ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Distinguendo e interpretando. Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Riccardo Guastini
Riccardo Guastini è nato il 25 gennaio 1946 a Genova, dove, dopo gli studi classici, si è laureato in Giurisprudenza nell’anno accademico 1968-1969 discutendo la tesi in Filosofia del diritto sulle dottrine giuridiche del marxismo con il Prof. Giovanni Tarello, di cui è stato allievo e collaboratore.
Dopo le Università di Sassari e Trieste (qui anche Dottrina dello Stato), ha insegnato nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genova (Filosofia del diritto, Teoria generale del diritto, Diritto costituzionale, Tecniche dell’interpretazione e dell’argomentazione giuridica) e nella Facoltà di Diritto della Université de Paris X-Nanterre e in altre Università francesi e spagnole come Visiting Professor.
Ordinario dal 1977, è Professore Emerito di Filosofia del diritto presso l’Università di Genova e Direttore dell’Istituto Tarello per la Filosofia del diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza della stessa Università. È condirettore delle Riviste Analisi e diritto (pubblicata oggi da ETS, Pisa), Ragion pratica, e Materiali per la storia della cultura giuridica (pubblicate da Il Mulino, Bologna).
Il suo campo di ricerca si sviluppa, principalmente, nell’analisi del linguaggio normativo, dei concetti giuridici fondamentali, della struttura degli ordinamenti giuridici, e delle tecniche di argomentazione e interpretazione giuridica, cioè nelle direttrici fondamentali della teoria generale del diritto; ma nel corso degli anni ha compiuto anche ricerche di filosofia politica, metodologia giuridica, e diritto costituzionale.
Tra i suoi lavori più recenti (oltre ad alcune opere in lingua castigliana e francese e molti saggi in lingua inglese) meritano di essere segnalati: Distinguendo. Studi di teoria e metateoria del diritto (Giappichelli, Torino, 1996); Teoria e dogmatica delle fonti (Giuffré, Milano, 1998); L’interpretazione dei documenti normativi (Giuffrè, Milano, 2004); Lezioni di teoria del diritto e dello stato (Giappichelli, Torino, 2006); Le fonti del diritto. Fondamenti teorici (Giuffrè, Milano, 2010); La sintassi del diritto (Giappichelli, Torino, 2011 e 2014); Interpretare e argomentare (Giuffrè, Milano, 2011; Distinguendo ancora (Marcial Pons, Madrid, 2013); Discutendo (Marcial Pons, Madrid, 2017).
V. A. Poso Quali ricordi ha dell’Università di Genova e della Facoltà di Giurisprudenza della seconda metà degli anni ’60 che ha frequentato?
R. Guastini Non so dire molto della Facoltà giuridica genovese, perché la frequentai in modo un po’ frammentario, disattento, e svogliato. Qualcuno mi aveva persuaso che la Facoltà di Scienze politiche, che più mi attraeva, offriva un corso di studi scadente, e che a Giurisprudenza avrei potuto studiare quasi le stesse cose con miglior profitto. Vero, solo in parte. Naturalmente, gli studi giuridici si rivelarono ben diversi da quelli politici che mi appassionavano all’epoca…
Come che sia, negli anni Sessanta del secolo scorso, la Facoltà genovese vantava la presenza di alcuni Maestri dell’una o dell’altra disciplina. Di alcuni di essi sono poi diventato amico.
Mi piace ricordare anzitutto Franca De Marini, grande studiosa di diritto romano, cui ho voluto molto bene. Pietro Trimarchi, dal quale ho appreso quel poco che so di diritto civile. E poi ancora l’amico Stefano Rodotà, che a un certo punto lo sostituì, e con il quale discussi una dimenticabile tesina di laurea. E ancora: Viktor Uckmar (maestro di diritto finanziario), Paolo Rossi (penalista), Luciano Cavalli (sociologo), Mario Talamona (economista, poi sostituito da Mario Guerci, con cui discussi una tesina di laurea sullo “scambio ineguale”, che fu persino pubblicata in Italia e in Francia). Di sicuro sto dimenticando qualcuno.
Non amai per nulla, diciamo così, l’insegnamento delle procedure (Crisanto Mandrioli e Gaetano Foschini), di cui tuttora mi pare di non saper nulla. E, a dire il vero, l’insegnamento di alcune discipline, tra cui l’amministrativo – per tacere del lavoro e dell’ecclesiastico (insegnati da dimenticabili nullità, di cui non farò il nome) – era francamente piuttosto scadente. Anche l’insegnamento di costituzionale, tenuto da Carlo Cereti, era alquanto mediocre (non per nulla Cereti è oggi per lo più dimenticato dai costituzionalisti). Il commerciale era insegnato da Mario Casanova, riconosciuto maestro della disciplina, che aveva però il bizzarro vizio di fare corsi monografici, ad anni alterni, sull’impresa e sul fallimento rispettivamente; a me capitò il fallimento; con il risultato che non ho imparato niente sull’impresa (se non quelle poche cosette che si leggono nei manuali di istituzioni di privato). Qualcosa di simile accadde anche con l’internazionale: non ricordo il corso, ma ricordo che di fatto studiai solo l’internazionale c.d. privato; studiai l’internazionale pubblico solo molti anni dopo per fare un breve corso di teoria del diritto internazionale nella Facoltà di Diritto di Paris II-Panthéon-Assas.
Questo era lo stato delle cose negli anni Sessanta. La Facoltà si è molto arricchita verso la fine dei ’70 (o l’inizio degli ’80, non ricordo bene) con l’arrivo di colleghi, e amici cari, come Silvana Castignone, Vito Piergiovanni, Federico Sorrentino, Sergio Carbone, Carlo Grosso, Mario Bessone, Guido Alpa, Enzo Roppo, Paolo Ferrua, ed altri.
V. A. Poso C’era anche Giovanni Tarello, Maestro indiscusso di tante generazioni di studiosi. Come è nato il vostro incontro?
R. Guastini Incontrai Giovanni Tarello, banalmente, chiedendogli la tesi. Non avevo seguito un suo corso: il mio docente di Filosofia del diritto era stato (il pessimo) Luigi Bagolini, da cui non mi pare di avere imparato alcunché. Avevo incrociato Tarello solo agli esami. Ma chiesi a lui la tesi fondamentalmente per tre ragioni.
La prima ragione è che Giovanni era un uomo estremamente affascinante. Una intelligenza spumeggiante e sfavillante. Seducente. E per giunta (rara avis) di sinistra.
La seconda ragione è che in secondo anno avevo studiato la Teoria generale di Kelsen: un libro che mi ha formato. Ho l’impressione di aver imparato più diritto – positivo vigente – leggendo quel libro teorico-generale che nei rimanenti studi di giurisprudenza. Sicché mi pareva che valesse la pena di coltivare quel tipo di studi.
