ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
A proposito della bozza Alito: l’aborto è «una grave questione morale» e non un diritto costituzionale*
di Giovanna Razzano, Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università La Sapienza di Roma
[Per l’introduzione al tema si rinvia all’Editoriale]
*Nel pomeriggio del 24 giugno (ora europea) è stata pubblicata la sentenza Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, il cui testo corrisponde puntualmente alla bozza Alito, fatta salva la presenza, in calce, della concurring opinion di Thomas e di quella di Kavanaugh; della concurring opinion in the judgment di Roberts e della dissenting opinion di Breyer, Sotomayor e Kagan. Nel testo della sentenza, inoltre, sono state inserite le risposte alle argomentazioni addotte, nelle rispettive opinions, dai giudici dissenzienti e da Roberts (pagg. 35-39 e pagg. 69-77).
Sommario: 1. Il trafugamento della bozza Alito e il suo contenuto - 2. Il Quattordicesimo Emendamento non conferisce rango costituzionale a qualsiasi diritto non espresso - 3. La privacy, la differenza fra l’aborto e le altre libertà e la fedeltà al testo - 4. Lo stare decisis, le donne e il paternalismo - 5. La bozza Alito raffigura per certi versi un avvicinamento al modello italiano.
1. Il trafugamento della bozza Alito e il suo contenuto
Il trafugamento e la pubblicazione di una bozza riservata concernente un giudizio pendente dinanzi alla Corte Suprema degli Stati Uniti, lo scorso 2 maggio 2022, è un fatto senza precedenti ed è tanto più grave quanto più si consideri la questione sottesa. In gioco c’è, infatti, la questione di costituzionalità di una legge statale in materia di aborto (Mississippi’s Gestational Age Act), la quale, anziché conformarsi alla precedente decisione costituzionale Roe v. Wade del 1973 - la quale ha sancito il diritto costituzionale di abortire fino al sesto mese di gravidanza, vietando ai legislatori statali di limitare questa possibilità[1] - proibisce l’aborto oltre la quindicesima settimana di gestazione, salvo casi di emergenza medica o di grave anomalia fetale.
Il Presidente della Corte John G. Roberts ha qualificato la fuoriuscita del documento riservato - la draft opinion del Justice Samuel Alito - come un affronto alla Corte stessa, assicurando che non ne pregiudicherà in nessun modo il lavoro; ha ordinato un’inchiesta e ha confermato, inoltre, che l’opinione del giudice costituzionale è autentica, pur se si tratta appunto di una bozza, ossia di un testo che non esprime né una decisione della Corte, né la posizione finale di nessuno dei suoi componenti[2].
Naturalmente l’episodio è bastato a riaccendere la già focosa discussione sull’aborto[3], che la bozza Alito qualifica sia in apertura, sia conclusivamente, come «una grave questione morale» (a profound moral issue). Una questione - si legge fin dalle prime righe della draft opinion - che divide gli americani fra quanti ritengono che la persona umana abbia inizio con il concepimento, per cui l’aborto pone termine ad una vita innocente; fra quanti ritengono che, invece, una regolazione dell’aborto limiti il diritto delle donne sul proprio corpo e impedisca loro di raggiungere la piena uguaglianza; e fra quanti ritengono che l’aborto debba essere permesso in alcune circostanze e con alcuni limiti, rispetto ai quali si distinguono ulteriori posizioni. Esiste insomma un quadro variegato di opinioni, che si rispecchia, peraltro, negli orientamenti dei rappresentanti politici, come dimostra l’esito della votazione avvenuta al Senato lo scorso 12 maggio 2022, laddove più della metà dei senatori ha rigettato la proposta di legge federale (Women’s Health Protection Act) volta a statuire un ampio diritto di aborto[4].
Al riguardo, prima di interrogarsi sugli elementi di novità che tutto ciò potrebbe portare al dibattito, anche nel nostro Paese, sembra doveroso considerare i contenuti della draft opinion, che per verità in pochi sembrano aver letto. Il lungo documento (98 pagine, che includono due appendici storiche), infatti, non entra nel merito della «grave questione morale» - ossia non preferisce le posizioni pro life a quelle pro choice, né dichiara incostituzionali le leggi permissive dell’aborto - ma consiste, piuttosto, in un’articolata dissertazione di carattere giuridico nella quale si confuta il fondamento costituzionale del diritto di aborto, affermato dalla sentenza Roe, e si dichiara che, in base alla Costituzione americana, compete piuttosto agli Stati e non alla Corte Suprema disciplinare la materia, trattandosi di scelte politiche che attengono al bilanciamento di interessi, che spettano ai legislatori sulla base del mandato elettorale e delle valutazioni dei cittadini e delle cittadine.
Le conclusioni che se ne traggono sono fondamentalmente quattro: l’aborto non è un diritto costituzionale fondamentale[5]; la sentenza Roe - come la successiva sentenza Casey - è clamorosamente errata (egregiously wrong) e rappresenta un abuso di potere giudiziale (abuse of judicial authority)[6]; tale precedente giurisprudenziale, pur tenendo conto dei principi dello stare decisis, può e deve essere annullato (overruled)[7]; la competenza, in tema di aborto, torna agli elettori e ai loro rappresentanti (the authority to regulate abortion must be returned to the people and their elected representatives)[8].
Quanto alla valutazione costituzionale delle norme che i legislatori potranno adottare in materia - in concreto, con riguardo alla legge del Mississippi, oggetto del giudizio - la Supreme Court afferma di non poter sostituire le proprie valutazioni a quelle delle assemblee rappresentative, ma solo di poter accertare, sul piano razionale (rational basis review), se vi siano interessi statali legittimi per legiferare[9], che nel caso risultano essere: il rispetto per la vita prenatale ad ogni livello di sviluppo, la protezione della salute e della sicurezza della madre, l’eliminazione di procedure mediche orribili o barbare, la preservazione dell’integrità della professione medica, la mitigazione del dolore fetale, la prevenzione di discriminazioni sulla base della razza, del sesso o della disabilità. Per la Corte si tratta di interessi che legittimano l’intervento del legislatore statale, per cui la Mississippi’s Gestational Age Act supera il vaglio di costituzionalità[10].
La draft opinion presenta quindi profili di interesse sia con riguardo alla questione dell’aborto, su cui va registrato un approccio sicuramente diverso dal passato, sia con riguardo al principio democratico e agli stessi principi del costituzionalismo, poiché coinvolge i temi della sovranità popolare, della rappresentanza, della competenza a ponderare interessi confliggenti, dei limiti del potere giudiziale, e di quello dei giudici costituzionali in particolare, in un quadro costituzionale di equilibrio fra diversi poteri. Ove la bozza si traducesse in sentenza, peraltro, si tratterebbe della decisione di una Corte costituzionale di un ordinamento di common law - tra l’altro la Supreme Court of the United States - che, rispetto ad «una grave questione morale», qualifica così erroneo un suo precedente giurisprudenziale, da dover superare lo stare decisis.
Sembra importante, quindi, esaminare ulteriormente i contenuti della bozza.
2. Il Quattordicesimo Emendamento non conferisce rango costituzionale a qualsiasi diritto non espresso
Il percorso argomentativo della draft opinion muove dalla constatazione per cui l’aborto, per i primi 185 anni dall’adozione della Costituzione americana, è stato disciplinato dagli Stati americani e dalle rispettive assemblee elettive. Un «processo democratico» che viene troncato nel 1973, quando la sentenza Roe v. Wade della Corte Suprema afferma l’esistenza di un diritto costituzionale di aborto, pone fine alla possibilità degli Stati di legiferare in materia[11] e introduce una dettagliata disciplina basata sui trimestri di gestazione[12]; criterio poi integrato da quello della successiva sentenza Casey, secondo cui nessuna norma deve comportare un ingiusto peso (undue burden) per la donna che intende abortire[13].
Occorre notare, per inciso, che sul piano processuale le controparti dello Stato del Mississippi - ossia i respondents (Jackson Women Organizations et al.) e il Solicitor General - hanno chiesto alla Corte Suprema di confermare o di annullare Roe e Casey, senza mezze misure[14], poiché non dichiarare incostituzionale la legge del Mississippi che vieta l’aborto oltre la quindicesima settimana di gestazione equivarrebbe comunque ad annullare Roe e Casey[15].
La bozza Alito sceglie di annullare le due sentenze, demolendo l’impalcatura interpretativa creata dai giudici della sentenza Roe, ossia l’assunto secondo cui il diritto alla privacy includerebbe il diritto di aborto in ragione di alcuni Emendamenti, in particolare del Quattordicesimo[16]. Per la bozza Alito si tratta di un’operazione ermeneutica illegittima. Infatti, né il diritto di aborto, né quello alla privacy sono esplicitamente garantiti dalla Costituzione americana, mentre il Quattordicesimo Emendamento non conferisce un rango costituzionale a qualsiasi diritto non espresso. Tale qualità, infatti, può essere riconosciuta, in base agli standard della stessa giurisprudenza della Corte[17], solo a quei diritti profondamente radicati nella storia e nella tradizione della Nazione, nonché racchiusi nel concetto di libertà ordinata (any such right must be “deeply rooted in this Nation’s history and tradition” and “implicit in the concept of ordered liberty).
La bozza mostra quindi come, fino alla seconda metà del XX secolo, un diritto costituzionale di aborto fosse del tutto sconosciuto al diritto americano e come, al momento dell’adozione del Quattordicesimo Emendamento, nel 1868, l’aborto fosse, all’opposto, un reato per i tre quarti degli Stati americani[18]. Dall’analisi del common law, emerge poi come l’aborto fosse espressamente punito come crimine da quando fosse percepibile il movimento del bambino nel grembo materno (c.d. quickening), ossia dalla sedicesima/diciottesima settimana[19], mentre, con riguardo alle settimane gestazionali precedenti, fonti dottrinali e giurisprudenziali attestano come fosse comunque considerato una pratica illegittima e non come un diritto. A partire dal XIX secolo, fra l’altro, ogni riferimento al quickening divenne irrilevante, perché il Parlamento britannico, nel 1803, qualificò l’aborto come un crimine in ogni stadio della gravidanza, seguito dalla maggioranza degli Stati americani[20]. Anche in seguito, fra il 1850 e il 1919, quando altri Stati si unirono alla Federazione, l’orientamento prevalente continuò ad essere quello di considerare l’aborto un crimine[21], cosicché, quando fu pronunciata la sentenza Roe, due terzi degli Stati americani punivano chiunque procurasse un aborto, qualsiasi fosse lo stadio di gravidanza, salvo in caso di pericolo di vita per la madre, mentre un terzo lo regolava comunque in maniera più restrittiva della disciplina dettata dalla sentenza stessa[22].
La conclusione è che l’aborto non è un diritto radicato nella storia americana, come invece affermarono Roe e Casey e vorrebbe, in questa occasione, il Solicitor General[23]. Né è accoglibile, secondo Alito, l’obiezione, pure avanzata da alcuni amici curie (brief for Amici Curiae American Historical Association and Organization of American Historians), secondo cui il divieto di aborto, sancito dalle leggi statali precedenti alla Roe, troverebbe la sua spiegazione non già nella consapevolezza che con esso si uccide la vita di un essere umano, ma in una ragione di politica demografica: il timore che le donne immigrate cattoliche, contrarie a questa pratica, avrebbero avuto più figli delle protestanti, ove a queste ultime fosse stato liberamente permesso l’aborto. Secondo questa teoria, insomma, gli Stati americani avrebbero vietato l’aborto solo per ragioni di opportunità, considerandolo in realtà legittimo, potendosi così avvalorare la tesi che l’aborto sarebbe un diritto radicato nella storia americana[24].
La draft opinion esclude infine che l’aborto possa dirsi protetto dal XIV Emendamento non solo inteso quale Due Process Clause, ma anche quale Equal Protection Clause, con riguardo, dunque, al tema delle discriminazioni in ragione del sesso. Osserva infatti la bozza che il fatto che la disciplina dell’aborto e le norme volte a prevenirlo riguardino una procedura di cui solo le donne possono avvalersi, non implica un’odiosa discriminazione basata sul sesso, tale da richiedere uno scrutinio specifico sotto questo profilo[25].
