ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ampliamento della giurisdizione oggettiva e nuovi limiti del giudicato dopo la sentenza della Corte di Giustizia UE del 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19)
di Paolo Spaziani
Sommario: 1. La sentenza della Corte di Giustizia UE del 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19) e la vis expansiva dei dicta in essa contenuti. - 2. L’attuazione futura della pronuncia della Corte di Giustizia UE e i riflessi sulla natura e la disciplina dell’azione dichiarativa delle nullità di protezione. - 3. Le modalità di attuazione delle statuizioni della Corte di Giustizia UE alle procedure pendenti fondate su titoli esecutivi definitivi non contenenti l’esame espresso della questione della nullità. - 4. Sul rilievo costituzionale del giudicato. - 5. Dicta europei, fondamento del giudicato e distonia sistematica del giudicato c.d. implicito. - 6. Limiti oggettivi del giudicato, pregiudizialità logica espressa e l’esercizio dell’azione di nullità contrattuale di protezione come modalità di attuazione del diritto europeo.
1. La sentenza della Corte di Giustizia UE del 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19) e la vis espansiva dei dicta in essa contenuti.
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 17 maggio 2022 (cause riunite C-693/19 e C-831/19), emessa insieme ad altre pronunce sul medesimo tema della speciale protezione attribuita ai consumatori dal diritto dell’Unione, ha stabilito, tra l’altro, che l’articolo 6, paragrafo 1, e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, ostano ad una normativa nazionale la quale prevede che, qualora un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore non sia stato oggetto di opposizione proposta dal debitore, il giudice dell’esecuzione non possa - per il motivo che l’autorità di cosa giudicata di tale decreto ingiuntivo copre implicitamente la validità delle clausole del contratto che ne è alla base, escludendo qualsiasi esame della loro validità - successivamente controllare l’eventuale carattere abusivo di tali clausole.
Al par. 65 della motivazione, questa sentenza rileva che «una normativa nazionale secondo la quale un esame d’ufficio del carattere abusivo delle clausole contrattuali si considera avvenuto e coperto dall’autorità di cosa giudicata anche in assenza di qualsiasi motivazione in tal senso contenuta in un atto quale un decreto ingiuntivo può, tenuto conto della natura e dell’importanza dell’interesse pubblico sotteso alla tutela che la direttiva 93/13 conferisce ai consumatori, privare del suo contenuto l’obbligo incombente al giudice nazionale di procedere a un esame d’ufficio dell’eventuale carattere abusivo delle clausole contrattuali».
L’esigenza di effettività della tutela del consumatore, realizzata dal diritto comunitario, avuto riguardo all’interesse superindividuale oggetto di tale protezione, implica l’attribuzione al giudice nazionale, non solo del potere, ma anche del dovere di esaminare, pure in difetto di domanda di parte, l’eventuale carattere abusivo della clausola contrattuale; e questo dovere può ritenersi adempiuto solo se nel provvedimento giurisdizionale è contenuta specifica motivazione al riguardo.
La lettura di questo paragrafo della motivazione consente di intuire la vis expansiva dei dicta contenuti in questa e nelle altre pronunce del giudice comunitario: la questione non involge soltanto la disciplina del consumatore ma tutte le norme imperative poste a tutela della libertà negoziale delle partes debiliores e, dunque, tutte le nullità di protezione; inoltre, la portata dei principi affermati dalla Corte di Giustizia non è circoscritta al decreto ingiuntivo non opposto ma si estende a qualsiasi titolo esecutivo giudiziale passato in giudicato, in primo luogo alla sentenza, con riguardo alle statuizioni inespresse in esso implicitamente contenute che si pongono in rapporto di pregiudizialità rispetto alla statuizione principale resa sul diritto azionato in giudizio.
Lasciando da parte ogni considerazione sulle implicazioni delle pronunce del giudice europeo in ordine alla natura e ai caratteri sostanziali della disciplina sovranazionale di tutela del consumatore, sotto il profilo strettamente processuale il riferimento al dovere del giudice evoca la necessità di ritenere, se non del tutto disapplicati, almeno recessivi, in subiecta materia, i noti principi che regolano l’ordinario procedimento di cognizione, quali l’impulso di parte e il principio dispositivo in senso materiale, nonché, verosimilmente, per conseguenza, anche il principio dispositivo in senso formale. Per altro verso, l’evidenziazione che le norme imperative violate a danno del consumatore tendono alla tutela (anche) di un interesse pubblico, induce a ritenere che la domanda sia strumentale all’accertamento di un diritto indisponibile o, se si vuole, non pienamente disponibile, in quanto compromesso con un interesse generale: il che, implica, anche sotto questo profilo, un necessario inquinamento officioso ed inquisitorio del relativo procedimento. Infine, la necessità della motivazione espressa postula che sulla questione dell’abusività della clausola venga debitamente suscitato il contraddittorio: ciò che, per la verità, lungi dall’apparire destabilizzante, sembra del tutto connaturato al nostro sistema, atteso che l’obbligo del giudice di motivare l’accoglimento o il rigetto della domanda è sempre stato previsto nella nostra Costituzione (art. 111, già secondo comma, ora sesto) mentre quello di suscitare il contraddittorio sulle questioni rilevate d’ufficio (cui segue, evidentemente, il dovere di motivazione esplicita) è stato introdotto ormai da diversi anni nel nostro codice di procedura civile (art.101, secondo comma, c.p.c., aggiunto dalla legge n. 69 del 2009), colmando un vulnus al diritto di difesa cui già la giurisprudenza aveva cercato di porre rimedio (cfr., già, Cass. 21 novembre 2001, n. 14637).
2. L’attuazione futura della pronuncia della Corte di Giustizia UE e i riflessi sulla natura e la disciplina dell’azione dichiarativa delle nullità di protezione.
In prospettiva futura, l’esigenza di attuare i dicta della Corte di Giustizia comporta la necessità di riconsiderare, sotto il profilo processuale, la natura e la disciplina dell’azione dichiarativa della nullità contrattuale, con specifico riferimento alle nullità di protezione, derivanti dalla violazione di norme finalizzate alla tutela di un interesse superindividuale.
Sul piano sistematico, l’operazione non dovrebbe essere particolarmente dolorosa poiché la nostra dottrina classica ha, già da epoca ormai risalente, denunciato l’esistenza, nel nostro ordinamento, di una categoria di processi in cui l’accertamento giudiziale non ha per oggetto (soltanto) il diritto soggettivo della parte, ma il dovere del giudice di provvedere al verificarsi di specifiche fattispecie previste dalla legge.
Si tratta di quei processi che Enrico Allorio denominò processi a contenuto oggettivo, ponendo in evidenza come essi non tendono alla tutela di una situazione soggettiva privata, ma piuttosto alla realizzazione di un interesse superiore e indisponibile, contrapponendosi così ai processi vertenti su diritti o stati personali (E. Allorio, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 116 ss.).
Nell’ambito di questa categoria di procedimenti sono stati di volta in volta ricondotti processi eterogenei (quello di interdizione, diretto ad attuare l’interesse pubblico alla protezione dell’incapace: Vignolo, Principio inquisitorio e impulso d’ufficio nel procedimento di interdizione, in Riv. dir. civ., 1975, I, 339, 341; la querela di falso, diretta ad attuare l’interesse pubblico all’eliminazione dal commercio giuridico dei documenti falsi: V. Denti, Querela di falso, NDI, 1967, 658 ss.; la dichiarazione di assenza e morte presunta, tendente ad attuare l’interesse pubblico alla conservazione e chiarificazione dei rapporti giuridici: F. Carpi, L’efficacia ultra partes della sentenza civile, Milano, 1974, 63 ss.; la dichiarazione di adottabilità, tendente ad attuare l’interesse pubblico a fornire una famiglia sostitutiva al minore abbandonato: C.M.Bianca, Diritto civile, II, La famiglia - Le successioni, Milano, 1989, 312; il processo fallimento, diretto ad attuare l’interesse pubblico alla liquidazione delle imprese in crisi: G.A. Micheli, Il processo di fallimento nel quadro della tutela giurisdizionale dei diritti, in Riv. dir. civ., 1961, I, 6), nei quali, tuttavia, la presenza di un interesse superiore, alla cui realizzazione è funzionale la pronuncia del giudice, implica la comune operatività, pur in vario modo, del principio dell’impulso d’ufficio, del principio inquisitorio in senso materiale e del principio inquisitorio in senso formale.
La dottrina che ha approfondito lo studio di questi processi (F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, in Riv. dir. civ., 1988, I, 495 ss., 695 ss.) ha rilevato come, mentre l’assunzione del carattere officioso si traduce in modalità differenti di impulso processuale (dal mero allargamento della categoria dei legittimati, all’attribuzione del diritto di azione al pubblico ministero, sino alla configurazione - in casi limite, ormai quasi del tutto superati - di modelli di processo officioso puro), invero la tendenziale disapplicazione del criterio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (in favore del principio inquisitorio materiale) e del criterio della disponibilità delle prove (in favore del principio inquisitorio formale) si traduce in un effetto comunemente riscontrabile di tendenziale sottrazione alle parti sia della disponibilità dell’oggetto del processo sia della disponibilità della tutela giurisdizionale.
Tenendo conto della esistenza, nel nostro sistema processuale, di questa peculiare categoria di procedimenti e dell’altrettanto peculiare loro disciplina, è lecito chiedersi, alla luce delle sentenze del giudice dell’Unione Europea - che costituiscono fonti del diritto europeo, direttamente applicabile nell’ordinamento interno - se nell’ambito di essa possa essere ricondotta l’azione finalizzata alla declaratoria delle nullità contrattuali di protezione.
La questione non è nuova poiché la dottrina si è già domandata se i giudizi per la dichiarazione di nullità del contratto (e anche del matrimonio) costituiscano espressione di giurisdizione oggettiva.
Sulla tesi positiva - che trovava conforto nel dato normativo che non limita alla parte la legittimazione all’impugnativa, ma la estende a tutti coloro che vi abbiano interesse (art.117 c.c.; art.1421 c.c.); e che da tale dato traeva l’implicazione che il provvedimento giudiziale dichiarativo della nullità non è invocato a tutela del diritto di un singolo, ma per la realizzazione di un interesse pubblicistico, consistente nell’attuazione dell’ordinamento (F. Carpi, cit., 68 ss.) - è prevalsa la tesi negativa, fondata sul rilievo che l’allargamento della sfera dei legittimati non tocca la natura di processi su diritti che deve pur sempre riconoscersi ai giudizi di nullità del matrimonio e del contratto, atteso che chi esercita l’azione di nullità chiede al giudice una sentenza di accertamento, che dichiari l’insussistenza dei diritti che troverebbero la loro fonte nel negozio ritenuto nullo (F. Tommaseo, cit., 509).
Questa tesi potrebbe, peraltro, essere rimeditata alla luce della disciplina eurounitaria, con specifico riferimento al giudizio dichiarativo delle nullità di protezione, in cui al diritto soggettivo della parte si affianca (e probabilmente si sovrappone, divenendo l’interesse protetto in via preminente dal procedimento) un interesse generale di carattere superindividuale.
D’altra parte, per un verso, la riconducibilità del giudizio di nullità contrattuale di protezione alla giurisdizione oggettiva non contrasta con la (ma anzi potrebbe trovare specifica conferma nella) monumentale ricostruzione della disciplina sostanziale di tale istituto, operata nelle storiche pronunce delle Sezioni Unite della Suprema Corte di cassazione (Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243); per altro verso, la vis expansiva di tale categoria della giurisdizione, in funzione delle esigenze di tutela di interessi superindividuali che possono assumere rilevanza nel contesto sociale, è stata autorevolmente rimarcata dalla nostra dottrina classica (L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ., 1986, I, 596).
Ove si avesse riguardo al carattere oggettivo del procedimento vertente alla dichiarazione delle nullità negoziali di protezione, dovrebbe dunque ritenersi che la relativa questione possa essere sollevata (anche, doverosamente, d’ufficio) nel processo, tutte le volte in cui, pur non costituendo oggetto diretto della domanda, assuma tuttavia rilevanza pregiudiziale, in funzione della statuizione sul diritto azionato.
Oltre che nei casi di pregiudizialità, la questione della nullità della clausola negoziale, potrebbe/dovrebbe essere sollevata anche nelle ulteriori ipotesi di connessione oggettiva con la domanda principale proposta, pur in difetto dei presupposti di volta in volta richiesti (ad es. dagli artt. 35 e 36 c.p.c.) e salve le implicazioni che il rilievo della questione possa avere in ordine alla modificazione della competenza del giudice.
Deve invece escludersi che il giudice possa/debba sollevare la questione persino nei casi in cui essa presenti, rispetto alla domanda principale, una connessione meramente soggettiva, per essere la controversia vertente su un diverso rapporto giuridico intercorrente tra le stesse parti. L’esigenza di tutela dell’interesse pubblico alla protezione della pars debilior, infatti, si traduce nella limitazione della disponibilità dell’oggetto del processo e della tutela giurisdizionale, ma non esige - né consente - l’integrale sostituzione del giudice alla parte che resti inerte nell’esercizio dei suoi diritti soggettivi. In tale prospettiva, la stessa Corte UE rimarca (par. 58 della motivazione della sentenza resa nelle cause riunite C-693/19 e C-831/19) che la tutela del consumatore non è assoluta e non può essere somministrata dal giudice in spregio ai principi fondamentali del sistema processuale.
In tutti i casi in cui sussiste il potere-dovere del giudice di esaminare la questione di nullità, la statuizione su di essa deve essere espressamente motivata, in quanto, attraverso la motivazione, il giudice rende conto dei risultati del contraddittorio che necessariamente deve essere suscitato sulla questione di rilievo superindividuale.
