doppio canale di controllo: analisi ‘in entrata’, dei possibili vizi della richiesta di rinvio a giudizio, per neutralizzarli attraverso l’intervento correttivo suggerito dal giudice o la dichiarazione di nullità e susseguente regressione alla fase delle indagini preliminari; analisi ‘in uscita’ della imputazione che rifluirà nell’eventuale decreto che dispone il giudizio, alla luce anche degli elementi emersi durante la discussione, attraverso il suggerimento del giudice oppure la regressione alla fase precedente. Qui la regressione non si basa su un vizio dell’atto di esercizio dell’azione penale, poiché l’incongruenza tra atti e imputazione emerge sulla base dell’esame degli atti contenuti nel fascicolo e all’esito della discussione avvenuta durante l’udienza. Anche (e soprattutto) la modifica ex art. 423 risulterà cruciale dal punto di vista del possibile incoraggiamento di richieste di riti speciali: rimanendo le parti legittimate alla domanda fino alla presentazione delle proprie conclusioni, gli effetti positivi del controllo giurisdizionale sulla imputazione, ivi compresa la qualificazione giuridica – come espressamente previsto dal nuovo testo – si tradurranno in una razionalizzazione delle richieste di rito alternativo (soprattutto nelle ipotesi di rettifica della qualificazione giuridica da ostativa a ‘non ostativa’ del procedimento speciale)[12]. Anche in tale ottica, si ricorda che pure questa parte di novella opportunamente richiama gli accorgimenti relativi alla notificazione della imputazione modificata all’imputato che non sia presente in aula o attraverso video-collegamento., sebbene questi, in alcuni casi, debba considerarsi presente ai fini del verbale di udienza, secondo la nuova disciplina dell’art. 420 c.p.p.
Inoltre, la novella ha l’effetto di impedire che dalla discrasia tra imputazione passata al vaglio dell’udienza preliminare e atti delle investigazioni possano emergere, a giudizio, contestazioni suppletive c.d. ‘patologiche’. Senza poter qui ricostruire un percorso giurisprudenziale lungo e articolato, indirettamente suffragato anche da risalenti pronunce della Corte costituzionale, si deve registrare che, fino ad ora, la giurisprudenza ha sempre riconosciuto non solo la piena autonomia del p.m. nel determinarsi tra imputazione singola o cumulativa, ma anche il ricorso alle nuove contestazioni dibattimentali – concepite dal legislatore per ben altre finalità - non già sulla base dell’evolvere delle risultanze dell’istruzione probatoria, bensì degli atti già contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari al momento dell’originaria contestazione. E' del tutto evidente come tale prassi sarà resa impossibile dalla nuova formulazione degli artt. 421 co. 1 e, soprattutto, 423 co. 1 bis c.p.p., con la quale si impone il controllo giurisdizionale sulla completezza e precisione dell’imputazione, da misurarsi in relazione al contenuto fin lì acquisito nel fascicolo.
Di non immediato coordinamento risulta la nuova formulazione dell’art. 423 c.p.p. con le ipotesi in cui le contestazioni suppletive siano consentite durante il giudizio abbreviato. Al netto delle modifiche apportate a tale rito, su cui infra § 4.1, le ipotesi di integrazione probatoria in abbreviato - che siano richieste dalle parti (art. 438 co. 5), o disposte dal giudice perché non può decidere allo stato degli atti (art. 441 co. 5) - aprono la via all’applicabilità dell’art. 423 c.p.p., nel suo complesso. Deve dunque ritenersi che l’assunzione della prova ‘integrativa’ determini il dovere del giudice del giudizio abbreviato di operare il controllo di corrispondenza tra l’imputazione e gli atti del fascicolo, così come ampliati dall’integrazione probatoria. Alla già prevista iniziativa del p.m., legittimato alla modifica dell’imputazione sulla base delle nuove evenienze, si sovrappone il controllo giurisdizionale che, prima ancora che il p.m. muova la sua iniziativa, deve procedere al raffronto tra imputazione ed atti. Nel contraddittorio che ne consegue, il p.m. potrà far emergere le proprie intenzioni rispetto all’eventuale contestazione suppletiva, che verranno inglobate nella discussione sulla completezza e precisione della imputazione. Ferma restando la possibilità prevista dall’art. 441 bis co. 1 c.p.p., di rinuncia dell’imputato alla richiesta di giudizio abbreviato in caso di effettivo mutamento del capo di imputazione, il dissidio tra giudice dell’abbreviato e p.m. in ordine alla puntuale formulazione dell’accusa comporterà la regressione del procedimento.
In conclusione, si può osservare che il sistema di doppio controllo sulla imputazione, istituito dagli artt. 421 e 423 c.p.p., così come emendati dal d.lgs. 150/2022, oltre ad avere il pregevole effetto, appunto, di impedire le contestazioni suppletive patologiche a giudizio, assume pieno significato anche alla luce della nuova regola di giudizio dell’udienza preliminare. Come si vedrà qui di seguito, il superamento del parametro di idoneità degli atti a sostenere l’accusa in giudizio a favore di una prognosi di condanna, doveva necessariamente basarsi su un più preciso consolidamento della imputazione, attraverso un puntuale aggancio alle risultanze del fascicolo delle indagini preliminari. Il senso dell’operazione normativa sarebbe rimasto più vago e indeterminato senza un puntuale intervento su questo profilo, rischiando di annullare la portata innovativa della nuova previsione dell’art. 425 c.p.p., che va letta, appunto, nel quadro complessivo di metamorfosi dell’udienza preliminare, perseguita dalla riforma in commento.
2.3. Un filtro a maglie più strette
L’incapacità dell’udienza preliminare di svolgere efficacemente il ruolo di filtro fra la fase investigativa e quella dibattimentale è ben nota. Si tratta di una situazione di fatto ormai consolidata, che ha resistito a ben due riforme dell’art. 425 c.p.p., volte ad ampliare i presupposti applicativi della sentenza di non luogo a procedere. Prima fu eliminato il riferimento all’«evidenza» delle fattispecie liberatorie; poi si precisò che il provvedimento in questione andava emesso anche a fronte dell’inidoneità degli elementi acquisiti «a sostenere l’accusa in giudizio». Eppure poco è cambiato e il filtro ha continuato a non filtrare, come invece si sperava.
Il legislatore si è ora nuovamente cimentato con questa spinosa questione, tentando ancora una volta di ricalibrare il potere selettivo affidato al giudice dell’udienza preliminare[13].
Durante il lungo corso dei lavori preparatori, come è noto, le proposte sono state differenti.
Il primigenio d.d.l. Bonafede chiedeva di «modificare la regola di giudizio di cui all’articolo 425, comma 3, del codice di procedura penale, al fine di escludere il rinvio a giudizio nei casi in cui gli elementi acquisiti risultano insufficienti o contraddittori o comunque non consentono una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria nel giudizio».
Il novum consisteva, a quei tempi, in una previsione piuttosto confusa. Era evidente che si puntasse a qualcosa di più rispetto alla sostenibilità dell’accusa in giudizio, ma le istruzioni del proponente non brillavano per chiarezza; veniva mantenuto il riferimento a insufficienza e contraddittorietà, mentre, per quanto riguarda la ‘prognosi’ dibattimentale, si evitava un esplicito richiamo alla condanna: con un’espressione per nulla conforme al linguaggio tecnico del codice di rito, si parlava di «accoglimento della prospettazione accusatoria», affiancando tale locuzione a un richiamo alla ragionevolezza che avrebbe dovuto caratterizzare l’attività mentale del giudice.
La Commissione Lattanzi ha poi radicalmente rivisitato la formula, all’esito di una discussione a tutto tondo, che ha considerato anche l’ipotesi di un abbandono definitivo dell’istituto[14], il quale, peraltro, non pare aver mai assunto, nei lavori preparatori del codice del 1988, un connotato essenziale alla realizzazione della natura tendenzialmente accusatoria del nuovo rito.
Nella proposta di articolato per la legge delega – oltre a eliminare i concetti di elementi ‘insufficienti’ e ‘contraddittori’ – si precisava che il giudice avrebbe dovuto emettere sentenza di non luogo a procedere “laddove emerga che gli elementi acquisiti non sono tali da determinare la condanna”.
Semplice e inequivocabile, la regola di giudizio proposta cercava di essere il più possibile contigua a quella dibattimentale. La prognosi si avvicinava un po’ di più alla diagnosi, tant’è che, nella Relazione della Commissione, la locuzione prescelta veniva descritta come «diagnosi prognostica»[15]. Visti gli scarsi risultati ottenuti dai precedenti ritocchi, questa era forse la scelta più efficace, idonea a fornire un’istruzione tanto chiara, quanto effettivamente selettiva.
Come è noto, però, le cose sono andate diversamente. Sia la legge delega infine approvata, sia il decreto attuativo hanno accolto solo in parte tali indicazioni.
Definitivamente assorbiti i criteri dell’insufficienza e della contraddittorietà, il provvedimento ex art. 425 co. 3 c.p.p. va emesso quando gli elementi in mano al giudicante «non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna».
È stato quindi quantomeno mantenuto intatto l’espresso riferimento alla ‘condanna’; d’altra parte, però, con il termine «previsione» viene di nuovo più esplicitamente richiamata l’idea di ‘prognosi’.
Di non facile interpretazione è poi l’inserimento dell’aggettivo «ragionevole», recuperato dalla bozza Bonafede. L’intento è forse quello di evocare, relativamente alla valutazione da compiere in udienza preliminare, il criterio fissato per il dibattimento dall’art. 533 co. 1 c.p.p. In altri termini, il giudice - ai fini dell’emissione del decreto che dispone il giudizio - dovrebbe prefigurarsi, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’imputato sarà condannato. In questa sede, infatti, l’ipotesi da vagliare non è ancora la colpevolezza dell’imputato, ma la circostanza che questi possa essere successivamente condannato.
Siffatta verifica – lo precisa il co. 3 dell’art. 425 c.p.p. - va inoltre esclusivamente compiuta sulla base degli «elementi acquisiti»; si deve quindi tener conto dei dati probatori in quel momento cristallizzati, soffermandosi sulla loro prevedibile progressione, una volta rielaborati in sede dibattimentale. Se questa fosse l’esegesi corretta, potrebbe non essere ancora possibile, in questo momento, prendere in considerazione fattori meramente futuribili, nonché estranei al merito, quali l’estinzione del reato – ad esempio per prescrizione (prossima, ma non ancora maturata), morte dell’imputato, o remissione della querela – nonché l’improcedibilità, come nel caso di superamento dei termini previsti per i giudizi d’impugnazione[16].
Ad ogni modo, come si è già detto, due precedenti riforme hanno fallito e sarebbe quindi stato opportuno, per evitare l’ennesimo insuccesso, alzare con maggior fermezza lo standard decisorio. Al contrario, la formulazione finale della nuova regola di giudizio presenta alcune ambiguità e debolezze, che potrebbero ridurne l’impatto.
È comunque auspicabile che la novella riesca a incidere sull’orientamento giurisprudenziale più lasco[17]; in molti casi, la Cassazione ha affermato che, in udienza preliminare, non sarebbe possibile «procedere a valutazioni di merito del materiale probatorio ed esprimere, quindi, un giudizio di colpevolezza dell'imputato», essendo «inibito il proscioglimento in tutti i casi in cui le fonti di prova si prestino a soluzioni alternative e aperte o, comunque, ad essere diversamente rivalutate»[18].
Al di là di qualsiasi altra considerazione, siffatta interpretazione appare oggi certamente incompatibile con l’obbligo di rinviare l’imputato a giudizio solo in caso di una “ragionevole previsione di condanna”.
È infine opportuna una considerazione ulteriore. Sino a questo momento abbiamo analizzato la novella in parola relativamente agli effetti che potrebbe produrre sulla fase successiva. Non si può, però, ignorare che la stessa – insieme alla regola “gemella” inserita nell’art. 408 c.p.p. per l’archiviazione – è destinata a incidere anche su quanto accade prima[19].
Il pubblico ministero dovrà infatti tenere a mente che l’imbuto dell’udienza preliminare è – almeno potenzialmente – più stretto di quanto fosse in passato: non basta più che l’accusa appaia sostenibile nel futuro giudizio e, quindi, con margini di miglioramento rispetto a quanto portato al g.u.p.; il compito dell’accusa diventa dimostrare subito che la condanna è ragionevolmente prevedibile.
Se ciò è vero, il timore degli investigatori di presentarsi in udienza preliminare impreparati di fronte alla nuova regola di giudizio, potrebbe comportare un allungamento delle indagini, dovuto alla necessità di arricchire il fascicolo di ogni dato possibile.