Prima di concludere, la draft opinion chiarisce che l’annullamento delle sentenze Roe e Casey non significa che il Quattordicesimo Emendamento non tuteli in assoluto diritti non menzionati in Costituzione, poiché la decisione attiene solo all’aborto e non ad altri diritti[26]. Si afferma, infine, che la Corte Suprema non ha il potere di decretare che, a causa dei principi dello stare decisis, un precedente errato debba rimanere per sempre esente da una revisione[27]. Tanto più che 26 Stati hanno chiesto alla Supreme Court di annullare Roe e Casey e di restituire la parola ai rappresentanti eletti[28].
3. La privacy, la differenza fra l’aborto e le altre libertà e la fedeltà al testo
Nella lunga motivazione possono individuarsi tre filoni argomentativi, tanto più interessanti, quanto più di carattere logico-giuridico.
Si tratta, in primo luogo, dei punti in cui la bozza Alito si sofferma sul diritto alla privacy o, con le parole della sentenza Casey, sul concetto di libertà come “diritto di individuare il proprio concetto di esistenza, di senso, di universo e di mistero della vita umana” (un’accezione del right to privacy - precisa la bozza Alito - che va distinta da quella consistente nel diritto alla riservatezza dei dati e nel diritto di adottare decisioni personali senza l’interferenza dei pubblici poteri[29]). Al riguardo si osserva che se è vero che c’è la più ampia libertà di pensare e di dire - in merito all’universo, alla vita, etc. - quello che si vuole, tale ampia libertà non si estende anche al piano del fare, perché il concetto giuridico di “libertà ordinata” prevede un bilanciamento fra interessi contrapposti (boundary between competing interests) [30]. L’osservazione è poi utile a concludere che questi interessi possono essere differentemente valutati e che pertanto spetta agli elettori ponderarli[31].
Si assiste, in tal modo, ad una razionalizzazione e ad una de-ideologizzazione del concetto di privacy; al suo sgonfiamento, in altri termini, che viene compiuto con una punta di spillo, ossia con un ragionamento logico elementare: in un ordinamento giuridico non c’è l’assoluta libertà di fare secondo le proprie opinioni sul mondo e sulla vita, come la prospettiva del diritto del lavoro evidenzia in modo palese[32]. Ove confermato dalla sentenza definitiva, questo passaggio relativo alla privacy, che riconduce le libertà sul campo reale degli interessi di tutti i soggetti coinvolti, nel quadro di un ordinamento giuridico costituzionale, non potrà verosimilmente non avere le sue ricadute in Europa, dove la privacy ha parimenti rappresentato - e rappresenta - il riferimento per l’edificazione di ogni “nuovo diritto”, come mostra la pletora di ricorsi alla Corte di Strasburgo basati sull’art. 8 CEDU, considerato una specie di Grundnorm per tutte le istanze iper-liberali e anti-paternaliste, refrattarie ad ogni “ingerenza” dei pubblici poteri.
In secondo luogo, la bozza Alito osserva come un conto sono i diritti di libertà che si risolvono in una sfera tutta individuale o consensuale (come sposarsi con chi si vuole, incluso persone dello stesso sesso, ottenere contraccettivi, educare come si crede i propri figli, etc. - tutte libertà citate da Roe e Casey), altro conto è l’aborto. Questa procedura, infatti, a differenza delle altre libertà, implica, a seconda dei punti di vista, la distruzione di una “vita potenziale” o di “un essere umano ancora non nato”, ossia coinvolge un altro essere[33]. Ѐ questo l’elemento che caratterizza la questione morale posta dall’aborto, a prescindere dal fatto che si consideri il feto “vita potenziale” o “essere umano ancora non nato”[34]. Un’osservazione non priva di fondamento razionale, al pari della conseguente qualificazione dell’aborto come «grave questione morale».
Quanto al terzo filone argomentativo, si tratta di quella che potrebbe definirsi la questione metodologica ed ermeneutica. Afferma la bozza Alito, non senza una punta di ironia, che nel valutare quali libertà rientrino sotto la protezione del Quattordicesimo Emendamento, i giudici costituzionali debbono guardarsi dalla naturale tendenza umana a confondere quello che l’Emendamento effettivamente garantisce con ciò che è invece l’ardente desiderio di ognuno circa la libertà di cui gli americani dovrebbero godere[35]. Traspare qui un chiaro approccio “originalista”, peraltro affine all’ermeneutica elaborata, in ambito europeo, da Emilio Betti, basata su di un metodo scientifico aderente all’oggettività del testo, che esige dall’interprete un’analisi storica e tecnica, senza l’influenza di prevenzioni dottrinarie, nella convinzione che il testo ha una sua verità storica, un significato che l’interprete è tenuto a ricavare e non ad attribuire[36], come pure Hans-Georg Gadamer ebbe a dire[37]. La bozza Alito richiama, sul punto, una dissenting opinion di Justice White, per cui le sentenze che trovano nella Costituzione principi o valori che non possono ragionevolmente essere letti nel testo, usurpano la competenza del popolo[38]. Sullo sfondo si intravede, soprattutto, l’originalismo di Justice Scalia, per il quale la concretizzazione dei valori non spetta al giudice ma al legislatore; compito del giudice, piuttosto, è ricercare il significato della disposizione così come inteso al momento in cui fu adottata dai costituenti o dai legislatori, mentre è precluso al giudice, in base al principio democratico, riscrivere la Carta fondamentale sulla base delle sue opinioni individuali sul giusto e sul vero[39]. Tutte questioni che sono di grande interesse anche dalle nostre parti[40]. Al riguardo occorrerebbe domandarsi, fra l’altro, se quanto sostenuto dalla bozza Alito sulla scorta di importanti precedenti (un diritto non espressamente menzionato dalla Costituzione può riconoscersi come fondamentale ove risulti profondamente radicato nella storia e nella tradizione della Nazione, nonché implicito nel concetto di libertà ordinata) possa assimilarsi alla tesi, autorevolmente sostenuta nell’ambito della dottrina italiana, per cui il carattere fondamentale di un diritto non scritto è attribuibile a quelle consuetudini culturali di riconoscimento che attengono a bisogni elementari dell’uomo, il cui appagamento è condizione di una esistenza libera e dignitosa[41]. Una questione di spessore, che ci si limita qui a delineare, e che merita approfondite riflessioni.
4. Lo stare decisis, le donne e il paternalismo
Vanno poi segnalati due aspetti di rilievo, che attengono al processo costituzionale e alla ricaduta della decisione sulla condizione femminile.
Il primo attiene alla dottrina dello stare decisis[42], cui la bozza Alito riconosce un ruolo considerevole ma non assoluto. Si nota come alcune delle decisioni storicamente più significative della Supreme Court abbiano comportato proprio l’overruling di un consolidato indirizzo giurisprudenziale opposto, come nel caso della segregazione razziale[43] e della riduzione di talune libertà economiche a vantaggio di misure di welfare[44]. Annullare Roe e Casey, per la bozza Alito, è quindi ammissibile in base a cinque ragioni: la grave erroneità; la qualità della loro motivazione (eccezionalmente debole e carente[45]); la difficile applicazione uniforme delle regole imposte (specialmente l’«undue burden» della Casey); il loro effetto dirompente su altre aree del diritto[46]; l’assenza di un concreto affidamento[47].
Quanto a quest’ultimo aspetto, la bozza Alito, richiamando quanto affermato proprio dalla sentenza Casey, ribadisce che non può esserci un legittimo affidamento per l’aborto, che è un fatto imprevisto (unplanned activity)[48], non pianificato. Con riguardo poi all’affidamento sociale, ossia alle ricadute che una modifica della disciplina dell’aborto potrebbe avere sulla condizione femminile, la relativa ponderazione è un giudizio di natura politica, che spetta come tale agli elettori, alle elettrici e ai loro rappresentanti, ma non ai giudici costituzionali. Le donne americane - osserva la draft opinion - non sono prive di potere politico ed elettorale e potranno contribuire ad influenzare la legislazione. Proprio nello Stato di Mississippi - si osserva - le donne sono la maggioranza dei votanti[49].
Questo passaggio merita attenzione. Non pare irrilevante, infatti, che la Mississippi’s Gestational Age Act sia stata proposta e sostenuta da parlamentari donne, come rimarca il parere denominato Brief for Women Legislators and the Susan B. Anthony List as Amici Curiae supporting Petitioners[50]. Né è trascurabile il dato per cui le donne americane siano tutt’altro che uniformemente schierate per la libertà di aborto, come emerge da un altro parere amici curiae, il Brief of 240 Women Scholars and Professionals, and Prolife Feminist Organizations in Support of Petitioners. Al contrario, è proprio la presenza delle donne nelle istituzioni rappresentative, mai così alta come negli ultimi anni, che avrebbe influenzato i processi democratici portando in diversi Stati ad una riconsiderazione della disciplina in tema di aborto; anche per questo la Supreme Court dovrebbe rimettere la questione alla competenza delle assemblee elettive, dove le donne sono rappresentate[51]. Inoltre, la sentenza Roe, che si è auto-assegnata la competenza sull’aborto («self-awarded sovereignty over abortion»)[52], sarebbe caratterizzata da un atteggiamento paternalista nei confronti degli Stati della Federazione («driven by that very kind of paternalism»), non consentito dalla Costituzione[53].
Le donne, insomma, non hanno bisogno della Corte Suprema per difendere diritti e interessi, ma di poter valutare e decidere direttamente nelle sedi appropriate. Notevole è altresì che l’accusa di paternalismo provenga, questa volta, non già da prospettive iper-liberali, ma da donne elette nelle assemblee legislative statali che ritengono abusivo il sigillo posto dalla Corte Suprema, nel 1973, ad una delle possibili regolazioni dell’aborto. Il mondo femminile americano si presenta, quindi, plurale. Emerge che sono state le stesse donne ad aver proposto e supportato, in molti Stati, legislazioni limitative dell’aborto; che esistono movimenti femministi pro-life; che esistono donne che accusano di paternalismo e interventismo creativo Roe e Casey. Interessa, soprattutto, che di queste ultime sentenze venga contestato l’assunto centrale: quello secondo cui alle donne sarebbe necessaria la libertà di aborto per poter competere con gli uomini in ambito lavorativo e in tutti i settori[54]. Tale paradigma, al contrario, non avrebbe giovato alla condizione femminile, perché avrebbe relegato la maternità e l’impegno che richiede in un ambito tutto individuale, in cui portare o meno a termine una gravidanza è un problema della donna; con la conseguenza paradossale di aver favorito una mentalità maschilista, secondo cui il lavoratore ideale è il single, senza figli; prototipo che non richiede da parte degli attori, pubblici o privati, dispendiosi assetti lavorativi adatti alle donne con i figli; le quali - si rileva - continuano tuttora ad esser discriminate se madri[55].
Si tratta, a mio avviso, di osservazioni di estremo interesse e meritevoli di attenzione, su cui è possibile discutere e confrontarsi, specie nel differente contesto costituzionale italiano. Qui esiste, infatti, un espresso dovere dei pubblici poteri di proteggere la maternità favorendo gli istituti necessari a tale scopo (art. 31, secondo comma), sottolineato dalla Corte costituzionale proprio nella prima sentenza in tema di aborto (n. 27/1975). Né va dimenticato che la stessa l. n. 194/1978, all’art. 1, esordisce affermando che «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio»[56], mentre esclude che l’aborto possa essere mezzo per il controllo delle nascite. Il tema, pertanto, è il seguente: lo Stato italiano protegge effettivamente la maternità? Le donne sono realmente libere di essere madri? Come interpretare, nella prospettiva femminile, i dati Istat, per cui, a fronte di una fecondità reale in costante calo dal 2010, il numero di figli desiderato resta sempre fermo a due, evidenziando «un significativo scarto tra quanto si desidera e quanto si riesce a realizzare?»[57]
5. La bozza Alito raffigura per certi versi un avvicinamento al modello italiano
Nel tirare le fila, va innanzitutto considerato quanto estremo sia il modello americano di aborto fissato da Roe e Casey, del tutto sbilanciato sulla volontà della donna, che può abortire non solo fino al sesto mese di gravidanza, ma anche oltre; all’opposto dell’uniformità che sarebbe dovuta discendere dalle pronunce costituzionali, il vago criterio dell’undue burden della sentenza Casey ha consentito infatti agli Stati di liberalizzare ulteriormente l’accesso, cosicché alcuni, come quello di New York, permettono l’aborto per tutta la gravidanza, sulla base di condizioni alquanto indefinite[58]. Né va dimenticato che la stessa contestata legge del Mississippi, oggetto del giudizio, permette comunque l’aborto fino alla quindicesima settimana di gestazione, ossia oltre le dodici settimane, ossia i 90 giorni indicati dalla legge italiana[59]; la quale, oltretutto, richiede la sussistenza di determinate condizioni e circostanze[60].