Ove, però, la questione della validità del rapporto contrattuale non venga evocata da alcuna delle parti e il giudice ometta di procedere ad un esame d’ufficio dell’eventuale nullità della clausola, non si determina alcuna invalidità dell’accertamento condotto sul diritto azionato in giudizio.
Ciò, anche nell’ipotesi in cui la connessione tra la questione della nullità e la domanda formulata in giudizio si qualifichi come connessione per pregiudizialità.
In tal caso, questo accertamento, implicitamente compiuto, resterà un mero accertamento incidentale, senza l’idoneità a passare in giudicato.
3. Le modalità di attuazione delle statuizioni della Corte di Giustizia UE alle procedure pendenti fondate su titoli esecutivi definitivi non contenenti l’esame espresso della questione della nullità.
I dicta della Corte di Giustizia non valgono solo per il futuro ma anche per il passato, giacché il dovere di esaminare d’ufficio la questione della validità o invalidità del contratto, non già precedentemente esaminata, si pone in capo al giudice anche in pendenza del processo esecutivo, iniziato sulla base di un titolo che ha accertato, con efficacia di giudicato, un diritto che trova fondamento nel rapporto contrattuale e che, pertanto, ne presuppone necessariamente l’esistenza e la validità, da reputarsi a sua volta pregiudizialmente, ancorché implicitamente, accertata con il medesimo provvedimento divenuto cosa giudicata.
Sotto questo specifico profilo, le statuizioni del giudice comunitario sembrerebbero avere una portata dirompente, poiché, nel momento in cui pongono la necessità di condurre l’espresso esame, nel rispetto del contraddittorio e dell’obbligo di motivazione, anche di questioni che sono state già, sia pur implicitamente, risolte, sembrerebbero non tenere conto del fatto che quell’accertamento è ormai incontrovertibile, per avere acquisito l’autorità di cosa giudicata.
Potrebbe dunque maturarsi l’opinione che i dicta del giudice europeo, mentre, da un lato, attribuiscono una tutela eccessiva al diritto di difesa della pars debilior (riconoscendole il diritto ad un contraddittorio tardivo su una questione che avrebbe potuto sollevare precedentemente, durante il processo di cognizione finalizzato alla formazione del titolo esecutivo), dall’altro lato, recano un vulnus al diritto difesa dell’altra parte, la quale perderebbe il bene della vita acquisito attraverso il medesimo procedimento di cognizione, costituito dall’incontrovertibilità dell’accertamento giurisdizionale del suo diritto.
4. Sul rilievo costituzionale del giudicato.
La premessa logica necessaria di tale opinione sta nel ritenere che l’istituto del giudicato trovi fondamento, non già esclusivamente nelle norme del codice civile (art.2909 c.c.) e del codice di procedura civile (art.324 c.p.c.), bensì, al pari del contraddittorio, nella norma costituzionale che riconosce la difesa come diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art.24, secondo comma, Cost.).
In questa prospettiva, dunque, si potrebbe persino pensare che i dicta della Corte di Giustizia, nel vulnerare il giudicato, finiscano per porsi in contrasto con un istituto che costituisce espressione dei principi costituzionali fondamentali e delle norme costituzionali che tutelano i diritti inviolabili della persona, i quali non solo non recedono dinanzi alla c.d. preminenza del diritto sovranazionale - ivi compreso quello eurounitario - ma operano invece come controlimiti all’ingresso delle norme dell’Unione Europea, legittimando il giudice nazionale a sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione dei Trattati, per la sola parte in cui essa consente l’ingresso di regole sovranazionali incompatibili con gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale.
In contrario, può, peraltro, osservarsi che la qualificazione della cosa giudicata quale espressione del diritto costituzionale di difesa non trova conferma né nelle teorizzazioni dottrinali dell’istituto né nelle, ormai definitive (e per vero anche piuttosto risalenti), acquisizioni della giurisprudenza costituzionale.
Sia le une che le altre, infatti, in contrasto con una autorevole ma risalente tesi (E. Allorio, Saggio polemico sulla «giurisdizione» volontaria, in Trim., 1948, 487 ss.), tendono ad escludere il giudicato dai requisiti essenziali qualificanti l’attività giurisdizionale, sul rilievo che provvedimenti di schietta giurisdizione contenziosa, destinati ad incidere su diritti soggettivi, possono essere legittimamente assunti anche nell’ambito del procedimento camerale di cui agli artt. 737-742 bis c.p.c., sempre che vengano rispettate le garanzie fondamentali della difesa e del contraddittorio, stante, in ogni caso, la possibilità di proporre ricorso straordinario per cassazione (art.111, settimo comma, Cost.) contro tutti i provvedimenti decisori e definitivi (in tal senso, cfr., già, F. Cipriani, Procedimento camerale e diritto alla difesa, in Riv. dir. proc., 1974, 195, e V. Colesanti, Principio del contraddittorio e procedimenti speciali, in Riv. dir. proc., 1975, 585; v., inoltre, Corte Cost. 10 luglio 1975 n.202 e Cass., Sez. Un., 9 aprile 1984 n.2255).
Oltre a ribadire che l’idoneità al giudicato non rappresenta un carattere indefettibile del provvedimento giurisdizionale (in tal senso, già G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1923, 759, secondo cui «dal concetto dell’ufficio del giudice deriva necessariamente soltanto che la sentenza debba potersi mandare ad esecuzione, ma non che debba tenersi in futuro come norma immutabile del caso deciso»), la dottrina ha anche precisato che «da nessun precetto costituzionale discende come attributo dell’esercizio della funzione giurisdizionale la immutabilità degli effetti delle decisioni giudiziali, come è delineata dall’art.2909 c.c.» (così V. Denti, La giurisdizione volontaria rivisitata, in Trim., 1987, 326); il che risulta evidente se si pensa che la nostra Costituzione prescrive bensì che la funzione giurisdizionale venga esercitata da organi imparziali e indipendenti (artt.101, secondo comma; 104, primo comma; 106, primo comma; 107, primo comma; 108, secondo comma), che venga garantito l’esercizio del diritto di difesa (art.24, secondo comma) e che i provvedimenti giurisdizionali siano adeguatamente motivati (art.111, sesto comma); ma non prevede affatto che essi debbano necessariamente assumere l’incontrovertibilità propria della cosa giudicata.
5. Dicta europei, fondamento del giudicato e distonia sistematica del giudicato c.d. implicito.
A prescindere dalla sussistenza o meno di una “copertura” costituzionale dell’istituto del giudicato, sembrerebbe, poi, comunque eccessiva la tesi volta a ritenere che tale istituto sarebbe stato messo in sofferenza, o addirittura posto nel nulla, dalle pronunce della Corte di Giustizia.
Queste pronunce, infatti, non ripudiano affatto il concetto del giudicato e la sua utilità, quale istituto che trova fondamento nell’esigenza di assicurare la certezza dei rapporti giuridici, ma richiamano l’attenzione sulla altrettanto rilevante esigenza che - per lo meno nelle ipotesi in cui il provvedimento giudiziale tende alla protezione (anche) di interessi superindividuali, oltre che alla tutela di diritti soggettivi privati - la formazione del giudicato postuli un accertamento espresso e motivato, maturato a seguito dell’esercizio, ad opera delle parti, del diritto fondamentale al contraddittorio (diritto, quest’ultimo, senz’altro di matrice costituzionale e, dunque, non comprimibile).
L’esigenza, espressa dalle pronunce della Corte di Giustizia, che la formazione del giudicato nelle fattispecie di rilevanza pubblicistica, sia condizionata da un accertamento espresso e motivato, non contrasta con il fondamento tradizionale dell’istituto, il quale presuppone, sul piano sostanziale, in funzione dell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici (art.2909 c.c.), che non venga proposta più volte la stessa domanda (principio del ne bis in idem) e, sul piano formale, in funzione dell’esigenza che l’accertamento giudiziale sia il più possibile immune da errori (art.324 c.p.c.), che non vengano proposte domande diverse nei due gradi di giudizio (principio del doppio grado di giurisdizione).
La postulazione dell’accertamento espresso e motivato, fondato sull’esperimento del contraddittorio, è perfettamente in linea con il richiamato duplice fondamento del giudicato, giacché, invece, il mero accertamento implicito nuoce sia alle esigenze di certezza che a quelle di correttezza della decisione.
In tale prospettiva potrebbe ritenersi, per un verso, che il giudicato e il contraddittorio non vadano più riguardati come due istituti distinti, ma come un unico composito istituto, dal momento che la formazione del giudicato, almeno nelle decisioni di rilevanza superindividuale, presuppone il previo esperimento del contraddittorio; per altro verso, che ciò che sembra contrastare con il sistema processuale, non è il dictum della Corte di Giustizia, ma il concetto stesso di giudicato implicito, quale prodotto di una decisione non assunta in contraddittorio.
Del resto, ciò è stato già eloquentemente stigmatizzato da accorta dottrina, la quale ha lanciato la seguente provocazione: «se è fatto divieto al giudice di decidere in modo espresso una questione pure rilevabile ex officio, senza sottoporla prima al contraddittorio delle parti, come si può convenire sulla ammissibilità nella stessa identica situazione di una decisione implicita?» (così A. Panzarola, Contro il cosiddetto giudicato implicito, in Judicium, 2019, p.315).
6. Limiti oggettivi del giudicato, pregiudizialità logica espressa e l’esercizio dell’azione di nullità contrattuale di protezione come modalità di attuazione del diritto europeo.
L’attuazione dei dicta contenuti delle pronunce della Corte di Giustizia - che costituiscono, lo si ripete, norme di diritto europeo direttamente applicabili nell’ordinamento interno - determinando, con riguardo alle questioni di nullità di protezione, un restringimento del perimetro dei limiti oggettivi del giudicato, impone al giudice (pure in sede esecutiva) di rilevare anche officiosamente la nullità contrattuale e legittima la parte interessata a proporre la relativa azione se la questione non è stata espressamente esaminata, ma non a paralizzare l’esecuzione.
Dovrebbe, infatti, escludersi che, nell’ipotesi di soluzione implicita della questione (quale si verifica soprattutto nel caso - che ha determinato la pronuncia del giudice europeo - in cui l’accertamento del diritto principale è stato effettuato con decreto ingiuntivo non opposto, ma può ricorrere anche nell’ambito di un accertamento effettuato con sentenza), la parte esecutata possa far valere l’eventuale nullità del contratto, donde è sorta la sua obbligazione, attraverso il rimedio dell’opposizione all’esecuzione di cui all’art.615 c.p.c.; così come, nel caso specifico del decreto ingiuntivo non opposto, dovrebbe escludersi la possibilità di esperire rimedi tardivi (ad es. quello di cui all’art.650 c.p.c.), quando non ne ricorrano gli specifici presupposti.
Piuttosto, dovrebbe prendersi atto, da un lato, che al giudice dell’esecuzione è sottratta ogni ingerenza sul titolo giudiziale; dall’altro, che il decreto ingiuntivo non opposto messo in esecuzione (ma la considerazione vale anche per la sentenza non impugnata) è ormai passato in giudicato e non è aggredibile con gli ordinari mezzi di gravame.
Peraltro, la disciplina generale della connessione per pregiudizialità prevede che le questioni pregiudiziali siano risolte in via meramente incidentale, in difetto di una disposizione di legge o di un’esplicita domanda di una delle parti dalle quali derivi la necessità di deciderle con efficacia di giudicato (art.34 c.p.c.).
Di questa regola - la cui letterale osservanza comporterebbe un notevole restringimento del perimetro oggettivo del giudicato - è prevalsa nel diritto processuale vivente un’interpretazione restrittiva: la sua operatività viene infatti limitata alla c.d. pregiudizialità tecnica, escludendosene l’applicazione alla c.d. pregiudizialità logica, che ricorre allorché l’accertamento dell’esistenza, della validità e della natura di un rapporto giuridico costituisce il presupposto di un diritto (così, ad es., l’accertamento dell’illegittimità di un licenziamento e del conseguente diritto del lavoratore alla tutela reintegratoria o risarcitoria, presuppone l’accertamento dell’esistenza e del rapporto di lavoro subordinato; l’accertamento del diritto del locatore ad ottenere dal conduttore il pagamento di una o più mensilità del canone, presuppone l’accertamento dell’esistenza e della validità del rapporto di locazione).
Ne discende che tutte le volte che per decidere sulla domanda avente ad oggetto l’accertamento di un diritto, venga risolta anche la questione logicamente pregiudiziale relativa all’esistenza, validità e natura giuridica del rapporto che ne costituisce il presupposto (c.d. nesso di pregiudizialità logica), il giudicato costituito dalla sentenza di accertamento del diritto si estende anche alla questione pregiudiziale, che non può più essere messa in discussione in successivi processi.
L’attuazione dei dicta della Corte di giustizia impone una applicazione dell’art.34 c.p.c. più aderente al suo disposto testuale, rendendo necessaria, ai fini del passaggio in giudicato dell’accertamento della validità del contratto, allorché venga dedotta la violazione di una norma imperativa di protezione, l’espressa e motivata statuizione del giudice, previo esperimento del contraddittorio delle parti, eventualmente suscitato ex officio.
Viene così ad enuclearsi, tra le due categorie della pregiudizialità tecnica (in cui la questione pregiudiziale è decisa incidenter tantum) e della pregiudizialità logica (in cui la questione pregiudiziale è decisa con efficacia di giudicato), una terza categoria di pregiudizialità: la pregiudizialità logica espressa. Essa appartiene, concettualmente, alla pregiudizialità logica, ma produce gli effetti della pregiudizialità tecnica se non viene suscitato il contraddittorio sulla questione.