D’altra parte, però, vanno presi considerazione diversi altri fattori. Anzitutto, la necessità di svolgere indagini il più possibile complete non è certo una novità per il pubblico ministero e, dunque, la riforma dell’udienza preliminare potrebbe poi non risultare così incisiva al riguardo; inoltre, va considerato che la disciplina dei termini investigativi è stata ampiamente rimaneggiata e che si è provveduto a introdurre nuovi rimedi “anti-stasi”.
Insomma, molte novità s’intersecano e appare allora davvero difficile capire, al momento, se il criterio della “ragionevole previsione di condanna” comporterà incrementi percepibili nella durata delle indagini.
3. Le multiformi novelle in materia di giudizio
Gli interventi imposti dalla legge di delega sulla disciplina del giudizio sono meno numerosi e, per lo più, meno incisivi sulla struttura della fase, rispetto a quelli che toccano l’udienza preliminare. Seguendo, nelle scansioni generali, i momenti di intervento del d.d.l. Bonafede, il comma 11 dell’art. 1 l. 134/2021 disponeva interpolazioni in materia di organizzazione delle udienze, di argomentazione delle richieste probatorie, di deposito anticipato della relazione del perito e del consulente tecnico, nonché in tema di rinnovazione delle prove dichiarative a seguito di mutamento del giudice o di un componente del collegio.
Nell’attuare la delega, il Governo ha altresì provveduto a chiarire e razionalizzare la disciplina delle conseguenze delle contestazioni suppletive, in linea con i numerosi interventi della Corte costituzionale in materia.
Ne è derivata una rete di novelle volta principalmente (ma non esclusivamente), ad incidere in ottica organizzativa sulla fase del giudizio, sede che, meno di altre – come è stato osservato[20] – si presta a soluzioni acceleratorie, ma che, certamente, può essere razionalizzata attraverso strumenti organizzativi che cerchino di attutire, non potendo eliminarli, i rischi naturalmente insiti nelle complessità dell’istruttoria dibattimentale.
Nei suoi interventi ‘puntiformi’, la riforma del dibattimento rivela un quasi ovvio denominatore comune alla maggior parte delle novelle, legate dall’attenzione per la razionalizzazione del procedimento probatorio: salve le emende agli artt. 519 e 520 c.p.p., le altre novità tendono a limare aporie messe in luce dalla pratica in una sotto-fase – quella dell’istruzione probatoria – che non può essere racchiusa in più rigidi meccanismi organizzativi, data la sua natura eminentemente orale e contraddittoria. In prima battuta, dunque, l’attenzione sarà rivolta al filone probatorio e, successivamente, a quello delle nuove contestazioni.
3.1. La calendarizzazione delle udienze
Con riferimento alla calendarizzazione delle udienze, il d.lgs. 150/2022 incide sull’art. 477 c.p.p. riscrivendolo nella forma e nel contenuto[21]. Con l’entrata in vigore della riforma, il testo reciterà, infatti, «Quando non è possibile esaurire il dibattimento in una sola udienza, il presidente, dopo la lettura dell’ordinanza con cui provvede sulle richieste di prova, sentite le parti, stabilisce il calendario delle udienze, assicurando celerità e concentrazione e indicando per ciascuna udienza le specifiche attività da svolgere».
Questo primo intervento non può dirsi certamente slegato dal successivo, in materia di illustrazione delle richieste probatorie, poiché, come si vedrà a breve, la maggiore consapevolezza del giudicante rispetto all’attività probatoria proposta dalle parti sarà di aiuto nella più puntuale organizzazione delle udienze. Nella nuova disposizione, infatti, si cela qualcosa di più della prassi, ormai invalsa in buona parte degli uffici giudiziari, di calendarizzazione delle udienze apparentemente necessarie allo svolgimento dell’istruttoria dibattimentale. Al presidente (e al giudice monocratico) si impone, in primo luogo, uno sforzo di celerità e concentrazione, in conseguenza del quale è richiesta l’indicazione specifica delle attività da svolgersi in ciascuna udienza (l’art. 41 del d.lgs. 150/2022 modifica il dettato dell’art. 145 n.att.c.p.p., sostituendo la facoltà di calendarizzazione degli esami con un dovere). Come si accennava, una maggiore consapevolezza del giudice rispetto alle istanze probatorie delle parti, come previsto dal ‘nuovo’ art. 493 c.p.p., sarà la chiave per poter indicare specificamente le incombenze di ciascuna udienza in agenda. Come già osservato, l’orientamento normativo sospinge verso diversi modelli organizzativi dei ruoli d’udienza, suggerendo, seppur indirettamente, una preferenza verso una organizzazione concentrata anziché parallela dei procedimenti, come alcune sedi giudiziarie già da tempo sperimentano[22]. Questa opzione parrebbe più utile ad assorbire gli inevitabili contrattempi che possono verificarsi durante l’istruttoria dibattimentale, consentendo un più agile recupero o inserimento di attività resesi necessarie per uno dei tanti inciampi che possono imporre il rinvio di una udienza dibattimentale. È certamente vero che una dettagliata calendarizzazione può subire contraccolpi più evidenti, per via degli imprevisti, rispetto ad una mera indicazione di date genericamente destinate all’istruttoria dibattimentale, come da taluno sottolineato[23]. È altrettanto vero, però, che l’attuale situazione – che vede rinvii ad intervalli lunghissimi, del tutto incompatibili con il principio di concentrazione – è altamente insoddisfacente e già nel momento di calendarizzazione (a monte, cioè, del possibile verificarsi di accidenti vari), tradisce lo spirito della concentrazione espresso dall’art. 477 c.p.p. e il canone della ragionevolezza dei tempi processuali. È certamente incontestabile che il cambiamento di regime organizzativo dei ruoli rappresenti una sfida di grande complessità, con ricadute pratiche che sfuggono certamente alla portata di una norma destinata ad essere inserita nel codice di rito, ma anche nelle disposizioni attuative, perché spesso sono dipendenti dalle peculiarità locali. Non per questo, però, ci si può limitare a speculare su tali difficoltà, dovendosi tenere presente che, nella sfera organizzativa, è sempre più opportuno e frequente il ricorso a competenze anche extra-giuridiche per ottenere risultati che ottimizzino l’attività degli uffici giudiziari, come la sperimentazione GIADA ha dimostrato, nel delicatissimo rapporto tra Procure della Repubblica e cancellerie dei tribunali in relazione alla gestione dei ruoli delle udienze monocratiche[24] e come anche suggerisce il progetto finanziato dal Ministero della Giustizia per la implementazione dell’ufficio del processo (NextGeneration UPP), che vede impegnate le Università pubbliche italiane, con competenze giuridiche, aziendalistiche e computazionali, ai fini della elaborazione di schemi per la massima efficienza del nuovo ufficio.
In conclusione di questo punto deve sicuramente osservarsi come il mutato sforzo organizzativo rimanga privo di sanzioni processuali per il caso della mancata osservanza del dovere di calendarizzazione. In una comprensibile ottica di bilanciamento, la previsione di efficaci meccanismi organizzativi delle attività dibattimentali non si traduce in invalidità degli atti istruttori compiuti al di fuori di un’ordinata agenda. V’è tuttavia da ritenere che sarà il vantaggio organizzativo di tutti i soggetti del processo a garantire piena osservanza alla nuova incombenza.
3.2. Le richieste di prova
Per parte sua, la nuova interpolazione dell’art. 493 co. 1 c.p.p. si pone in stretta connessione con la novella appena trattata[25]. Con l’esplicito intento di non legittimare un ‘ritorno al passato’, ovvero alla relazione introduttiva - che (nonostante apprezzabili letture teleologicamente orientate)[26] era diventata uno squarcio aperto dal p.m. sull’attività di indagine preliminare, addirittura con lettura di stralci di atti non ammessi al fascicolo del dibattimento - il nuovo testo del comma si focalizza sul tema della ammissibilità della prova, ai sensi degli artt. 189 e 190 co. 1 c.p.p. Si è detto da più parti, condivisibilmente, che, nella generale cornice di un intervento di razionalizzazione dei tempi e della gestione delle attività dibattimentali, l’illustrazione delle richieste probatorie può avere un effetto virtuoso rispetto al problema della ‘sete di conoscenza’ del giudice del dibattimento. Volutamente posto dal legislatore del 1988 in una posizione di squilibrio conoscitivo rispetto alle parti del procedimento, il giudice del dibattimento spesso si ‘destreggia’ nelle cadenze dell’istruzione probatoria in cerca di elementi informativi[27] che consentano di svolgere più consapevolmente i gravosi oneri che il Libro VII pone sul suo capo, in particolare l’ammissione delle prove e la gestione dell’esame dei dichiaranti. Consegue, potenzialmente, alla novella in questione un sindacato più pregnante da parte del giudice sulle richieste probatorie.
Infatti, l’aggancio esplicito al tema dell’ammissibilità, insieme alla relazione di accompagnamento del testo, rendono preater o contra legem interpretazioni che consentano alle parti divagazioni rivolte agli atti delle indagini preliminari nell’illustrazione delle richieste istruttorie, giacché si richiamano espressamente le regole di ammissione degli artt. 190 co. 1 e 189 c.p.p., costruite su vettori orientati allo sviluppo futuro dell’istruzione probatoria, del tutto autonomi rispetto alle vicende investigative.
3.3. Il deposito delle relazioni peritali e tecniche
Sempre nello scenario probatorio si inserisce la nuova previsione dei co. 1 bis e 1 ter nell’art. 501 c.p.p.[28], i quali impongono il deposito, rispettivamente ad opera del perito e della parte che ha nominato un consulente tecnico, della relazione tecnica, almeno sette giorni prima della data fissata per l’esame dell’esperto. Una interpolazione del comma secondo dello stesso articolo rende esplicita la facoltà degli esperti di consultare le rispettive relazioni, depositate nel rispetto del termine sopra indicato, durante l’esame dibattimentale. L’obbligo di deposito si estende anche alle ipotesi di consulenza tecnica extra-peritale.
La novella, già contemplata dal d.d.l. Bonafede, era stata per certi versi criticata nelle audizioni presso le commissioni Giustizia parlamentari, per il rischio sotteso all’iniziativa di avvalorare la metamorfosi di perizia e consulenza tecnica, da prove orali a prove documentali, sacralizzando il valore della relazione a discapito dell’esame orale, in contraddittorio, dell’esperto. Sulla scorta della relazione alla proposta della Commissione Lattanzi e di tutti i successivi documenti accompagnatori emerge, invece, la condivisibile prospettiva, opposta, nella quale il nuovo obbligo di deposito mira a valorizzare il contraddittorio orale, consentendo a tutti i soggetti che vi intervengono una partecipazione più consapevole e, dunque, efficace. Data la frequente centralità della prova tecnica, scientifica o artistica e la sua indubbia complessità, la possibilità di analizzare nel dettaglio i documenti, anche molto voluminosi, prodotti dagli esperti a corredo della propria attività valutativa, è essenziale al fine di garantire a questi mezzi di prova tutto il potenziale che il contesto del contraddittorio dibattimentale offre. Un esame e, soprattutto, un controesame basati sulla previa lettura della relazione garantiscono un miglior risultato conoscitivo e maggiori elementi ai fini della valutazione della affidabilità del parere esperto.
In quest’ottica, la novella va accolta positivamente, sia quale potenziamento dell’efficacia delle prove orali, sia quale strumento di razionalizzazione dell’istruzione dibattimentale, poiché riduce il rischio di eventuali rinvii determinati dalla maggior lentezza e dalla minore efficacia di un’escussione ‘al buio’ dell’esperto.
Certamente, come anche già più sopra osservato, la disposizione rimane priva di effetti processuali, in caso di inosservanza. Il termine dei sette giorni è chiaramente ordinatorio e il suo inutile decorso non comporterà conseguenze automatiche, né si intravedono altri profili di possibile invalidità della prova assunta senza previo deposito della relazione. L’inosservanza del nuovo obbligo, tuttavia, rappresenta sicuramente un esempio di significativo inconveniente per l’efficace funzionamento del calendario del dibattimento, dovendosi valutare l’opportunità di un rinvio dell’esame dell’esperto in caso di mancato deposito preventivo della relazione: nulla vieta che l’esame si svolga secondo l’agenda prestabilita, ma l’utilità potrebbe esserne compromessa, per via della difficoltà, per le parti, di muoversi attraverso un documento spesso ampio, articolato e assai complesso, senza il tempo adeguato a calibrare l’esame orale.