La bozza Alito rappresenta pertanto un avvicinamento della Supreme Court al modello italiano almeno sotto tre profili.
Il primo attiene alla qualificazione dell’aborto, che per la bozza non è (più) un diritto costituzionale. Infatti, non lo è neppure per l’ordinamento italiano, dove né la legge che lo ha legalizzato, né la Corte costituzionale[61] hanno mai qualificato l’aborto come diritto tout court[62]. La mera liceità di un comportamento, d’altronde, non implica la sua assunzione nel novero dei diritti di libertà costituzionalmente tutelati[63]. Il giudice delle leggi, fin dalla sent. n. 27/1975, ha affermato, piuttosto, l’«obbligo del legislatore di predisporre le cautele necessarie per impedire che l’aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire la gestazione»[64]. E la l. n. 194/1978, da parte sua, prevede misure per prevenire ed evitare l’aborto, indicando che i consultori familiari assistano la donna in stato di gravidanza «contribuendo a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza» (art. 2, lett. d) e trovino «le possibili soluzioni dei problemi proposti», aiutandola a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza e promuovendo ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna (art. 5, comma 1). Un assetto, questo, che pare coerente con la definizione di aborto come «grave questione morale», piuttosto che come «diritto», la cui nozione non è compatibile con l’impegno dell’ordinamento per prevenirlo, evitarlo e rimuovere le cause che portano a richiederlo. I diritti non si prevengono. Va aggiunto che il medico, ai sensi della legge, può rilasciare il certificato di cui all’art. 5 della legge «sulla base delle circostanze di cui all’art. 4», cosicché non può dirsi che nel nostro ordinamento, a differenza di altri (dove il certificato è rilasciato su semplice richiesta da un impiegato amministrativo)[65], vi sia l’aborto on demand per i primi 90 giorni[66]. Il diritto di abortire si configura, quindi, solo in un secondo momento, una volta ottenuto il certificato, a fronte del quale vi è il dovere da parte delle strutture regionali, pubbliche o convenzionate, di eseguirlo, con il conseguente obbligo del personale sanitario di realizzarlo, salva l’obiezione di coscienza. Quanto a quest’ultima, pare importante sottolineare che, da un lato, trova la sua giustificazione in un diritto costituzionale fondamentale - quello alla vita - e non già in una mera ragione di coscienza individuale o privata[67]; dall’altro, non ha rappresentato[68] né rappresenta[69] un ostacolo all’accesso all’aborto, come si vuole far credere.
In secondo luogo, la bozza Alito ritiene che sia interesse legittimo degli Stati intervenire, in materia, per ponderare e disciplinare una pluralità di interessi. Di fronte alla volontà della donna, infatti, non c’è più, solo, una “vita potenziale” (la potential life della sentenza Roe), ma anche la protezione della vita prenatale ad ogni livello di sviluppo, l’eliminazione di procedure mediche orribili o barbare[70], la mitigazione del dolore fetale, la preservazione dell’integrità della professione medica. Analogamente la Corte costituzionale italiana, fin dalla sent. n. 27/1975, ha posto in luce una serie di “interessi”: oltre alla vita e alla salute della donna (la sua privacy e la sua libertà di scelta non sono menzionate), vi è infatti la protezione della maternità, nonché «la tutela del concepito», che ha «fondamento costituzionale» ed è da annoverare fra i diritti inviolabili dell’uomo, «sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie»[71]. Inoltre, non è possibile l’abrogazione di quelle parti della l. n. 194/1978 che rappresentano «il livello minimo di tutela necessaria dei diritti costituzionali inviolabili alla vita, alla salute, nonché di tutela necessaria della maternità, dell’infanzia e della gioventù» (sent. 35/1997)[72]. Quanto alla tutela della vita «fin dal suo inizio», tale sentenza ha precisato che si tratta di un diritto da iscriversi tra quelli inviolabili, cioè «tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata in quanto appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana».
In terzo luogo, infine, la bozza Alito rimette la questione dell’aborto alla competenza del legislatore, allineandosi, anche sotto questo profilo, all’Italia e alla maggior parte dei Paesi nel mondo, dove l’aborto è disciplinato da leggi e non da sentenze[73].
Della disciplina italiana, a conclusione di queste note, sembra di dover mettere in luce, in una prospettiva costituzionale, quel nucleo che la Corte, nella sent. n. 35/1997, ha appunto qualificato «a contenuto normativo costituzionalmente vincolato». Interessa, in particolare, quanto previsto dall’art. 5 della l. n. 194/1078, le cui disposizioni si incentrano sul concetto di aiuto alla donna da offrirsi nel momento in cui accede al colloquio di cui ai commi 1 e 2. Si tratta dell’approccio sociale e giuridico al problema dell’aborto, «la cui attuazione - secondo un giudizio ampiamente condiviso - è rimasta insufficiente», come affermava il Comitato Nazionale di Bioetica quasi vent’anni or sono[74]; così come la percettibilità, nel nostro Paese, di un clima positivo, di simpatia e disponibilità solidaristica, verso la gravidanza in atto[75]. Si suggeriva, fra l’altro, «una seria progettazione» delle modalità con cui venga svolto il colloquio con la donna per ciò che attiene all’aiuto sociale, psicologico ed economico, ricercando in concreto, come la legge richiederebbe, «le possibili soluzioni dei problemi e (…) offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto»[76].
Si tratta di indicazioni tuttora valide, specie a fronte del sempre maggiore ricorso all’aborto farmacologico, sia perché riferibili a quel nucleo costituzionalmente necessario, sia perché le donne rischiano di essere lasciate sempre più sole con i loro problemi e le loro scelte. Del resto, occorre domandarsi, quali diritti e quali libertà verrebbero lesi, ove una donna, a motivo dell’aiuto efficace e concreto delle istituzioni e della società, decidesse, anziché di abortire, di tenere il suo bambino?
Penso che sia questa la domanda cruciale da cui ripartire per una proficua discussione pubblica sulla «grave questione morale» che l’aborto pone.
[1] La sentenza Roe, dopo aver distinto la gestazione in tre trimestri, ha statuito che, nel primo, gli Stati USA non sono abilitati a disciplinare l’aborto, che rimane nella completa disponibilità del medico e della gestante; nel secondo trimestre, gli Stati possono intervenire con una disciplina funzionale alla salute della donna che abortisce, ma non tutelare il nascituro; nel terzo trimestre, poiché vi sarebbe la vitalità (viability) del feto, ossia la sua possibilità di vita autonoma fuori dall’utero materno, gli Stati possono legittimamente avere interesse anche a tutelare la vita del nascituro. In seguito, la c.d. sentenza Casey (1992) ha poi diffidato gli Stati dall’adottare norme che rappresentino un ingiusto peso (“undue burden”) per una donna che intende esercitare il suo diritto ad ottenere all’aborto.
[2] Cfr. https://www.supremecourt.gov/publicinfo/press/pressreleases/pr_05-03-22 Singolare appare quindi la risoluzione adottata il 9 giugno scorso dal Parlamento europeo, il quale, dicendosi preoccupato per le conseguenze che una futura sentenza della Supreme Court USA potrebbe avere per i diritti delle donne, incoraggia fortemente il governo degli Stati Uniti a rimuovere tutti gli ostacoli ai servizi di aborto. La risoluzione, infatti, - priva di valore giuridico - non solo si riferisce ad una bozza illegalmente trafugata, riferibile ad una sentenza non pubblicata del tribunale costituzionale di uno Stato esterno alla UE, ma entra nel merito di un ambito - l’aborto - che non è neppure di competenza delle istituzioni comunitarie.
[3] Al momento la sede della Supreme Court è stata recintata e le autorità pubbliche sono dovute intervenire per proteggere l’incolumità dei giudici costituzionali.
[4] Per l’approvazione della legge - caldeggiata dai democratici, nonché dal Presidente Biden - occorrevano i voti di 60 senatori, ma il provvedimento ne ha ricevuti solo 49, mentre 51 sono stati i voti contrari (tutti i repubblicani oltre al senatore Dem Joe Manchin).
[5] Cfr. bozza Alito, p. 65.
[6] Ivi, pp. 6, 40.
[7] Ivi, pp. 5, 35, 42, 52, 62, 63, 64, 65.
[8] Ivi, pp. 2, 6, 34, 40-41, 64, 65, 67.
[9] Ivi, p. 66: «It must be sustained if there is a rational basis on which the legislature could have thought that it would serve legitimate state interests». La sent. Roe aveva infatti negato l’esistenza di interessi statali legittimi per legiferare (primo trimestre) o li aveva fortemente limitati (nessuna tutela per il nascituro se non dal terzo trimestre di gravidanza).
[10] Ibidem.
[11] Al momento della sentenza Roe, 30 Stati vietavano l’aborto in ogni stadio di gravidanza, salvo che in caso di pericolo per la vita della madre (bozza Alito, p. 24).
[12] Cfr. nota 1.
[13] Bozza Alito, p. 4.
[14] Brief for Respondents, p. 43 e 50.
[15] Bozza Alito, p. 5.
[16] Ivi, p. 9.
[17] Ivi, p. 13, dove si citano Washington v. Glucksberg, 521 U. S. 702, 721 (1997) e, in seguito (p. 12 ss.), Timbs v. Indiana, 586 U.S. (2019); McDonald, 561 U. S., at 764; Collins v. Harker Heights, 503 U. S. 115,125 (1992).
[18] Ivi, p. 5.
[19] Ivi, p. 16 ss.
[20] La relativa documentazione nell’Appendice A.
[21] Ulteriori riferimenti nell’Appendice B.
[22] Bozza Alito, p. 24.
[23] Ivi, p. 27, on ulteriori riferimenti.
[24] Ivi, pp. 28-29.
[25] Ivi, pp. 10-11. Sarebbe del resto come sostenere che i protocolli di prevenzione del tumore al seno, poiché riguardano le donne, esigono uno stretto scrutinio sotto il profilo della discriminazione in base al sesso.
[26] Ivi, p. 62.
[27] Ivi, p. 64.
[28] Ivi, p. 61.
[29] Ivi, p. 45.
[30] Ivi, pp. 30, 45.
[31] Ivi, pp. 33-34.
[32] Nella recente giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, un ragionamento analogo si rinviene nella sent. n. 141/2019.
[33] Ѐ interessante ricordare che il Tribunale costituzionale tedesco, nella sentenza del 27 febbraio 1975, considerò il concepito il soggetto debole da tutelare e ritenne impossibile un compromesso fra la sua vita, da un lato, e la libertà della gestante di interrompere la gravidanza, dall’altro, dal momento che l’aborto implica un annientamento della vita del nascituro.
[34] Ivi, p. 32.
[35] Ivi, p. 13.
[36] E. BETTI, Teoria generale dell’interpretazione, II, Milano, 1955, 795-798; ID., L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, con saggio introduttivo di G. Mura, Roma, 1987, p. 64. Sul canone dell’autonomia dell’oggetto nell’ermeneutica bettiana, G. CRIFÒ, Emilio Betti, In memoriam, Milano, 1968, 298 (estratto da BIDR, 3° serie, vol. IX).
[37] Cfr. H.G. GADAMER, Verità e metodo (1960), Milano, 1983, 316.
[38] Bozza Alito, p. 41.
[39] Cfr., fra i numerosi scritti, A. SCALIA- B.A. GARNER, Reading Law: The Interpretation of Legal Texts, St. Paul, MN, Thomson/West, 2012; interessante pure ID., La mia concezione dei diritti, Intervista di Diletta Tega ad Antonin Scalia, in Quaderni cost., 3/2016, p. 671.
[40] Ci si limita a segnalare AA.VV, Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, a cura di R. ROMBOLI, Torino 2017 e A. RUGGERI, Il futuro dei diritti fondamentali, sei paradossi emergenti in occasione della loro tutela e la ricerca dei modi con cui porvi almeno in parte rimedio, in Consulta online, 1° febbraio 2019, p. 43.
[41] Fra i numerosi scritti dell’A., cfr. A. RUGGERI, Cosa sono i diritti fondamentali e da chi e come se ne può avere il riconoscimento e la tutela, in Cos’è un diritto fondamentale, a cura di V. BALDINI, Atti del Convegno Annuale del Gruppo di Pisa svoltosi a Cassino il 10-11 giugno 2016, Napoli, 2017, p. 337 ss.