La terza ragione è che, all’epoca, fondamentalmente il diritto non mi interessava gran che. Un po’ mi vergogno a dirlo adesso, ripensando proprio all’insegnamento di Tarello. Mi interessava piuttosto la politica, e la filosofia del diritto mi pareva un luogo appropriato per filosofeggiare di politica. Del resto, anche se ero uno studente, diciamo, passabile, non padroneggiavo per davvero nessuna disciplina. E invece una delle cose più importanti che ho imparato da Tarello è precisamente questa: che solo un buon giurista (anzi, secondo lui, un ideale “pangiurista”, un giurista padrone dell’intero ordinamento positivo) può essere un decente filosofo del diritto.
V. A. Poso Credo non sia facile farlo, ma può delineare, in poche, essenziali, parole il ritratto del Maestro genovese?
R. Guastini Giovanni Tarello è stato non solo un Maestro, ma anche un amico indimenticabile. Tuttavia, dell’amico non parlerò: non per reticenza, ma perché sono incapace di parlare di persone e di rapporti personali: non è nelle mie corde, diciamo.
Quanto al Maestro… Be’, non saprei enumerare quante e quali cose ho imparato da lui. Una, l’ho già menzionata: la filosofia del diritto è cosa da giuristi, non da filosofi.
Questo modo di vedere ha condizionato tutto il mio lavoro a partire dalla metà degli anni Settanta, quando ho smesso di rimestare nei classici del marxismo. Giovanni mi ha istillato questa idea più con gli atti (cioè con i suoi lavori) che con le parole. Ma qualche anno fa io stesso l’ho teorizzata espressamente, configurando la filosofia del diritto come la somma (o la combinazione) di teoria generale del diritto (costruzione dei concetti fondamentali della scienza giuridica) e teoria dell’interpretazione (analisi critica della dottrina e della giurisprudenza). Una filosofia senza aggettivi o complementi di specificazione – una filosofia, cioè, che non abbia ad oggetto l’una o l’altra scienza (in senso ampio) – è puro vaniloquio.
V. A. Poso Qual è stata la “lezione” più feconda di Giovanni Tarello?
R. Guastini Giovanni non mi ha mai “impartito una lezione”: voglio dire che non mi ha mai esplicitamente istruito sulle cose da fare o non fare. Mi ha insegnato con l’esempio, oltre che con gli scritti. Mi ha insegnato, tra l’altro, un modo di essere nell’accademia, e un po’ forse anche nella vita. Un modo di studiare.
E, con finezza maieutica, mi ha suggerito anche che cosa studiare. Mi spiego: in un’epoca in cui i miei interessi erano ancora tutti orientati alla filosofia politica marxista, Giovanni mi diceva, tra il serio e il faceto, «Secondo me, dovresti scrivere qualcosa sulla doppia negazione dei precetti» (se volete, poi, vi spiego che vuol dire questa espressione esoterica). Sembrava una battuta un po’ derisoria, ma in realtà Giovanni aveva intuito le mie inclinazioni, forse non proprio per la logica deontica in senso stretto, ma certo per l’analisi concettuale, per l’analisi del discorso normativo. E così è stato: dalla seconda metà degli anni Settanta, i miei studi si sono orientati precisamente in quella direzione.
E poi, naturalmente, ho appreso da lui le linee fondamentali della cultura giuridica moderna, i rudimenti dell’analisi del linguaggio normativo, la teoria dell’interpretazione, un atteggiamento realista nei confronti della dottrina e della giurisprudenza, la potenza nomopoietica della dogmatica.
Per ultimo, Giovanni è stato il tramite di molte amicizie (accademiche). Tra queste mi piace ricordare Franco Galgano, Gino Giugni, Umberto Romagnoli, Giorgio Ghezzi, Riccardo Orestano. Oltre, naturalmente, la “scuola” analitica – forse dovrei dire illuministica – nord-occidentale: Norberto Bobbio, anzitutto, e poi Uberto Scarpelli, Giacomo Gavazzi, Giorgio Lazzaro, Amedeo Conte…
Stavo per scrivere poco fa: da Giovanni Tarello ho imparato tutto. Ma questa sarebbe stata una esagerazione. Nel corso degli anni Settanta, via via che indirizzavo i miei studi alla teoria del diritto, ho imparato moltissimo da Norberto Bobbio, che considero un mio secondo maestro, come pure da Uberto Scarpelli. A partire dagli anni Ottanta, ho poi trovato un terzo maestro in Eugenio Bulygin, con il quale ho condiviso un po’ tutti i fondamenti metodologici della teoria del diritto, dal positivismo giuridico allo scetticismo etico (ne ho scritto, l’anno scorso, piangendo la sua scomparsa).
V. A. Poso Molti parlano, ancora oggi, della sua “scuola”, che Lei ha sapientemente continuato e sviluppato. In cosa consiste la “Scuola di Genova”?
R. Guastini Giovanni Tarello è, ovviamente, all’origine della “Scuola di Genova”, oggi celebrata in volumi e riviste (soprattutto all’estero, in verità).
I tratti caratteristici della Scuola, se è lecito chiamarla così (a Tarello non sarebbe piaciuto), sono il metodo analitico, l’empirismo, il positivismo giuridico, lo scetticismo etico, il realismo giuridico.
La Scuola comprende gli allievi diretti di Tarello – concretamente: Guastini, Paolo Comanducci, e Mauro Barberis (in ordine di anzianità) – e gli allievi degli allievi. Tra questi i miei, numerosi, di cui vado particolarmente fiero: li considero di gran lunga il meglio della mia “produzione scientifica”. Il più anziano, Pierluigi Chiassoni, è ormai lui stesso un maestro, soprattutto in materia di interpretazione. Bruno Celano, recentemente scomparso, non propriamente un mio allievo, ma di cui diressi la tesi dottorale su “essere” e “dover essere”, è stato uno dei più acuti e stimolanti filosofi del diritto della sua generazione. In un certo senso fanno parte della Scuola anche molti allievi del dottorato genovese in Filosofia del diritto e storia della cultura giuridica sparsi per il mondo.
Il cemento della Scuola, a dire il vero, non è solo la filosofia del diritto (latamente intesa) ma anche (prima ancora?) l’amicizia. Paolo Comanducci, in particolare, richiederebbe un discorso a sé: è per me, più che un amico, un fratello. Mio complice – come direbbe il nostro amico Stanley Paulson – in innumerevoli legal-philosophical crimes. Abbiamo fondato insieme due riviste: Analisi e diritto (dal 1990, pubblicata attualmente da ETS) e, su impulso di Paolo, Ragion pratica (dal 1993, pubblicata attualmente dal Mulino). Abbiamo anche fondato due collane: Analisi e diritto, che affianca la rivista omonima, pubblicata da Giappichelli, e Filosofia del diritto positivo, pubblicata da Marcial Pons (a Madrid).