3.4. Mutamento del giudice e documentazione delle prove dichiarative
Di primaria rilevanza è l’intervento sul testo dell’art. 495 c.p.p., con l’inserimento del co. 4 ter[29]. L’interpolazione mira, in antitesi alla impostazione del d.d.l. Bonafede, a segnare una svolta nell’intenso dibattito che ha recentemente accompagnato il tema della immediatezza. Pare superfluo ricostruire qui l’oggetto della discussione, se non negli essenziali passaggi che fanno dell’interpretazione dell’art. 525 co. 2 c.p.p. uno degli esempi più evidenti di scontro tra l’approccio antiformalistico e la struttura tradizionale del codice di procedura penale. Proprio nell’impianto essenziale dei codici, che «nella loro ambizione di regolare secondo un disegno coerente l’intero universo giuridico […] costituiscono ormai solo ‘una’ delle fonti giuridiche»[30], si realizza la collisione tra l’approccio formale (secondo molti, formalistico), che informa tutta la nostra cultura giuridica moderna – attraverso la predisposizione di uno schema legale di atto e di un sistema di invalidità che conseguono alla inosservanza del modello medesimo – e la nozione pragmatica di pregiudizio effettivo, tipica dei sistemi di common law.
Infatti, la richiamata disposizione enuncia un raro esempio di nullità speciale a regime di rilevabilità assoluto: dall’assolutezza dell’affermazione ivi contenuta, era derivato un primo rigido orientamento interpretativo[31] rispetto alla necessaria identità fra tutti i giudici che hanno partecipato alle fasi di ammissione e assunzione delle prove e quelli che deliberano la sentenza, dal quale è promanata la necessaria rinnovazione di tutto l’iter dibattimentale, in caso di mutamento del giudice o di un componente del collegio, pena, appunto, il vizio insanabile della sentenza.
Tale regressione, per un verso, non è certo rara, poiché si verifica ad ogni ipotesi di quiescenza o trasferimento del giudicante o di un membro del collegio (senza menzionare altre possibili ma più rare ipotesi che incidono sulla capacità del giudice). Soprattutto nella prospettiva sopra ricordata, di ruoli d’udienza improntati non alla concentrazione di ciascun procedimento ma al procedere parallelo, tali situazioni sono frequenti, ma la possibilità di contare su giudici supplenti, come pur indicato dallo stesso art. 525 c.p.p., non rappresenta una soluzione efficace e generalizzata, date le carenze di organico di quasi tutte le sedi giudiziarie. Secondo lo schema predisposto dal codice, la regressione e la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale si rivelano necessarie, salvo l’accordo delle parti alla lettura dei verbali di tutti gli atti istruttori. Ne consegue spesso, però, un elevato livello di frustrazione di tutti i protagonisti del processo rispetto all’obiettivo, pur chiaramente perseguito dal quadro normativo, di ripristinare e garantire immediatezza e oralità. Osservava, infatti, il controverso passaggio di C. Cost. 132/2019 che «frequente è, d’altra parte, l’eventualità che la nuova escussione si risolva nella mera conferma delle dichiarazioni rese tempo addietro dal testimone, il quale avrà d’altra parte una memoria ormai assai meno vivida dei fatti sui quali, allora, aveva deposto: senza, dunque, che il nuovo giudice possa trarre dal contatto diretto con il testimone alcun beneficio addizionale, in termini di formazione del proprio convincimento, rispetto a quanto già emerge dalle trascrizioni delle sue precedenti dichiarazioni, comunque acquisibili al fascicolo dibattimentale ai sensi dell’art. 511, comma 2, cod. proc. pen. una volta che il testimone venga risentito»[32].
I testimoni vengono nuovamente chiamati all’ufficio, con meno memoria e con minor pazienza della volta precedente (pur rimanendo fermi tutti gli obblighi, penalmente sanzionati), finendo spesso per richiamarsi alla primaria dichiarazione, anche in assenza di un attivo contraddittorio con la difesa; il nuovo giudice ottiene scarsi se non nulli vantaggi conoscitivi, dovendo necessariamente rifarsi ai verbali precedenti per acquisire informazioni e valutare la credibilità del dichiarante; tutti i soggetti vedono la definizione del giudizio spostarsi ulteriormente in avanti… Insomma, se lo scenario evocato dalla discussa sentenza della Corte costituzionale descrive una realtà certamente non rispondente agli obiettivi fissati dal legislatore, dall’altro lato, l’appiattimento che trasforma il contraddittorio dibattimentale in una raccolta di verbali, consegnando al nuovo giudice lunghi resoconti incapaci di trasmettere tutti gli elementi comunicativi di una dichiarazione orale, finisce per travolgere l’impianto essenziale del giudizio e le garanzie di difesa dell’imputato. In risposta alla insoddisfacente situazione, la pronuncia del giudice delle leggi evocava, per un verso, la ‘modulabilità’, ad opera del legislatore, del principio di identità del giudice che assume la prova e di quello che decide e, per altro verso, soluzioni decisive, quali il ricorso alla video-registrazione delle prove dichiarative (senza spingersi, invece, a invocare soluzioni ordinamentali, che riducano i rischi di mutamento del giudice a dibattimento inoltrato), non senza richiamare i singoli giudicanti o i collegi ad un’applicazione ‘orientata’ dei poteri d’ufficio previsti dagli artt. 506 e 507 c.p.p., ai fini di ottenere dal testimone nuovi o ulteriori elementi di prova.
È ben noto che, in questo scenario, si è presto insinuata la Corte di cassazione, in relazione ad un ricorso avverso la pronuncia con la quale una Corte d’appello aveva annullato la sentenza di primo grado, per difetto di identità personale tra il collegio che aveva ammesso le prove e quello che poi aveva assistito all’assunzione e alla decisione, sebbene le parti nulla avessero eccepito nel corso del dibattimento. Con la nota pronuncia Bajrami, il Supremo Collegio, inserendosi nel contrasto interpretativo relativo alla necessità o meno di una esplicita richiesta di parte alla rinnovazione delle istanze istruttorie in precedenza formulate, finiva per affermare che il principio di immutabilità del giudice non comporta la necessaria rinnovazione di tutti gli adempimenti degli artt. 492 e ss. c.p.p., poiché provvedimenti ammissivi e attività già svolte mantengono efficacia, salva la facoltà per le parti di chiederne la riassunzione o presentare nuove prove, richieste che andranno tuttavia sempre vagliate secondo il filtro tradizionale di ammissione[33] e dunque, anche sotto il profilo della non manifesta superfluità (della rinnovazione). Ne conseguirebbe l’automatica possibilità di lettura dei verbali delle prove la cui riassunzione non è stata richiesta, non è stata ammessa o non è più possibile.
In questo scenario, la soluzione proposta già dalla bozza di legge delega elaborata dalla Commissione Lattanzi[34], riprende la eco dell’obiter dictum della Corte costituzionale, per individuare nella registrazione video delle prove dichiarative una previsione non soltanto di compromesso[35]. In forza del nuovo art. 495 co. 4 ter c.p.p., in caso di mutamento, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale potrà essere richiesta dalle parti, salva videoregistrazione della prova dichiarativa; anche ove disponibile la videoregistrazione, il giudice potrà comunque disporre la rinnovazione del mezzo di prova, se esistono specifiche esigenze.
Se è pur vero che l’immagine video e la presenza fisica hanno caratteristiche differenti, sono altrettanto incontestabili la maggior qualità comunicativa e la assoluta completezza di una videoregistrazione rispetto ad una verbalizzazione tradizionale (anche se frutto di trasposizione di registrazione audio). Per un verso, dunque, la soluzione prevista dal nuovo co. 4 ter dell’art. 495 c.p.p. rappresenta un netto miglioramento sia rispetto alla situazione verificatasi a seguito della sentenza Bajrami, ma ad avviso di chi scrive, anche rispetto alla situazione precedente, consegnando al nuovo giudice, o al nuovo componente del collegio, materiale probatorio non alterato dal decorso del tempo e dalle ricordate ineffettività pratiche spesso riscontrate durante faticose rinnovazioni istruttorie. Nulla dice la norma rispetto alle modalità con le quali la videoregistrazione debba essere visionata dal nuovo giudice o dal nuovo componente del collegio. Naturalmente, una visione in aula, in presenza delle parti, consentirebbe di instaurare un effettivo contraddittorio tra il giudice e queste ultime, ad esempio in tema di ammissibilità di alcune domande formulate al testimone… Con queste modalità, la videoregistrazione potrebbe dispiegare le sue massime potenzialità di surrogato della prova dichiarativa, offrendo al giudice un racconto non alterato dal passaggio di altro tempo dai fatti oggetto del processo e consentendo comunque un contraddittorio ‘sulla prova’ (videoregistrata), talvolta più efficace rispetto a un contraddittorio ‘per la prova’ che finisca, però, per essere inibito dall’atteggiamento del teste ‘usurato’.
Inoltre, il ricorso abituale alla videoregistrazione delle prove dichiarative, previsto dal nuovo co. 2 bis dell’art. 510 c.p.p., rappresenta un’agevolazione anche in tutti i procedimenti in cui non vi sia mutamento del giudice o del collegio, costituendo una forma di verbalizzazione estremamente più utile al giudice che vi ritorni, in camera di consiglio, rispetto a quella tradizionale, che pur rimane prevista, secondo il tenore letterale della nuova disposizione[36].
Incontestabile è l’appunto, immediatamente sollevato, circa l’attuale scarsa disponibilità di mezzi tecnici per la videoregistrazione delle prove dichiarative, di cui la stessa novella si mostra consapevole, data la previsione di entrata in vigore differita della nuova disciplina della videoregistrazione[37], che necessita certamente di aggiustamenti organizzativi. È altrettanto vero, però, che oggi la produzione (e la riproduzione) di filmati video di qualità pressoché professionale è resa possibile con mezzi di uso quotidiano e individuale e che, pertanto, la predisposizione dell’adeguato substrato tecnico presuppone un investimento in strumentazione tutt’altro che sofisticata, pur dovendosi accompagnare ad un idoneo intervento organizzativo per garantire sicurezza, immutabilità e adeguata conservazione alle videoregistrazioni delle prove dichiarative. Si tratta, tuttavia, di interventi di natura organizzativa, ministeriale, e non certo di aspetti che avrebbero potuto o dovuto esser inseriti nella disciplina codicistica, o in quella attuativa. Alla luce di queste osservazioni, l’esplicita riserva contenuta nell’ultima parte del nuovo art. 510 co. 2 bis c.p.p. – alla temporanea indisponibilità di strumenti o di personale tecnico – appare un temperamento non necessario, quanto meno nel dettato del codice. Certo sarà sempre possibile, anche a riforma entrata a pieno regime, una situazione eccezionale di indisponibilità dei mezzi di videoregistrazione, che avrebbe tuttavia potuto essere contemplata, questa sì, tra le norme di attuazione.
La ricordata efficacia differita della norma pone il dubbio del regime da adottarsi tra la prossima entrata in vigore del d.lgs. 150/2022 e il momento di attuazione della specifica disciplina delle videoregistrazioni. Si prospetta una sopravvivenza della discussa ‘dottrina Bajarami’? Ad avviso di chi scrive pare difficile ignorare la netta contrapposizione tra quell’orientamento giurisprudenziale e il nuovo testo dell’art. 495 co. 4 ter c.p.p. (seppur non immediatamente operativo), in cui l’interesse della parte alla riassunzione della prova torna a sganciarsi dal rigido vincolo di non manifesta superfluità che così nettamente può limitare il diritto di difesa dell’imputato[38].
3.5. Contestazioni suppletive dibattimentali e procedimenti speciali
Distaccata dalla serie di interventi direttamente legati all’istruzione probatoria è l’interpolazione degli artt. 519 e 520 c.p.p.[39], non espressamente contemplata dall’art. 1 co. 11 l. 134/2021, ma ispirata all’opportuna riorganizzazione di una questione a più riprese toccata dalla riforma, ovvero l’aderenza dell’imputazione ai fatti che emergono nel corso del procedimento. Sulla scorta delle numerosissime sentenze additive che avevano finito per ammettere una sorta di ‘restituzione nel termine’ per la richiesta di riti alternativi, in conseguenza delle possibili modifiche dibattimentali dell’imputazione (patologiche o fisiologiche), si era infatti creata una situazione piuttosto incoerente, frutto delle varie contingenze da cui erano originate le diverse questioni di legittimità costituzionale.
Gli interventi sull’art. 519, co. 1 e 2, c.p.p. sono coordinati, poiché il primo è volto a garantire l’informazione all’imputato circa i diritti che conseguono ad uno dei possibili mutamenti dell’imputazione - previsti dagli artt. 516, 517 e 518 co. 2 - mentre il secondo li rende concretamente fruibili. Infatti, a seguito di diversa descrizione del fatto, di contestazione di circostanza aggravante o fatto connesso ex art. 12 lett. b c.p.p. o, ancora, di integrazione dell’imputazione ex art. 518 c.p.p., l’imputato ha diritto di chiedere l’ammissione di nuove prove o di formulare richiesta di giudizio abbreviato, applicazione della pena su richiesta delle parti o sospensione del procedimento con messa alla prova. Il comma 2 garantisce all’imputato la possibilità di chiedere un termine a difesa per valutare la situazione successiva alle nuove contestazioni, potendo poi sciogliere la riserva sulle proprie specifiche richieste entro l’udienza successiva.