[42] Bozza Alito, p. 35.
[43] Brown v. Board of Education.
[44] West Coast Hotel Co. v. Parrish.
[45] Bozza Alito, p. 41.
[46] Ivi, p. 59, dove si afferma, fra l’altro, che le precedenti sentenze della Corte in materia di aborto hanno annacquato il rigore dello standard delle questioni di costituzionalità, i principi della res iudicata, il principio per cui gli Statuti devono essere interpretati in modo da evitare di dichiararne l’incostituzionalità.
[47] Ivi, p. 39 ss., dove si qualifica gravemente carente la motivazione offerta da Roe e Casey, prive di aggancio al testo, alla storia, ai precedenti e alle fonti sulle quali sono solitamente basate le decisioni costituzionali. Del tutto erronea è poi la ricostruzione del common law in tema di aborto, basata su di una fonte dottrinale screditata. Vengono anche ricordati i quattro argomenti della sentenza Roe: 1) il peso degli interessi coinvolti, 2) la lezione e gli esempi della storia della medicina e del diritto, 3) l’orientamento permissivo del common law, e 4) la domanda proveniente dai problemi della società contemporanea. Destituiti di fondamento il secondo e il terzo argomento, altro non resta che una valutazione di opportunità politica, che non può, come tale, che spettare al legislatore. Si osserva, poi, come il criterio della viability, cruciale nella disciplina trimestrale di Roe, è discutibile non solo perché varia a seconda dei progressi della medicina, del luogo, della salute, sia della madre, sia del feto, anche perché arbitrario (così infatti Corte cost. italiana, sent. n. 35/1997, per la quale tutti i nascituri meritano protezione, non solo quelli capaci di sopravvivere fuori dall’utero). Sono poi molti i giuristi - ricorda poi la bozza Alito - anche pro aborto, che hanno criticato la Roe in quanto priva di fondamento.
[48] Bozza Alito, p. 59 ss.
[49] Ivi, p. 61.
[50] Brief for Women Legislators, p. 18. Per i testi dei vari briefs degli amici curiae (più di 140): https://www.scotusblog.com/2021/11/we-read-all-the-amicus-briefs-in-dobbs-so-you-dont-have-to/
[51] Brief for Women legislators, cit., p. 13 ss.
[52] Ivi, p. 21.
[53] Ivi, p. 17.
[54] Brief of 240 women scholars and professional, p. 17 ss.
[55] Ivi, p. 39 ss.
[56] Corsivo mio.
[57] ISTAT, Rapporto annuale 2020 sulla situazione del Paese, p. 262.
[58] Cfr. il Reproductive Health Act, 2019, section 2, art. 25-A, che permette l’aborto oltre il sesto mese non più solo per salvare la vita della madre, ma anche quando il feto non sopravviverebbe fuori dall’utero e l’aborto è necessario per proteggere la vita e la salute della donna («there is an absence of fetal viability, or the abortion is necessary to protect the patient’s life or health»).
[59] Anche la maggioranza degli Stati europei che ha legalizzato l’aborto restringe notevolmente le condizioni di accesso oltre il primo trimestre di gravidanza.
[60] Cfr. art. 4 della l. n. 194/1978.
[61] Cfr. in particolare le sentt. n. 27/1975; 26/1981; 196/1987; 108/1981; 35/1997.
[62] Lo stesso vale sul piano del diritto internazionale. Come conferma la recente Dichiarazione di Ginevra, del 2020, non vi sono trattati internazionali che sanciscano il diritto di aborto, né il dovere da parte degli Stati di promuoverlo o finanziarlo (tali non sono la Convention on the Elimination of Discrimination against Women, 1979; il Rome Statute of the International Criminal Court, 1998; i c.d. documenti del Cairo e di Beijing). La Corte di Strasburgo, da parte sua, nella sentenza A, B & C v. Ireland del 2010, mai smentita dalle pronunce successive, ha affermato che l’art. 8 CEDU, sul diritto alla privacy (o, meglio, all’autonomia), non può essere interpretato in modo da includere il diritto di aborto. Numerosi sono poi i trattati internazionali che impegnano espressamente gli Stati a proteggere la vita del nascituro (ad es. U.N. Convention on the Rights of the Child, 1989, basata sulla Declaration of the Rights of the Child, 1959; The International Covenant on Civil and Political Rights, 1966; The American Convention on Human Rights, 1969).
[63] A. BARBERA, La Costituzione della Repubblica italiana, Milano, 2016, p. 157.
[64] Corsivi miei.
[65] Cfr. ad es. la legge svedese, l’Abortlag del 1974, secondo cui fino alla diciottesima settimana di gravidanza l’aborto è a semplice richiesta e non occorre verificare la presenza di determinate circostanze.
[66] Anche se è vero che l’interpretazione della legge (in particolare il modo di intendere il pericolo per la salute psichica) ha portato verso questa configurazione. Sul punto M. OLIVETTI, Diritti fondamentali, II ed., Torino, 2020, p. 494.
[67] Ne è conferma l’art. 9, comma 5, della stessa l. n. 194/1978, per il quale l’obiezione di medici e ausiliari non è invocabile «quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo».
[68] Il riferimento è ai ricorsi contro l’Italia intrapresi dalla International Planned Parenthood Federation (nel 2012) e dalla CGIL (nel 2013) dinanzi al Comitato europeo per i diritti sociali (organo del Consiglio d’Europa competente a garantire l’effettività della Carta sociale europea da parte degli Stati aderenti), in quanto l’alto numero di medici obiettori non avrebbe assicurato l’accesso all’aborto. La questione si è conclusa con una risoluzione del Comitato dei ministri, il quale - a fronte delle informazioni fornite dal Ministero della salute, che hanno evidenziato che il numero di non obiettori risulta congruo, anche a livello sub-regionale, rispetto alle Ivg effettuate - ha accolto «gli sviluppi positivi» prendendo dunque atto che l’obiezione non provoca una disfunzione nell’applicazione della legge n. 194 e del 1978 (sul punto si veda la Relaz. al Parlamento del Min. della salute sull’attuazione della l. n. 194/1978, 7 dicembre 2016, p. 57).
[69] La conferma proviene dalle relazioni al Parlamento presentate dal Ministero, basate su dati e parametri regionali accuratamente individuati e raccolti, che mostrano che «non sembra essere il numero di obiettori di per sé a determinare eventuali criticità nell’accesso alle Ivg ma probabilmente il modo in cui le Strutture Sanitarie si organizzano nell’applicazione della legge 194/78» (relaz. Min. Speranza del giugno 2020). Quanto agli anni precedenti (dati 2018), risulta che il 15% dei ginecologi non obiettori non è assegnato al servizio Ivg; un dato che conferma che la situazione non è critica.
[70] La Mississippi’s Gestational Age Act osserva infatti come, dopo le 15 settimane di gestazione, le modalità per effettuare l’aborto consistano inevitabilmente in procedure per distruggere il feto che sono “barbare” nonché pericolose per la salute della madre. Peraltro è dal 2003 che gli Stati Uniti hanno bandito l’atroce pratica del partial-birth abortion, rispetto alla quale viene in mente, rispetto all’ordinamento italiano, la l. n. 413/1993, sull’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale, che tutela quanti «si oppongono alla violenza su tutti gli esseri viventi» (art. 1).
[71] Com’è noto, la medesima sentenza ha altresì ritenuto che non ci sia equivalenza fra il diritto alla vita dell’embrione, «che persona deve ancora diventare», e il diritto «non solo alla vita, ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre».
[72] Su cui C. CASINI e M.G. GIAMMARINARO, in Bioetica, 5/1997, p. 425.
[73] Cfr. Center for Reproductive Rights, 2021, https://reproductiverights.org/maps/worlds-abortion-laws/
[74] Così il CNB, Aiuto alle donne in gravidanza e depressione post-partum, 16 dicembre 2005, p. 9.
[75] Ibidem.
[76] Ibidem.
Giustizia Insieme pubblica la relazione annuale dell’Autorità Garante delle Persone Private della Libertà Personale, presentata il 20 giugno 2022 al Senato alla presenza del Presidente della Repubblica.
La relazione, ricchissima di dati e di informazioni, ha come sempre il merito di richiamare gli interlocutori istituzionali - il Parlamento, il Governo nelle sue articolazioni centrali e periferiche e la Magistratura - ai loro compiti di tutela e promozione dei diritti di chi, in una fase più o meno lunga della propria vita e per diversi motivi, subisce una limitazione coattiva o, comunque, non scelta, della propria libertà. Tanti i temi toccati, con rigore e attenzione, da quelli più "classici" dell'esecuzione penale detentiva e delle misure di sicurezza, con il richiamo alle istituzioni perché il percorso delle REMS venga portato a compimento, all'attenzione alle detenute madri ed ai loro figli, passando per la gestione strutturale, e non più emergenziale, della prima accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo, fino alle relativamente nuove questioni poste dalle RSA in epoca pandemica. Un lavoro che, anno dopo anno, disegna un quadro di quanto è stato fatto e quanto è da fare, ed è scritto per accompagnare il lettore nell'anno in corso, sollecitando un impegno duraturo.
https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/pages/it/homepage/pub_rel_par/
L’aborto, il diritto ed il vento della “bozza Alito” della Supreme Court sul piano interno
Editoriale
Giustizia Insieme ha deciso di aprire una riflessione plurale a margine della pubblicazione non autorizzata della bozza di decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti che, qualche mese fa, è stata resa pubblica senza autorizzazione.
La c.d. bozza Alito - dal nome del giudice che ha redatto l’opinione - dalla quale sembrano emergere le linee portanti di quello che si preannunzia come un inaspettato revirement giurisprudenziale rispetto ai precedenti della stessa Corte che avevano riconosciuto il fondamento costituzionale del diritto all’aborto e la carenza di potere legislativo rispetto ad ipotesi di divieto di praticare l’aborto, al netto delle polemiche che ha suscitato e suscita negli Stati Uniti per la fuga di notizie, offre l’occasione, assai importante, di tornare su un tema tradizionalmente divisivo anche sul versante interno, pur caratterizzato da un diritto scritto e vivente ben consolidato.
I piani di riflessione da affrontare sembrano essere molteplici e plurali se si guarda al mondo degli operatori del diritto interno.
Per un verso sembra evidente l’interesse per il preannunciato grand arrêt che, riguardando un tema coinvolgente posizioni giuridiche di particolare valore quali i diritti del concepito e della donna ed il loro bilanciamento impone, già sul piano della comparazione, particolare attenzione.
Ed invero, l’attività di emersione dei diritti fondamentali ed il controllo di legalità in tal modo realizzato sono ormai alimentati dalla comparazione (intesa come strumento di ridefinizione semantica di istituti per effetto dell’apertura del sistema interno al diritto internazionale e sovranazionale) che, in apparenza non codificata, è desumibile dall’apertura della Costituzione – artt. 2, 3, 10, 11, 117, comma 1, Cost. – alle fonti sovranazionali. Tale cornice, in definitiva impone al giudice costituzionale il canone dell’interpretazione secondo tali fonti ma, a cascata, si ripercuote sull’interpretazione delle leggi che sono attuazione dei principi costituzionali da parte del giudice comune. D’altra parte, l’apertura al piano della comparazione data dallo stesso riferimento all’interpretazione sistematica contemplata dall’art. 12 disp. preleggi c.c. costituisce dato ineludibile tanto sul piano interno, per quanto detto, che su quello sovranazionale.
In definitiva, pochi dubitano ormai dell'efficacia e della rilevanza di siffatto metodo, soprattutto laddove si discuta di diritti fondamentali, capace di produrre un moto circolare fecondo quando la stessa traccia quasi inconsapevolmente una strada di comunanza di tutela dei diritti fondamentali.
Proprio sul piano interno e rispetto a temi eticamente sensibili la sentenza Englaro della Cassazione ha confermato come il ricorso al metodo comparatisitico costituisca in modo ormai stabile elemento indefettibile per applicare, interpretare, adattare o completare il diritto nazionale, specialmente quando quel diritto è obsoleto, poco chiaro, contraddittorio o addirittura carente.