V. A. Poso Come (e dove) ha vissuto negli anni Settanta la prima formazione post-universitaria e accademica?
R. Guastini Gli anni Settanta: formidabili quegli anni (direbbe Mario Capanna), che hanno modellato tutta la mia vita successiva. Li ho passati un po’ a Genova, un po’ a Sassari, e un po’ anche a Milano (per ragioni private).
Per un paio d’anni, ho goduto di una borsa di studio del CNR. Ma nel 1973, complice il caro amico Luigi Berlinguer, ottenni un incarico di insegnamento a Sassari. E lo tenni per tre anni, insegnando molto malamente la filosofia del diritto (malamente perché, in effetti, ero ancora ignorante come una capra).
Tre anni bellissimi. Intanto, perché strinsi alcune amicizie indissolubili: Lio Mura, Danilo Zolo, Bobo (Roberto) Ruffilli e Gustavo Zagrebelsky, anzitutto, ma anche Tullio Treves, Valerio Onida, Andrea Orsi Battaglini, Mimmo Sorace, Paolo Caretti, Franco Bassanini… (non tutti sono ancora in vita, purtroppo). E soprattutto perché nel 1975 lì incontrai Maria Vittoria, la compagna della mia vita (e, sia detto per inciso, il vero giurista-giurista della famiglia, da cui ho imparato molto).
Vinsi poi un concorso di Dottrina dello Stato (con i voti, ne vado fiero, di Giacomo Gavazzi e Toni Negri). Per la cronaca: il concorso si chiuse malgrado le manovre di Bagolini – nemico giurato (mai saputo perché) di Tarello e, per la proprietà transitiva delle inimicizie, anche mio – il quale, essendo presidente (ma in minoranza) della commissione giudicatrice, ometteva sistematicamente di convocarla. Fino a che fu sostituito d’ufficio dal Ministro, su istanza degli altri componenti. Fatto sta che Tarello fu capace di “mettermi in cattedra”, come si usava dire, senza neppure essere componente della commissione giudicatrice.
Alla fine di alcune sgradevoli, squallide, vicende accademico-giudiziarie che preferisco dimenticare, approdai a Trieste, Facoltà di Scienze politiche (largamente inquinata dalla Loggia P2), nominato d’ufficio dal Ministro, ad anno accademico già iniziato: mai avuto uno studente, mai tenuta una lezione. Ma vi restai appena un anno, giusto il tempo di fare amicizia con Paolo Cendon. Poi fui chiamato a Genova, dove ho insegnato per molti anni la Teoria generale e in seguito (a partire, mi pare, dal 1988) il Diritto costituzionale, e altre cose ancora.
Ma gli anni Settanta sono anche gli anni in cui si è molto arricchita la mia formazione intellettuale (meglio tardi che mai, direte) e i miei studi hanno avuto una svolta definitiva.
Sono debitore a Bobbio di uno sguardo disincantato sul marxismo (e su me stesso), che mi ha definitivamente distolto dall’inutile marxologia e indirizzato all’analisi del linguaggio e agli studi di teoria generale. Voi marxisti, mi disse Bobbio in una occasione (era il 1975, e la discussione si svolgeva sulle pagine della Rivista di filosofia), pretendete di conoscere il mondo ostinandovi a guardare nei sacri testi: perché invece, come chiedeva Galileo, non guardate nel cannocchiale? Da allora ho smesso di leggere i sacri testi, e mi sono dedicato senz’altro al cannocchiale. (È nato da lì il mio legame intellettuale con Bobbio; ed è forse da lì che è nata la grande amicizia con un suo allievo devoto: Michelangelo Bovero.)
Da un lato, dunque, ho abbandonato gli studi marxistici. Dall’altro lato, ho cominciato a studiare cose nuove: filosofia analitica, filosofia del linguaggio, epistemologia (o filosofia della scienza che dir si voglia), logica (sia pure solo a livello elementare), e soprattutto la filosofia giuridica della Scuola analitica nord-occidentale.
Mi sono impadronito degli strumenti dell’analisi del linguaggio, che ho poi impiegato sistematicamente nella teoria generale, nella teoria dell’interpretazione, e nella teoria costituzionale. Quegli stessi strumenti che, peraltro, verso la fine degli anni Settanta – anche su impulso di un aureo libretto di Luigi Ferrajoli e Danilo Zolo – ho usato largamente nella (auto-)critica della filosofia politica marxista. Dittatura del proletariato, proprietà collettiva dei mezzi di produzione, estinzione dello stato: tutte idee che non resistono all’analisi concettuale e ad uno sguardo empirista ai fatti della politica. (Ma, intendiamoci, Marx non è questo. Marx è Il capitale: un’analisi del modo di produzione capitalistico che considero insuperata).
V. A. Poso Tra le materie d’elezione - la prima di esse - c’è la “Filosofia del diritto”. Come si può definire, se c’è una nozione condivisa dagli studiosi di questa materia?
R. Guastini Tarello concepiva il discorso filosofico – alla maniera del positivismo logico o neo-empirismo – come un discorso di secondo grado, o meta-discorso, il cui oggetto è costituito dai discorsi delle diverse scienze. Le scienze hanno ad oggetto il mondo. La filosofia no: la filosofia ha ad oggetto le scienze stesse. Non esiste un mondo ulteriore (metafisico) oltre quello (fisico) studiato dalle scienze, e oggetto di una conoscenza “più alta” (metafisica appunto).
È il modo di pensare che ho appreso da Tarello, e anche da Alf Ross: sia detto per inciso, il suo On Law and Justice (del 1958, tradotto da Gavazzi per Einaudi nel 1965) è forse il miglior manuale di filosofia del diritto esistente.
Ciò comporta evidentemente una radicale riduzione delle varie discipline filosofiche a meta-scienze, o filosofie delle scienze (dell’una o dell’altra scienza). Vi sarà dunque una filosofia della fisica, una filosofia della matematica, una filosofia della chimica, e via enumerando, fino a giungere alla filosofia del diritto (anzi: della scienza giuridica). Ma non può esservi una filosofia senza complementi di specificazione: la «panfilosofia scissa da qualsivoglia specifica disciplina scientifica o tecnica», secondo Tarello, è chiacchiera da salotto.