Con un opportuno adeguamento linguistico, il rinnovato art. 520 c.p.p. prevede che la suddetta informativa sia inserita nel verbale, insieme alle modifiche sulla imputazione, e il medesimo notificato all’imputato che non sia presente in aula o da remoto.
In forza, poi, dell’art. 41 co. 1 lett. q d.lgs. 150/2022, si modifica l’art. 141 n.att.c.p.p., estendendosi la possibilità di formulare richiesta di oblazione non soltanto a seguito di modifica della imputazione ex art. 516 c.p.p., ma anche dopo le contestazioni suppletive degli artt. 517 e 518 c.p.p.
L’apprezzabile riordino della materia si accompagna, poi, al dirompente effetto indiretto di alcune innovazioni già sopra analizzate. Come già illustrato, la nuova formulazione dell’art. 423 co. 1 bis c.p.p. – insieme a quella dell’art. 554 bis co. 6 c.p.p., per l’udienza predibattimentale – obbliga, infatti, il giudice ad un controllo circa la corrispondenza tra il fatto, le circostanze aggravanti (e quelle che possono determinare l’applicazione di una misura di sicurezza), la qualificazione giuridica indicati nella richiesta di rinvio a giudizio, e gli atti contenuti nel fascicolo. Senza tornare sulla dinamica che consegue ad una eventuale carenza dell’imputazione, pare opportuno ribadire, ragionando di dibattimento, che da tale assetto deriva l’impossibilità di effettuare contestazioni ‘patologiche’, giacché tutte le difformità tra imputazione e atti già presenti nel fascicolo al momento della richiesta di rinvio a giudizio verranno portate alla luce nella fase della udienza preliminare (o dell’udienza predibattimentale) e non potranno più giustificare modifiche all’imputazione estranee alla dinamica propria dell’istruzione probatoria, restituendo significato e coerenza all’impianto originariamente previsto dal codice[40].
Difficilmente la prassi, totalmente asistematica[41], delle c.d. contestazioni ‘patologiche’ potrà sopravvivere al cambio di regime normativo, volto a stabilire un preciso dovere del giudice delle fasi intermedie di controllo tra l’imputazione e gli atti contenuti nel fascicolo, sottraendo al p.m. spazi di discrezionalità incontrollata nella gestione della imputazione, talvolta riconosciuti anche dalla Corte costituzionale[42].
4. Il restyling dei procedimenti speciali
Era scontato che una riforma volta all’incremento dell’efficienza e della celerità puntasse lo sguardo anche sulla disciplina dei procedimenti speciali[43]. Il loro obiettivo primario, infatti, è da sempre quello di snellire l’iter procedimentale, sottraendo più vicende possibili dall’inevitabilmente lungo e complesso congegno del rito ordinario.
Come in diverse occasioni precedenti, si è operato su due fronti: da un lato, sono state inserite una serie di interpolazioni minori, volte per lo più ad allineare specifici aspetti del dato positivo alla giurisprudenza costituzionale o di legittimità; dall’altro lato, con interventi di più ampio respiro, si è cercato di rivitalizzare l’uso del rito interessato, o comunque di incentivarne ulteriormente l’adozione.
L’intervento è consistente nel suo complesso, benché forse, per certi aspetti, poco coraggioso; soprattutto dal confronto con alcuni dei suggerimenti formulati dalla Commissione Lattanzi, emerge infatti la rinuncia a una spinta innovativa maggiore.
4.1. Giudizio abbreviato
La disciplina del rito abbreviato ha subito due modifiche piuttosto rilevanti, in punto di accessibilità e convenienza. Vi è poi anche stato spazio per alcune interpolazioni di rilievo più ridotto.
Sul primo versante, si allude, anzitutto, alla rivisitazione dell’art. 438 co. 5, c.p.p.
Finora, la richiesta di giudizio abbreviato ‘condizionato’ era soggetta a due presupposti: l’integrazione probatoria richiesta doveva risultare, al contempo, «necessaria ai fini della decisione», nonché «compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento». Rimasto inalterato il primo, il secondo è stato invece completamente sostituito: il giudice accoglierà la suddetta richiesta soltanto quando «il giudizio abbreviato realizza comunque una economia processuale, in relazione ai prevedibili tempi dell’istruzione dibattimentale».
La prima valutazione continua dunque ad avere, come esclusivo punto di riferimento, la prova oggetto dell’istanza istruttoria; la seconda condizione risulta invece ora focalizzata sui vantaggi che il giudizio abbreviato globalmente comporta. In particolare, il giudice deve verificare se – al di là delle concrete caratteristiche dell’esperimento probatorio domandato – la procedura contratta rappresenta comunque un risparmio di tempo rispetto al corrispettivo scenario dibattimentale.
Non conta, quindi, soltanto l’aggravio temporale che l’acquisizione della prova comporterebbe rispetto allo svolgimento di un giudizio abbreviato ‘semplice’’; è alla prospettiva dibattimentale che va rivolta l’attenzione, immaginando se quest’ultima sarebbe in ogni caso meno favorevole per la speditezza complessiva del procedimento.
L’accesso al giudizio abbreviato ‘condizionato’ risulta, così, molto facilitato: è evidente che lo stesso – rispetto «ai prevedibili tempi dell’istruzione dibattimentale» – si rivelerà quasi sempre una prospettiva più appetibile, in termini di costi materiali; basti pensare ai tempi di preparazione e instaurazione del giudizio, alla necessità di acquisire in contraddittorio tutti i dati conoscitivi che, nella loro forma investigativa, non penetrano il fascicolo del dibattimento, nonché alle più snelle modalità acquisitive previste dall’art. 441 co. 6 c.p.p.
Questa constatazione trova del resto conferma in un precedente insegnamento della Corte costituzionale, non per caso citato dai riformatori[44]. Il giudice delle leggi ebbe infatti modo di rilevare come il giudizio abbreviato si traduca «sempre e comunque in una considerevole economia processuale rispetto all’assunzione della prova in dibattimento: chiedendo il giudizio abbreviato e rinunciando, conseguentemente, all’istruzione dibattimentale, l’imputato accetta che gli atti assunti nel corso delle indagini preliminari vengano utilizzati come prova e che gli atti oggetto dell’eventuale integrazione probatoria siano acquisiti mediante le forme previste dall’art. 422, commi 2, 3 e 4 […]; infine, presta il consenso ad essere giudicato dal giudice monocratico dell’udienza preliminare»[45]. La stessa conclusione venne ribadita poco tempo dopo: «rispetto al dibattimento, la definizione del processo con il rito abbreviato consente comunque un sensibile risparmio di tempo e di risorse»[46].
Se questa è quindi l’esegesi del nuovo parametro da prendere in considerazione, non si può che ribadire quanto affermato in precedenza: appare difficile immaginare un caso in cui saranno le esigenze di economia processuale a negare soddisfazione alla richiesta dell’imputato e tutto dipenderà dall’importanza della prova richiesta, requisito confermato anche dalla riforma.
A ben vedere, residua però un dubbio cui conviene far brevemente cenno.
Effettivamente, l’interpolazione in commento potrebbe incrementare il tasso di accoglimento delle richieste ‘condizionate’, così da evitare alcuni dei dibattimenti che, nel precedente regime, avrebbero invece avuto luogo. Dall’altra parte, però, è allo stesso tempo, possibile che la difesa, facendo leva sulla rinnovata disciplina, decida più spesso di formulare la richiesta ‘condizionata’ al posto di quella semplice e che il giudice si ritrovi – altrettanto più frequentemente – a doverla accogliere.
In altri termini, il giudizio abbreviato ‘condizionato’ rischia di guadagnare terreno non solo rispetto al dibattimento, ma anche rispetto alla sua forma ‘semplice’, mitigando l’effetto, almeno in alcuni casi, del risparmio previsto.
Una ulteriore interpolazione al co. 6 riguarda la locuzione «tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili»: inserita prima al fondo del secondo periodo, viene ora anticipata rispetto alla declamazione dei due presupposti di accoglimento della richiesta ‘condizionata’. Sembrerebbe, invero, una modifica estetica, che migliora la leggibilità della norma, senza incidere sul suo significato.
Piuttosto rilevante è invece il nuovo co. 2 bis, aggiunto all’art. 442 c.p.p. Vi si prevede che, «quando né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione».
Al contrario della norma precedente, lo scopo non è quello di incentivare, ma di rendere conveniente l’inerzia: ispirata a quanto previsto in materia di decreto penale di condanna, l’acquiescenza giova alla difesa, prevenendo, nella maggior parte dei casi, la presentazione di quelle impugnazioni che in sostanza mirano a ottenere una riduzione dell’ammontare sanzionatorio.
La ratio sottostante è di sicuro pregio: anziché elidere la possibilità di impugnare, come spesso, in passato, è stato fatto o suggerito, si lascia alla difesa la scelta su come agire secondo le proprie realistiche aspettative di successo, premiando chi da subito si ‘accontenta’ di un’ulteriore riduzione della pena. Vista la cronica sofferenza delle giurisdizioni superiori, potrebbe trattarsi del primo embrione di un modello vincente, da importare anche in altri istituti.
Come opportunamente specificato nella Relazione illustrativa, l’inerzia deve riguardare tanto l’imputato, quanto il difensore che agisca quale suo procuratore speciale, oppure in forza del suo potere di impugnazione (art. 571 c.p.p.); inoltre, l’assenza di impugnazioni deve essere «totale», nel senso che non è sufficiente evitare il ricorso per Cassazione dopo l’appello, o presentare un ricorso per saltum[47].
L’effetto premiale in questione non pare accessibile nemmeno a seguito di rinuncia ex art. 589 c.p.p.; si parla, infatti, di mancata presentazione dell’impugnazione e non del caso in cui quest’ultima sia divenuta inammissibile ai sensi dell’art. 591 co. 1 lett. d c.p.p. Siffatta soluzione è certamente sensata: viene evitato, in radice, lo svolgimento di qualsiasi attività procedimentale successiva alla presentazione di un’impugnazione.
La pena finale, come si è già anticipato, è calcolata dal giudice dell’esecuzione – sempre riconducibile a quello che ha originariamente emesso la sentenza – secondo la procedura ex art. 667 co. 4 c.p.p., ossia «senza formalità» e con ordinanza emessa de plano; a tal fine è stato appositamente ritoccato l’art. 676 co. 1 c.p.p.
Resta solo un ultimo punto da chiarire; va stabilito se la successiva riduzione di un sesto debba essere operata sulla pena risultante dalla sentenza di primo grado, oppure su quella che il giudice avrebbe originariamente applicato in mancanza di diminuenti per il rito. La locuzione «la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto» non dirime il dubbio; tuttavia, posto che la seconda soluzione appare maggiormente favorevole per il condannato, potrebbe essere questa l’esegesi da prediligere.
Il nuovo secondo periodo dell’art. 438 co. 6 ter c.p.p. segue il solco a suo tempo tracciato dalla Corte costituzionale, con la già ricordata pronuncia n. 169 del 2003[48]: si prevede che, salvo quanto previsto dal periodo precedente, «in ogni altro caso in cui la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile o rigettata, l’imputato può riproporre la richiesta prima dell’apertura del dibattimento e il giudice, se ritiene illegittima la dichiarazione di inammissibilità o ingiustificato il rigetto, ammette il giudizio abbreviato».
La norma – che tende condivisibilmente a favorire l’accesso al rito in questione, anche dopo l’udienza preliminare – presenta, tuttavia, una criticità: non v’è traccia, nella legge delega, di un criterio volto alla sua introduzione[49].
Vero è che tale inserimento trova dichiarata giustificazione in un recente ed esplicito invito in tal senso da parte della stessa Corte costituzionale[50], richiamato anche dalla Relazione illustrativa[51], ma, nonostante ciò, permane il dubbio di trovarsi di fronte a un intervento ‘fuor di delega’[52].
Infine, merita sicuramente menzione il rinvio all’art. 510 c.p.p., aggiunto al co. 6 dell’art. 441 c.p.p.: dovrà dunque essere applicato, anche in sede di giudizio abbreviato, il suo innovativo co. 2 bis, che – come si è visto sopra – impone, di regola, la documentazione «anche con mezzi di riproduzione audiovisiva» dell’«esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici, delle parti private e delle persone indicate nell’articolo 210».