Ora, la pronunzia della Corte Suprema anticipata dalla bozza Alito non potrà che inserirsi in questo circuito, pur provenendo da un’esperienza nella quale spesso la comparazione è stata fortemente osteggiata e senza che possa o debba comunque essere tralasciata la necessità di un uso accorto della comparazione, su tali questioni apparendo utile il rinvio alle riflessioni di Guido Calabresi sulle pagine di questa Rivista- cfr. Un’intervista impossibile a Guido Calabresi, di R. Conti -
In questo contesto il prannunziato overruling giurisprudenziale della Corte Suprema rispetto ai precedenti che avevano codificato il diritto all’aborto come inserito nella Costituzione americana - cfr., in particolare, il caso Roe c. Wade e Planned Parenthood c. Casey - ma ancora più a monte come il tema del ruolo della giustizia costituzionale rispetto all’attività interpretativa della Costituzione ed al ruolo del decisore giudice rispetto ai compiti riservati al legislatore, costituzionale e non, costituiscono nodi gordiani ben presenti sul piano interno ed oggi messi al centro di analisi che segnano una contrapposizione, tanto latente quanto insanata, fra diversi sentire a proposito del ruolo e dela funzione della Costituzione, della giurisdizione, dell’interpretazione dei diritti fondamentali e della legittimità e legittimazione verso operazioni di bilanciamento.
A ragionare insieme su questi ed altri temi saranno la Professoressa Giovanna Razzano, ordinario di diritto costituzionale dell’Università La Sapienza di Roma - A proposito della bozza Alito, l’aborto è «una grave questione morale» e non un diritto costituzionale, l’Avvocata del foro di Bologna Maria (Milli) Virgilio, pres. Assoc. GIUdiT-Giuriste d’Italia e la Professoressa Maria Rosaria Marella, ordinaria di diritto privato presso l’Università di Perugia.
Pubblichiamo di seguito il contributo della Professoressa Razzano.
Processo alla vittima: l’omicidio Pasolini
di Giovanni Landi
Sommario: 1. Confessione di un massacro - 2. Fra le baracche di Ostia - 3. La parola alla giustizia - 4. L’Appello e i complotti.
1. Confessione di un massacro
Un’auto contromano a folle velocità. Inizia con una doppia infrazione stradale la storia giudiziaria dell’omicidio Pasolini, un enigma che dura da quasi mezzo secolo. Una vicenda talmente simbolica da sembrare essa stessa un’opera: per la vittima, prima di tutto, intellettuale gigantesco e tormentato; per il presunto colpevole, archetipo umano ed estetico dei «ragazzi di vita», e quindi di un mondo che il poeta aveva disvelato e narrato come nessuno prima; per la collocazione temporale: il giorno dei Morti del 1975, centro esatto degli anni di piombo e del secondo Novecento; infine, per i risvolti processuali, i comprimari, le clamorose rivelazioni e le domande irrisolte.
La corsa illecita di quella macchina è breve. Vedendola sfrecciare sul lungomare Duilio di Ostia, all’1.30 di notte, una volante dei carabinieri la affianca e la blocca. Ma a scendere dal posto di guida non è il proprietario, bensì un diciassettenne di Guidonia di nome Pino Pelosi, tanti riccioli scuri e un viso da furbetto. Sulla fronte ha una piccola ferita, da lui attribuita alla brusca frenata. «L’ho rubata sulla Tiburtina», mente in commissariato. Una bugia che dura poche ore: i militari accertarono che l’Alfa Romeo GT è di Pier Paolo Pasolini, e alle 6.30 di quel 2 novembre 1975 il cadavere dello scrittore viene rinvenuto su una strada sterrata dell’Idroscalo di Ostia, con i segni chiari e visibili di un feroce massacro. È Ninetto Davoli a effettuare il riconoscimento. A tre metri di distanza giace un anello con una pietra rossa: sarà la pistola fumante per inchiodare Pelosi. Dopo l’arresto, infatti, il ragazzo aveva confidato agli agenti di aver perso un anello, pregandoli di cercarlo nella macchina. Quasi una firma dell’assassinio, o una clamorosa ingenuità. A quel punto, il giovane viene svegliato nella sua cella di Casal del Marmo e interrogato dal magistrato Luigi Tranfo. La sua confessione è immediata. Racconta di essere stato «abbordato» dal poeta in piazza dei Cinquecento, di fronte alla stazione Termini di Roma, intorno alle 22.30. Dopo una pausa in trattoria, dove Pelosi aveva consumato una cena tardiva, si erano fermati a un distributore di benzina e avevano proseguito per l’Idroscalo di Ostia, parcheggiando sotto la porta di un campetto di calcio rudimentale, a pochi metri da un nugolo di baracche abusive. Ventimila lire la ricompensa promessa. Al termine di un veloce rapporto orale, però, Pino era sceso dall’auto e la situazione era degenerata. Pasolini aveva preteso altre prestazioni, avvicinandosi al diciassettenne con un bastone: «“Ma che te sei impazzito”, gli dissi. Nel vederlo in viso mi è sembrato con una faccia da matto, tanto che ne ho avuto proprio paura». Il ragazzo aveva tentato di scappare, ma era stato aggredito con il randello di legno, da cui la ferita alla fronte. Aveva provato a correre di nuovo, rimediando altri colpi «alla tempia e in varie parti del corpo». Quindi aveva raccolto da terra una tavola e l’aveva spaccata in testa all’aggressore, senza tuttavia riuscire a fermare la sua smania violenta. «Allora gli ho afferrato i capelli, gli ho abbassato la faccia e gli ho dato due calci in faccia. Il Paolo barcollava, ma ho trovato ancora la forza di darmi una bastonata sul naso. Allora non ci ho visto più e con uno dei pezzi della tavola l’ho colpito di taglio più volte finché non l’ho sentito cadere a terra e rantolare». L’interrogato spiega poi di essere salito sull’Alfa Romeo per tornare a casa. Il magistrato gli riferisce che il poeta, al termine del massacro, era stato addirittura sormontato dall’auto in fuga. Il giovane nega di averlo fatto volontariamente, e conclude: «Ho agito per difendermi e ho avuto l’impressione che il Paolo mi volesse proprio ammazzare, per come si stava comportando. Durante i fatti che ho descritto ero solo. Anzi, siamo stati sempre soli io e il Paolo, dal momento in cui abbiamo lasciato l’osteria fino a quando è successo quello che è successo».
2. Fra le baracche di Ostia
Lo sconcerto per la fine di un personaggio tanto conosciuto e discusso si somma fin da subito alle analisi sul significato e sulle cause di un episodio così tragico. Nel corso del funerale, Alberto Moravia urla tutta la propria disperazione per la perdita di un poeta vero, quando «di poeti ne nascono soltanto tre o quattro in un secolo». L’apparente coerenza fra opera e biografia inquieta. Pier Paolo Pasolini aveva costantemente avvertito la società sul pericolo di una violenza dilagante e appiattente, da ultimo all’indomani dei fatti del Circeo, avvenuti appena due mesi prima, ma si era anche fatto interprete di un’esistenza votata al rischio, alla provocazione, all’esperimento. «Amo la vita ferocemente» aveva scritto, «così disperatamente, che non me ne può venire bene». Inizia ad originarsi, in questo lutto inatteso, il mito pasoliniano giunto fino a noi, con il suo carico di bellezza, dolore, struggimento. E mistero.
La confessione di Pelosi non convince gli amici di Pasolini e i legali della famiglia. Il sospetto che il borgataro intenda coprire qualcuno aleggia nell’aria immediatamente. A risultare auto-evidente, in primo luogo, è la sproporzione fra le condizioni fisiche dei due protagonisti dell’evento. Il verbale parla di una crudele lotta reciproca sfociata nel sangue per legittima difesa, ma mentre la vittima, cioè il presunto assalitore, ha subìto lesioni gravissime e mortali, l’omicida, ovvero «l’aggredito», la notte fatidica aveva appena una ferita alla testa, piccole ecchimosi ed escoriazioni alle mani e alle gambe e una frattura incompleta al setto nasale. I vestiti erano asciutti e riportavano tre macchie ematiche quasi invisibili. E infatti i carabinieri che lo avevano arrestato non avevano sospettato nulla. Gli oggetti di legno trovati vicino al corpo, leggeri e friabili, appaiono inidonei a causare un tale scempio. Ma a lasciare perplessi è anche il motivo di una reazione così violenta, culminata con un investimento, e l’incapacità dello scrittore, forte e in salute, di difendersi di fronte all’improvvisa furia di un ragazzino. Nell’Alfa Romeo, poi, vengono rinvenuti un maglione verde e un plantare non appartenenti né a Pasolini né a Pelosi.
In un’inchiesta a puntate pubblicata sul settimanale «L’Europeo», Oriana Fallaci elenca i dubbi sulla vicenda e riferisce il racconto di una fonte anonima, secondo la quale il poeta sarebbe stato ucciso da due teppisti giunti sul posto in motocicletta. Furio Colombo, peraltro autore dell’ultima intervista a Pasolini, riporta sulla «Stampa» la testimonianza di un baraccante: «Lo scriva che è tutto uno schifo, che erano in tanti. Lo hanno massacrato quel poveraccio. Erano quattro o cinque». Alcuni discepoli di Pasolini, come i fratelli Franco e Sergio Citti e lo sceneggiatore Enzo Ocone, avviano una serie di indagini parallele, e lo stesso fa il legale della famiglia, Nino Marazzita. Il lavoro della magistratura, nel frattempo, viene accusato di approssimazione: la scena del delitto non è stata circostanziata, l’automobile è stata lasciata alla pioggia, gli interrogatori dei residenti sarebbero stati incompleti e tardivi.
La stampa si divide. Se a sinistra inizia a emergere l’ipotesi del complotto contro un intellettuale scomodo, o comunque di un martirio sociale e culturale, le principali testate conservatrici si ribellano a qualsiasi mitologia e confermano – o approfondiscono – la loro storica ostilità verso un nemico del buon costume e della moralità. Franco Grattarola, nel ricchissimo saggio Pasolini. Una vita violentata (Coniglio, 2005), restituisce con lucidità il clima di quei giorni. Il delitto viene circoscritto e spiegato nella dinamica corrotto-corruttore. Quando lo stile comportamentale è quello della devianza e della libidine, si nota, la morte violenta diventa un accidente prevedibile, persino necessario. Il ribaltamento di prospettiva è totale. Di fronte alle tesi cospirative, il «Borghese» parla di una «sporca, sordida speculazione politica». «Fosse stato ucciso, poniamo, da un “fascista”, egli, oggi, sarebbe il martire della resistenza. Purtroppo per i suoi apostoli, egli era sempre primo nelle ore di un solo pericolo: quando scoccava un raptus indomabile che si esercitava su “ragazzi di vita”, nei quali il bisogno spinge, spesso, a non difendere a oltranza la inviolabilità del pudore. Il diciassettenne che recalcitra e per sottrarsi a turpitudini uccide, non muove il mondo della sinistra neppure a pietà; è considerato indegno di interesse e difesa. Il martire dell’idea è soltanto lui, Pasolini, che si è immolato sul fronte dell’amore socratico». Senza alcuna continenza verbale, «La Gazzetta del Sud» considera il defunto «un omosessuale perverso»: «La sua morte non ci turba, né ci commuove, né ci emoziona». «I ragazzi di vita gli hanno dato la morte», ironizza «Lo Specchio». Sulle pagine del «Candido», Paolo Pisanò esprime la sua delusione per un uomo che pure aveva seguito con speranza e interesse, considerandolo come l’oppositore del mondo disumanizzato e consumista e della violenza bestiale che da esso si sprigiona. Invece «la sua morte, purtroppo, ha cancellato di colpo quello che si è rivelato un abbaglio, un’illusione: lungi dall’essere concretamente un campione di quella lotta, Pasolini si è rivelato, in punto di morte, un portatore di quei valori negativi e di quella violenza che egli diceva di combattere e condannare». E conclude: «Quella tragica notte, fra le baracche del lido di Ostia, il rapporto era estremamente rovesciato: volendo usare termini correnti, Pasolini era “il mostro”, Pelosi “la vittima”».