In altre parole, la questione di nullità, avente un rilievo pubblicistico e superindividuale, sarà decisa con efficacia di giudicato soltanto nel contraddittorio delle parti e con statuizione espressa e motivata; sarà, invece, decisa in via meramente incidentale, allorché la decisione sull’esistenza e validità del contratto sia implicitamente desumibile dall’accertamento del diritto azionato con la domanda principale.
In tale ultima ipotesi, il titolo contenente l’accertamento del diritto potrà ugualmente essere messo in esecuzione, ma la parte interessata, pur esecutata - ed eventualmente proprio in seguito al rilievo del giudice dell’esecuzione - potrà esercitare autonomamente, dinanzi al giudice competente, l’azione di nullità contrattuale, quale azione di giurisdizione oggettiva destinata all’accertamento di una questione non coperta da giudicato.
Se l’azione di nullità verrà esercitata in pendenza del processo esecutivo, esso sarà sospeso, ai sensi dell’art.623 c.p.c.; se invece l’esercizio dell’azione, in sé imprescrittibile, sopravverrà alla conclusione del procedimento esecutivo, residuerà, per la parte che ottenga la declaratoria di nullità, la sola tutela risarcitoria, restando da risolvere (particolarmente, ai fini della prescrizione) il problema se la responsabilità della controparte vada inquadrata nell’ambito della responsabilità contrattuale o - come classicamente si suole ritenere nell’ipotesi di stipulazione di contratto invalido - in quello della responsabilità extracontrattuale di tipo precontrattuale.
In definitiva, in analogia con tutte le ipotesi in cui il titolo posto in esecuzione contiene accertamenti incidentali su connesse questioni tecnicamente pregiudiziali (si pensi, ad es., alla domanda di nullità del contratto, proposta dopo che è stato messo in esecuzione il titolo che ne dichiara la risoluzione: Cass. 5 dicembre 2002, n. 17313), l’attuazione dei dicta della Corte di Giustizia, anche nelle procedure esecutive pendenti in cui la questione del carattere abusivo delle clausole contrattuali non ha formato oggetto di espresso esame (questione legata alla domanda principale da un nesso di pregiudizialità logica espressa), si risolverà, non già nella paralisi dell’esecuzione, ma nella possibilità di introdurre una autonomo processo di cognizione, dinanzi al giudice ordinariamente competente, per la decisione di una questione non coperta da giudicato.
Prime considerazioni sullo Schema del nuovo Codice dei contratti pubblici
di Maria Alessandra SANDULLI
Sommario: 1. L’iter dello Schema - 2. Premessa e principi generali - 3. Altre importanti novità - 4. Segue: la razionalizzazione del rapporto tra efficacia dell’aggiudicazione, accesso agli atti e alle offerte degli altri concorrenti, e termini di impugnazione.
1. L’iter dello Schema
Lo scorso 16 dicembre il Governo ha approvato “in via preliminare” lo schema del nuovo Codice dei contratti pubblici presentato dal Consiglio di Stato.
Come noto, il Governo con legge n. 78 del 21 giugno 2022 era stato delegato ad adottare “uno o più decreti legislativi recanti la disciplina dei contratti pubblici, anche al fine di adeguarla al diritto europeo e ai principi espressi dalla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, interne e sovranazionali, e di razionalizzare, riordinare e semplificare la disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, nonché al fine di evitare l’avvio di procedure di infrazione da parte della Commissione europea e di giungere alla risoluzione delle procedure avviate”. Il comma 4 dell’art. 1 legge n. 78/2022 prevedeva peraltro che, ove il Governo intendesse demandare al Consiglio di Stato la formulazione del progetto di Codice ai sensi dell’art. 14 del t.u. n. 1954 del 1924, quest’ultimo dovesse avvalersi ai fini della stesura dell’articolato normativo “di magistrati di tribunali amministrativi regionali, di esperti esterni e rappresentanti del libero foro e dell’avvocatura generale dello Stato”; e che sul testo governativo non dovesse essere più acquisito il parere del Consiglio di Stato.
Avendo il 30 giugno 2022 il Presidente del Consiglio dei Ministri comunicato al Presidente del Consiglio di Stato di volersi avvalere della suddetta facoltà, ricordando altresì che l’approvazione della riforma costituisce un importante obiettivo del PNRR, il 4 luglio scorso il Presidente Frattini ha quindi istituito una Commissione speciale, da lui presieduta e con il supporto di un board composto dal Presidente aggiungo (Luigi Maruotti) e da due vice (Luigi Carbone e Rosanna De Nictolis), Presidenti titolari di sezione del Consiglio di Stato di cui uno con compiti di coordinatore (Luigi Carbone, Presidente della Sezione del Consiglio di Stato per gli atti normativi). La Commissione, composta inoltre da otto Presidenti di sezione del Consiglio di Stato, trentadue Consiglieri di Stato, dieci Consiglieri di TAR, due Avvocati dello Stato, due Consiglieri della Corte di Cassazione e un Consigliere della Corte dei conti, otto Professori universitari di prima fascia in materie giuridiche e avvocati (tra i quali ho avuto l’onore di essere inserita), quattro avvocati e sei “esperti tecnici” (economisti, ingegneri, esperti di drafting, un informatico e un Accademico della Crusca), era divisa in sei gruppi di lavoro, ciascuno guidato da uno o due Presidenti di sezione del Consiglio di Stato (Gabriele Carlotti e Roberto Giovagnoli - gruppo I; Gabriele Carlotti e Fabio Taormina - gruppo II; Carlo Saltelli e Hadrian Simonetti - gruppo III; Carlo Saltelli e Claudio Contessa - gruppo IV; Giancarlo Montedoro - gruppo V; Michele Corradino - gruppo VI), con il coordinamento generale del Presidente Luigi Carbone, supportato dal cons. Gianluca Rovelli.
I gruppi hanno elaborato – lavorando in parallelo – gli schemi di articolato dei singoli Libri del codice (il lavoro dei gruppi II e III è poi confluito prevalentemente nell’unico Libro II).
Nonostante il periodo estivo, la Commissione ha lavorato molto alacremente. In considerazione dei tempi molto ristretti, i vari gruppi e i rispettivi coordinatori si sono riuniti con assidua frequenza e i singoli componenti hanno lavorato individualmente su specifici adempimenti, sfruttando anche i giorni festivi.
Come evidenziato nella Relazione illustrativa, i membri della Commissione hanno lavorato senza alcun compenso e senza riduzioni del carico di lavoro e i lavori si sono articolati in riunioni plenarie di gruppo, in sottogruppi che riferivano periodicamente sull’attività svolta in occasione delle plenarie di gruppo, nonché in riunioni tra i coordinatori di gruppo, sovrintese dal coordinatore generale, per un totale di oltre 170 riunioni. Le riunioni si sono svolte quasi tutte online e si è deciso su ogni questione sulla base delle posizioni prevalentemente espresse dai componenti della Commissione, con il filtro, per ciascun gruppo, dei rispettivi coordinatori.
I testi dei sottogruppi e dei gruppi, elaborati già nella prima metà di agosto, sono stati trasmessi dai relativi coordinatori agli altri gruppi. Si è avviata così la lunga e complessa opera di rilettura, coordinamento ed elaborazione dello Schema.
Come riportato si legge nella Relazione, il 20 ottobre, nel pieno rispetto del termine che il Governo aveva assegnato, è stato così consegnato uno “Schema preliminare di codice dei contratti”. Dopo l’insediamento del nuovo Governo, sulla base di una nuova interlocuzione avvenuta con nota del 14 novembre del Presidente del Consiglio dei Ministri, la Commissione ha continuato a lavorare, in composizione più̀ ristretta, con l’apporto soprattutto dei coordinatori, per affinare gli ultimi miglioramenti tecnici, curare il drafting, sciogliere alcune questioni giuridiche di particolare impatto, redigere un’accurata Relazione illustrativa per ogni singolo articolo (che intende fornire anche le linee guida per l’applicazione delle nuove norme) e predisporre gli allegati che garantiranno l’autoesecutività del nuovo Codice.
Lo “Schema definitivo di codice” sottoposto al Governo ha un numero di articoli analogo a quelli del Codice del 2016, ma ne riduce di molto i commi, riduce di quasi un terzo le parole e i caratteri utilizzati e, con i suoi allegati, abbatte in modo rilevante il numero di norme e linee guida di attuazione.
La Relazione precisa inoltre che “Gli allegati sono 35, molti consistono di poche pagine. Si tratta di un numero comunque contenuto, specie se si considera che solo le tre direttive da attuare hanno, in totale, 47 annessi e che nel nuovo codice gli allegati sostituiranno ogni altra fonte attuativa: oltre ai 25 allegati al codice attuale, essi assorbiranno 17 linee guida ANAC e 15 regolamenti ancora vigenti, alcuni dei quali di dimensioni molto ampie (tra cui il d.P.R. n. 207 del 2010, risalente addirittura all'attuazione del codice del 2006, nonché quello sui contratti del Ministero della difesa, ridotto da oltre 100 articoli a poco più di 10). Ciò è stato possibile anche rinviando, in vari casi, direttamente agli allegati delle direttive, assicurando sia uno sfoltimento della legislazione interna sia il suo adeguamento immediato e automatico alle future modifiche delle norme europee. In non pochi casi si è scelto di conservare – verificandone preventivamente il positivo impatto – le norme del codice vigente che, in sede applicativa, hanno dato buona prova di sé. Un testo a fronte le indica con chiarezza, per facilitarne la lettura e la riconoscibilità da parte di chi dovrà rispettarle. Ma anche le novità sono molteplici, tutte analiticamente illustrate nella relazione di accompagnamento, un “materiale della legge” (Gesetzmaterial) che si propone come un vero e proprio manuale operativo per l’uso del nuovo codice, assorbendo anche la funzione di indirizzo attuativo sinora rivestita dalle “linee guida non vincolanti”.
Il testo approvato in via preliminare dal CdM, non ancora diramato, verrà trasmesso alla Conferenza unificata e alle Commissioni parlamentari per i rispettivi pareri e tornerà al Governo per l’approvazione definitiva, che dovrebbe avvenire entro il 31 marzo 2023 (anche se gli organi di stampa segnalano già un possibile slittamento).
Lo Schema prevede peraltro una fase transitoria di tre mesi, disciplinata dagli artt. 225 e ss. anche per ciò che attiene all’abrogazione e alla perdurante efficacia del d.lgs. n. 50/2016 e delle altre disposizioni indicate dai suddetti articoli. L’ultimo articolo dello Schema (art. 229) stabilisce infatti che “il Codice entra in vigore con i relativi allegati il 1° aprile 2023”, ma che “le disposizioni del Codice con i relativi allegati, eventualmente già sostituiti e modificati, acquistano efficacia il 1° luglio 2023”.
Si confida che entro il 31 marzo 2023 l’individuazione delle disposizioni codicistiche (e di attuazione) cui dovranno fare riferimento gli operatori del settore non presenterà profili di incertezza.
2. Premessa e principi generali
Lo Schema di Codice presenta profili fortemente innovativi, tanto sul piano dell’impostazione che su quello dei contenuti. Merita anzitutto sin da subito evidenziare il chiaro riferimento del suo ambito applicativo, per quanto non diversamente stabilito, tanto agli appalti che alle concessioni (art. 13). Si è inoltre scelto di redigere un Codice che non rinvii a ulteriori provvedimenti attuativi e sia immediatamente “autoesecutivo”, consentendo da subito una piena conoscenza dell’intera disciplina da attuare. Ciò è stato possibile grazie a un innovativo meccanismo di delegificazione che opera sugli allegati al Codice (legislativi in prima applicazione, regolamentari a regime). La fonte regolamentare, pur evidentemente più agile di quella legislativa, ha il pregio di valere solo per il futuro e non creare la confusione derivante dalle linee guida ANAC.
Per una migliore comprensione e interpretazione dell’intero testo è fondamentale il confronto con l’ampia e dettagliata Relazione che costituisce una vera e propria guida alla lettura dell’articolato.
Ciò vale anche e in primo luogo per i “Principi generali”, cui il testo dedica ben undici articoli (l’art. 12 opera un rinvio esterno, per quanto attiene alle procedure di affidamento, alla legge generale sull’azione amministrativa e, per quanto attiene alla stipula del contratto e alla fase di esecuzione, al Codice civile).
I principi enunciati nei primi tre articoli assumono una valenza particolare, in quanto l’art. 4 li individua espressamente come “criterio interpretativo e applicativo” delle disposizioni codicistiche.
Come evidenziato anche dai comunicati stampa, i primi due articoli introducono i principi del “risultato” (art. 1) e della “fiducia” (art. 2).
Il primo prevede che le “stazioni appaltanti e gli enti concedenti perseguono il risultato dell’affidamento del contratto e della sua esecuzione con la massima tempestività e il migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo […]”. Per evitare distorte chiavi di lettura della disposizione (che veda il valore preminente nella rapidità i lavori) merita però richiamare l’attenzione sull’espresso richiamo, oltre che alla “qualità”, al rispetto dei principi di “legalità, trasparenza e concorrenza”, che opportunamente chiude il primo comma (anche se la concorrenza è dichiarata poi funzionale a conseguire il miglior risultato possibile), e alla finalizzazione del principio del risultato all’interesse della comunità e al raggiungimento degli obiettivi dell’UE. Tali -necessari- temperamenti al criterio della rapidità sono invero parte integrante del principio del risultato e devono essere tenuti ben presenti anche nella lettura del quarto comma, che stabilisce che detto principio costituisce “criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto, nonché per: a) valutare la responsabilità del personale che svolge funzioni amministrative o tecniche nelle fasi di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti; b) attribuire gli incentivi secondo le modalità previste dalla contrattazione collettiva”.