4.2. Applicazione della pena su richiesta delle parti
Le novità in materia di patteggiamento sono precipuamente connesse alla volontà di rivitalizzarne l’uso, che negli ultimi anni – probabilmente complice anche l’introduzione della messa alla prova – ha visto ridurre significativamente le sue statistiche[53].
Per incentivare l’accesso al rito, si è dunque seguita una ben precisa strategia: anziché intervenire sulla pena principale, i cui limiti sono rimasti del tutto invariati, si è preferito lavorare sugli ulteriori profili sanzionatori, nonché sugli effetti extrapenali connessi all’applicazione della pena[54].
Per quanto riguarda il primo profilo, la negoziabilità raggiunge ora nuovi lidi. Grazie alle modifiche all’art. 444 co. 1 c.p.p., è divenuto possibile inserire nell’accordo fra imputato e pubblico ministero anche determinazioni circa l’an e il quantum di pene accessorie e confisca facoltativa, a fronte di qualsiasi entità di pena concordata[55]. Sono quindi così stati abbattuti i precedenti limiti che vedevano sempre applicabile la confisca facoltativa, mentre le pene accessorie, di regola, nel solo patteggiamento ultra biennale (art. 445 co. 1 c.p.p.). All’interno di questo riassetto, è invece rimasta intatta la particolare disciplina riservata alle pene accessorie previste dall’art. 317 bis c.p., per alcuni reati contro la P.A. (artt. 444 co. 3 bis e 445 co. 1 ter c.p.p.).
Conseguentemente, è stato lievemente ritoccato il co. 2 dell’art. 444 c.p.p., al fine di chiarire che pure i nuovi profili di negoziabilità debbono sottostare al vaglio giudiziale.
La seconda direttrice di intervento, come già accennato, è volta all’elisione degli ulteriori effetti della pronuncia di patteggiamento.
Il relativo criterio di delega chiedeva di «ridurre gli effetti extra-penali della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, prevedendo anche che questa non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare e in altri casi» (art. 1 co. 10 lett. a n. 2, l. 134 del 2021); sulla base di questa indicazione di ampio respiro, il legislatore delegato ha potuto agire su più fronti, riscrivendo in toto il co. 1 bis dell’art. 445 c.p.p.
Per evitare l’efficacia del patteggiamento nel giudizio disciplinare è stato eliminato l’iniziale inciso «salvo quanto previsto dall’art. 653».
In secondo luogo, in relazione agli «altri casi», si stabilisce che, «anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento», la sentenza di cui all’art. 444 c.p.p. «non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l’accertamento della responsabilità contabile”. Non solo, quindi, l’applicazione della pena non può far stato nelle sedi sopra elencate; ci si è inoltre premurati di precisare che il relativo provvedimento non possa essere acquisito come elemento probatorio.
Evidentemente, l’efficacia di giudicato – cui fa riferimento il criterio di delega – e la rilevanza probatoria – da quest’ultimo, al contrario, trascurata – non sono fenomeni perfettamente sovrapponibili; si tratta, però, di due facce della stessa medaglia, tanto che non sembrano porsi problemi di eccesso di delega: è infatti abbastanza chiaro quale fosse l’obiettivo voluto dal legislatore delegante e, cioè, la tendenziale irrilevanza del patteggiamento in ambiti extrapenali.
Infine, pur rimasta salva la disposizione generale secondo cui la sentenza in parola «è equiparata a una pronuncia di condanna», è stata aggiunta un’importante eccezione. Qualora non vengano applicate pene accessorie, devono considerarsi prive di efficacia tutte quelle disposizioni – «diverse da quelle penali» e collocate, ad esempio, in leggi speciali[56] – che, normalmente, prevedono siffatta equivalenza.
Vanno infine segnalate alcune disposizioni di coordinamento fra la disciplina del patteggiamento e quella relativa all’applicazione delle nuove ‘pene sostitutive’.
Intanto, nel co. 1 dell’art. 444 c.p.p. la parola ‘sanzione’ è stata sostituita con ‘pena’; in secondo luogo, all’interno del neo introdotto art. 448 co. 1 bis, si rinviene una disciplina analoga a quella prevista dal nuovo art. 545 bis c.p.p.
Sarà dunque possibile fissare apposita udienza per stabilire i termini precisi della sostituzione, allorché le parti abbiano già raggiunto sul punto un «accordo almeno generale»[57] e non sia «possibile decidere immediatamente». In pratica, il giudice potrà così eventualmente esercitare le prerogative previste dal co. 2 dell’art. 545 bis c.p.p., ossia acquisire tutti gli elementi necessari per valutare l’accordo – tra cui informazioni sulle «condizioni di vita, personali, familiari, sociali, economiche e patrimoniali dell’imputato» – nonché chiamare in causa l’ufficio di esecuzione penale esterna.
Nel complesso, le novelle in materia di patteggiamento paiono senza dubbio promettenti; è noto come gli effetti ‘secondari’ o ‘indiretti’ possano tenere gli imputati lontani dal patteggiamento a volte anche di più rispetto alla pena ‘principale’. Si sarebbe però forse potuto lavorare in profondità, incidendo sulla riduzione di pena, o sugli altri presupposti del rito, come del resto aveva suggerito la Commissione Lattanzi.
4.3. Giudizio immediato
Rispetto ai due riti appena esaminati, le novità in materia di giudizio immediato paiono meno significative; non sono stati modificati in alcun modo i connotati caratterizzanti dello stesso e si è voluto soltanto favorire l’accesso ad altri procedimenti maggiormente deflativi.
In primo luogo, è stato integrato l’avviso di cui al co. 2 dell’art. 456 c.p.p., inserendovi un esplicito riferimento alla possibilità, per l’imputato che riceva il decreto di giudizio immediato, di richiedere non solo il patteggiamento e il giudizio abbreviato, ma anche la messa alla prova.
Tale risultato era già stato raggiunto con la dichiarazione di illegittimità costituzionale operata dalla sentenza n. 19 del 2020[58], ma si è evidentemente scelto, anche in questo caso, di accogliere l’invito della Corte costituzionale – cui sopra si è già fatto cenno – a trasformare in diritto positivo i suoi interventi additivi. Siamo nuovamente di fronte a una modifica non richiesta dal delegante, la quale, d’altra parte, s’inserisce perfettamente nel contesto della riforma, colmando peraltro una precedente lacuna.
Gli altri interventi servono invece a rafforzare la prerogativa dell’imputato di ottenere un rito premiale, anche dopo la notificazione del decreto di giudizio immediato[59].
In particolare, per quanto riguarda il rito abbreviato, è stato previsto, all’art. 458 co. 2 c.p.p., che l’udienza finalizzata alla valutazione della richiesta debba svolgersi “in ogni caso”; l’istante ha quindi un diritto incondizionato al contraddittorio sui presupposti del rito e il giudice non pare potersi esimere da tale interlocuzione, nemmeno qualora li ritenga inesistenti. Solo una presentazione fuori termini sembrerebbe rendere eludibile l’adempimento in parola: il precedente comma 1 continua infatti a sanzionare con la decadenza il mancato rispetto dei tempi previsti.
Inoltre, è stato espressamente stabilito che, a seguito del rigetto dell’istanza ‘condizionata’, possa essere avanzata quella ‘semplice’, oppure possano essere richiesti il patteggiamento o la messa alla prova. Soltanto qualora nessuna di queste istanze sia accoglibile, si procederà al dibattimento, nel quale, tuttavia, in applicazione del nuovo art. 438 co. 6 ter c.p.p., sarà reiterabile la richiesta di giudizio abbreviato prima respinta[60].
È dunque ben chiara la gerarchia fra riti che il legislatore vuole promuovere: i desiderata della difesa, orientati in qualsiasi direzione diversa dal dibattimento, devono trovare il più ampio grado di soddisfazione possibile.
All’interno di questo nuovo quadro normativo, va segnalata una distonia fra il nuovo co. 2 bis dell’art. 458 e il co. 5 bis dell’art. 438 c.p.p.: quest’ultimo, applicabile in sede di udienza preliminare, consente di chiedere l’abbreviato ‘semplice’, o il patteggiamento, in subordine al rigetto della richiesta ‘condizionata’; il co. 2 bis dell’art. 458 c.p.p., invece, – oltre a fare esplicito riferimento alla messa alla prova – legittima tali manifestazioni di volontà dell’imputato anche e soltanto dopo il diniego giudiziale[61].
Non vi è quindi simmetria testuale fra le due ipotesi in esame, ma va del pari ricordato che - secondo un recente orientamento di legittimità - l’art. 438 co. 5 bis c.p.p. si limiterebbe a disciplinare una mera facoltà e non un obbligo di proposizione della richiesta subordinata contestualmente a quella principale[62]. Ferma questa interpretazione, il contrasto letterale sembrerebbe allora risolvibile in via esegetica.
Contenuti e rationes simili presenta poi il neo introdotto art. 458 bis c.p.p., per il caso in cui, alla notifica del decreto di giudizio immediato, segua una richiesta di applicazione della pena. L’udienza va fissata «in ogni caso» (comma 1) e, in ipotesi di rigetto o dissenso dell’accusatore, resta possibile la formulazione di istanze alternative.
Manca, invece, all’appello un’analoga disciplina per la messa alla prova. Nella relazione illustrativa, si spiega che – al di là del ritocco al co. 2 dell’art. 456 c.p.p. e delle richieste ‘secondarie’ di cui agli artt. 458 co. 2 bis e 458 bis co. 2 – non fosse necessario aggiungere altro: «il diritto a chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova in via principale» – si spiega – «è già riconosciuto dall’art. 464-bis, comma 2, secondo periodo»[63].
In effetti, secondo quest’ultima disposizione, «se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta [di messa alla prova] è formulata entro il termine e con le forme stabiliti dall’articolo 458, comma 1»; d’altra parte, però, un contenuto del tutto analogo è presente nel comma 1 dell’art. 446 c.p.p., non per caso richiamato proprio dal nuovo art. 458 bis co. 1.
Di nuovo, insomma, emerge un’asimmetria, che forse si spiega osservando la formulazione dei criteri di delega, entrambi principalmente focalizzati sul giudizio abbreviato e sul patteggiamento[64].
In generale, al di là di queste problematiche, appare comunque apprezzabile l’intento di incentivare l’adozione dei riti deflattivi del dibattimento, anche laddove sia già stata elisa l’udienza preliminare, così potendo contare su una deflazione ancora maggiore. Il problema è tuttavia a monte: il giudizio immediato appare decisamente poco sfruttato dai pubblici ministeri; cosicché anche la sua successiva trasformazione in riti premiali non inciderà in maniera molto significativa sull’economia processuale nel suo complesso[65].
Viene allora da chiedersi se non si potesse direttamente intervenire sui presupposti introduttivi di questo rito, anche solo per ribadirne e rafforzarne una vincolatività a volte dimenticata.
4.4. Procedimento per decreto
Le innovazioni in materia di decreto penale di condanna sono piuttosto trasversali: si è intervenuti, con intento incentivante, su presupposti, profili sanzionatori ed effetti premiali, ma è stato anche previsto un ‘giro di vite’ circa l’ottenimento di taluno dei relativi benefici.
Anzitutto, il pubblico ministero godrà di un anno – e non più di sei mesi – per presentare la richiesta di emissione del decreto (art. 459 co. 1 c.p.p.). La scelta, lungi dall’essere casuale, è frutto del riassetto globale dei termini di durata delle indagini, che, per quanto riguarda i delitti, è stato esteso a un anno, restando di sei mesi per le sole contravvenzioni (art. 405 c.p.p.).
Bisognerà vedere se l’estensione del margine temporale si affiancherà a richieste di emissione di decreti penali con motivazioni maggiormente approfondite e dunque tali sia da resistere meglio al vaglio del giudice, sia, soprattutto, da dissuadere il condannato dall’opposizione.
La seconda grande novità è l’introduzione di un nuovo sconto di pena. Esso, però, non riguarda il momento applicativo della pena pecuniaria, ma quello del suo pagamento: qualora il condannato, entro quindici giorni dalla notificazione del decreto, non solo si esima dal presentare opposizione, ma effettui anche il versamento, la somma dovuta è ridotta di un quinto[66]. In pratica, «il giudice nel decreto penale (se non già il P.M. nella sua
richiesta) dovrà indicare due somme: quella ‘intera’, da pagare in esito all’acquiescenza al decreto, e quella ulteriormente ridotta di un quinto, da pagare entro 15 giorni dalla notifica del decreto, con contestuale rinuncia all’opposizione»[67].