Ma i distinguo e i biasimi si ritrovano anche a sinistra. Sul «Manifesto», Rossana Rossanda e Luigi Pintor invitano a non cadere in ipocrisie e a sanzionare la mercificazione del corpo. Su «Paese Sera», giornale paracomunista, Edoardo Sanguineti è severo: «Sembra impossibile negare a questa morte i tratti di un suicidio preparato minuziosamente, quasi a completare il disegno di una persecuzione perpetuata lentamente, e, al tempo stesso, un lungo progetto di confusione tra arte e vita, tra letteratura e esistenza». Lo stesso quotidiano ospita un intervento dello psicologo Ignazio Maiore, che di PPP ricorda il dolersi per il diffondersi della delinquenza negli strati popolari e giovanili, dai quali, presago, si sentiva minacciato. «Erano quegli stessi giovani che lo attraevano in maniera coatta, per lui inarrestabile». E ancora: «Il problema più profondo dell’omosessualità è la difficoltà di sopportare la convivenza e la rivalità con il proprio sesso, che viene sentito come persecutorio e pericoloso, come appunto accadeva a Pasolini. In definitiva, un rapporto omosessuale è basato più sull’odio che sull’amore. Pasolini ha cercato in tutti i modi di spadroneggiare ed esorcizzare il suo dramma. Ha perduto. La sua poesia non l’ha salvato». Il Pasolini offeso, boicottato e incompreso, il Pasolini che in vita aveva subìto oltre trenta procedimenti giudiziari, vendendo accusato dei reati più diversi – fra questi, corruzione di minori, vilipendio alla religione, persino rapina a mano armata – riemerge in molti commenti successivi al delitto, e continuerà a farlo nel corso del processo a Pino Pelosi, quando la principale strategia difensiva dell’imputato, o meglio dei suoi legali, sarà quella di far precipitare definitivamente nel fango la vita e l’opera della vittima.
3. La parola alla giustizia
Il dibattito giornalistico si rispecchia nella tensione scatenatasi intorno al collegio difensivo di Pino Pelosi. L’avvocato d’ufficio dura una notte, mentre il primo legale di fiducia, scelto su consiglio di un compagno di cella, viene revocato dopo due giorni. Il 5 novembre il giovane indagato firma una tripla nomina: i fratelli Tommaso e Vincenzo Spaltro e Rocco Mangia, difensore di uno dei massacratori del Circeo. Il nome di Mangia, noto giurista di destra, è stato suggerito ai genitori di Pelosi da un cronista del «Tempo», il massone Franco Salomone. Ma il terzetto si fraziona subito. Mentre gli Spaltro propendono per la tesi del complotto, temendo che l’assistito taccia l’identità dei veri colpevoli, Mangia sceglie un’altra linea. Pelosi dice la verità: ha agito da solo perché provocato da un adulto corruttore. Prevedibilmente, a metà novembre Mangia diventa l’unico difensore del ragazzo. Il detenuto viene interrogato altre tre volte, nel corso delle quali aggiunge alcuni particolari e ribadisce l’assenza di complici. Nel frattempo, il procuratore generale Walter del Giudice, lamentando la lentezza delle indagini, avoca a sé l’inchiesta e la affida a un altro magistrato, Guido Guasco. Il 10 dicembre 1975, il reo confesso Pelosi è rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio volontario.
Il processo per il delitto Pasolini inizia il 2 febbraio 1976 di fronte al tribunale minorile di Roma. Presidente del collegio giudicante è Carlo Alfredo Moro, fratello del politico DC, giudice a latere è Giuseppe Salmè. L’accusa è rappresentata dal sostituto procuratore Giuseppe Santarsiero, mentre la parte civile si è affidata a Nino Marazzita e Guido Calvi, con delega firmata dall’anziana madre dello scrittore, Susanna Colussi.
Rocco Mangia punta sull’immaturità di Pelosi e sulla legittima difesa, sperando nella non imputabilità o in un esito di omicidio preterintenzionale o colposo. Fin dalle sue primissime istanze, appare chiaro come l’avvocato intenda tramutare il procedimento nell’ultimo, definitivo processo a Pasolini. Malgrado l’imputato sia minorenne, chiede le «porte aperte» e le telecamere; contesta la costituzione di parte civile, sostenendo l’incapacità d’intendere e di volere della signora Colussi; cerca di far acquisire agli atti il corposo fascicolo sui procedimenti giudiziari contro l’intellettuale; propone come testimoni numerosi oppositori di Pasolini. In quel periodo, tra l’altro, è arrivato al cinema – ed è stato subito sequestrato – il film postumo Salò o le 120 giornate di Sodoma, definito da un settimanale un «mostruoso testamento». Mangia ha buon gioco nell’additare la pellicola come la conferma dell’indole sadica del regista. L’attore Uberto Paolo Quintavalle, membro del cast, porta alle stampe il libello Giornate di Sodoma. Ritratto di Pasolini e del suo ultimo film, ricco di pettegolezzi e indiscrezioni sul periodo delle riprese. La difesa di Pelosi tenta senza successo di far acquisire anche quel testo.
In udienza non mancano colpi di scena e aspre polemiche. Mario Appignani, il futuro disturbatore “Cavallo Pazzo”, irrompe in aula accusando dell’omicidio due conoscenti dell’imputato, salvo rimangiarsi tutto. Oriana Fallaci rifiuta con forza di rivelare la fonte della sua inchiesta giornalistica, che per alcuni era lo stesso Appignani. E ancora: si viene a sapere che due giovanissimi amici di Pelosi, i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, hanno confidato a un carabiniere infiltrato di aver partecipato al delitto. Interrogato a più riprese, però, il più grande giura di essersi inventato tutto per semplice vanteria.
L’audizione del medico legale Faustino Durante, perito di parte civile, rappresenta un momento essenziale. Planimetrie e autopzia alla mano, lo specialista dimostra come lo scrittore fosse stato volontariamente «sormontato» dalle ruote dell’auto, e non «schiacciato» dalla parte inferiore della vettura, come dichiarato dai consulenti d’ufficio. Inoltre, le lesioni sul cadavere vengono giudicate incompatibili con il bastone e la tavoletta rinvenuti sul posto. Il perito analizza nel dettaglio le varie fasi della lotta per ritenere contraddittoria «la constatazione che il Pelosi sia rimasto indenne da ampi imbrattamenti di sangue», visto che nella prima fase Pasolini era senz’altro in grado di reagire, essendosi addirittura tolto la camicia e avendo percorso a piedi molti metri. Il perito si concentra poi su una macchia ematica trovata sullo sportello anteriore del passeggero; la traccia lascia aperta la possibilità che, al momento della fuga, ci fosse qualcun altro.
Durante il suo esame, Pino Pelosi ribadisce di aver agito da solo. Tutti i periti del processo, in maniera inaspettata, concordano sulla sua immaturità, sottolineando la debole strutturazione dell’Io, la superficialità affettiva e la povertà culturale.
La parte civile chiede la condanna del diciassettenne e enumera gli indizi su un concorso di persone, dopo di che si ritira dal processo ed evita di pretendere un risarcimento. Nella relazione fornita alla Corte, Marazzita e Calvi tratteggiano un accorato ritratto artistico e umano della vittima: «Pelosi è di questo processo, è di questo tribunale, mentre la memoria di Pasolini appartiene a noi tutti perché è di un’altra realtà». Anche la pubblica accusa reclama la condanna per omicidio volontario in concorso con ignoti. Nella sua lunga arringa, l’avvocato Mangia chiede l’assoluzione per incapacità di intendere e di volere e lancia duri improperi contro la stampa, la parte civile e PPP.
La sentenza arriva il 26 aprile 1976, quando il giudice Moro e i suoi colleghi condannano Pino Pelosi per omicidio volontario in concorso con ignoti, furto d’auto e atti osceni. Vista la minore età e le attenuanti, la pena comminata è di nove anni, sette mesi e dieci giorni di reclusione. La tesi dell’immaturità è rigettata, poiché il giovane era in grado di «percepire il significato antisociale dell’atto omicida». Quanto ai complici, «il collegio ritiene che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’Idroscalo il Pelosi non era solo».
4. L’Appello e i complotti
Al termine del primo grado, la Procura generale sostituisce il pm Santarsiero con Guido Guasco, il quale prende una decisione eclatante: impugna la sentenza Moro per contestare il concorso con ignoti, ovvero la tesi sostenuta dal suo stesso predecessore. A fare ricorso, naturalmente, è anche la difesa, che continua a puntare sull’immaturità e sul gesto colposo. Il 4 dicembre 1976 la Corte d’Appello conferma la condanna per omicidio volontario e furto d’auto, assolve per atti osceni e stralcia il concorso con ignoti. I giudici cercano di smontare tutti gli indizi sulla presenza di terze persone. La sproporzione fra le ferite, ad esempio, può essere spiegata ipotizzando che sia stato Pelosi ad aggredire per primo l’altro, «cogliendolo di sorpresa e menomandone fin dall’inizio la capacità di difendersi». La pronuncia esclude che Pasolini abbia cercato di violentare il giovane, e quindi l’interrogativo sul movente «è destinato a rimanere senza risposta». Forse Pelosi voleva rapinare l’uomo e rubargli l’auto, oppure aveva esagerato con la violenza dopo un banale litigio, uccidendo per guadagnarsi l’impunità.
Il 26 aprile 1979 la Cassazione conferma totalmente la sentenza d’Appello, ma non mette la parola fine agli enigmi. Nel corso di questi cinque decenni, il relativo fascicolo giudiziario è stato riaperto – e chiuso – quattro volte, mentre sono fioccati i libri, i film e le teorie alternative sulla notte dell’Idroscalo. Il 1987 è la data della prima riapertura dell’inchiesta, attuata su istanza dell’avvocato Marazzita. Lo scopo era verificare un eventuale coinvolgimento nel delitto di Giuseppe Mastini, detto «Johnny lo Zingaro», un criminale romano amico di Pelosi e il cui nome compariva in alcune lettere e indiscrezioni. Nel 1995 i magistrati romani tornano a indagare sul caso a seguito del film di Marco Tullio Giordana Pasolini – Un delitto italiano, da cui è tratto l’omonimo libro: una ricostruzione puntigliosa di tutti gli elementi a favore della pluralità di assassini. Dieci anni dopo, il 7 maggio 2005, va in scena la svolta più clamorosa e controversa: Pino Pelosi cambia platealmente versione e si dichiara innocente. Lo fa durante un’intervista televisiva concessa a Franca Leosini per la trasmissione di Raitre Ombre sul Giallo. L’ex ragazzo di vita, ormai quarantaseienne, racconta tutta un’altra storia: lui e il poeta erano stati aggrediti da un gruppo di persone, le quali avevano massacrato Pasolini a suon di insulti («Arruso, fetuso, sporco comunista»), e avevano indotto lui al silenzio sotto minaccia («Fatti i cazzi tuoi, sennò uccidiamo pure te e tutta la tua famiglia»). Ora che era rimasto solo, essendo morti i genitori, Pelosi si era deciso a rivelare la verità.
Il caso si riaccende con prepotenza. Il giorno dopo, il «Corriere della Sera» ospita un’intervista a Sergio Citti, storico collaboratore di Pasolini, secondo il quale il regista sarebbe stato tirato in trappola da alcuni malviventi con la scusa delle pellicole rubate di Salò. Ed ecco la terza inchiesta, archiviata in ottobre senza nuovi riscontri. Nel frattempo le teorie del complotto si sono affinate. Una delle più rilevanti riguarda il romanzo incompiuto Petrolio, pubblicato postumo nel 1992. In esso Pasolini sembra accusare Eugenio Cefis di aver ordito l’attentato contro il presidente dell’ENI Enrico Mattei. Altre tesi hanno parlato di una spedizione punitiva di stampo omofobico e politico, di un suicidio rituale, della P2, della volontà di silenziare una voce libera e capace di scottanti rivelazioni.
La quarta e ultima istruttoria, sollecitata da un cugino di Pasolini e dallo stesso ministero della Giustizia, dura cinque anni, dal 2010 al 2015. Fra i diversi testimoni ascoltati ci sono anche alcuni baraccanti dell’epoca. La signora Anna ricorda di aver sentito, quella notte, «voci di diverse persone, sicuramente più di due». Ora che è possibile, gli inquirenti dispongono le analisi del DNA sui reperti dell’omicidio, ovvero i vestiti e i bastoni conservati nel museo criminologico di Roma. In effetti, emergono materiali biologici appartenenti a terze persone, ma le tracce, come sempre, non sono databili, né risultano riferibili ad alcun sospettato, come Mastini o i Borsellino. Nel frattempo, Pelosi cambia ancora una volta versione in un libro dal titolo Io so… come hanno ucciso Pasolini (2011): con l’intellettuale si frequentava da tempo, dice, ma malgrado ciò aveva accettato di fare da intermediario nella restituzione delle bobine di Salò. Arrivati all’Idroscalo, erano stati raggiunti dai fratelli Borsellino e da altri ignoti assalitori. Di fronte ai pm, il condannato ribadisce questa nuova ricostruzione, apparendo sempre meno credibile. Le sue giravolte e contraddizioni lo rendono ormai un personaggio tragico. Neanche stavolta, insomma. si raggiungono risultati concreti. Il 25 maggio 2015 il Gip di Roma dispone l’ultima archiviazione. Nel provvedimento, la presenza di altri soggetti viene ritenuta «molto probabile», ma si rivela la difficoltà di stabilirne l’identità. Nessun altro magistrato interverrà in futuro sulla vicenda.