Chi volesse un esempio, può leggere quel passo in cui l’infame nazista Heidegger vaneggia sul nulla: «Esiste il Nulla solo perché c’è il Non, ossia la Negazione? […] Esiste la Negazione e il Non esiste solo perché c’è il Nulla? […] Noi sosteniamo: il Nulla precede il Non e la Negazione». Puro nonsense.
Tarello concepiva la filosofia del diritto come «metagiuridica»: con questo sgradevole aggettivo sostantivato si riferiva all’analisi linguistica, storiografica, sociologica, e politica della “giurisprudenza”, intesa qui nel senso classico di prudentia juris. La metagiuridica, insomma, è quel che Bobbio ci ha poi abituati a chiamare meta-giurisprudenza.
La filosofia del diritto, dunque, è una disciplina ancillare al lavoro dei giuristi, e perciò non può essere coltivata se non dai giuristi stessi. Le “filosofie del diritto” di Hegel o di Croce, tanto per dire, sono chiacchiere senza costrutto. Pertanto, il filosofo del diritto dovrebbe essere – per formazione intellettuale, interessi, e competenze – un giurista tra gli altri giuristi. Tra l’altro, questo modo di pensare conduce a screditare come irrilevante, e tendenzialmente estraneo alla filosofia del diritto, almeno uno dei tradizionali settori di riflessione dei gius-filosofi: la cosiddetta filosofia della giustizia (che è, propriamente, un’etica normativa, cioè, per intenderci, cosa da “moralisti”, non da giuristi).
V. A. Poso In cosa consiste, quindi, una buona “filosofia del diritto”?
R. Guastini Come dicevo già sopra, qualche anno fa – scrivendo un “manifesto” della filosofia analitica del diritto – io stesso ho sostenuto che una buona filosofia del diritto è una combinazione di teoria generale del diritto (costruzione dei concetti fondamentali della scienza giuridica) e teoria dell’interpretazione (analisi critica della dottrina e della giurisprudenza).
Da un lato, dunque, la costruzione di concetti atti a offrire la migliore descrizione possibile del diritto vigente. Esempi banali che faccio sempre ai miei studenti: conviene adottare un concetto di “fonte” che includa o al contrario escluda dal novero delle fonti le sentenze costituzionali di accoglimento? conviene adottare un concetto di “diritto” (in senso soggettivo) che includa o al contrario escluda dal novero dei diritti una situazione giuridica non garantita (come il diritto al lavoro, poniamo)?
Dall’altro, l’analisi logica (in senso ampio) dei discorsi e dei ragionamenti dei giuristi (e dei giudici, beninteso). Quell’analisi che consente di controllare la fondatezza delle argomentazioni (ivi incluse le motivazioni); di distinguere, poniamo, i diversi modi di usare l’argomento a contrario; di mettere in luce le presupposizioni tacitamente sottese all’una o all’altra argomentazione; o ancora di distinguere la mera attribuzione di significato ad un testo (interpretazione propriamente intesa) dalla formulazione di norme nuove (costruzione giuridica, il “diritto dei giuristi”).
Un buon filosofo del diritto non può non avvalersi degli strumenti caratteristici dell’analisi del linguaggio. Ad esempio: (a) la sistematica distinzione tra questioni empiriche, attinenti ai fatti, e questioni concettuali o verbali, attinenti al significato delle parole; (b) la sistematica distinzione tra questioni di fatto e questioni di valore, ovvero, da un altro punto di vista, tra discorsi conoscitivi (veri o falsi) e discorsi valutativi o prescrittivi (né veri né falsi); (c) la cura sistematica nell’analizzare il significato delle parole, e quindi sia la registrazione di usi linguistici esistenti, sia la rilevazione di indeterminatezze semantiche, di connotazioni di valore nascoste, di equivoci verbali, e così via.
La filosofia analitica – si noti – non è “una filosofia” nel senso tradizionale (e volgare) di questa parola: non è una concezione del mondo e, ovviamente, neppure una scienza. Anzi si oppone fermamente a quel modo di filosofare che consiste nel blaterare dei massimi sistemi e/o pretende di attingere, oltre le scienze, alla essenza ultima del mondo: cosa di cui «si deve tacere», come direbbe Wittgenstein. La sola buona filosofia è l’analisi logica del linguaggio delle scienze, ivi inclusa la scienza giuridica, e marginalmente del linguaggio ordinario.
V. A. Poso Una parte importante dei Suoi studi sono quelli di diritto costituzionale, in una felice contaminazione con gli studi di “teoria generale”.
R. Guastini Ho cominciato a studiare seriamente il diritto costituzionale verso la fine degli anni Settanta. Nel 1988 (credo), quando il titolare di allora, il mio caro amico Federico Sorrentino, fu chiamato a Roma, fui incaricato dell’insegnamento.
Da allora i miei studi teorico-generali risultano inestricabilmente connessi con quelli costituzionalistici. Con vantaggio reciproco, credo. Nel senso che gli uni e gli altri si sono arricchiti a vicenda. Di certo, i miei scritti costituzionalistici sono assai poco “dogmatici”, e impregnati invece di teoria generale del diritto e dell’interpretazione.
Considero mio “maestro” di diritto costituzionale, sebbene non abbia mai avuto il piacere di conoscerlo personalmente, Vezio Crisafulli. Sulle sue Lezioni – una felice combinazione di teoria generale e dogmatica costituzionalistica – mi sono in gran parte formato.
I miei primi lavori costituzionalistici – sulla struttura logica delle decisioni costituzionali, sulla illegittimità delle disposizioni e rispettivamente delle norme, sulle decisioni interpretative della Corte – sono largamente fondati sulla distinzione tra disposizioni e norme, ricostruita come distinzione semantica tra enunciati (gli enunciati delle fonti) e significati (le norme propriamente intese). È, questa, la distinzione fondamentale di qualunque teoria dell’interpretazione, giacché l’interpretazione consiste precisamente nel ricavare norme da disposizioni (o da fonti). Questa distinzione deve molto all’insegnamento di Crisafulli, e prima ancora di Tarello naturalmente.
Tenni l’insegnamento di costituzionale una quindicina d’anni, fino al 2003, se ricordo bene, pubblicando anche un paio di dispense. Con gran divertimento: non si vive di sola teoria generale. Negli ultimi tre anni, mi pare, insegnai per la verità non più il costituzionale di primo anno, ma un “costituzionale speciale” (un complementare) tenendo corsi monografici sulle fonti, sulla giustizia costituzionale, e sui diritti fondamentali.