In uno Stato di diritto la certezza e la prevedibilità delle regole è invero un principio e un canone ermeneutico irrinunciabile, che non può essere sacrificato in nome della rapidità ad ogni costo dell’affidamento e dell’esecuzione di prestazioni che, deviando dal rispetto delle regole, non assicurino la qualità soggettiva del contraente e contenutistica dell’offerta.
L’art. 2 afferma il principio della reciproca fiducia “nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici”, ma, come risulta dai comunicati stampa e dai primi commenti, sembra essenzialmente mirare alla tutela dei funzionari pubblici, delimitandone la colpa grave, al fine di contrastare la c.d. “paura della firma”. Si ricorda tuttavia che (ad oggi fino al 2023) l’art. 21 del d.l. 76/2020 come prorogato dal PNRR ha limitato la responsabilità erariale dei funzionari pubblici ai casi di dolo, limitando la responsabilità per colpa grave ai casi di condotte omissive e si segnala che l’art. 17 dello Schema di Codice dispone semplicemente che il superamento dei termini della procedura di affidamento “costituisce silenzio inadempimento e rileva anche al fine della verifica del rispetto del dovere di buona fede, anche in pendenza di contenzioso”, e analoga disposizione è contenuta nel comma 7 dell’art. 18 nel caso di mancata o tardiva stipula del contratto. Scompare quindi il riferimento contenuto nell’art. 32 nel d.lgs. n. 50/2016 alla responsabilità erariale e disciplinare. Gli unici riferimenti nello Schema alla responsabilità del soggetto agente per danno erariale sono infatti contenuti nell’art. 215 a proposito dell’inosservanza dei pareri e delle determinazioni del Collegio consultivo tecnico. Nessuna disposizione dell’articolato fa invece riferimento alla responsabilità disciplinare.
Anche con riferimento al principio della fiducia lo Schema prevede in ogni caso, a ben vedere, dei temperamenti, laddove precisa che costituisce colpa grave “la violazione di norme di diritto e degli auto-vincoli amministrativi, nonché la palese violazione di regole di prudenza, perizia e diligenza e l’omissione delle cautele, verifiche ed informazioni preventive normalmente richieste nell’attività amministrativa, in quanto esigibili nei confronti dell’agente pubblico in base alle specifiche competenze e in relazione al caso concreto”. Mentre “non costituisce colpa grave la violazione o l’omissione determinata dal riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti”.
Il tema delicato sarà il contenuto che si vorrà dare all’aggettivo palese. Si lascia quindi, in buona sostanza alla giurisprudenza, il temperamento tra la celerità che porterebbe a ridurre le “cautele, verifiche ed informazioni preventive” e la violazione delle regole di “prudenza, perizia e diligenza” che richiederebbero una attività istruttoria più complessa.
La consapevolezza dell’oggettiva difficoltà di trovare il giusto equilibrio tra rapidità da un lato e correttezza e qualità dall’altro emerge dal comma 4 dell’art. 2, laddove dispone che “Per promuovere la fiducia nell’azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, le stazioni appaltanti e gli enti concedenti adottano azioni per la copertura assicurativa dei rischi per il personale, nonché per riqualificare le stazioni appaltanti e per rafforzare e dare valore alle capacità professionali dei dipendenti, compresi i piani di formazione di cui all’articolo 15, comma 7”.
L’art. 3 - Principio dell’accesso al mercato – anch’esso significativamente richiamato tra i criteri applicativo e direttivo delle disposizioni codicistiche, conferma quanto detto sull’ineludibilità, in ogni caso, dei -tradizionali- “principi di concorrenza, imparzialità, e non discriminazione di pubblicità e trasparenza di proporzionalità”.
Gli altri articoli si occupano rispettivamente dei “Principi di buona fede e di tutela dell’affidamento” (art. 5); “Principi di solidarietà e di sussidiarietà orizzontale. Rapporti con gli enti del Terzo settore” (art. 6); “Principio di auto-organizzazione amministrativa (art. 7); “Principio di autonomia contrattuale. Divieto di prestazioni d’opera intellettuale a titolo gratuito” (art. 8, che, però, al comma 3, prevede la possibilità che le Amministrazioni ricevano “per donazione” beni e prestazioni rispondenti al pubblico interesse); “Principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale” (art. 9); “Principi di tassatività delle cause di esclusione e di massima partecipazione” (art. 10); “Principio di applicazione dei contratti collettivi nazionali di settore. Inadempienze contributive e ritardo nei pagamenti” (art. 11, che fa in realtà riferimento anche ai contratti collettivi territoriali)).
Nel rinviare ad altra sede più ampie riflessioni su tali principi, merita evidenziare che l’art. 5, sotto il titolo “Principi di buona fede e di tutela dell’affidamento”, nel richiamare la valenza di tali principi nell’ambito dell’intera procedura di gara, anche prima dell’aggiudicazione, al comma 3 afferma che “In caso di aggiudicazione annullata su ricorso di terzi o in autotutela, l’affidamento non si considera incolpevole [recte, non vi è legittimo affidamento: ndr] se l’illegittimità̀ è agevolmente rilevabile in base alla diligenza professionale richiesta ai concorrenti”. La disposizione sembra dare spazio a una presunzione di concorso di colpa dell’aggiudicatario illegittimo: presunzione che pone. a ben vedere problemi di coerenza con l’enunciazione al comma 1 dell’art. 2 del principio di fiducia “reciproca”. Il comma 4, pur ponendo l’accento sulla possibilità di un’azione di rivalsa della “stazione appaltante o dell’ente concedente condannati al risarcimento del danno a favore del terzo pretermesso”, limita peraltro opportunamente la concorrente responsabilità dell’aggiudicatario illegittimo all’ipotesi in cui esso abbia conseguito l’aggiudicazione con un comportamento “illecito”. Negli stessi termini, l’art. 209, comma 4 dello Schema, sostituendo l’art.124 c.p.a., stabilisce al suo nuovo comma 1, 3° periodo, che “Il giudice conosce anche delle azioni risarcitorie e di quelle di rivalsa proposte dalla stazione appaltante nei confronti dell'operatore economico che, con un comportamento illecito, ha concorso a determinare un esito della gara illegittimo”. Come rilevato in altre occasioni, non posso non esprimere serie preoccupazioni per le riferite disposizioni che, se lette nel contesto di un sistema di tutela giurisdizionale che indebitamente privilegia la tutela risarcitoria rispetto a quella soprassessoria e caducatoria (in evidente spregio anche alla qualità della prestazione), corre il rischio di ridurre il contenzioso sui contratti de quibus a una controversia tra privati. Il che oltretutto farebbe dubitare della ratio della sua attribuzione alla giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo.
Con riferimento al principio di auto-organizzazione amministrativa, va segnalato che l’art. 7 rinvia la disciplina dell’affidamento in house dei servizi di interesse economico generale a livello locale all’apposito decreto legislativo di riordino della disciplina dei servizi pubblici locali, a sua volta approvato dal Consiglio dei Ministri il 16 dicembre scorso, il quale rafforza l’obbligo motivazionale dell’affidamento, espressamente estendendolo anche al trasporto pubblico locale, con la sola strana eccezione delle funivie.
Merita particolare attenziona anche l’art. 10 (“Principi di tassatività delle cause di esclusione e di massima partecipazione”), che afferma utilmente in modo chiaro il “divieto di affidamento” dei contratti pubblici “agli operatori economici nei confronti dei quali sia stata accertata la sussistenza di cause di esclusione espressamente definite dal codice” e che “Le cause di esclusione di cui agli articoli 94 e 95 sono tassative e integrano di diritto i bandi e le lettere di invito; le clausole che prevedono cause ulteriori di esclusione sono nulle e si considerano non apposte” e delimita i requisiti speciali (“Fermi i necessari requisiti di abilitazione all’esercizio dell’attività professionale, le stazioni appaltanti e gli enti concedenti possono introdurre requisiti speciali, di carattere economico-finanziario e tecnico- professionale, attinenti e proporzionati all’oggetto del contratto, tenendo presente l’interesse pubblico al più ampio numero di potenziali concorrenti e favorendo, purché sia compatibile con le prestazioni da acquisire e con l’esigenza di realizzare economie di scala funzionali alla riduzione della spesa pubblica, l’accesso al mercato e la possibilità di crescita delle micro, piccole e medie imprese”).
3. Altre importanti novità.
Importanti novità riguardano poi la forte spinta verso la digitalizzazione, la programmazione di infrastrutture prioritarie, l’appalto integrato, una maggiore flessibilità per i settori speciali, il riordino delle competenze dell’ANAC (oltre all’eliminazione delle linee guida, il rafforzamento delle funzioni sanzionatorie e la titolarità in via esclusiva della Banca dati nazionale dei contratti pubblici, con l’anagrafe unica delle stazioni appaltanti, compreso l’elenco dei soggetti aggregatori, nonché l’anagrafe degli operatori economici), la revisione delle soglie al di sotto delle quali gli appalti potranno essere affidati senza gara, il partenariato pubblico-privato (cui è dedicato l’intero IV libro), l’introduzione del c.d. “subappalto a cascata”, la revisione prezzi (per la quale sono state trasposte nel Codice le norme emergenziali che fissano l’alea al 5% e la quota di copertura dei prezzi), le qualificazioni delle stazioni appaltanti (anche se il Governo ha alzato la soglia fino alla quale i piccoli comuni potranno affidare direttamente i lavori); la trasparenza delle procedure di affidamento e l’accesso ai relativi atti per i concorrenti non definitivamente esclusi; la decorrenza dei termini di impugnazione e l’inserimento nel Codice della disciplina del Collegio consultivo tecnico.
4. Segue: la razionalizzazione del rapporto tra efficacia dell’aggiudicazione, accesso agli atti e alle offerte degli altri concorrenti, e termini di impugnazione.
Nell’ottica di un’effettiva accelerazione della stipula del contratto e di una più effettiva tutela dei concorrenti non definitivamente esclusi, lo Schema è intervenuto anche sulle fasi delle procedure di affidamento, sulla trasparenza degli atti di gara, sulle comunicazioni e sulla decorrenza dei termini di impugnazione. A questi fini merita leggere in combinato disposto gli artt. 17, 18, 36, 90 e 209.
In particolare, l’art. 17, reintroduce la distinzione tra “proposta di aggiudicazione” e “aggiudicazione”, disponendo, al comma 5, che “L’organo preposto alla valutazione delle offerte predispone la proposta di aggiudicazione alla migliore offerta non anomala. L’organo competente a disporre l’aggiudicazione esamina la proposta, e, se la ritiene legittima e conforme all’interesse pubblico, dopo aver verificato il possesso dei requisiti in capo all’offerente, dispone l’aggiudicazione, che è immediatamente efficace” e, al comma 7, che “Una volta disposta l’aggiudicazione, il contratto è stipulato secondo quanto previsto dall’articolo 18”.
La decorrenza del termine dilatorio (c.d. standstill procedimentale) per la stipula del contratto e dei termini di impugnazione sono pertanto posticipati all’esito della verifica dei requisiti e alla conseguente comunicazione della -effettiva- aggiudicazione.
L’art. 18 dispone, infatti, opportunamente al comma 3 che “Il contratto non può essere stipulato prima di 35 giorni dall’invio dell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione. (…)”
L’art. 36 dispone poi al comma 9 che “Il termine di impugnazione dell’aggiudicazione e dell’ammissione e valutazione delle offerte diverse da quella aggiudicataria decorre comunque dalla comunicazione di cui all’articolo 90”. La disposizione, ripresa dall’art. 209 -che sostituisce l’art. 120 c.p.a.- si combina con i commi 1 e 2 dello stesso art. 36 i quali dispongono che “1. L’offerta dell’operatore economico risultato aggiudicatario, i verbali di gara e gli atti, i dati e le informazioni presupposti all’aggiudicazione sono resi disponibili, attraverso la piattaforma digitale di cui all’articolo 25 utilizzata dalla stazione appaltante o dall’ente concedente, a tutti i candidati e offerenti non definitivamente esclusi contestualmente alla comunicazione digitale dell’aggiudicazione ai sensi dell’articolo 90. 2. Agli operatori economici collocatisi nei primi cinque posti in graduatoria sono resi reciprocamente disponibili, attraverso la stessa piattaforma, gli atti di cui al comma 1, nonché le offerte dagli stessi presentate.”.
In questo modo si reintroduce e si rafforza il sistema di accesso automatico e immediato (senza onere di richiesta) a tutti i verbali, dati, atti e informazioni della procedura, ivi comprese le offerte dei primi cinque candidati nelle parti che la stazione appaltante o l’ente concedente non ha ritenuto di dover oscurare (anche se occorrerebbe per chiarezza aggiungere “contestualmente alla comunicazione dell’aggiudicazione”). Il sistema mira così ad evitare i ricorsi “al buio” (con inutile consumo della risorsa giustizia) e a dare, sin da subito, massima informazione ai concorrenti interessati a verificare la correttezza della gara ed eventualmente a contestarne l’esito. A questi fini l’art. 36 introduce un rito specialissimo per contestare, rispettivamente, da parte dell’offerente, l’eventuale totale/parziale diniego di oscuramento e, da parte degli altri concorrenti, l’eventuale eccesso di oscuramento.