Pino Pelosi è morto di cancro il 20 luglio 2017, portando con sé, se c’è, la verità definitiva su quel 2 novembre 1975. L’omicidio Pasolini, eterno mistero italiano, continua a chiamare a rapporto le nostre coscienze, così come l’intera, straordinaria opera della sua vittima.
La struttura argomentativa dei provvedimenti, l’organizzazione del lavoro e la gestione dei carichi*
Intervento di Luigi Salvato
1. Il luogo nel quale ci troviamo ed il tema oggetto dell’incontro odierno evocano una prima suggestione derivante dalla ‘sententia’ (in realtà, un aforisma) di Publilio Siro, scolpita nella cornice di questa aula Magna, della quale dà conto il Primo Presidente, Pietro Curzio, nell’interessante libro “Il Palazzo della Cassazione”, che ripercorre i tratti salienti della storia dell’edificio in cui è ubicata la Corte di Cassazione. Volgendo lo sguardo verso l’alto possiamo leggerla e constatare che recita: “Nimiun altercando veritas amittitur” (“Il troppo discutere nasconde la verità”); quindi, è pertinente ed illuminante con riguardo alle questioni di cui discutiamo oggi.
La seconda considerazione, pure suggerita dall’aula nella quale ci troviamo, deriva dalla circostanza che proprio qui le Sezioni Unite civili, nel 1947, con la sentenza n. 1093, resa sull’impugnazione di una pronuncia dell’Alta Corte, quale giudice speciale istituito con la competenza di pronunciare, con sentenza in unica istanza, la decadenza e le sanzioni accessorie a carico dei senatori di nomina regia che coi loro voti e la loro azione politica avevano favorito o sostenuto l’avvento ed il consolidarsi della dittatura e l’entrata in guerra dell’Italia, scrissero parole di esemplare efficacia in ordine alla finalità ed ai requisiti della motivazione.
Le Sezioni Unite affermarono: l’obbligo per il giudice «di specificare le ragioni del suo convincimento […] è un elemento essenziale di ogni decisione di carattere giurisdizionale»; «se la maggioranza delle costituzioni moderne non precisa quest’obbligo, è perché si è oramai affermato in tutti gli ordinamenti giuridici dei paesi civili il principio di carattere generale, e cioè è inconcepibile una decisione di carattere giurisdizionale senza motivazione».
La sentenza delineò con rara efficacia le ragioni dell’obbligo e della finalità della motivazione, sottolineando che: è coessenziale al principio di divisione dei poteri e tecnica di garanzia dello stesso; è portato ineludibile di una magistratura professionale, elemento di legittimazione della stessa e garanzia del principio di legalità e della soggezione del giudice alla legge; è strumentale al diritto di difesa, specie con riguardo ai rimedi impugnatori.
Forse, non doveva essere aggiunto molto. I Costituenti trassero infatti ispirazione da questa sentenza per inserire l’obbligo della motivazione nella Carta fondamentale. La circostanza che si trattava di un principio “acquisito” spiega che l’unico contrasto fu tra la formulazione dell’art. 7 del progetto Calamandrei («Le sentenze e gli altri provvedimenti dei giudici devono essere motivati») e quella poi accolta («Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati»), dovuta all’on. Leone, preferita sul rilievo che «La dottrina e la legislazione sono d’accordo nel richiedere la motivazione soltanto per i provvedimenti che abbiano carattere essenzialmente giurisdizionale, cioè per quei provvedimenti che risolvono un conflitto fra due parti». Il risultato è stato una formula generica, evidentemente imposta dalla natura della norma, ma anche dal fatto che si trattava di un principio oramai coessenziale al grado di civiltà giuridica raggiunto, già puntualmente declinato dai codici di rito e dalla giurisprudenza quanto al suo contenuto.
Eppure, cosa occorre perché l’obbligo possa ritenersi correttamente adempiuto resta questione sostanzialmente irrisolta. Lo attestano le intere biblioteche alla stessa dedicate ed il fatto che già 70 anni fa, nel lontano 1952, Piero Calamandrei titolava una delle sei conferenze tenute in Messico “La crisi della motivazione”. La difficoltà, a ben vedere, è quella consustanziale alla funzione giudiziaria: applicare regole generali ed astratte a fattispecie che, per le particolarità che le caratterizzano, finiscono esse stesse con il definirle, influendo sull’identificazione (e sull’esigenza di esplicitazione) delle stesse.
2. In questa sessione l’attenzione deve vertere esclusivamente sul filo rosso che avvince la struttura argomentativa dei provvedimenti (quindi, la motivazione) e l’organizzazione del lavoro della Corte, peraltro diffusamente (e con sapienza) scandagliato dal programma di gestione dello scorso anno, proprio con riguardo alla motivazione (in particolare, nel paragrafo 11), oggetto delle esaustive riflessioni contenute negli interventi pubblicati in giustiziainsieme.
Per questa ragione e per il tempo a disposizione devo limitarmi a qualche sintetica considerazione, concernente il giudizio civile. In particolare, accenno soltanto ad un’idea sulla quale potrebbe essere opportuno riflettere, che non posso neanche approfondire e che propongo quale tema di possibile discussione. L’idea è che la ‘questione motivazione’ va risolta essenzialmente ‘a monte’, non ‘a valle’, cioè in occasione ed attraverso la scelta del rito.
L’attenzione in questa sede esclusivamente ai provvedimenti della Corte fa venire in rilievo la sola funzione extraprocessuale della motivazione: permettere il controllo della pubblica opinione sull’esercizio della giurisdizione; alimentare il dialogo con le comunità epistemiche; garantire che i principi di diritto siano connotati della persuasività necessaria per assicurare la nomofilachia in un sistema che non conosce il vincolo del precedente.
Tale finalità, nel tempo, ha assunto una differente conformazione in correlazione allo ius constitutionis ed allo ius litigatoris.
A Costituzione invariata, in presenza di una norma quale l’art. 111, 7 comma, che stabilisce il diritto al processo di cassazione, l’impossibilità di negare, con legge ordinaria, l’accesso al giudizio di legittimità, ma anche la necessità di assicurare al meglio ed appieno la finalità nomofilattica, in quanto essenziale strumento di garanzia del principio di eguaglianza, ha indotto il legislatore ad agire sulle modalità di intervento della Corte:
- in primo luogo, prevendo un filtro costituito dalla delibazione in camera di consiglio da parte della VI sezione, preordinato a verificare le condizioni del diritto ad una decisione “di merito”;
- in secondo luogo, graduando i modi di intervento della Corte, diversificando i riti con riguardo alle questioni poste dal ricorso.
3. Ai diversi riti corrisponde una profonda differenza di struttura e contenuto della motivazione del provvedimento che conclude il giudizio. E’ per questo che il cuore della questione sta forse proprio nella scelta, a monte, del rito e ciò richiede di ricordare che:
- la decisione della VI sezione realizza, sostanzialmente, una preclusione del diritto al processo di cassazione e, appunto per questo, deve essere fondata su una giurisprudenza che necessariamente deve preesistere alla decisione;
- la decisione con il rito camerale è ammessa se e quando non involge lo ius constitutionis e la funzione nomofilattica.
Entrambi gli obiettivi, per la tenuta costituzionale dell’assetto così definito, impongono di realizzare la transizione, auspicata da uno studioso statunitense, Lee Lovinger, acutamente approfondita in uno studio di Ferruccio Auletta, dalla giurisprudenza alla giurimetria, intesa quest’ultima come la disciplina che consente l’applicazione di parametri precisi di misurazione ai fini del giudizio di prevedibilità e (può aggiungersi) delle condizioni che legittimano i differenti riti.
Con riguardo alla c.d. decisione filtro, il documento programmatico della VI sezione civile esplicita che questa non dovrebbe concorrere a formare la giurisprudenza. Non poche sono le questioni sollevate da alcune delle direttive contenute in detto documento e sulle quali pure sarebbe opportuno riflettere (tra l’altro, in punto di sufficienza dell’esistenza di una sola sentenza a far ritenere esistente una giurisprudenza che ne giustifica l’intervento; in ordine alla stessa possibilità di rimessione della questione dalla VI alle Sezioni unite, senza transitare per la sezione ‘ordinaria’), ma su di esse non occorre oggi attardarsi, poiché il ‘rito della VI’ a breve rappresenterà il passato; quindi, conviene volgere lo sguardo all’immediato futuro.
È, infatti, imminente (almeno, dovrebbe esserlo con i decreti attuativi dell’art. 1, comma 9, della legge 26 novembre 2021, n. 206), l’introduzione del nuovo rito monocratico (dovrebbe essere tale, poiché il comma 9, lettera e, n. 1, fa riferimento al «giudice della Corte», evidentemente il singolo consigliere) e accelerato, incentrato sulla «proposta di definizione del ricorso, con la sintetica indicazione delle ragioni dell'inammissibilità, dell'improcedibilità o della manifesta infondatezza ravvisata» che, in buona sostanza, configura una vera e propria decisione, benché, per così dire, attenuata dalla previsione della facoltà delle parti di chiedere la fissazione della camera di consiglio nel termine di venti giorni, il cui mancato esercizio comporta che il ricorso dovrà intendersi rinunciato (con le conseguenze previste dalla legge-delega).
Sembra davvero palese il carattere di vero e proprio filtro di una siffatta proposta, che tuttavia occorre sia rispettoso del diritto al processo di cassazione. Affinché ciò sia, forse, è necessario che siffatte “proposte”, ancora più delle decisioni della VI sezione, in nessun modo e punto potranno (e dovranno) risolvere questioni. In buona sostanza, dovrebbero consistere ed esaurirsi in una sorta di mera certificazione delle ragioni ‘di rigetto’, ammissibile se e quando dette ragioni sono pianamente desumibili dalla giurisprudenza della Corte che in nessun modo concorrono a formare. La ‘certificazione’, perché sia davvero tale, dovrebbe dunque esaurirsi nel mero richiamo dei pertinenti precedenti e nella ‘attestazione’ dell’applicabilità degli stessi al ricorso, senza null’altro aggiungere. La motivazione in tal modo consiste e si esaurisce in una sorta di mera certificazione.
Si tratta di un compito assai importante, in cui i consiglieri assurgono a certificatori e custodi della giurisprudenza della Corte. In relazione a questa funzione potrebbe assumere rilievo il nuovo ufficio per il processo. Nell’impossibilità di richiamare figure quali quelle degli assistenti della Corte costituzionale (tra l’altro, manca un rapporto fiduciario e diverse sono le professionalità), ma anche quelle dello judicial clerk o del legal clerk dell’esperienza nordamericana, quest’ufficio potrebbe avere (anche, ed ovviamente non solo) una funzione essenziale nella fase di spoglio, operando uno screening con riguardo alla giurisprudenza richiamata dal ricorrente in relazione a quella pertinente, redigendo apposite, specifiche, schede proprio al fine di verificare se esista (indicandola) una giurisprudenza pertinentemente applicabile al ricorso che consente la formulazione della ‘proposta’ e la certificazione nella quale deve consistere.
Peraltro, affinché il processo telematico non si esaurisca nella mera sostituzione di un supporto cartaceo con un supporto digitale (obiettivo importante, ma che anch’esso già guarda solo al passato), occorre operare per adeguatamente conformare la digitalizzazione, tenendo conto della possibilità di programmi in grado di controllare, in automatico, la vigenza della normativa nazionale e sovranazionale citata dal ricorrente, la giurisprudenza richiamata negli atti e quella pertinente, occorrendo approfondire se sia possibile (e come) gravare le parti di un dato modo di richiamare i precedenti. Si tratterebbe di modalità senz’altro pregnante per la transizione verso la giurimetria, ferma l’esigenza di riflessione sulle considerazioni svolte nello studio che ho richiamato (al quale rinvio) e sui metodi e sui modi della misurazione da parte dell’Ufficio del Massimario.