I miei primi scritti “tecnici” di diritto costituzionale credo siano due voci della ultima edizione del Digesto, su riserva di legge e principio di legalità, dei primi anni Novanta, che scrissi su impulso di Gustavo Zagrebelsky. Nello stesso periodo, su richiesta del compianto Alessandro Pizzorusso (gli ero davvero affezionato), scrissi anche il commento all’art. 101 cost., per il Commentario [Branca] della Costituzione, che allora dirigeva appunto Pizzorusso.
V. A. Poso «La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge». È così?
R. Guastini Beh, in verità il primo comma del 101 cost., a mio modo di vedere, è poco più che una formula declamatoria (anche se a suo tempo cercai di analizzare le diverse possibili connessioni tra funzione giurisdizionale e sovranità popolare). Il secondo comma, per contro, esprime il principio di legalità nella giurisdizione e, pur nella sua estrema concisione, ha un contenuto normativo alquanto problematico e complesso.
Contenuto problematico, anzitutto, perché il vocabolo “legge” ammette almeno tre interpretazioni: può essere inteso nel senso di legge formale, nel senso di atto avente comunque forza di legge, o nel senso generico di fonte del diritto. Ciascuna di queste interpretazioni ha serie conseguenze pratiche. Per esempio, se intendiamo “legge” nel senso stretto di legge formale – come, io credo, dovremmo fare – ne segue che i giudici non sono incondizionatamente soggetti ad applicare anche gli atti cosiddetti “equiparati”; sicché possono (anzi debbono) disapplicare, per esempio, decreti delegati in violazione della delega e/o decreti-legge privi dei requisiti di necessità e urgenza.
Va beh, si fa per discorrere, dal momento che secondo l’interpretazione più o meno pacifica, e secondo me radicalmente sbagliata, qui “legge” è (più o meno) sinonimo di diritto oggettivo.
Contenuto, poi, complesso, dicevo, perché la soggezione (incondizionata) alla legge, e ad essa sola, è cosa ricca di implicazioni. Ne segnalo succintamente qualcuna forse non ovvia.
Intanto, la soggezione alla legge implica il principio iura novit curia (che ha dunque rango costituzionale).
Che i giudici siano soggetti alla legge implica poi che in nessun caso possono negare ad essa applicazione (altra cosa è sospenderne l’applicazione sollevando una questione di legittimità costituzionale).
La clausola “solo alla legge” implica che i giudici possono negare applicazione ad un atto amministrativo, anche a contenuto normativo (un regolamento), quando sia a sua volta non fondato (formalmente) su una previa legge e/o (materialmente) in contrasto con la legge. Così come possono negare applicazione ad un precedente: neppure i precedenti di cassazione possono acquisire valore vincolante (sebbene fortunatamente spesso lo acquisiscano di fatto).
La soggezione dei giudici alla legge implica anche che i giudici devono limitarsi ad applicare le leggi esistenti, non sono autorizzati a crearne di nuove. Non tanto nel senso, ovvio, che nessun atto giurisdizionale può acquisire “forza di legge”, ma nel senso, meno ovvio, che: primo, le decisioni giurisdizionali hanno comunque effetti solo inter partes, mai e poi mai possono avere effetti generali erga omnes; secondo, i giudici, anche in presenza di lacune, devono comunque fondare la decisione su norme preesistenti (mediante la costruzione di norme inespresse, nei modi che è compito della teoria dell’interpretazione identificare).
Considero questione aperta se i giudici (comuni), essendo soggetti solo alla “legge”, abbiano l’obbligo di applicare (anche) la costituzione. Non è affatto ovvio che sì.
V. A. Poso Ho sempre pensato che il giudice sia servitore di almeno due padroni, la legge e la costituzione. Ma, come disse, con una felice immagine Piero Calamandrei: «il giudizio comune è “l’anticamera” della Corte e il giudice, davanti al quale esso pende, è il soggetto cui spetta di aprire o no il “portone” che dà accesso alla Corte costituzionale».
R. Guastini Secondo me, l’applicazione giurisdizionale della costituzione, propriamente intesa, consiste essenzialmente nel giudicare della legittimità costituzionale delle leggi, ma ogni decisione in proposito è ovviamente preclusa ai giudici comuni, essendo competenza esclusiva della Corte costituzionale.
Vero è che, in un certo senso, anche i giudici comuni fanno applicazione della costituzione, quando sollevano una questione (giudicandola non manifestamente infondata) di fronte alla Corte, e ancor più quando fanno interpretazione “adeguatrice” o “conforme”. Nella giurisprudenza della Corte, l’interpretazione adeguatrice da parte dei giudici comuni è addirittura doverosa. E la Corte stessa ne fa uso a piene mani ogniqualvolta pronuncia una sentenza interpretativa.
A me pare invece che, nell’interpretare la legge, i giudici non abbiano altro obbligo se non quello di attribuire ad essa il senso «fatto palese dal significato proprio [id est: comune] delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore» (art. 12.1 disp. prel. cod. civ.). Sicché l’interpretazione adeguatrice, lungi dall’essere doverosa, è anzi giustificata solo quando si accorda con il significato comune delle parole o con l’intenzione del legislatore: il che non sempre è il caso. Anzi: se il significato comune e/o l’intenzione sono già di per sé conformi a costituzione, non c’è proprio niente da “adeguare”. Penso anche che, di fronte ad una disposizione di legge che ammetta anche una sola interpretazione difforme dalla costituzione, il giudice – lungi dall’avere l’obbligo di fare interpretazione adeguatrice – abbia anzi l’obbligo di sollevare questione di legittimità costituzionale di fronte alla Corte. Ciò per la semplice ragione che, evidentemente, non può dirsi “manifestamente” infondata una questione di legittimità costituzionale sopra una disposizione suscettibile di esprimere anche una sola norma in contrasto con la costituzione.
Si legge in una decisione: la Corte «giudica su norme, ma pronuncia su disposizioni» (Corte cost. 84/1996). Ma così non pare. Di fatto, la Corte dichiara la illegittimità costituzionale di una disposizione (così annullandola) solo in casi estremi: quando la disposizione in questione non ammette alcuna interpretazione conforme a costituzione. Per lo più la Corte si pronuncia su norme, niente affatto su disposizioni, giacché, secondo il suo orientamento, «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali [...] ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali», i.e. conformi a costituzione (Corte cost. 356/1996).
La prassi delle sentenze interpretative (specie quelle di rigetto) della Corte a me pare censurabile. Beninteso, è questione di opportunità politica, non di diritto: le sentenze in questione non sortiscono altro esito se non quello di conservare in vita leggi che possono esprimere norme incostituzionali, e la cui interpretazione conforme a costituzione da parte della generalità dei giudici e della pubblica amministrazione non è per nulla garantita.