Più correttamente, pertanto, la decorrenza del termine di impugnazione - tanto per l’aggiudicazione, quanto, a maggior ragione, per l’ammissione e la valutazione delle offerte diverse dall’aggiudicataria (di cui l’art. 90 non prevede alcuna comunicazione, a meno che si inserisca nell’obbligo di comunicazione dell’aggiudicazione anche quello della graduatoria) - dovrebbe essere ancorata, per i vizi deducibili da atti ostesi successivamente alla comunicazione del provvedimento impugnato, al momento in cui tali atti vengono effettivamente resi disponibili.
La norma deve essere sotto questo profilo meglio coordinata con il nuovo art. 120 c.p.a. che, nel testo riscritto dall’art. 209 dello Schema, dispone che il termine di impugnazione degli atti delle procedure di affidamento e di concessione disciplinati dal Codice “decorre, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione di cui all’articolo 90 del codice dei contratti pubblici oppure dal momento in cui gli atti sono messi a disposizione ai sensi dell’articolo 36, commi 1 e 2, del codice dei contratti pubblici”.
Dal momento che la certezza del termine di impugnazione costituisce una garanzia di effettività della tutela assolutamente irrinunciabile, anche quest’ultima disposizione dovrebbe però essere opportunamente integrata al fine di rendere chiaro che (i) la dilazione non può essere un’opzione, ma vale solo per i vizi non ancora conoscibili; (ii) si tratta di una dilazione e non di una anticipazione: quest’ultimo chiarimento è essenziale per non dare spazio a strumentali eccezioni delle amministrazioni resistenti o dei controinteressati sulla necessità di anticipare l’impugnazione di verbali e atti endoprocedimentali casualmente conosciuti prima della comunicazione di quello effettivamente lesivo o, all’opposto, a un atteggiamento di estrema prudenza dei ricorrenti (c.d. “contenzioso cautelativo”) con inutile spreco della risorsa giustizia.
Il nuovo secondo periodo del comma 2 dell’art. 120 potrebbe a questi fini essere allora più opportunamente così riformulato: “Il termine decorre, per il ricorso principale e per i motivi aggiunti, dalla ricezione della comunicazione dell’atto impugnato ai sensi dell’articolo 90 del codice dei contratti pubblici oppure, se si impugnano atti diversi e non direttamente comunicati oppure si denunciano vizi conoscibili dagli atti messi a disposizione ai sensi dell’articolo 36, commi 1 e 2, del codice dei contratti pubblici, dai successivi momenti in cui tali atti sono stati effettivamente messi a disposizione”. Analogamente, il comma 9 dell’art. 36 potrebbe essere opportunamente integrato con la precisazione “o dai successivi momenti in cui la stazione appaltante o l’ente concedente abbia messo a disposizione gli atti impugnati e quelli da cui sono evincibili i vizi dedotti”.
La distinzione tra proposta e aggiudicazione e la posticipazione a quest’ultima della decorrenza del termine di impugnazione e dello standstill procedimentale ha comunque l’importante scopo di evitare inutili contenziosi anteriormente all’esito della verifica dei requisiti e, al contempo, “bruciare” la dilazione della stipula del contratto in un periodo che spesso è inferiore a quello necessario a tale verifica.
In un’ottica di migliore equilibrio tra i diversi interessi (di accelerazione e di tutela giurisdizionale) sarebbe peraltro a mio avviso più opportuno, come rappresentato anche nell’ambito della Commissione, anticipare la fase di eventuale contestazione degli oscuramenti delle offerte (contro il diniego o contro l’eccesso di oscuramento) al momento della proposta, in modo da utilizzare il tempo della verifica dei requisiti per definire il pur rapidissimo rito disegnato dallo stesso art. 36 per tale contenzioso.
A tali fini occorrerebbe aggiungere alle comunicazioni di cui all’art 90 quella della proposta di aggiudicazione e della sottostante graduatoria e prevedere la messa a disposizione degli atti di cui all’art 36, commi 1 e 2 contestualmente a tale comunicazione, facendo decorrere da tale momento i termini per contestare le decisioni sull’oscuramento delle offerte, sì che, al momento dell’aggiudicazione, i concorrenti abbiano la massima disponibilità del quadro fattuale di riferimento.
Ferma restando la necessità di ogni opportuna attività istruttoria e di verifica per raggiungere un risultato di qualità (soggettiva e oggettiva) dell’affidamento, è evidente invero che l’anticipazione del contenzioso sull’accesso -ma anche l’introduzione di un termine per la verifica dei requisiti e, a monte, per il rilascio delle informazioni all’uopo necessarie da parte delle autorità e degli organismi competenti- avrebbe l’ulteriore importante effetto di ridurre il ricorso agli affidamenti d’urgenza, che è di fatto un altro strumento per aggirare l’istituto dello standstill e (quel poco che resta del)la tutela cautelare.
Sul piano dell’effettività della tutela, merita peraltro, con soddisfazione, segnalare, per un verso, l’opportuna previsione, nel nuovo testo dell’art. 120 c.p.a., che per la proposizione di motivi aggiunti per impugnare gli atti della medesima procedura non è dovuto il pagamento di ulteriori contributi unificati, e, per l’altro verso, la “non trasposizione” nello Schema del decreto delegato, delle criticabili e criticate disposizioni del rito speciale PNRR inserite in sede di conversione del d.l. n. 68 del 2022 (sub art. 12-bis).
Novità normative dall’Unione Europea in materia di tutela penale dell’ambiente
di Licia Siracusa
Sommario: 1. La genesi della nuova proposta di direttiva sulla tutela penale dell’ambiente - 2. Le principali novità della Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla tutela penale dell'ambiente, che sostituisce la direttiva 2008/99/CE (15 dicembre 2021) (cod2021/0422) - 3. I profili critici.
1. La genesi della nuova proposta di direttiva sulla tutela penale dell’ambiente
É attualmente in corso presso le istituzioni europee l’iter di approvazione di una nuova Direttiva sulla tutela penale dell’ambiente. Tale iniziativa normativa si inserisce nel contesto di un processo di complessivo rinnovamento delle politiche europee in materia ambientale.
Con l’avvio del c.d. “Green Deal”, l’Unione si è infatti impegnata ad attuare una nuova strategia globale per la protezione e il miglioramento dello stato dell’ambiente ed ha predisposto un ampio ventaglio di misure, volte a rafforzare la tutela degli ecosistemi e della biodiversità[1]. Al contempo, nell’ambito della Strategia dell’UE per contrastare la criminalità organizzata 2021-2025, la lotta alla criminalità ambientale è stata indicata come un obiettivo prioritario da perseguire, anche attraverso una revisione sia della normativa in materia di spedizione di rifiuti e di traffico di specie selvatiche, sia della direttiva 2008/99/CE sui reati ambientali[2].
Oltre che per effetto del mutato contesto politico ed internazionale, il processo in corso di revisione della direttiva si è poi reso necessario in ragione del fatto che l’adozione di tale atto era avvenuta prima dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, e cioè, sotto la vigenza di un quadro normativo molto diverso da quello attuale che invece assegna all’UE competenze penali più chiare e più ampie.
Il rapporto finale di valutazione del livello di implementazione della Direttiva vigente (Direttiva 99/2008/CE) esitato dalla Commissione UE ha riportato un quadro davvero sconfortante rispetto al conseguimento dell’obiettivo in origine prefissato dall’UE di realizzare un livello almeno sufficiente di armonizzazione delle legislazioni penali nazionali in materia ambientale. L’implementazione del testo è avvenuta in modo alquanto eterogeneo, a causa dell’ampio margine di discrezionalità con cui gli Stati hanno potuto interpretare il contenuto delle relative disposizioni. L’estrema vaghezza dei termini utilizzati dal legislatore europeo per la descrizione delle condotte penalmente rilevanti ha infatti resto elastico il significato degli obblighi di incriminazione imposti a monte, generando a valle una notevole varietà delle soluzioni normative adottate dai singoli ordinamenti nazionali.
Approcci differenti sono stati seguiti tanto sul versante della ricezione della clausola di illiceità speciale, quanto sotto il profilo della definizione dei contrassegni dell’offese tipiche.
Con riguardo al profilo del carattere illecito delle condotte sanzionate, l’art. 2 della Direttiva 2008/99/CE stabilisce, com’è noto, un requisito di specifica illiceità delle condotte punite, consistente nella violazione normativa europea adottata ai sensi del trattato CE o EURATOM ed allegata alla direttiva; di un atto legislativo, un regolamento amministrativo o una decisione, adottati da uno Stato membro o da una sua autorità competente in attuazione della legislazione comunitaria di settore. Si tratta, cioè, di un rinvio tassativo alla legislazione europea, elencata in coda al testo ed alla normativa interna, nonché ai provvedimenti amministrativi dei singoli Stati, attuativi della disciplina di cui agli allegati alla direttiva e che riguardano in prevalenza la materia ambientale, ma non anche ambiti affini; come la tutela della salute, del paesaggio, della sicurezza sul lavoro etc.
Ebbene, la Commissione ha constatato come molti ordinamenti statali abbiano trasposto tale clausola, a volte richiamando genericamente la contrarietà a norme giuridiche, ad una disposizione di legge o ad una decisione della pubblica autorità; in altri casi invece, si richiede la violazione di norme di legge. L’impiego di formule onnicomprensive ha comportato l’automatica inclusione nello spettro applicativo delle norme penali di qualunque futura modifica o aggiornamento tanto della legislazione nazionale di recepimento della normativa europea a tutela dell’ambiente, quanto di quest’ultima[3]. Ciò ha senza dubbio complicato l’esegesi delle normative penali interne, vista la notevole frammentazione degli atti giuridici di attuazione della disciplina ambientale di fonte europea. Tra gli ordinamenti statali esaminati dalla Commissione, soltanto quello maltese ha implementato in modo letterale la definizione di cui all’art. 2 della Direttiva, facendo riferimento alla disciplina elencata in allegato alla stessa. Al guadagno così ottenuto in termini di maggiore precisione nella descrizione del fatto tipico si è però affiancato il contro-effetto della eccessiva fissità della clausola di illiceità speciale, incapace di adattarsi ai mutamenti che hanno nel tempo investito la normativa extra-penale oggetto del rinvio.
Risultati altrettanto insoddisfacenti si registrano sul versante dell’implementazione dei requisiti offensivi del fatto, ove la disomogeneità delle soluzioni adottate a livello nazionale ha nella sostanza impedito l’armonizzazione degli ambiti applicativi delle rispettive fattispecie di reato. Nella maggior parte dei casi si è scelto di ricorrere ad una trasposizione quasi pedissequa della nozione di "danno sostanziale" utilizzata nel testo della Direttiva. La vaghezza di tale definizione ha però finito con l’affidare al formante giurisprudenziale il compito di definire gli effettivi contorni dell’offesa penalmente rilevante.
Fra le legislazioni statali che hanno utilizzato formule più precise si è invece riscontrata una non trascurabile eterogeneità rispetto al modo di intendere il disvalore di evento. Alcuni Stati hanno definito la soglia di rilevanza penale dell’evento lesivo attraverso parametri di carattere economico, quantificando il danno in termini monetari secondo schemi in genere impiegati in ambito civilistico. In altri invece, il danno rilevante è stato connotato in termini di durata, reversibilità e di impatto sull’ambiente.
La normativa austriaca richiede per esempio un “deterioramento duraturo dello stato dell'acqua, del suolo e dell'aria”. L’ordinamento portoghese stabilisce invece criteri di tipo qualitativo, mentre la giurisprudenza polacca intende il danno significativo come danno irreparabile che colpisce la vegetazione o un gran numero di animali. Nozioni altrettanto vaghe sono - com’è noto - presenti nel nostro ordinamento ove l’evento del delitto di inquinamento è definito come “compromissione e deterioramento significativo e misurabile” e il disastro ambientale consiste nell’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema o nell’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente gravosa.
La Commissione segnala infine analoghi problemi di non uniforme implementazione della direttiva sul versante della trasposizione della nozione di “quantità non trascurabile di rifiuti” oggetto del traffico illecito. Anche in tal caso, talvolta, si è scelto di riprendere letteralmente l’espressione usata dal legislatore europeo, altre volte invece, si è preferito ricorrere all’indicazione di soglie di carattere quantitativo.
Non trascurabili paiono le differenze intercorrenti tra le legislazioni penali nazionali sul fronte della tipizzazione delle condotte e delle offese. Il fatto che il profilo delle sanzioni sia rimasto fuori dal campo applicativo della Direttiva 2008/99/CE perché già regolato dalla quasi coeva decisione quadro sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale[4], ha consentito agli Stati membri di procedere in ordine sparso rispetto alla scelta del tipo e delle misure di pene da applicare agli illeciti contro l’ambiente. Ne è derivato un quadro composito, contrassegnato da una forte discontinuità dei regimi applicativi (soprattutto in materia di sanzioni pecuniarie), talmente variegato da rendere impossibile la comparazione tra i rispettivi sistemi nazionali[5].
2. Le principali novità della Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla tutela penale dell'ambiente, che sostituisce la direttiva 2008/99/CE (15 dicembre 2021) (cod2021/0422)
Tra le principali novità della Proposta di direttiva si segnalano, sul fronte della tipizzazione delle condotte penalmente rilevanti, l’ampliamento e l’aggiornamento delle attività punibili; ora comprensivo anche dei casi di immissione nel mercato di prodotti pericolosi; di fabbricazione e immissione nel mercato o di uso di sostanze pericolose; delle violazioni delle normative in materia di AIA; degli scarichi inquinanti da navi; dell’installazione, esercizio o smantellamento di impianto in cui si svolge attività pericolosa o si immagazzinano o utilizzano sostanze pericolose; dell’estrazione di acque superficiali o sotterranee etc. (art. 3 della Proposta).