4. L’esigenza di misurabilità potrebbe risultare attenuata per le decisioni rese con l’ordinario rito camerale, anche perché la decisione, siccome ‘di merito’, non incide sul diritto al processo di cassazione. Nondimeno, la sinteticità del provvedimento decisorio (ulteriormente enfatizzata dalla previsione dell’art. 1, comma 9, lettera d, della legge-delega, il quale dispone che «l'ordinanza, succintamente motivata, possa essere immediatamente depositata in cancelleria»), per l’attenuato dialogo insito nel rito e per la tenuta costituzionale del nuovo assetto, richiede attenzione alla scelta del rito, all’esigenza di misurazione della giurisprudenza ed alla rilevanza nomofilattica della decisione.
Delle molte questioni che emergono, mi limito ad accennare a due sole.
La prima è che la scelta del rito è condizionata alla rilevanza della questione, peraltro pregnante anche per stabilire se vada riservata alle Sezioni unite (in disparte, diciamo così, i casi di competenza funzionale). Non mi attardo sui sottili distinguo semantici delle formulazioni degli artt. 363, 374 e 375 c.p.c. Senza il timore di eccessive semplificazioni, riterrei che il legislatore, con chiara e condivisibile scelta (oggi e nell’immediato futuro) ha mantenuto ferma l'udienza pubblica quale "luogo opportuno" della decisione nomofilattica rilevante (tale dovrebbe ritenersi, secondo la definizione dell’art. 1, comma 9, lettera f, della legge-delega, «la questione di diritto […] di particolare rilevanza»), allorché si spiega nella sua tensione massima lo ius constitutionis.
La decisione, se caratterizzata dall’inclinazione a dare vita al precedente pro-futuro, trascende l’esigenza della parte, postula una sede processuale ed una veste formale della decisione coerenti con tali finalità. Ed esige altresì l’indefettibile partecipazione del P.M. poiché “della Corte”, complessivamente intesa, fa parte l’organo requirente: basta ricordare (come acutamente sottolineato nel richiamato studio di Ferruccio Auletta) che l’art. 104 Cost, dice “membri di diritto il primo presidente ed il procuratore generale della Corte di cassazione”, con allineamento di entrambi gli organi prima del complemento specificativo riferito ad entrambi, a riprova che il P.G. è, per singolare statuto, pienamente inerente alla Corte di cui è parte e non mero agente “presso” quest’ultima, diversamente da quanto previsto dalle norme di ordinamento per il P.M. presso gli uffici di merito. Tale intervento costituisce una delle modalità con cui l’ordinamento soddisfa l’immanente necessità di attribuire ad una parte pubblica il compito di fornire, al di là degli interessi dei litiganti, ogni elemento utile per la corretta applicazione della legge, garantendo una formazione dialettica del giudizio che, in considerazione della funzione della Corte di cassazione, deve prescindere dagli interessi specifici di questi ultimi nella risoluzione delle questioni decise con valenza nomofilattica. E’ questo il senso della nomofilachia. Ciò richiede una maturazione culturale anche nel dialogo interno alla Corte ed un chiarimento che, non implausibilmente, dovrebbe passare anche attraverso una diversa modalità di concludere: sulla questione non sul ricorso, in considerazione della finalità dell’intervento e per ulteriormente segnare il distacco del P.M. dalla posizione di parte, invero già indiscutibile a normazione vigente.
La seconda questione è che, se nella misurazione (e graduazione) della giurisprudenza ha influenza il rito, e se ‘al vertice’ della rilevanza vi è quella formata all’esito dell’udienza pubblica, l’effettivo nodo della questione resta ‘a monte’. Ed è, in particolare, quello implicato dalla necessità di una scrupolosa attenzione alla corretta scelta del rito. L’affermazione che la scelta «rimane ampiamente discrezionale e rimessa al Collegio giudicante» (S.U. n. 14437 del 2018) non esclude che debba essere esercitata nell’osservanza di precisi parametri, il cui contenuto va identificato avendo riguardo alla finalità ed alle ragioni della previsione del nuovo rito camerale di legittimità ed al mantenimento del procedimento in pubblica udienza, ciò che richiede altresì precisa attenzione all’eventuale sollecitazione del P.M. al mutamento del rito (beninteso, quando adeguatamente esplicitata). Per altro verso, occorre anche precisa attenzione all’intervento delle Sezioni Unite. Intendo riferirmi alla discrezionalità che ex art. 142 disp att. c.p.c. spetta alle stesse in ordine all’eventualità di decidere l’intero ricorso. La pregnante efficacia assunta dalle pronunce delle Sezioni Unite, a seguito della novellazione del 2006, dovrebbe suggerire di evitare decisioni su questioni che non involgono contrasti, non appaiono di ‘massima importanza’ (come tali appunto ad esse rimesse), né riguardano il tema della giurisdizione. Il principio costituzionale della ragionevole durata del giudizio non può essere enfatizzato a scapito di un’alterazione delle competenze interne della Corte che finiscono per pregiudicare la stessa misurabilità della giurisprudenza.
5. È dunque il rito (e la scelta dello stesso) che orienta, giustifica e determina il contenuto della motivazione e l’organizzazione del lavoro con modalità che, se correttamente applicate, appaiono rispettose della Costituzione e delle norme sovranazionali.
Non è possibile approfondire la giurisprudenza costituzionale sul contenuto dell’obbligo di motivazione, ma è forse sufficiente ricordare che la Corte costituzionale talora si è limitata a ribadire l’obbligo della motivazione, senza identificarne il contenuto (sent. n. 77 del 2018), a volte specificandolo con la generica puntualizzazione che occorre sia “adeguata” (sent. n. 64 del 1970), chiarendo che non occorre dare rilievo e menzione ad eventuali opinioni dissenzienti (sent. n. 18 del 1989). Per quanto qui d’interesse, rileva l’affermazione che la motivazione va rapportata all’ampiezza della discrezionalità del giudice (sent. n. 70 del 1994), che evidentemente influisce sull’ammissibilità di una motivazione assai sintetica (oserei dire, lapidaria) soprattutto nel caso della ‘certificazione’ in cui dovrebbe consistere e risolversi la “proposta di decisione” resa con il rito monocratico accelerato.
Volgendo l’attenzione al diritto eurounitario, è sufficiente ricordare che il TFUE, all’art. 253, u.c., dispone, ma a «fini interni»: «La Corte di giustizia stabilisce il proprio regolamento di procedura». E’ l’art. 36 dello statuto della Corte di giustizia a stabilire che «Le sentenze sono motivate»; il regolamento di procedura dinanzi al tribunale, all’art. 116, prevede che la sentenza deve contenere: «… l) l’esposizione sommaria dei fatti; m) la motivazione». La Carta dei diritti fondamentali, all’art. 47 non lo prevede espressamente, ma detto obbligo è desumibile dalla previsione del «diritto a un ricorso effettivo» ed a che la causa «sia esaminata equamente, pubblicamente». Si tratta di disposizioni sostanzialmente omologhe al nostro parametro costituzionale, che nulla aggiungono ad esso
Delle non molte pronunce della Corte sul contenuto della motivazione rilevano quelle che ne hanno evidenziato la variabilità a seconda della natura della decisione giudiziaria (sentenza Trade Center del 2012), ritenendo ammissibile la motivazione ‘implicita’, escludendo la necessità di una spiegazione in relazione a tutti i ragionamenti delle parti (sentenza Nexans del 2014).
La Corte di Strasburgo, dal suo canto, non ha prefigurato un modello generale ed astratto di motivazione e, ha osservato Vladimiro Zagrebelsky, neppure è immaginabile che ciò avvenga (ciò che porterebbe, ad esempio, a ritenere illegittimo il sistema anglosassone della giuria). Tuttavia, rileva che la Corte di Strasburgo conosce un peculiare procedimento per la dichiarazione di ricevibilità o di irricevibilità (caratterizzato da cambianti nel periodo 2014-2017, anno in cui la Corte mutò la procedura ed il ricorrente, insieme alla decisione di irricevibilità, firmata dal giudice unico, avrebbe ricevuto una lettera nella quale trovare i riferimenti in base ai quali desumere i motivi dell’irricevibilità). Soprattutto, rileva che nella relazione del Presidente della Corte del 25/1/22 si dà conto che ben il 76% dei ricorsi è stato dichiarato inammissibile e solo il 9% è arrivato a sentenza.
Di interesse, è altresì che la sintesi è senz’altro ammessa quando occorre decidere se sussistono i presupposti per adire un giudice superiore (sentenze Salè del 2006; Gouru del 2009) ed è altresì ammessa la motivazione implicita (sentenza X v. Federal Republic of Germany del 1982).
6. La corretta identificazione del rito è dunque essenziale perché determina il tipo di motivazione, l’organizzazione della Corte e la sua stessa tenuta costituzionale. Tuttavia, non irrilevanti ostacoli alla sintesi possibile (estrema nel futuro rito monocratico accelerato) potrebbero derivare da un certo narcisismo - profilo acutamente approfondito da Renato Rordorf in un articolo edito in giustiziainsieme, nei due aspetti positivo e negativo -, anche perché, come ha scritto Guido Calabresi, «si può essere tentati di pensare che l’esperienza più gratificante per un giudice sia di scrivere la ‘grande’ sentenza».
La questione è che non si tratta soltanto di narcisismo. Nel sistema della valutazione della performance il giudice potrebbe trovarsi di fronte ad una sorta di novello comma 22: se scrive troppo non è efficiente; se scrive poco rischia di non dare adeguato (e dovuto) conto delle ragioni che comunque confortano una valutazione positiva, ad onta dell’esito del giudizio. Il paradosso riguarda, evidentemente in misura minore, anche i giudici della Corte. Se, ai fini delle valutazioni si enfatizzano il numero delle massime estratte dai provvedimenti redatti, la sentenza “dotta” che ripropone il vecchio stilema della ‘sentenza titolo’, forse non è extravagante interrogarsi sull’esigenza di ripensare la metodologia ed il contenuto delle valutazioni, tenendo adeguatamente conto della molteplicità (e pari dignità) dei differenti compiti svolti dai consiglieri.
7. La relazione tra struttura argomentativa dei provvedimenti, organizzazione e gestione del lavoro pone infine un’ultima questione alla quale posso soltanto accennare, molto genericamente, dovendomi avviare alla conclusione.
La questione è quella della modalità di redazione della motivazione mediante riproduzione degli scritti di parte.
Pacifico che, come affermato da S.U. n. 642 del 2015 il provvedimento giudiziario non è un’opera dell’ingegno, la questione della riproduzione degli atti di parte è ‘sensibile’ anche perché intercetta profili disciplinari ed è stata risolta con alcuni profili di differenza dalla sentenza che ho richiamato e da S.U. n. 10628 del 2014. Forse, sarà necessario riflettere sulla circostanza che, se la motivazione non è affare soltanto del giudice (soprattutto quella della Corte allorché enuncia principi di diritto); se la Corte, come icasticamente rimarcato dalle Sezioni Unite in una recente sentenza, “non è sola” nell’enunciare i principi nell’attuale fase di ‘diritto liquido’ ed è attenta al dialogo con le comunità epistemiche, potrebbe uscire esaltata la possibilità di richiamare gli atti, anche riportandoli. Ciò ancora più quando si tratta di enunciare principi di diritto: il giudice non è tenuto a utilizzare espressioni originali, diverse da quelle che hanno avuto la forza di convincerlo e che egli condivide. La motivazione non è ricerca della trattazione dotta ed originale, ma della soluzione convincente. Tanto ancora più con riguardo alle conclusioni del P.G., quale organo che non è parte e che concorre a formare la giurisprudenza della Corte. Ma questa è, un’altra storia alla quale, forse, non sarebbe inopportuno dedicare nel prossimo futuro qualche incontro.
Vi ringrazio dell’attenzione.
*Il testo riproduce l’intervento svolto al convegno “Giurisdizione e motivazione. Dialoghi a più voci tra linguaggio e organizzazione del lavoro”, tenutosi lo scorso 8 giugno 2022 a Roma, Corte Suprema di Cassazione, Aula Magna, organizzato da Areadg Cassazione.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.