La ratio è simile a quella già vista in materia di giudizio abbreviato; mentre, in quel caso, lo sconto ulteriore è conseguente alla mancata impugnazione, qui il premio risulta correlato al celere adempimento degli oneri sanzionatori.
Dall’altro versante sopra accennato – ossia in chiave restrittiva – il legislatore è intervenuto sull’effetto estintivo. Col fine di contribuire a porre rimedio alla «grave e intollerabile situazione di inefficienza del sistema di esecuzione della pena pecuniaria e di ineffettività della stessa»[68], l’estinzione del reato per ‘buona condotta’, prevista dal co. 5 dell’art. 460 c.p.p., interverrà solo se sia stata previamente pagata la pena pecuniaria.
Si tratta di una novella che potrebbe forse indurre alcuni a prediligere l’opposizione; d’altra parte, tenuto appunto conto delle drammatiche statistiche circa la riscossione delle sanzioni pecuniarie – e, più in generale, della necessaria effettività della pena –, questo intervento appare certamente opportuno.
Una considerazione a parte meritano la riformulazione dell’art. 459 co. 1 bis e l’introduzione del co. 1 ter, che s’inseriscono nell’alveo della globale riforma delle “pene” sostitutive.
In primo luogo, il tasso di conversione fra pena detentiva e pecuniaria è stato decisamente ribassato: il valore giornaliero, adottato dal giudice, per l’eventuale sostituzione è ora ricompreso fra i 5 e i 250 euro e deve essere parametrato «alla quota di reddito giornaliero che può essere impiegata per il pagamento della pena pecuniaria, tenendo conto delle complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare»[69].
A queste potenzialmente più favorevoli condizioni di conversione, si aggiunge quanto statuito dal nuovo art. 53 co. 2, l. 24 novembre 1981, n. 689: in primis, la sostituzione può ora intervenire sino a un anno di pena detentiva; in secondo luogo, su richiesta del soggetto interessato[70], la stessa è possibile non solo con la pena pecuniaria, ma anche con il lavoro di pubblica utilità[71].
Proprio alla disciplina di quest’ultima ipotesi sono dedicati l’ultimo periodo dell’art. 459 co. 1 bis, nonché l’intero co. 1 ter.
Il primo prevede la possibilità che la sostituzione con il lavoro di pubblica utilità avvenga già in sede di emissione del decreto penale; tale eventualità appare, tuttavia, piuttosto remota. È infatti necessario che l’indagato ne abbia fatto richiesta al pubblico ministero, prima dell’esercizio dell’azione, allegando alla propria istanza il programma di trattamento elaborato dall’UEPE, nonché la dichiarazione di disponibilità dell’ente prescelto.
L’indagato dovrebbe quindi agire in via preventiva, prefigurandosi l’esito procedimentale, ancor prima che l’accusa sia stata elevata nei suoi confronti; senza peraltro dimenticare che, in questo caso, l’esercizio dell’azione penale avviene tramite una richiesta di cui egli non ha formalmente diritto di sapere.
Decisamente più probabile è quindi l’eventualità disciplinata dal co. 1 ter. Il decreto è già stato emesso e, al suo interno, la pena detentiva è stata sostituita con quella pecuniaria. A questo punto, il condannato – entro quindici giorni dalla notificazione del decreto e senza dover presentare opposizione – può fare istanza di ulteriore sostituzione con il lavoro di pubblica utilità, potendo inoltre disporre di un termine di sessanta giorni per il deposito della relativa documentazione.
Due paiono allora gli scenari possibili: o l’indagato non aveva presentato la richiesta preventiva cui sopra si è fatto cenno, oppure il giudice non ha ritenuto di doverla accogliere e si è limitato alla sostituzione tramite pena pecuniaria; nel primo caso, si tratterebbe di un’istanza completamente nuova, mentre, nel secondo, di un’integrazione o sostituzione di quella precedente, rigettata al momento dell’emissione del decreto.
È infine interessante notare cosa succede in caso di diniego: se, «per difetto dei presupposti», non applica il lavoro di pubblica utilità, il giudice emette decreto di giudizio immediato. In sostanza, la difesa deve tenere a mente che il rigetto della richiesta comporta effetti simili a quelli di un’opposizione cui segua la celebrazione del dibattimento.
Bisogna però chiarire se, ancora dopo l’emissione del decreto di giudizio immediato, sia possibile accedere ad altri riti speciali in applicazione dei sopra esaminati artt. 458 e 458 bis c.p.p. Tale opportunità – come si ricava dall’art. 464 co. 3 c.p.p. – va sicuramente esclusa quando l’imputato si è formalmente opposto al decreto, limitandosi a chiedere il giudizio immediato, oppure senza esprimere alcuna preferenza in merito al rito.
Nel contesto in esame, invece, la situazione è diversa: quest’ultimo ha solo chiesto di sostituire la pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità, anziché con la pena pecuniaria; inoltre, è lo stesso art. 459 co. 1 ter a stabilire che tale istanza va compiuta «senza formulare l’atto di opposizione»; negare l’accesso ai riti premiali potrebbe allora rappresentare un eccessivo sacrificio dei diritti della difesa, nonché una soluzione contraria allo spirito ‘efficientistico’ della riforma.
In definitiva, l’impressione è che si sia lavorato molto sulla disciplina del decreto penale di condanna: gli innesti volti a incrementare, per un verso, la scelta del rito da parte del pubblico ministero e, per altro verso, l’acquiescenza da parte del condannato, potrebbero fornire buoni risultati in termine di economia processuale.
4.5. Sospensione del procedimento con messa alla prova
La messa alla prova ha indiscutibilmente dato buon esito in questi suoi primi anni di applicazione, diventando uno dei riti prediletti dalla difesa in relazione a pene detentive non particolarmente elevate[72].
Nonostante questi successi, il legislatore ha ritenuto importante soffermarsi anche su tale istituto, al fine di incrementarne ulteriormente il potenziale.
Si è così agito su due fronti. Per quanto riguarda i presupposti, il limite edittale previsto dall’art. 168 bis c.p. è rimasto inalterato, continuando ad attestarsi su una pena detentiva «non superiore nel massimo a quattro anni»; è stato però ampliato, tramite l’ arricchimento con specifiche fattispecie criminose, il catalogo ex art. 550 co. 2 c.p.p., al quale il medesimo art. 168 bis c.p. faceva e continua a fare rinvio per determinare l’ambito applicativo della messa alla prova. Era del resto questa l’indicazione del legislatore delegante, il quale aveva chiesto di estendere il rito in questione a «specifici reati, puniti con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore, compatibili con l’istituto» (art. 1 co. 22 lett. a, l. 134 del 2021).
Dal punto di vista procedurale, l’asse portante dell’intervento in materia è invece la formale attribuzione, al pubblico ministero, della possibilità di attivarsi per primo ai fini dell’instaurazione del rito. Il modus operandi della parte pubblica, così come la conseguente risposta dell’imputato – a cui spetta pur sempre l’ultima parola – sono disciplinati in maniera diversa, sulla base del momento interessato.
Per quanto riguarda udienza preliminare e dibattimento, ci si è limitati a interpolare l’art. 464 bis co. 1 c.p.p. La richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova potrà essere formulata dall’imputato «anche su proposta del pubblico ministero».
Inoltre – aggiunge il nuovo secondo periodo – qualora tale proposta sia intervenuta direttamente in udienza, la difesa (che intenda farla propria) ha diritto a un termine non superiore a venti giorni per preparare la sua istanza di accesso al rito.
Null’altro è stato previsto, lasciando aperti vari interrogativi. Intanto non è chiaro quanto debba essere consistente la proposta, ossia se il pubblico ministero abbia almeno l’obbligo di abbozzare contenuti e tempi del periodo di prova, oppure possa sterilmente limitarsi a suggerirne l’utilizzo da parte dell’imputato.
Inoltre, bisogna capire cosa accadrebbe nel primo caso: un’eventuale proposta strutturata costituisce un qualche vincolo per l’imputato, oppure egli resta libero di presentare al giudice una richiesta con tutt’altro genere di caratteristiche?
Più in generale – vista anche la laconicità del dettato normativo – resta un dubbio di fondo sull’utilità di questa innovazione. È noto che interlocuzioni, più o meno informali, sulla messa alla prova già avvengono fuori e dentro le aule d’udienza; cosicché questa minimale formalizzazione del ruolo del pubblico ministero rischia di non aggiungere nulla a ciò che già accade e, dunque, di non incrementare significativamente il numero di richieste presentate[73].
Ben diversa appare la normativa approntata con riferimento alle indagini preliminari; il legislatore delegato ha capillarmente disciplinato l’iniziativa del pubblico ministero, inserendo nel codice un apposito art. 464 ter.1 c.p.p.
Il momento in cui il rappresentante dell’accusa può esternare le sue intenzioni è quello di emissione dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p.; egli è quindi incline a esercitare l’azione penale e, insieme ai tradizionali contenuti di tale atto, ha anche la possibilità di proporre all’indagato l’accesso alla prova. Questo meccanismo sembra aver tratto ispirazione dalla prassi: in diverse Procure, all’interno dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, è infatti uso comune inserire anche l’eventuale disponibilità al patteggiamento. Il senso della nuova regolamentazione in materia di messa alla prova appare sostanzialmente il medesimo.
A differenza di quanto previsto nell’art. 464 quater c.p.p., il co. 1 dell’art. 464 ter.1 c.p.p., impone poi al pubblico ministero di indicare quantomeno «durata» e «contenuti essenziali» del programma di trattamento, potendo avvalersi a tal fine dell’operato dell’UEPE.
Anche la risposta dell’indagato è stata specificamente disciplinata: egli ha venti giorni di tempo per aderire alla proposta (co. 2) e il pubblico ministero, a quel punto, dopo aver conseguentemente formulato l’imputazione, trasmetterà gli atti al giudice per la sua decisione (co. 3).
Quest’ultimo effettua un primo vaglio sulle linee programmatiche cui il neo imputato ha aderito e – se ritiene rispettate le condizioni ex art. 464 quater co. 3 c.p.p. – si rivolge all’UEPE per la redazione del programma completo (co. 4), da preparare entro novanta giorni (co. 5).
Il piano trattamentale definitivo viene poi ulteriormente valutato dal giudice che, a quel punto, potrà finalmente disporre l’inizio del periodo di prova (co. 7).
Il g.i.p. – sia per la decisione interlocutoria, sia per quella definitiva – ha anche la possibilità di fissare un’udienza (co. 6); peraltro, come sembra emergere dal co. 7, l’udienza è l’unica sede in cui, con il consenso dell’imputato, il programma può ulteriormente essere integrato o modificato.
Nonostante sia molto dettagliata, anche da questa disciplina emergono alcune questioni esegetiche.
Mancano espresse possibilità di interlocuzione sulla proposta e, anzi, l’indagato pare vincolato a un’alternativa secca fra l’aderirvi o meno; infatti, posto che la stessa è cristallizzata all’interno dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p., il pubblico ministero – almeno fino all’udienza preliminare – non sembra avere la possibilità di apportarvi modifiche.
Ad ogni modo, una soluzione intermedia è possibile. L’indagato – a seguito di un dialogo informale col pubblico ministero – potrebbe presentare una propria contro-proposta ai sensi dell’art. 464 ter c.p.p., a cui quest’ultimo potrebbe a sua volta prestare il consenso, ottenendo il medesimo effetto, seppur a parti invertite.
Il secondo profilo problematico riguarda la vincolatività dell’iniziativa compiuta da parte dell’accusatore. Come si è visto, il programma completo viene redatto dall’EUPE e può ancora essere modificato dal giudice in sede di decisione definitiva; tuttavia, un atto di consenso del pubblico ministero non è richiesto né nel primo momento, né nel secondo. Non è dunque necessario attenersi fedelmente alla ‘durata’ e ai ‘contenuti essenziali’ inseriti nell’avviso di conclusione delle indagini preliminare e spetta, semmai, al giudice attribuire valore, in sede decisionale, all’iniziale volontà espressa dal pubblico ministero.
Infine – come già abbiamo fatto per il co. 1 dell’art. 464 bis c.p.p. – conviene riflettere sul potenziale di questo nuovo art. 464 ter.1 c.p.p.
A ben vedere, nemmeno l’introduzione di questa proposta del pubblico ministero sembrerebbe in grado di incrementare significativamente le richieste di messa alla prova da parte degli imputati: si può in fondo immaginare che chi vi aderirà in questo momento avrebbe formulato la propria richiesta più avanti, senza dover nemmeno necessitare di un placet formale della parte pubblica.