L’area della protezione penale dell’ambiente fagocita dunque fattispecie di diversa natura, normalmente annoverate tra quelle a tutela della salute individuale o collettiva; come taluni reati in materia di danni da prodotto. Si tratta di una scelta dogmaticamente discutibile, che potrebbe peraltro generare seri ostacoli nel processo di implementazione della futura direttiva.
Da annotare il fatto che la Commissione ha fortemente voluto l’inserimento tra le condotte punibili dell’estrazione illecita di acque superficiali e sotterranee, considerata la loro considerevole incidenza e diffusione anche nel territorio UE. Stupisce il dato criminologico. Esso smentisce l’idea che questo tipo di attività illegali riguardi soprattutto i Paesi in via di sviluppo, ed in misura minore i Paesi più ricchi.
Sotto il profilo della tipizzazione delle offese, la nuova direttiva - come la precedente - circoscrive l’area delle incriminazioni alle condotte che cagionano un danno o un pericolo concreto rilevanti alla vita o all’incolumità delle persone; oppure, alla qualità delle matrici ambientali, ma si preoccupa di meglio definire i contrassegni dell’accadimento lesivo, attraverso la tipizzazione di una serie di indicatori sintomatici della rilevanza della lesione. Con riguardo all’evento di danno, si fa riferimento: 1) alle condizioni originarie dell’ambiente colpito; 2) alla durata del danno; 3) alla gravità del danno; 4) alla diffusione del danno; 5) alla reversibilità del danno (art. 3 par. 3 della Proposta).
Rispetto al pericolo rilevante, si tiene invece conto dei seguenti elementi a) se l’attività è ritenuta rischiosa o pericolosa e richiede un’autorizzazione che non è stata ottenuta o rispettata; b) in quale misura sono superati i valori soglia legislativi definiti o contenuti nell’autorizzazione; c) se il materiale o la sostanza è classificato come pericoloso o altrimenti elencato come nocivo per l’ambiente o la salute umana (art. 3 par.4 della Proposta).
Non è tuttavia ben chiara la natura giuridica dei suddetti indici. La direttiva non precisa infatti, se si tratta di indici meramente probatori o sintomatici della dannosità del fatto, o di elementi costitutivi della fattispecie tipica. La questione non è di rilievo puramente teorico. Se gli indicatori fossero ritenuti di natura esclusivamente processuale/probatoria, essi verrebbero in rilievo alternativamente. Ai fini dell’accertamento del reato, non sarebbe, cioè, necessario che fossero presenti nella loro totalità; così come, il reato potrebbe ritenersi integrato, anche in loro assenza. Ove invece si trattasse di elementi del fatto tipico, in assenza di uno o più di tali contrassegni, il reato non si realizzerebbe.
La Proposta stabilisce parametri standard per la determinazione della non trascurabile quantità di rifiuti, oggetto delle condotte di traffico illecito. Si prevede infatti che la legislazione degli Stati membri specifichi che, nel valutare tale requisito quantitativo, ai fini delle indagini, dell'azione penale e delle decisioni giudiziarie riguardo ai reati di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettere e), f), l), m) e n) della proposta di direttiva, si debba tenere conto, secondo il caso, dei seguenti elementi (Art. 3 par. 5): a) il numero di elementi oggetto del reato; b) in quale misura è superato il valore, la soglia regolamentare o un altro parametro obbligatorio; c) lo stato di conservazione della specie animale o vegetale in questione; d) il costo di ripristino dei danni ambientali.
Si tenta altresì di incrementare lo standard di tassatività della clausola di illiceità speciale, restringendone la portata alla violazione della disciplina extra-penale europea e a quella nazionale interna di attuazione, riguardante esclusivamente la materia ambientale; e non anche altri ambiti di tutela (salute, sicurezza sul lavoro etc.).
Significativo è il dato che l’assenza di autorizzazione o di altro titolo abilitativo non rilevi come requisito di illiceità speciale delle condotte, bensì come indice sintomatico della loro pericolosità; mentre soltanto l’autorizzazione illecitamente o fraudolentemente ottenuta connota il fatto di un ulteriore profilo di illiceità.
Sul versante sanzionatorio, la Proposta obbliga gli Stati a prevedere sanzioni detentive massime di almeno 10 anni in caso di morte o lesioni gravi alle persone; sanzioni detentive massime di almeno 4 anni per gli illeciti-base e sanzioni accessorie, interdittive, ripristinatorie etc. (art. 5 della proposta).
3. I profili critici
Rimane ancora sostanzialmente indeterminata la nozione di danno penalmente rilevante, nonostante il richiamo alla nozione di peggioramento qualitativo delle matrici ambientali, faccia di queste ultime, e non degli ecosistemi, l’oggetto materiale del reato. Ciò certamente agevola l’accertamento del fatto, circoscrivendone l’incidenza del risultato lesivo ai singoli corpi recettori (acqua, aria, suolo etc.). Inspiegabilmente però, l’ecosistema riappare nelle ipotesi aggravate che puniscono più severamente gli illeciti ambientali da cui derivino o da cui possono derivare la distruzione o i danni irreversibili e duraturi ad un ecosistema (art. 8 della Proposta di direttiva).
Sanzioni più elevate vengono poi previste se dal fatto derivano il decesso o le lesioni gravi ad una o più persone. Come per le ipotesi delle lesioni ambientali irreversibili o durature, anche per i casi di conseguente morte o lesione, la struttura dell’incriminazione richiama lo schema dei reati aggravati dell’evento. L’implementazione di tale modello nell’ordinamento italiano implicherebbe l’abbandono della distinzione attualmente tracciata dal codice fra il reato di inquinamento ambientale ed il reato di disastro ambientale. Quest’ultimo dovrebbe infatti assumere la forma di un’ipotesi aggravata di inquinamento ambientale, tanto rispetto alle ipotesi di maggiore offesa all’ambiente, quanto per l’ulteriore offesa ai beni della vita o dell’incolumità personale.
Appare infine criticabile la scelta di restringere la portata della clausola di illiceità speciale alle sole violazioni della disciplina extra-penale a tutela dell’ambiente in quanto si rischia così di lasciare prive di copertura penale condotte contrassegnate dall’inosservanza di prescrizioni amministrative e legislative orientate alla tutela di interessi diversi dall’ambiente, ma in concreto lesive di quest’ultimo[6].
[1] La Comunicazione della Commissione UE sul Green Deal dell’Unione Europea è consultabile in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?qid=1670924725082&uri=CELEX:52019DC0640.
[2] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni - Strategia dell’UE per la lotta alla criminalità organizzata 2021-2025 (COM/2021/170 final), in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:52021DC0170.
[3] V. Documento di lavoro dei servizi della Commissione - Valutazione della direttiva 2008/99/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, sulla tutela penale dell'ambiente, cit., p. 26.
[4] Decisione quadro 2003/80/GAI relativa alla protezione dell'ambiente attraverso il diritto penale, Bruxelles, 4 ottobre 2002, annullata dalla Corte di Giustizia il 13 settembre 2005 (causa: C-176/03).
[5] La pena detentiva massima prevista per il delitto di inquinamento oscilla per esempio dai 20 anni previsti dalla legislazione austriaca ai tre della normativa francese.
[6] Sul punto, sia consentito rinviare al nostro, La legge 22 maggio 2015, n. 68 sugli “ecodelitti”: una svolta “quasi” epocale per il diritto penale dell’ambiente, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, p. 202 e ss.
Gli accordi europei in tema di immigrazione
di Franco Roberti
Sommario: 1. La questione migratoria, realtà e rappresentazione - 2. La gestione europea dell’immigrazione - 3. La nuova proposta della Commissione europea: Il Patto - 4. Le ultime iniziative della Commissione europea - 5. Conclusioni.
1. La questione migratoria, realtà e rappresentazione
A un quadro politico e normativo dell’Unione europea sempre più polarizzato sugli aspetti logistici ed organizzativi, su come gestire e possibilmente fermare l’arrivo di migranti irregolari e dei richiedenti asilo, fa da contraltare una narrazione pubblica e mediatica in cui la distinzione tra richiedenti asilo, rifugiati, irregolari, migranti economici o climatici, è liquidata per far posto all’immagine di una massa indistinta, simile a un enorme tsunami, pronta a varcare le frontiere. Questa situazione si è determinata anche per la sperimentata difficoltà di adottare una legislazione migratoria comune, dato che le decisioni dell’Unione europea nel settore dell’immigrazione, non supportate da una specifica ed esclusiva competenza, necessitano dell’unanimità dei Paesi membri. Ne consegue che, fintanto sarà richiesto il voto unanime, il tema dell’immigrazione sarà condizionato delle opportunità politiche del momento. D’altronde, basta dare un’occhiata ai numerosi tentativi di legiferare a livello europeo per rendersi conto che finora i governi hanno badato solo ai propri interessi nazionali di pura convenienza politica, indifferenti al dettato dell’articolo 79 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che chiama gli Stati Membri ad adottare “una politica comune sull’immigrazione per assicurare la gestione efficace dei flussi migratori, l’equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi, la prevenzione e il contrasto dell’immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani”.
Ne consegue che i flussi migratori, da fenomeno demografico causato da fattori sociali, economici, ambientali e ultimo, ma non per importanza, da drammatiche situazioni di guerre endemiche, sono affrontati come problema di sicurezza e di gestione delle frontiere, diventate ormai barriere protettive. Tale spostamento ha provocato una narrativa politica e mediatica di natura prettamente securitaria a vantaggio delle formazioni politiche più propense a cavalcare le paure, il risentimento, la rabbia sociale, il rifiuto dello straniero, il dubbio sul valore dell’ospitalità a favore di un atteggiamento difensivo delle proprie rassicuranti radici culturali. Tutti elementi che trovano nelle incertezze normative a livello comunitario in materia di accoglienza e redistribuzione il terreno propizio nel quale si sedimenta e si articola la giustificazione delle scelte egoistiche dei Paesi membri dell’Unione, preoccupati in materia di immigrazione essenzialmente da valutazioni e tornaconti nazionali.
Si può osservare tale dinamica nel dettaglio. I Paesi del nord Europa, nonostante frequenti richiami rivolti al rispetto dei diritti fondamentali e al principio di accoglienza a fronte di un numero relativamente basso di arrivo di migranti, cadono in contraddizione tra un discorso pubblico improntato al valore della solidarietà e un esercizio del potere dei governi quasi sempre orientato alla ricerca di vantaggi politici di rendita del consenso. Questa posizione, seppur distante da quella tipica dei Paesi del Gruppo di Visegrád, caratterizzata da una totale chiusura sul principio di solidarietà comunitaria, rigettando di fatto il criterio delle quote di redistribuzione, è diventata per quei Paesi occasione per denunciare non solo la falsa coscienza tipica di chi predica bene ma agisce male, ma anche un’argomentazione per rimandare al mittente il mito di un’Europa unita come falso. Ed è proprio da questa frattura, prodotta dall’incapacità di trovare un accordo comune che regoli armonicamente le diverse sensibilità nazionali in materia di immigrazione, che nasce l’attuale paralisi politica e legislativa dell’UE, nonché la difficoltà di spronare i Paesi più riottosi ad assumersi le proprie responsabilità. Il che significa che i Paesi di primo ingresso, quelli del Mediterraneo, dovrebbero continuare a sbrigarsela da soli ed affrontare il dramma quotidiano degli arrivi, che mettono a dura prova le strutture di accoglienza, senza la certezza giuridica di poter contare su un aiuto da parte degli altri membri dell’Unione, trincerati dietro le norme del Regolamento di Dublino.
2. La gestione europea dell’immigrazione
A partire dal giugno 1990, con la convenzione firmata a Dublino da 12 Stati membri UE (tra cui l'Italia), emergeva la necessità di regolamentare, mediante un quadro normativo comune, i flussi migratori che interessavano l’Unione.
Tale convenzione rappresentava il primo accordo intergovernativo nel definire le regole europee sul diritto d’asilo. Tra i diversi obiettivi, il primo si incentrava sul carattere umanitario tendendo ad assicurare a ciascuna persona protezione e diritto d’asilo all’interno, almeno, di uno Stato Membro. Il tutto per evitare il fenomeno dei cosiddetti “rifugiati in orbita” ovvero cittadini stranieri rinviati da uno Stato all’altro, senza aver nemmeno ricevuto una valutazione della domanda d’asilo. Altro obiettivo prefissato era quello di contrastare le “domande multiple” ovvero la condizione nella quale il richiedente asilo, presentando la domanda in un determinato paese, in caso di rifiuto del riconoscimento, potesse rivolgersi senza alcun limite agli altri Stati Membri.
Da qui la decisione di avvalersi del principio del primo Paese di arrivo. Quest’ultimo, quale Paese di primo approdo, si assumeva tutte le responsabilità, nonché gli oneri, relativi alla gestione delle richieste d’asilo e del sostentamento dei cittadini stranieri. Nel 2003, la convenzione venne sostituita dal Regolamento di Dublino II. La modifica più sostanziale riguardava l’implementazione nel diritto comunitario, sotto forma di regolamento, delle previsioni originali della precedente Convenzione. La variazione era tuttavia formale, non modificando i criteri di definizione dei Paesi coinvolti direttamente in prima battuta che restano, ancora, quelli di frontiera.