La Corte ritiene che una legge debba essere dichiarata incostituzionale (con una sentenza “secca” di accoglimento) solo quando non ammette alcuna interpretazione conforme. La mia opinione, invece, è che una legge debba essere dichiarata incostituzionale quando ammette anche una sola interpretazione difforme. Tra l’altro, con evidenti esiti di semplificazione dell’ordinamento.
V. A. Poso Nel percorso dei Suoi studi ha affrontato anche altri temi di diritto costituzionale, immagino.
R. Guastini Naturalmente, la maggior parte dei miei lavori – a metà strada tra dottrina costituzionalistica e teoria generale – verte sulle fonti: suppongo che ne parleremo. Ma mi piace ricordare uno scritterello del 2008 cui sono molto affezionato per il suo valore metodologico, pubblicato su Ragion pratica (e sul sito dei costituzionalisti), che verte sulla funzione presidenziale.
Argomenta (non mi azzardo a dire “dimostra”, per ovvie ragioni epistemologiche) la tesi che le vedute correnti sul Presidente della Repubblica come “potere neutro”, (mero) “garante della costituzione”, etc., sono frutto di Juristenrecht, privo di qualsivoglia base testuale, fondato solo sulla dogmatica del governo parlamentare (la “teoria” del governo parlamentare essendo in qualche modo precostituita all’interpretazione del testo costituzionale). Un solo esempio: chi mai ha detto che il Presidente non possa rifiutare la promulgazione di una legge, l’emanazione di un decreto governativo, o l’autorizzazione alla presentazione di un disegno di legge governativo, se non per ragioni di illegittimità costituzionale (per giunta “manifesta”), giammai per ragioni politiche? Non la costituzione. Trattasi di pura costruzione dottrinale. La verità è che la costituzione assegna al Capo dello stato rilevantissimi poteri squisitamente politici: basta leggerla.
Pensate solo all’epidemia di decreti-legge, che notoriamente sono ormai diventati (non solo scandalosi strumenti di legislazione ordinaria, ma anche) gli strumenti principali di realizzazione dell’indirizzo politico del Governo. L’emanazione dei decreti-legge è un potere, non un dovere, del Presidente: è un suo atto (tecnicamente un atto presidenziale, non governativo). Senza emanazione, l’indirizzo politico del Governo è frustrato. Ma, anche lasciando da parte la patologia (l’epidemia di decreti-legge è appunto una patologia costituzionale), prendete l’autorizzazione alla presentazione di disegni di legge di iniziativa governativa. Il diniego dell’autorizzazione – che è nei poteri del Presidente – può determinare il fallimento dell’indirizzo politico del Governo.
Invecchiando, sono sempre più incline all’interpretazione letterale. Ma i costituzionalisti – a dire il vero i giuristi in genere – rifiutano la prigione dell’interpretazione letterale: preferiscono inventarsi il diritto, piuttosto che interpretare pianamente i testi normativi. Inutile dire che quel mio lavoretto sulla funzione presidenziale è stato completamente ignorato dai colleghi (come pure dall’allora Presidente Napolitano cui, mi risulta, è stato sottoposto).
V. A. Poso Viene proposta, mi sembra di capire, una prospettazione nuova della funzione del Presidente della Repubblica nella forma di Stato.
R. Guastini Intendiamoci: non pretendo mica di cambiare il diritto vigente (quella combinazione di tesi dottrinali e di applicazione o prassi conforme che chiamiamo “diritto vigente”). Nondimeno, il caso della funzione presidenziale è molto istruttivo dal punto di vista non tanto forse del diritto costituzionale positivo, quanto della teoria dell’interpretazione o meglio, direbbe Bobbio, della meta-giurisprudenza. Perché illustra assai bene la potenza nomopoietica della dottrina.
Nota a margine. La dottrina del Presidente come “potere neutro”, garante della costituzione, contrappeso alla maggioranza politica, suona bene: una dottrina liberal-democratica, checks and balances. Ma può avere esiti sciagurati. Un esempio? Il Presidente Mattarella ha recentemente emanato senza fare una piega il primo decreto (cosiddetto “anti-rave”) del governo Meloni: un decreto di contenuto eterogeneo (malgrado la prescrizione della legge 400/1988), palesemente privo dei requisiti di necessità e urgenza (art. 77,1 cost.), e (in parte) evidentemente incostituzionale (art. 17.1 cost.). La “neutralità” (notarile) può dare frutti avvelenati. Un Presidente “garante” non necessariamente funziona come un contrappeso. Forse sarebbe un miglior garante della costituzione se facesse uso del potere niente affatto neutro che la costituzione gli conferisce.
V. A. Poso Parliamo ora delle fonti. Dalle fonti si arriva alle norme. È questo il fondamento della teoria (o delle teorie) dell’interpretazione. O sbaglio?
R. Guastini Intorno al 1985, Paolo Cendon mi chiese di collaborare ad un commentario del codice civile e poi ancora ad un codice civile annotato con la giurisprudenza, da lui diretti. Fu così che cominciai a studiare sistematicamente le fonti e l’interpretazione. Scrissi il commento alle “Preleggi” (ne feci anche una piccola dispensa per i miei studenti di Teoria generale) e studiai la giurisprudenza rilevante. Era la pima volta che studiavo sul serio la giurisprudenza (soprattutto di cassazione), con grande profitto, a dire il vero, soprattutto per la teoria dell’interpretazione.
Nei primi anni Novanta tornai sul luogo del delitto, scrivendo un libretto, ancora sulle “Preleggi”, per un Trattato di diritto privato diretto da Giovanni Iudica e Paolo Zatti.
Ma i miei lavori più importanti in materia di fonti e di interpretazione nacquero su impulso di Luigi Mengoni, che dirigeva allora il Trattato [Cicu-Messineo] di diritto civile e commerciale. Fu appunto Mengoni a chiedermi di scrivere il volume sulle fonti, fino ad allora inesistente, e di aggiornare il volume sull’interpretazione scritto da Tarello (pubblicato nel 1980). Un’impresa da far tremare i polsi, dati il prestigio e la diffusione del Trattato.
Mi misi al lavoro di buona lena, ma tra una cosa e l’altra, dovendo scrivere anche alcuni altri lavori che consideravo “minori” (come il volume del Trattato Iudica-Zatti), mi ci vollero, credo, almeno cinque anni per scrivere il libro sulle fonti.
Il volume ha un titolo, temo, pretenzioso: Teoria e dogmatica delle fonti. In realtà, di “dogmatica” ce n’è ben poca. È un lavoro prevalentemente teorico e, in quanto tale, non molto letto, temo, dai suoi naturali destinatari, i costituzionalisti (credo l’abbiano letto di più i civilisti, abituali frequentatori del Trattato).