Il vantaggio che ci si può effettivamente attendere è invero un altro: l’iniziativa dell’accusa, più che orientare la difesa verso una soluzione altrimenti ignorata, potrebbe invece convincerla ad accedervi prima di quanto avrebbe fatto in precedenza. In altre parole, l’effetto deflattivo deriverà, nella maggior parte di casi, dalla mancata instaurazione dell’udienza preliminare, o del dibattimento, sedi in cui la messa alla prova sarebbe stata un tempo richiesta.
4.6. Le idee rimaste nel cassetto
Come si è detto all’inizio, in materia di riti speciali, sono state introdotte parecchie novità; tuttavia, molte paiono anche le proposte della “Commissione Lattanzi” cui si è preferito non dar seguito.
Il suggerimento più innovativo era sicuramente quello che interessava il giudizio abbreviato: la richiesta ‘condizionata’ all’acquisizione di nuove prove avrebbe dovuto essere indirizzata sempre e soltanto al giudice del dibattimento.
Questa modifica strutturale del rito si basava sull’idea che «l’attribuzione dell’assunzione della prova a un giudice che è estraneo al fenomeno istruttorio finisce per condurre a un atteggiamento di tendenziale chiusura dei giudici dell’udienza preliminare rispetto alle richieste di nuove prove»; al contrario, la sua attribuzione a un giudice maggiormente aduso agli adempimenti istruttori avrebbe condotto a «una più ampia propensione a concederlo»[74].
La proposta era certamente apprezzabile. Infatti, oltre a quanto appena ricordato, è ulteriormente probabile che la difesa – dopo un rinvio a giudizio, basato oltretutto sulla nuova, più stringente, regola di giudizio – avrebbe accolto con favore una seconda opportunità di accedere all’abbreviato, rinunciando re melius perpensa al dibattimento.
Per quanto riguarda invece l’applicazione della pena su richiesta e la messa alla prova, era stata proposta un’altra strada: non si operava sulla struttura, ma piuttosto su presupposti e incentivi.
Si proponeva di elevare lo sconto di pena per il patteggiamento fino a un mezzo, mentre le preclusioni di cui all’articolo 444 co. 1 bis c.p.p. venivano eliminate. Tali correttivi avrebbero comportato una rivitalizzazione del rito di certo maggiore rispetto a quella potenzialmente possibile tramite le – seppur rilevanti – novelle infine approvate.
Analoga ratio era sottesa alla proposta in materia di messa alla prova; ancora una volta si agiva più incisivamente sui presupposti, consentendo di estendere la probation procedimentale a specifici reati con pena edittale detentiva «non superiore nel massimo a dieci anni», al contrario dei sei su cui infine ci si è assestati.
In definitiva, fra modifiche strutturali, ribilanciamento dei presupposti e nuovi incentivi, molte proposte sono state accantonate.
Pur nella consapevolezza dell’importanza di questi riti per l’efficienza della nostra giustizia penale, è forse mancato il coraggio di compiere certe scelte, in cui a volte la politica criminale diventa molto più preponderante delle ragioni tecniche.
* Il contributo è frutto di discussione e dibattito congiunto ma, ai fini della suddivisione del lavoro, Andrea Cabiale è l’autore dei §§ 2.3, 4, 4.1, 4.2, 4.3, 4,4. 4.5, 4.6; Serena Quattrocolo è l’autore dei §§. 1, 2, 2.1, 2.2, 3, 3.1, 3.2, 3.3, 3.4, 3.5.
[1] Tra i numerosi commenti di carattere generale al processo di riforma della giustizia penale, si richiamano, senza pretese di esaustività, R. BARTOLI, Verso la riforma Cartabia: senza rivoluzioni, con qualche compromesso, ma con visione e respiro, in Dir. pen. proc., 2021, p. 1155 ss.; P. BRONZO, Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le Corti d’appello, in Cass. pen., 2021, pp. 3276 ss.; G. CANZIO, Le linee del modello “Cartabia”. Una prima lettura, in Sist. pen, 23.8.2021; A. CAVALIERE, Considerazioni “a prima lettura” su deflazione processuale, sistema sanzionatorio e prescrizione nella l. 27 settembre 2021, n. 134, c.d. riforma Cartabia, in PenaleDP, 27.9.2021; M. DONINI, Efficienza e principi della legge Cartabia. Il legislatore a scuola di realismo e cultura della discrezionalità, in Pol. dir., 2021, p. 591 ss.; G.L. GATTA, Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della ‘legge Cartabia’, in Sist. pen, 15.10.2021; F. PALAZZO, I profili di diritto sostanziale della riforma penale, in Sist. pen., 8.10.2021; ID., Pena e processo nelle proposte della Commissione Lattanzi, in LP, 7.7.2021; D. PULITANÒ, Una svolta importante nella politica penale, ivi, 15.6.2021; G. SPANGHER, La riforma Cartabia nel labirinto della politica, in Dir. pen. proc., 2021, p. 1155 ss.
[2] V. M. DANIELE-P. FERRUA, Venti di riforma sull’udienza preliminare e del patteggiamento: un subdolo attacco al processo accusatorio, in Dir. pen. cont., 2019, n. 5, p. 77 ss.; M. DANIELE, L’abolizione dell’udienza preliminare per rilanciare il sistema accusatorio, in Sist. pen., Riv. trim., 1/2020, p. 132 ss.
[3] Per un’analisi dei dati che consacrano questa realtà, v. M. GIALUZ-J. DELLA TORRE, Giustizia per nessuno. L’inefficienza del sistema penale italiano tra crisi cronica e riforma Cartabia, Giappichelli, 2022, p. 102 e ss.
[4] Per una panoramica riassuntiva di una questione che da tempo mobilità l’attenzione della dottrina, v., tra gli altri, F. CASSIBBA, L’imputazione e le sue vicende, Giuffré, 2016, p. 120 ss.; G. FIORELLI, L’imputazione latente, Giappichelli, 2016, p. 201 ss.
[5] Cass., SU, 20.12.2007, n. 5307, in Cass. pen., 2008, p. 2313. In termini fortemente critici, v. O. MAZZA, Imputazione e ‘nuovi’ poteri del giudice dell’udienza preliminare, in ID., Il garantismo al tempo del giusto processo, Giuffrè, 2011, p. 45 s.; L. MARAFIOTI, Imputazione e rapporti tra P.M. e G.I.P. secondo le Sezioni Unite: un abuso di ‘disinvoltura’, in Giust. Pen., 2008, III, c. 456 ss. Riassuntivamente, sulle successive fortune di quell’orientamento interpretativo, volendo, S. QUATTROCOLO, Ancora sull’imparzialità del g.u.p.: la Corte costituzionale non ha dubbi in merito alla ‘dottrina Battistella’, in Giur. cost., 2019, p. 873 ss.
[6] Significativo il dato riportato da M. GIALUZ-J. DELLA TORRE, Giustizia per nessuno, cit., p. 105: nel 2019, in tutta Italia, si sono registrati 4 provvedimenti di restituzione degli atti dal g.u.p. al p.m.
[7] In questo senso, Relazione illustrativa al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150: «Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari», in Supplemento straordinario n. 5 alla Gazzetta Ufficiale n. 245 del 19.10.2022 – Serie generale, p. 273.
[8] V. ancora Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 272.
[9] Cfr. F. CASSIBBA, L’imputazione, cit., p. 126.
[10] Non mancano autorevoli letture che riconducono piuttosto la nullità alla lett. c dell’art. 178 c.p.p., con riferimento all’intervento e all’assistenza dell’imputato: tra gli altri, M. CAIANIELLO, Premesse per una teoria del pregiudizio effettivo nelle invalidità processuali penali, B.U.P., 2012, p. 50.
[11] Per nulla scontata, questa soluzione pare tuttavia inevitabile, poichè il mutamento della imputazione può determinare il venir meno dell’interesse dell’imputato alla richiesta già depositata.
[12] In questo senso, Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 274.
[13] Si vedano, per maggiori approfondimenti, fra gli altri, F. ALVINO, Il controllo giudiziale dell'azione penale: appunti a margine della ‘riforma Cartabia’, in Sist. pen., 10.3.2022; E. AMODIO, Filtro ‘intraneo’ e filtro ‘estraneo’ nella nuova disciplina per il controllo del rinvio a giudizio, in Cass. pen., 2022, p. 14 e ss.; M.G. ARCARO, Dalla sostenibilità dell’accusa in giudizio alla ragionevole previsione di condanna: cambia la regola di giudizio per l’archiviazione e il non luogo a procedere, in PenaleDP, 2022, n. 2, p. 273 ss.; M. BONTEMPELLI, Udienza preliminare ed efficienza giudiziaria, in Dir. pen. proc., 2021 p. 1149 ss.; F. CASSIBBA, Udienza preliminare e controlli sull’enunciato d’accusa a trent’anni dal codice di procedura penale, in Arch. pen., Rivista web, 2019, n. 3; M. DANIELE-P. FERRUA, Venti di riforma sull’udienza preliminare, cit., p. 77 ss.; M. DANIELE, L’abolizione dell’udienza preliminare, cit., p. 132 ss.; R. DEL COCO, Rimaneggiamento delle regole per non procedere: archiviazione e udienza preliminare, in Proc. pen. giust., 2022, p. 83 ss.; G. GARUTI, L’efficienza del processo tra riduzione dei tempi di indagine, rimedi giurisdizionali e “nuova” regola di giudizio, in Arch. pen., Rivista web, 2020, n. 3; M. GIALUZ-J. DELLA TORRE, Il progetto governativo di riforma della giustizia penale approda alla Camera: per avere processi rapidi (e giusti) serve un cambio di passo, in Sist. pen., 21.4.2020, p. 157 ss.; E. MARZADURI, La riforma Cartabia e la ricerca di efficaci filtri predibattimentali: effetti deflativi e riflessi sugli equilibri complessivi del processo penale, in LP, 25.1.2022; C. SANTORIELLO, Le nuove regole di giudizio della Riforma Cartabia, tra una positiva sinergia e una possibile eterogenesi dei fini, in Arch. pen., Rivista web, 2022, n. 2.
[14] Come del resto suggerito, non solo provocatoriamente, da autorevole dottrina: M. DANIELE, L’abolizione dell’udienza preliminare, cit.
[15] Relazione finale e proposte di emendamenti al D.D.L. A.C. 2435 del 24.5.2021 della Commissione Lattanzi, in LP, 25.5.2021, p. 20.
[16] Si vedano, però, anche le riflessioni di G. GARUTI, L’efficienza del processo, cit., pp. 13-14, secondo il quale «anche le tempistiche del singolo processo dovranno poi essere in concreto tenute in considerazione nella valutazione prognostica condotta dal p.m. e dal giudice, ponendosi in contrasto con le regole dell’efficienza processuale una valutazione che le dovesse ignorare. Da qui, allora, il dovere, in capo a p.m. e giudice, di effettuare la valutazione anche alla luce dei termini di prescrizione del reato, potendosi paradossalmente giungere a una richiesta di archiviazione o a una sentenza di non luogo a procedere a fronte di un illecito fondato nel merito, ma prossimo alla prescrizione, ovvero suscettibile di prescriversi in un arco di tempo incompatibile con le ordinarie dinamiche processuali».
[17] In questo senso anche M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della riforma Cartabia, in Sist. pen., 2.11.2022, p. 51.
[18] Vedi, fra le altre, Cass., sez. IV, 23.11.2017, n. 851, in Dejure.
[19] Per uno specifico approfondimento sul punto, v. C. SANTORIELLO, Le nuove regole di giudizio della Riforma Cartabia, cit., p. 9 ss.
[20] P. BRONZO, La “riforma Cartabia” e la razionalizzazione dei tempi processuali nella fase dibattimentale, Dir. dif., 10.3.2022.
[21] In argomento vedi anche G.L. GATTA, Riforma della giustizia penale, cit., p. 12; M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., pp. 60-61; M. GIALUZ-J. DELLA TORRE, Giustizia per nessuno, cit., p. 346 ss.; M. MONTAGNA, La razionalizzazione del dibattimento e il preteso recupero dell’immediatezza, in Proc. pen. giust., 2022, p. 135; G. LATTANZI, Passato presente e futuro dell’oralità dibattimentale, in Cass. pen., 2022, p. 931 ss.; A. NATALE, Il giudice di cognizione di fronte alla cd. “riforma Cartabia”, in Quest. giust., 2021, n. 4, p. 151.
[22] Era stata la stessa nota C. cost., 20.5.2019, n. 132, su cui v. infra, a sottolineare l’opportunità di favorire la concentrazione del giudizio attraverso ruoli di udienza diversamente organizzati.
[23] In questi termini, di nuovo, P. BRONZO, La “riforma Cartabia” e la razionalizzazione dei tempi processuali nella fase dibattimentale, cit.