Il 1 gennaio 2014 entra in vigore il regolamento Dublino III che, pur con dei punti di continuità rispetto al precedente, presenta alcune novità. Tra quest’ultime emergono le tematiche relative all’ampliamento dei termini per il ricongiungimento familiare, alla possibilità di fare ricorso contro un ordine di trasferimento e alla maggiore tutela dei minori. Ancora, il nuovo regolamento incentiva l’utilizzo del database Eurodac (European dactyloscopie), mediante il quale raccogliere e schedare i dati sensibili dei cittadini stranieri. Tali misure correttive non risolvono le difficoltà affrontate dagli Stati frontalieri, mancando un approccio comune e solidale per la risoluzione del fenomeno in crescita esponenziale che raggiunge il suo acme nel 2015.
L'acuirsi della crisi migratoria avvenuta nel 2015 ha sollecitato l’Unione europea a muoversi nuovamente per cercare di stabilire nuovi criteri di gestione del fenomeno al fine di uniformare le posizioni, ancora contrastanti, dei diversi Stati Membri. Questi ultimi sono esortati a rispettare il principio della solidarietà, seppure in maniera non del tutto chiara, e, per la prima volta, è posta al centro dell’attenzione la tutela dei diritti dei migranti, con particolari indicazioni sulle linee da adottare nei confronti dei richiedenti asilo. Il nuovo tentativo si risolve in un totale fallimento: la mancata approvazione, nel 2017, della riforma del regolamento Dublino III: “Abbiamo provato a ribaltare quella logica ipocrita e a sostituirla con un principio che desse sostanza a quelli che sono scritti nei trattati e cioè: la solidarietà e la equa condivisione di responsabilità”.[1]
Eppure nel 2016, a seguito della proposta legislativa presentata dalla Commissione Europea, finalizzata alla riforma del Regolamento di Dublino, il Parlamento Europeo si è riunito dando l’avvio alla discussione e all’ardua negoziazione sul tema.
Nonostante nel corso di quest’ultima vi sia stata l’approvazione del testo in prima lettura (ottobre 2017) e la successiva delibera in plenaria con 390 voti a favore, 175 contrari e 44 astenuti, l’iter ha subito una drastica battuta d’arresto, fermandosi alla fase successiva. Tra le cause la mancanza di una visione comune da parte degli Stati Membri i quali manifestano, in sede di Consiglio Europeo, posizioni contrastanti, esplicativa, tra tutte, la visione dei Paesi Visegrád
La mancanza di coesione comunitaria è stigmatizzata nelle parole di Elly Schlein:
“E devo dire che è stato un negoziato durissimo, ci abbiamo lavorato per due anni per riuscire a costruire una maggioranza storica che, nel novembre del 2017, con il sì di quasi due terzi del Parlamento europeo ha ribaltato quella logica, cancellando il criterio del “primo Paese di accesso” e sostituendolo con un meccanismo “permanente automatico di ricollocamento”, che obblighi tutti i Paesi europei a fare la propria parte sull’accoglienza con un sistema di “quote” obbligatorio. Quote stabilite in modo oggettivo sui criteri del PIL e della popolazione di ogni Stato […] Questo ve lo racconto perché trovo vergognoso che, mentre il Parlamento europeo faceva questo sforzo, i governi che siedono al Consiglio Europeo non sono riusciti a trovare un briciolo di accordo su questa riforma. Eppure quelle che siedono al Consiglio sono le stesse famiglie politiche di quelle che siedono al Parlamento. Le medesime nazionalità. E com’è possibile che al Parlamento si trovi una soluzione davvero europea condivisa e invece al Consiglio si continui a trovare, balbettando, delle soluzioni ad hoc che non danno una risposta strutturale e che lasciano bloccate vergognosamente le persone in mezzo al mare?”.[2]
Di fronte alle politiche di chiusura nei confronti di Paesi terzi, la Corte di Giustizia dell´Unione europea è intervenuta più volte allo scopo di contemperare il diritto degli Stati Membri con la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo migrante. Ciò è stato possibile perché il migrante ha acquisito gradualmente un nucleo minimo di diritti con l’approvazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea - la Carta di Nizza - che, dopo il Trattato di Lisbona, ha uguale valore giuridico dei Trattati istitutivi dell’Unione. Il che comporta che i diritti in essa riconosciuti sono a tutti gli effetti giuridicamente vincolanti, pure nel settore delle politiche migratorie e, pertanto, inderogabili per le Istituzioni europee e la cui osservanza da parte degli Stati membri è soggetta al giudizio della Corte di giustizia.
Sul tema della migrazione è emblematico l’articolo 19, primo comma, della Carta, che vieta le espulsioni collettive ed ogni respingimento alla frontiera e allontanamento coercitivo dal territorio senza prima aver effettuato un esame individuale del soggetto richiedente asilo.
Qui giova ricordare alcune recenti pronunce delle Corte di Giustizia dell’Unione europea. Proprio l’articolo 19, secondo comma, che vieta l’allontanamento, l’espulsione o l’estradizione verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposti alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti, è stato evocato dalla Corte per dichiarare che le norme della ”direttiva rimpatri” 2008/11, a cui la legislazione nazionale ha l’obbligo di riferirsi in materia di rimpatrio, devono essere interpretate alla luce della Carta dei diritti fondamentali. Cosi nelle cause riunite C391/16, C77/17 e C78/17, dove la Corte ha deciso di non revocare lo statuto di rifugiato a tre cittadini extracomunitari colpevoli di un reato nonostante il parere contrario dei tribunali nazionali. La sentenza recita che “fintanto che il cittadino di un Paese extra-UE o un apolide abbia fondato timore di essere perseguitato nel suo Paese d’origine o di residenza, questa persona deve essere qualificata come rifugiato indipendentemente dal fatto che lo status di rifugiato sia stato formalmente riconosciuto”. È palese il riferimento al principio che nessun cittadino può essere rimpatriato verso un paese dove rischia la sua vita o la sua libertà o di andare incontro a tortura e trattamenti inumani.
Va pure richiamata la sentenza nella causa C-808/18 Commissione contro Ungheria, nella quale si “dichiara che l’Ungheria è venuta meno al proprio obbligo di garantire un accesso effettivo alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale 8, in quanto i cittadini di Paesi terzi che desideravano accedere, a partire dalla frontiera serbo-ungherese, a tale procedura si sono trovati di fronte, di fatto, alla quasi impossibilità di presentare la loro domanda e che l’obbligo imposto ai richiedenti protezione internazionale di rimanere in una zona di transito durante l’intera procedura di esame della loro domanda costituisce un trattenimento ai sensi della direttiva «accoglienza”. Considerazioni che fanno sì che venga respinto “l’argomento dell’Ungheria secondo cui la crisi migratoria avrebbe giustificato una deroga a talune norme delle direttive «procedure» e “accoglienza”, al fine di mantenere l’ordine pubblico e di salvaguardare la sicurezza interna, conformemente all’articolo 72 TFUE”. Infine per condannare l’Ungheria nel suo essere “venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva «rimpatrio», in quanto la normativa ungherese consente di allontanare i cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno nel territorio è irregolare senza rispettare preventivamente le procedure e le garanzie previste da tale direttiva.
Va infine ricordata la sentenza della Corte di Giustizia nelle cause riunite C-653/15 e C-647/15, di rigetto dei ricorsi della Slovacchia e dell’Ungheria contro il Consiglio per il meccanismo provvisorio di ricollocazione obbligatoria dei richiedenti asilo. A giudizio della Corte “l’articolo 78, paragrafo 3, TFUE consente alle istituzioni dell’Unione di adottare tutte le misure temporanee necessarie a rispondere in modo effettivo e rapido ad una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di migranti” I giudici precisano altresì che, “poiché la decisione impugnata costituisce un atto non legislativo, la sua adozione non era assoggettata ai requisiti riguardanti la partecipazione dei parlamenti nazionali e il carattere pubblico delle deliberazioni e dei voti in seno al Consiglio”. Oltre a ciò, la Corte osserva “che il Consiglio non era tenuto ad adottare la decisione impugnata all’unanimità”. La Corte ritiene altresì “che il meccanismo di ricollocazione previsto dalla decisione impugnata non costituisce una misura manifestamente inadatta a contribuire al raggiungimento del suo obiettivo, ossia aiutare la Grecia e l’Italia ad affrontare le conseguenze della crisi migratoria del 2015”. In conclusione, la Corte osserva “che il numero poco elevato di ricollocazioni effettuate a tutt’oggi in applicazione della decisione impugnata può spiegarsi con un insieme di elementi che il Consiglio non poteva prevedere al momento dell’adozione di quest’ultima, tra cui, segnatamente, la mancanza di cooperazione di alcuni Stati membri”.
3. La nuova proposta della Commissione europea: Il Patto
Con tali premesse, il 23 settembre 2020 la Commissione Europea ha proposto il Nuovo patto sulla migrazione e l'asilo, presentato come “un pacchetto di proposte normative e di altre iniziative per un nuovo corso in materia di politica di migrazione e di protezione internazionale.”[3] Il documento, ponendosi in continuità e, talvolta, in discontinuità con il regolamento preesistente, mira al disegno di una strategia organica e fattuale che sia, al contempo, umanitaria e sinergica. In primis, si cerca di integrare le laconiche norme relative ai procedimenti di asilo e rimpatrio, stabilendo, altresì, una serie di misure da applicare in caso di flussi migratori irregolari straordinari; in secondo luogo ci si riferisce al consolidamento di nuove relazioni solidali da istituire tra gli Stati Membri di frontiera, più colpiti dal fenomeno, ed il resto dell’Unione. Ancora si spinge verso la creazione di rapporti collaborativi tra l’Unione e i Paesi Terzi di origine e/o transito. Il Patto regolamenta, altresì, le procedure e le misure di sostegno in termini di ricollocamento e rimpatrio, aggiornamento del quadro giuridico di Eurodac, procedura di screening, asilo e reinsediamento.
Le singole azioni citate, dovrebbero essere svolte con estrema flessibilità e sensibilità, valutando la specificità e le necessità di ciascun individuo, oltre le condizioni che lo Stato Membro interessato si troverebbe ad affrontare.
Nonostante l’aggiornamento e l’integrazione dei criteri di gestione del fenomeno, il disegno si presenta ancora incompleto e disorganico e le problematiche preesistenti non hanno trovato concreta risoluzione.
Tra le criticità che emergono da una puntuale analisi della proposta, all’esame del Parlamento, le più significative riguardano la gestione delle frontiere, la ripartizione asimmetrica degli oneri tra gli Stati Membri e la contrazione dei diritti dei soggetti migranti.
Partendo dal primo punto critico, bisogna sottolineare che l’iter proposto per la gestione delle frontiere si pone, ancora una volta, a scapito dei cosiddetti Paesi di primo approdo. Infatti, la procedura dello screening, a partire dalla fase di identificazione e registrazione ed ancora dei controlli sanitari e di sicurezza, fino alla prima scrematura, grava, nella sua totalità, su di essi. Inoltre la formalizzazione dei luoghi deputati allo svolgimento di dette operazioni, i cosiddetti hotspot, si pone ai limiti della legalità. Nello specifico, il sistema hotspot, nato in risposta alla crisi migratoria del 2015, nella sua mera trasformazione da strumento eccezionale a strumento formale legale, esplicita tutti i suoi punti di debolezza soprattutto in termini di violazione dei diritti umani e di lesione del diritto di difesa, che vengono trascurati in tutte le differenti fasi della procedura in esame.
I cittadini stranieri, nell’attesa dell’esito del procedimento di screening, sono privati della libertà e della parola, non avendo la possibilità di esprimere preferenza alcuna e, talvolta, costretti a subire passivamente il respingimento o l’invio in altro Stato straniero.
Il secondo punto critico riguarda il sistema di ripartizione asimmetrico degli oneri relativi alla gestione del fenomeno migratorio tra i Paesi UE, che si pone a svantaggio degli Stati Membri frontalieri. Tale squilibrio viola il “principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario.”[4] Nel tentativo di aggirare il problema, la Commissione ha proposto un innovativo meccanismo collaborativo incentrato sul sistema della sponsorizzazione. Lo Stato, definito sponsor, si adopera al fine di sostenere logisticamente e finanziariamente i rimpatri degli altri Stati entro un limite temporale di otto mesi (quattro nei periodi di crisi), decorsi i quali lo stesso Stato sarà obbligato ad accogliere nel proprio territorio i migranti per accompagnarli fino al momento del rimpatrio.
La metodologia proposta si dimostra però inefficace in quanto, più che risolvere le problematiche relative alla questione dell’asilo, appare come un espediente per raggiungere un maggiore accordo tra gli Stati Membri. Inoltre, questa sorta di “flessibilità”, fa si che il processo non trovi poi concreta attualizzazione sia per il carattere discrezionale dei supporti forniti dai cosiddetti sponsor che per la differenza, tra i Paesi frontalieri e quelli di Visegrád, delle relazioni e degli accordi consolidati con i Paesi Terzi. Esplicativo il caso italiano che, insieme alla Spagna e alla Francia, gestisce più del 70%[5] degli accordi di riammissione con i Paesi africani.
Il terzo ed ultimo punto critico interessa la contrazione dei diritti dei richiedenti asilo. Il Patto sembra non considerare il fenomeno dal punto di vista del migrante, preservando l’atavico approccio securitario incentrato sulle misure restrittive e di respingimento, più che sulle nuove potenziali procedure di asilo.
In detta direzione infatti, già a partire dalla fase dello screening, i cittadini stranieri sono soggetti a misure di trattenimento con conseguente privazione della libertà. Le procedure di controllo, inoltre, rischiano di sfociare nella “razzializzazione” del diritto di asilo, prediligendo alcune nazionalità piuttosto che altre, senza effettuare analisi puntuali, attente alle necessità del singolo individuo. Quest’ultimo viene, altresì, privato della possibilità di manifestare i propri bisogni e di indicare una preferenza sullo Stato Membro di destinazione. Nella maggior parte dei casi, infatti, le dinamiche di trasferimento assumono un carattere coercitivo a scapito, in primis, dei diritti umani e, a seguire, del margine di successo delle operazioni, con relativo dispendio di fondi, energie e risorse.