In quel libro ho cercato più che altro di descrivere – a livello di meta-giurisprudenza – la dottrina e la giurisprudenza (costituzionale) esistenti, ricostruendone analiticamente la struttura concettuale. Dopo tutto, come dicevo, affinare concetti mediante l’analisi del linguaggio, e niente più, è questo il nocciolo del mio lavoro di “filosofo del diritto”.
Sono abbastanza soddisfatto, per esempio, del lavoro compiuto sul concetto stesso di fonte, sui concetti di legge, di costituzione, di potere costituente, di esistenza e validità, di ordinamento giuridico. Certo, volendo, ci sarebbe ancora da lavorare: la ricerca non ha fine.
Tra l’altro, penso di aver fatto un buon lavoro (originale) sui diversi tipi di relazioni gerarchiche tra norme. L’ordinamento, si sa, ha una struttura gerarchica: le norme non stanno tutte sullo stesso piano; per l’appunto sono gerarchicamente ordinate. Ma in che senso e in che modo esattamente? La risposta è: in quattro sensi e modi distinti, che nessuno sembra aver colto. (a) Un conto è la relazione, puramente formale o strutturale, tra le norme (poniamo) sul procedimento legislativo e le leggi. (b) Altra cosa è la relazione materiale che intercorre (ad esempio) tra costituzione e legge, o tra legge e regolamento, in virtù della quale una certa fonte non può validamente contraddire quell’altra. (c) Diversa è la relazione puramente logica, o linguistica, che intercorre (ad esempio) tra una norma abrogatrice e la norma da questa abrogata (la prima è “superiore” alla seconda solo nel senso che “verte su” di essa a livello di meta-linguaggio). (d) Ancora diversa, infine, è la superiorità assiologica, di valore, che intercorre (per esempio) tra un principio e le norme che lo concretizzano, o tra un principio e l’altro nel giudizio di bilanciamento.
Inutile dire, però, che l’analisi concettuale lascia i giuristi, diciamo così, alquanto freddi, un po’ per la loro cattiva formazione intellettuale, un po’ perché l’analisi mette in luce le manchevolezze e, spesso, l’inconsistenza delle loro “teorie”.
Teoria e dogmatica delle fonti uscì nel 1998. Una decina d’anni dopo, l’editore Giuffré mi chiese un aggiornamento o una nuova edizione. Non me la sentivo… Anche per la (stupida?) ragione che trovavo, e trovo, politicamente ripugnante il nuovo titolo V della parte seconda della costituzione (sono un fautore del centralismo napoleonico): proprio non mi andava di studiarlo e commentarlo. Tra l’altro, nel frattempo avevo smesso di insegnare Diritto costituzionale, sicché non seguivo assiduamente la giurisprudenza della Corte, men che mai la dottrina.
Ebbi l’idea, che considero brillante, di… duplicare il lavoro, dividendolo in due parti relativamente autonome: una parte teorico-generale e una parte di diritto positivo. E soprattutto affidando la parte “positiva” ad un mio allievo finissimo costituzionalista, Giampaolo Parodi (professore a Pavia, all’epoca assistente del giudice costituzionale Fernanda Contri, cara persona).
Nacquero così due volumi. Un primo volume teorico-generale (Fondamenti teorici) di mio pugno. E un secondo di solido diritto positivo (Linee evolutive) scritto da Parodi: io, di certo, non avrei saputo far di meglio.
V. A. Poso Sui temi dell’interpretazione in generale si è misurato con l’opera fondamentale di Giovanni Tarello, ripetendone, solo in parte, la sua impostazione.
R. Guastini Come dicevo, Mengoni mi affidò anche la revisione del volume del Trattato sull’interpretazione. Ma come avrei mai potuto rimettere le mani su un libro scritto dal mio maestro? Neanche a pensarci. Ho preferito scrivere un lavoro – sia pure molto tarelliano nell’impianto teorico – interamente nuovo.
Il libro, L’interpretazione dei documenti normativi, uscì nel 2004. Ma non ne ero molto soddisfatto: non stavo bene di salute, e l’avevo portato a termine in modo un po’ frettoloso, diciamo così per togliermi il pensiero. Sicché qualche tempo dopo proposi a Giuffré una nuova edizione. Il libro, in gran parte nuovo, uscì nel 2011 con il titolo Interpretare e argomentare.
Come era facile aspettarsi, è un’opera molto diversa da quella di Tarello. Il libro di Tarello è una felice combinazione di teoria e storia (tutti i suoi lavori sono così). Io non padroneggio, come lui (o come Bobbio), la storia della cultura giuridica. Mi muovo a disagio nella storiografia. Sicché il mio libro è, come al solito, alquanto “freddo”. Intendo puramente teorico (e in parte meta-teorico): analisi di concetti, di teorie, di argomentazioni. La storia lì proprio non c’è.
Sono moderatamente soddisfatto di questo libro, che è stato generalmente apprezzato, anche all’estero (ben due traduzioni in castellano). Moderatamente soddisfatto, perché il capitolo sull’argomentazione è debole, temo un po’ superficiale, e non adeguatamente illustrato, come dovrebbe, con esempi concreti di dottrina e di giurisprudenza. Basta confrontarlo con l’aureo libretto di Damiano Canale e Giovanni Tuzet, La giustificazione della decisione giudiziale, uscito un paio d’anni fa.
Peraltro, il libro sull’interpretazione del Trattato non esaurisce il mio lavoro analitico in materia di interpretazione: ho scritto in proposito dozzine di saggi in diverse lingue. Anche troppi probabilmente.
V. A. Poso Ci vuole illustrare la Sua “teoria dell’interpretazione”?
R. Guastini Beh, sarebbe un discorso un po’ lungo. Mi limito a mettere a fuoco tre punti che considero importanti.
(i) Il primo punto è la distinzione tra disposizioni e norme (una distinzione un po’ più articolata di quel che si legge in Crisafulli e nello stesso Tarello). Le due cose – le disposizioni e le norme – sono ben distinte per almeno quattro ragioni, del resto abbastanza evidenti.
In primo luogo, molte disposizioni esprimono non una singola norma, ma una pluralità di norme congiuntamente.
In secondo luogo, molte disposizioni (se non tutte) ammettono diverse interpretazioni alternative, sicché esprimono due (o più) norme disgiuntamente.
In terzo luogo, molte disposizioni esprimono non già una norma completa, ma solo un frammento di norma.
In quarto luogo, ogni ordinamento normativo è affollato di norme inespresse (che si pretendono implicite) non formulate in alcuna fonte del diritto: norme, insomma, elaborate, “costruite”, dagli interpreti, ma prive di una disposizione corrispondente.