[24] Certo, non si può tacere che le sedi che hanno già in uso il sistema GIADA potrebbero incontrare qualche difficoltà nel ‘far spazio’, nel ruolo, alle nuove udienze predibattimentali, non essendo inverosimile che le Procure della Repubblica abbiano già riempito tutto il ruolo del 2023 (e non solo, forse…).
[25] A questo proposito, si veda P. BRONZO, La “riforma Cartabia” e la razionalizzazione dei tempi processuali nella fase dibattimentale, cit.; M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., p. 61; A. NATALE, Il giudice di cognizione di fronte alla cd. “riforma Cartabia”, cit.
[26] R. ORLANDI, L’attività argomentativa delle parti nel dibattimento penale, in P. Ferrua-F.M. Grifantini-G. Illuminati-R. ORLANDI, La prova nel dibattimento penale, Giappichelli, 1999, pp. 3-61.
[27] L’eufemismo si riferisce alle varie situazioni patologiche ricordate da P. BRONZO, La “riforma Cartabia” e la razionalizzazione dei tempi processuali nella fase dibattimentale, cit.
[28] Cfr. P. BRONZO, La “riforma Cartabia” e la razionalizzazione dei tempi processuali nella fase dibattimentale, cit.; M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., p. 63.
[29] Il nuovo comma testualmente recita: «4-ter. Se il giudice muta nel corso del dibattimento, la parte che vi ha interesse ha diritto di ottenere l’esame delle persone che hanno già reso dichiarazioni nel medesimo dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, salvo che il precedente esame sia stato documentato integralmente mediante mezzi di riproduzione audiovisiva. In ogni caso, la rinnovazione dell’esame può essere disposta quando il giudice la ritenga necessaria sulla base di specifiche esigenze».
[30] Così, R.E. KOSTORIS, Processo penale e paradigmi europei, II ed., Giappichelli, 2022, p. 225.
[31] Il riferimento è a Cass., S.U., 15.1.1999, n. 2, Iannasso, in Dejure, principio poi confermato anche dal primo principio di diritto formulato dalla sentenza “Bajrami”.
[32] V. ancora C. cost., 20.5.2019, n. 132, § 3.1 del Considerando in diritto. Per un commento alla citata pronuncia, si rimanda a E. APRILE, Invito della Consulta al legislatore a modificare la disciplina della rinnovazione del giudizio dibattimentale in caso della persona fisica del giudice, in Cass. pen., 2019, p. 3623 ss.; M. DANIELE, Le ‘ragionevoli deroghe’ all’oralità in caso di mutamento del collegio giudicante: l’arduo compito assegnato dalla Corte costituzionale al legislatore, in Giur. cost., 2019, p. 1551 ss.; P. FERRUA, La lenta agonia del processo accusatorio a trent’anni dall’entrata in vigore: trionfante nella Carta costituzionale, moribondo nel reale, in Proc. pen. giust., 2020, p. 10; ID., Il sacrificio dell’oralità nel nome della ragionevole durata: i gratuiti suggerimenti della Corte costituzionale al legislatore, in Arch. pen., Rivista web, 2019, n. 2; O. MAZZA, Il sarto costituzionale e la veste stracciata del codice di procedura penale, ivi; R. MUZZICA, La rinnovazione del dibattimento per mutamento del giudice: un impulso della Corte costituzionale per una regola da rimeditare, in Dir. pen. cont., 3.6.2019; D. NEGRI, La Corte costituzionale mira a squilibrare il "giusto processo" sulla giostra dei bilanciamenti, in Arch. pen., Rivista web, 2019, n. 2.
[33] Cass., S.U., 10 ottobre 2019, Bajrami, § 5.4, annotata – tra gli altri – da C. BOTTINO, Sentenza Bajrami: un attentato al codice?, in Giust. pen., 2019, p. 663 ss.; A. DE CARO, La Corte Costituzionale chiama, le Sezioni Unite rispondono: il triste declino del principio di immediatezza, in Dir. pen. proc., 2020, p. 293 ss.; S. LIVI, Profili critici delle Sezioni unite Bajrami: ciò che resta dell’immediatezza, in Arch. pen., Rivista web, 2020, n. 1; A. MANGIARACINA, Immutabilità del giudice versus efficienza del sistema: il dictum delle Sezioni Unite, in Proc. pen. giust., 2020, p. 151 ss.; G. SPANGHER, Sentenza Bajrami, il nuovo dibattimento nel solco delle divisioni, in Guida Dir., 2019, n. 47, p. 16.
[34] A questo proposito si rimanda alla Relazione finale e proposte di emendamenti al D.D.L. A.C. 2435 del 24.5.2021 della Commissione Lattanzi, cit., pp. 29-30.
[35] Parla di videoregistrazione non più come semplice modalità di documentazione, ma come atto con efficacia surrogatoria, C. IASEVOLI, Il giudizio e la crisi del metodo epistemologico garantista, in Sist. pen., 10.11.2022, p. 9 ss. Sul tema v. anche R. ORLANDI, Immediatezza ed efficienza nel processo penale, in Riv. dir. proc., 2021, p. 815 ss.
[36] Di contro, critico sul tema delle videoregistrazioni era già P. FERRUA, La prova nel processo penale, I, Struttura e procedimento, Giappichelli, 2017, p. 124, che considera il contatto diretto del giudice con la fonte probatoria “non surrogabile con altrettanta efficacia dalla videoregistrazione”.
[37] L’art. 94 d.lgs. 150/2022 ne prevede l’applicabilità decorso un anno dall’entrata in vigore della riforma complessiva.
[38] In questo senso anche M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., p. 27.
[39] Ibidem, p. 64.
[40] Sul punto rimane fondamentale la ricostruzione di T. RAFARACI, Le nuove contestazioni nel processo penale, Giuffré, 1996, p. 93 ss.
[41] Al di là dell’eufemismo, v. F. CASSIBBA, L’imputazione, cit., p. 151 ss.
[42] Ad esempio, C. cost., 30.6.1994, n. 265, commentata da V. RETICO, Contestazione suppletiva e limiti cronologici per il "patteggiamento", in Giur. cost., 1994, p. 2166.
[43] Per un approfondimento sulle indicazioni a suo tempo fornite dal legislatore delegante, v. A. BASSI, I riti speciali nella riforma Cartabia: un'occasione mancata?, in Il Penalista, 6.9.2021; G. VARRASO, La legge ‘Cartabia’ e l’apporto dei procedimenti speciali al recupero dell’efficienza processuale, in Sist. pen., 2022, n. 2, p. 29 ss., il quale, fra l’altro, ha affermato che «la l. n. 134 del 2021 può segnare l’ennesima affermazione di una giustizia penale acognitiva, volta a favorire un processo senza accertamento in nome di obiettivi di celerità ed efficienza»; A. PULVIRENTI, Dalla ‘Riforma Cartabia’ una spinta verso l´efficienza anticognitiva, in Proc. pen. giust., 2022, p. 631 ss.
[44] Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 301.
[45] C. cost., 9.5.2001, n. 115.
[46] C. cost., 23.5.2003, n. 169.
[47] Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., pp. 301-302.
[48] Ci si riferisce ancora a C. cost., 23.5.2003, n. 169.
[49] Rileva questa criticità anche M. Gialuz, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., p. 53.
[50] V., C. cost., 21.6.2021, n. 127, secondo cui «una espressa incorporazione di tali addizioni [quelle compiute con la pronuncia 169 del 2003] sarebbe stata maggiormente funzionale a garantire la certezza del diritto, in una materia così densa di implicazioni per i diritti fondamentali come il processo penale».
[51] V. Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 301.
[52] Lo stesso ragionamento può valere per una interpolazione dell’art. 458 co. 2 c.p.p., ove è stato inserito un richiamo alla disciplina dell’art. 438 co. 6 ter c.p.p.; in pratica, è stata così attribuita all’imputato la possibilità di rinnovare la propria richiesta di accesso al rito abbreviato anche nell’udienza dibattimentale di giudizio immediato.
[53] Sul «tracollo» del patteggiamento, v. M. GIALUZ-J. DELLA TORRE, Giustizia per nessuno, cit., p. 112 ss.
[54] Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 298.
[55] Come è noto, la negoziabilità delle misure di sicurezza, personali e reali, era già considerata una prassi legittima; cfr., per tutte, Cass., S.U., 26.9.2019, n. 21368.
[56] In questo senso, M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., p. 55.
[57] Così, testualmente, Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 408.
[58] Ci si riferisca a Corte cost., 14.2.2020, n. 19.
[59] Cfr., ancora, in relazione al criterio di delega, A. BASSI, I riti speciali nella riforma Cartabia, cit., secondo la quale «viene così eliminato un – poco ragionevole – ostacolo alla definizione del giudizio immediato con un rito alternativo, causa di forti criticità nella prassi applicativa, cui la giurisprudenza aveva cercato di ovviare in via interpretativa».
[60] Come si è già visto, infatti, è stato inserito nell’art. 458 co. 1 c.p.p. un rinvio anche al disposto del nuovo co. 6 ter dell’art. 438 c.p.p.
[61] Il problema trova probabilmente le sue radici nelle direttive di delega contenute nella l. n. 134 (art. 1 co. 10 lett. c, nn. 1 e 2): la prima lega testualmente le facoltà dell’imputato al «rigetto da parte del giudice delle indagini preliminari della richiesta di giudizio abbreviato subordinata a un’integrazione probatoria»; la seconda, analogamente, parla di «dissenso del pubblico ministero o di rigetto da parte del giudice delle indagini preliminari della richiesta di applicazione della pena».
[62] Cass., sez. I, 3.4.2019, n. 21439, in Dejure.
[63] V. Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 303.
[64] Anche le ragioni di questa mancanza forse si rinvengono nella legga delega: le due già ricordate direttive – art. 1 co. 10 lett. c, nn. 1 e 2, l. 134 del 2021 – si riferiscono rispettivamente all’ipotesi in cui venga richiesto il giudizio abbreviato “condizionato” e il patteggiamento, mentre la messa alla prova vi compare soltanto come rito “di seconda istanza”.
[65] In questo senso, M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., p. 55.
[66] Sono stati conseguentemente modificati il co. 1, lett. d, e il co. 5, dell’art. 460 c.p.p. ed è stata introdotta la nuova lett. h ter recante l’avviso al condannato in merito a tale facoltà.
[67] Così, testualmente, Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 305.
[68] V. ancora Relazione illustrativa al decreto legislativo, cit., p. 430.
[69] Cfr. anche il nuovo art. 56 quater, l. 24 novembre 1981, n. 689. Si può peraltro ricordare che la riforma del valore giornaliero di sostituzione risponde alle preoccupazioni espresse dalla Corte costituzionale con le pronunce C. cost., 11.2.2020, n. 15, nonché C. cost., 1.2.2022, n. 28.
[70] È interessante notare che la legge delega lasciava aperta anche una strada diversa da quella della esplicita richiesta da parte dell’interessato: si chiedeva, infatti di “prevedere che con il decreto penale di condanna la pena detentiva possa essere sostituita, oltre che con la pena pecuniaria, con il lavoro di pubblica utilità, se il condannato non si oppone” (art. 1, co. 17, lett. 3, l. n. 134 del 2021).
[71] Peraltro, come stabilisce il nuovo art. 56 bis co. 5, l. 689/1981, «in caso di decreto penale di condanna o di sentenza di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, il positivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, se accompagnato dal risarcimento del danno o dalla eliminazione delle conseguenze dannose del reato, ove possibili, comporta la revoca della confisca eventualmente disposta, salvi i casi di confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo, del profitto o del prodotto del reato ovvero delle cose la cui fabbricazione, uso e porto, detenzione o alienazione costituiscano reato».
[72] Cfr., ancora, M. GIALUZ-J. DELLA TORRE, Giustizia per nessuno, cit., p. 127 ss.
[73] Sul punto, v. anche M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto, cit., p. 58.
[74] Così si legge in Relazione finale e proposte di emendamenti al D.D.L. A.C. 2435 del 24.5.2021 della Commissione Lattanzi, cit., p. 27.
Giustizia Insieme e la riforma Cartabia - Avviso
Dopo la pausa delle festività natalizie, proseguono le pubblicazioni della nostra rivista sulla riforma Cartabia.
L’articolo di oggi, il secondo dei sei previsti in cui saranno trattati in modo approfondito gli aspetti più rilevanti della riforma, è dedicato alla fase processuale ed in particolare all’udienza preliminare, al giudizio dibattimentale e ai procedimenti speciali.
Nelle more, come noto, alcune delle norme che compongono l’articolato della riforma in esame sono state sottoposte a modifica in sede di conversione legislativa, sicché si è imposta una revisione delle 18 schede tematiche già pubblicate.
Gli autori le stanno revisionando contiamo di pubblicarle tra qualche giorno la versione aggiornata.
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