4. Le ultime iniziative della Commissione europea
La situazione di stallo nella trattazione parlamentare del Patto ha indotto la Commissione a rivedere l’approccio e la metodologia fino ad ora utilizzate. Questa la considerazione alla base dei recenti “action plans” proposti (nella fattispecie due), concernenti, rispettivamente, la rotta del Mediterraneo centrale e quella dei Paesi balcanici.
Il piano che interessa la prima area d’intervento individuata, ovvero il Mediterraneo centrale, è costituito da 20 misure il cui obiettivo è quello di arginare l’emergenza migratoria, soprattutto quella a carattere irregolare, fornendo linee guida in termini di ricerca e soccorso, sicurezza e solidarietà. Tre i pilastri fondanti il piano d’azione: lo sviluppo di una collaborazione sinergica tra i Paesi dell’Unione, i Paesi partner e le organizzazioni internazionali, il miglioramento del cosiddetto meccanismo di solidarietà volontaria nel rispetto di una visione comune e la promozione di una nuova politica di ricerca e soccorso. In tal senso, la linea d’azione proposta dalla Commissione, in un settore difficile da legiferare vista la competenza nazionale nelle rispettive zone di ricerca e salvataggio, è una maggiore cooperazione tra Stati membri, Paesi costieri e le Ong. Un impegno collaborativo viene richiesto ai Paesi membri anche con l’Organizzazione marittima internazionale (IMO), per porre le basi su un possibile codice di condotta europeo inerente le operazioni di ricerca e salvataggio.
Il piano d’azione previsto a sostegno degli Stati Membri che si trovano a gestire la crescente pressione migratoria che interessa l’area dei Balcani occidentali, d’altro canto, mira ad incentivare la cooperazione tra gli stessi e i relativi partner extra-UE. Anche per quest’ultimo sono previste 20 misure operative, raggruppate in cinque macro-categorie d’azione. Nello specifico: la prima riguarda la gestione delle frontiere lungo la rotta al fine di ridurre il traffico di migranti. In tal senso, significativi sono gli accordi extraeuropei raggiunti con Albania, Montenegro Serbia e Macedonia Nord i quali consentono dispiegamenti sul territorio da parte dell’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (FRONTEX).
La seconda linea d’azione mira ad accelerare le procedure di asilo e sostenere la capacità di accoglienza nei confini con i partner balcanici garantendo alloggi ed esigenze di base attraverso lo strumento di assistenza preadesione (IPA).
Terzo elemento è il potenziamento cooperativo nella lotta al traffico dei migranti lungo la rotta balcanica. Tale obiettivo è perseguibile attraverso la task-force operativa di Europol - recentemente rafforzata - al confine serbo-ungherese ed il programma regionale IPA, da 30 milioni di euro, per favorire lo svolgersi di indagini, procedimenti giudiziari e condanne da parte delle autorità giudiziarie dei Paesi balcanici, in stretta collaborazione con le agenzie europee.
Il rafforzamento della cooperazione per la riammissione e i rimpatri è il quarto elemento del piano d’azione che prevede un impegno maggiore da parte dell’Unione nell’aumentare i ritorni di persone direttamente dai Paesi dei Balcani Occidentali. A tal fine è previsto, entro il 2023 un nuovo programma che comprenda i rimpatri volontari e non volontari dalla regione, per potenziare la cooperazione e il coordinamento sul piano operativo tra l'UE, i Balcani occidentali e i Paesi di origine.
L’ultima categoria di azione mira all’allineamento della politica dei visti da parte dei Balcani. A quest’ultimi si richiede un rapido adeguamento al quadro normativo europeo in materia di visti per il corretto funzionamento del regime di esenzione.
Tutte le indicazioni citate rientrano, tra l’altro, nel più ampio progetto inclusivo dell’Unione a seguito, altresì, dei continui sforzi dei Paesi Balcanici per allinearsi alle norme comunitarie.
Il quadro giuridico europeo nel settore della migrazione continua, dunque, nei fatti a gravitare su tre strumenti: contenere/bloccare, rimpatriare, esternalizzare le frontiere, che sono il braccio armato della questione della sicurezza, che orientano e plasmano le norme vigenti in materia di immigrazione.
Come già osservato, le nuove proposte non sembrano apportare alcun cambio sostanziale: gli interventi previsti riproducono le scelte e gli strumenti che erano alla base del Regolamento di Dublino, tra cui i centri di prima accoglienza, la chiusura delle frontiere nonché un processo di esternalizzazione della responsabilità consegnata ai Paesi terzi, senza tener conto adeguatamente dello stato e della tutela dei diritti umani in tali Paesi. Resta non solo in vigore ma anche consolidato il principio dello Stato di primo ingresso, contestato dai Paesi con frontiere esterne come l’Italia, la Grecia, la Spagna. Pare del tutto carente il meccanismo di solidarietà per accogliere e ridistribuire gli immigranti, così tanto ventilato e sbandierato nelle conferenze stampa, quanto più escluso, depennato o al massimo infarcito di vaghi richiami ai valori fondanti dell’Unione europea nelle dichiarazioni comuni dei ministri dei Paesi membri.
Le norme previste nel nuovo Patto appaiono ancora prive di misure capaci di fornire risposte unitarie ai flussi e alle rotte migratorie. In effetti, restano responsabili della stragrande maggioranza degli arrivi solo alcuni Paesi: situazione non equa e nemmeno sostenibile per i primi Paesi di accoglienza, dato che il principio della solidarietà verrebbe applicato solo in via eccezionale. Sorprendente marcia indietro rispetto al già citato articolo 80 del TFUE che prevede che “tutte le politiche siano governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri”.
Persino il nuovo criterio della sponsorizzazione dei rimpatri rischia di tradursi in una messa tra parentesi della solidarietà a favore invece di una politica dove alcuni Stati assumono le proprie responsabilità mentre altri voltano le spalle. Le divisioni dei Paesi membri tengono in scacco l’intero pacchetto di proposte ancor lontano dall’essere adottato e che, purtroppo, continua a poggiare su due pilastri: bloccare alle frontiere e rimpatriare appena possibile. Infatti, gli accordi di partenariato che traducono la pratica di esternalizzazione si riducono in sostanza ad esercitare pressioni di ogni genere per obbligare i Paesi d’origine e di transito a fermare i migranti diretti in Europa, attraverso la creazione di campi di respingimento alle frontiere. Su queste misure di filtro, volte a contrastare la mobilità delle persone, esiste un consenso generale, mentre manca essenzialmente un’intesa su come normare un sistema comune di asilo, rinviando le decisioni in materia alla volontà dei singoli Stati.
In sintesi, l’azione europea segue la strategia di spostare le frontiere verso l’esterno delegando a Stati terzi il compito di contenere e trattenere i migranti, disinteressandosi in buona parte, se non lanciando appelli alla salvaguardia dei diritti e delle condizioni di vita in cui si trovano i migranti nei campi di segregazione libici, nelle zone franche dei Paesi balcanici, nelle tendopoli delle isole greche, nei dormitori in Turchia. Tale dislocamento dello spazio geografico dei confini europei segue tre rotte: quella orientale-mediterranea, grazie agli accordi con la Turchia e allo scudo protettivo creato nelle isole greche; la rotta balcanica organizzata mediante controlli ferrei di polizia alle frontiere; la rotta africana pianificata attraverso accordi di partenariato infarciti di aiuti economici, convertendo i Paesi africani in territori presidiati militarmente anche da contingenti militari europei. In sostanza, la migrazione è collocata sotto l’egida della politica di sicurezza e di difesa comune.
Altro elemento da considerare è rappresentato dal fatto che il nuovo patto sulla migrazione lascerebbe da parte i 4 / 5 milioni di persone che già si trovano in situazione di irregolarità nei Paesi europei costretti a restare nell’ombra, dato che l’Europa non fa altro che sigillare le frontiere.
Infine, l’ultimo aspetto lasciato in sospeso dal nuovo patto è il tema della migrazione legale: materia su cui gli stati membri mantengono ferma la volontà decisionale indipendente, pur sapendo che l’assenza di uniformità legislativa dell’Unione insieme alla scarsa possibilità di ingresso per motivi economici dà forza alla migrazione irregolare.
5. Conclusioni
La strategia delineata dal Nuovo patto sulla migrazione e l'asilo e dai più recenti actions plans, per quanto innovativa negli intenti, si dimostra ancora legata al precedente regolamento (Dublino III), soprattutto sul piano fattuale. Emerge, innanzitutto, la volontà di contrastare il fenomeno migratorio più che di stabilire un iter organico e omogeneo cui gli Stati Membri possano fare riferimento. A ciò si aggiunge il coinvolgimento parziale degli Stati UE, spesso in contrasto tra di loro, che adagiandosi sull’ambiguità dei differenti punti previsti e sul principio di solidarietà flessibile, partecipano con interventi per lo più economici e amministrativi, a carattere emergenziale. Di conseguenza, l’onere assistenziale continua a ricadere sui Paesi frontalieri.
Le proposte presentate, in conclusione, non risolvono le problematiche preesistenti come l’assenza di collaborazione sinergica tra gli Stati UE, la mancanza di solidali accordi con i Paesi Terzi che vivono in stato di emergenza e la sistematica violazione dei diritti umani.
Tutto ciò appare incompatibile con i valori e i principi su cui si fonda l’Unione europea e che ne dovrebbero garantire la sopravvivenza in un quadro geopolitico in rapido cambiamento.
[1] E. Schlein, relatrice-ombra della riforma, in Migranti la gestione dei flussi migratori: verso la revisione del trattato di Dublino, a cura di F. Roberti, Guida ed. 2019.
[2] E. Schlein, op. loc. cit.
[3] https://temi.camera.it/leg19DIL/post/19_nuovo-patto-sulla-migrazione-e-l-asilo.html
[4] ART 80 TFUE
[5] Cfr. P. Cassarino, Readmission, Visa Policy and the “Return Sponsorship” Puzzle in the New Pact on Migration and Asylum, in ADiM Blog, 30 novembre 2020.
Giustizia Insieme e la riforma Cartabia: gli approfondimenti della dottrina (penale e procedura penale) - Editoriale
Proseguono le iniziative della nostra rivista sulla riforma Cartabia.
Come si è già osservato in precedenza, rispetto a quelle che hanno preso il nome dei due precedenti Ministri della Giustizia, il testo che porta il nome dell’ex Ministro Marta Cartabia appare connotata da una inedita pervasività, poiché investe il diritto civile e processuale civile, quello penale e processuale penale nonché le norme ordinamentali.
Per quanto riguarda il settore penale, essa modifica – in più punti ed a volte in maniera profonda – ogni aspetto del processo, dal momento di apertura del procedimento penale alla fase successiva al passaggio in giudicato della sentenza, oltre ad incidere su alcuni rilevanti aspetti di diritto sostanziale.
Tocca inoltre il rapporto tra sanzioni ed esecuzione delle medesime, alcuni dei contrappesi esistenti tra le parti del processo, il senso stesso della sanzione penale affiancandole per la prima volta i percorsi (vedremo quanto accidentati) della giustizia riparativa; sancisce l’inizio dell’era del processo penale telematico.
In altri termini, si propone di modificare radicalmente il panorama in cui gli operatori del diritto si trovano ad operare, per di più facendolo “in corsa” e senza una parallela riforma strutturale e di organico della magistratura, che prevedibilmente soffrirà nell’affrontare le modifiche in una situazione di drammatica scopertura di organico.
I temi di discussione e gli spunti di approfondimento sono dunque numerosi e hanno richiesto una risposta multilivello.
Dopo una prima analisi dell’impianto della riforma, con lo scritto di Giorgio Spangher pubblicato il 6 settembre del 2022 e intitolato “La riforma Cartabia: alcuni fils rouge”, si è imposto all’indomani dell’entrata in vigore della riforma un approfondimento su un aspetto particolarmente controverso e di immediato impatto.
L’articolo, scritto da Andrea Apollonio su “Il regime intertemporale della rinnovazione degli atti in caso di mutamento del giudice nella riforma Cartabia”, è stato pubblicato il 21 ottobre 2022.
A seguire, il 28 ottobre 2022, è stato pubblicato l’articolo di Giuseppe Amara dal titolo “Riforma Cartabia. Principali questioni sul tappeto relative alla modifica del regime di procedibilità”.
Sono poi state pubblicate, nei giorni precedenti, ben 18 schede tematiche redatte dai giudici dellla Sezione penale del Tribunale di Vicenza diretta da Lorenzo Miazzi in cui sono state esposte in modo sintetico le modifiche principali apportate al Codice penale e di procedura penale ed indicate le possibili criticità applicative.
L’ultima serie di riflessioni che Giustizia Insieme dedica alla riforma riguarda sei articoli che usciranno a cadenza settimanale in cui saranno trattati in modo approfondito gli aspetti più rilevanti della riforma, distinti per fase processuale che in partilare approfondiranno:
1. Le modifiche in tema di indagini preliminari
2. Il sistema sanzionatorio e i rapporti tra cognizione ed esecuzione
3. La giustizia riparativa
4. L’applicazione delle sentenze CEDU
5. Dibattimento e procedimenti speciali
6. Impugnazioni.
Inauguriamo oggi questa ultima parte dei nostri approfondimenti con l’articolo della professoressa Roberta Aprati su “le nuove indagini preliminari”.
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