Tralascio la circostanza che talune disposizioni non paiono esprimere norma alcuna: sono prive di significato normativo (come un’esclamazione o una maledizione).
Il caso paradigmatico di dissociazione tra disposizioni e norme (che rende difficile prendere conoscenza delle norme vigenti) è la pratica giurisprudenziale della Corte costituzionale. Mi riferisco alle decisioni interpretative (di rigetto e di accoglimento), additive, e sostitutive. Giacché la Corte, a torto o a ragione, giudica su norme, non su disposizioni (malgrado la sua stessa opinione in proposito).
(ii) Il secondo punto è la distinzione tra interpretazione “in astratto” e interpretazione “in concreto”.
L’interpretazione in astratto consiste nell’identificare il significato di una disposizione, ossia nell’identificare la norma o le norme espresse o implicate da un enunciato normativo o da una combinazione di enunciati normativi, senza alcun riferimento a casi concreti. E questa è l’interpretazione per eccellenza: il passo “dalle fonti alle norme”, che dà il titolo ad un mio libro. Tutt’altra cosa è l’interpretazione in concreto, che consiste nel sussumere un caso concreto nella fattispecie di una norma previamente identificata in astratto. Sebbene questa seconda cosa presupponga logicamente la prima, e sebbene le due cose siano probabilmente indistinguibili nel processo psicologico di interpretazione (specie se compiuto da un giudice, soprattutto da un giudice di merito), si tratta di due attività intellettuali logicamente distinte. Compito della filosofia del diritto è non già indagare ciò che avviene nella mente degli interpreti (e che io ritengo inconoscibile), ma sottoporre ad analisi logica i loro discorsi.
Sia detto per inciso: confondere interpretazione e applicazione, come fanno sistematicamente gli ermeneutici (credo che ne parleremo), è un grave errore. Intanto perché è una inutile violenza al linguaggio (e forse al senso) comune: giuristi e giudici (come pure organi costituzionali, avvocati, amministratori, e privati cittadini) certo interpretano il diritto – ossia attribuiscono significato ai testi normativi – ma chi mai direbbe che i giuristi “applicano” il diritto? Interpretazione e applicazione sono operazioni intellettuali diverse: la seconda presuppone la prima e, per ciò stesso, non si confonde con essa.
Diciamo così: l’interpretazione in astratto è l’operazione intellettuale che mette capo alla premessa normativa del cosiddetto sillogismo giudiziale, il quale costituisce poi applicazione in concreto della norma identificata in astratto.
(iii) Il terzo punto è la distinzione tra interpretazione propriamente intesa e “costruzione giuridica”. L’interpretazione propriamente intesa è l’attribuzione di significato ad un testo normativo: “La disposizione D esprime la norma N”. La costruzione giuridica è piuttosto la formulazione di norme (o, secondo i casi, di eccezioni) “implicite”, o per meglio dire inespresse. È insomma un’attività genuinamente nomopoietica, che compiono i giudici (e, in generale, gli organi dell’applicazione), ma che caratterizza soprattutto la dottrina. Anzi, è il nocciolo stesso della dottrina o dogmatica che dir si voglia.
Un tratto distintivo del “realismo genovese”, come inaugurato da Tarello (un’eco del pensiero di Savigny?), è la tesi che il diritto è fatto non solo dai giudici (anche se, certo, in ultima istanza dai giudici), ma anche – ancor prima, direi – dai giuristi. Un’idea, mi pare, estranea al realismo per eccellenza: quello americano.
Insomma, l’interpretazione non è un’impresa conoscitiva, e la dogmatica, la dottrina, è non già conoscenza del diritto, ma parte costitutiva del diritto stesso, e quindi non “scienza giuridica”, ma oggetto di studio della scienza giuridica propriamente intesa.
V. A. Poso Ci faccia un esempio per capire meglio.
R. Guastini A commento di una sola riga del codice civile (del 1865), alla fine del XIX secolo C.F. Gabba fu capace di scrivere un’opera in quattro volumi (Teoria della retroattività delle leggi), un migliaio di pagine. Lo capisce anche un bambino: quella non è banale interpretazione testuale, è proprio un’altra cosa, è “alta dogmatica” (come diceva Scarpelli). Ciò che fanno, del resto, tutti i grandi giuristi, da Ulpiano ad Accursio a Domat a Santi Romano, e via enumerando.
Intendiamoci: l’efficacia delle leggi nel tempo è questione seria e spinosa. Ma le nostre biblioteche sono anche affollate di sublimi sforzi esegetici su locuzioni prive in realtà di qualsivoglia tangibile contenuto normativo. Come, ad esempio, “fondata sul lavoro” o “rappresenta l’unità nazionale”.
Sovente, con la costruzione giuridica si colmano lacune, intese banalmente come fattispecie su cui le fonti non dispongono affatto, sono silenti. È lo “spazio vuoto di diritto”, teorizzato in Italia da Santi Romano, negli anni Venti (per negare che possano mai esservi lacune “nel” diritto). Così intese, le lacune non sono un fenomeno occasionale: sono pervasive. Uno spazio vuoto che il divieto di “non liquet” obbliga a colmare.
Nei miei lavori ho cercato di ricostruire la struttura formale di alcuni (solo alcuni) dei ragionamenti mediante i quali si elaborano norme (o eccezioni) implicite. Sempre più mi convinco che una buona teoria dell’interpretazione dovrebbe essere dedicata essenzialmente a questo.
V. A. Poso In estrema sintesi, e fatte salve alcune varianti, sono tre le teorie dell’interpretazione: a) la teoria cognitivistica, secondo cui ogni questione interpretativa ha una sola risposta corretta; b) la teoria eclettica, secondo cui alcune questioni interpretative hanno una sola risposta corretta; c) la teoria scettica, secondo cui nessuna questione interpretativa ha una sola risposta corretta. Se questa tripartizione è corretta, su quale di esse cade la sua opzione e qual è, oggi, lo stato dell’arte delle teorie (o della teoria) dell’interpretazione?
R. Guastini Lo stato dell’arte, sì, è proprio questo: tre “teorie” in competizione (più l’ermeneutica che fa un po’ discorso a sé): cognitivismo, scetticismo, eclettismo. Ma, prima di parlarne, mi domando: davvero queste sono altrettante “teorie” dell’interpretazione? Io non direi. Sono nulla più che tesi discordanti intorno a uno, e solo uno, degli innumerevoli problemi della teoria dell’interpretazione (atto di conoscenza o atto di decisione?). Una ben povera cosa. Una “teoria” dell’interpretazione è ben altro: una articolata struttura concettuale, capace di dar conto delle pratiche interpretative e, ancor più argomentative, di giuristi e giudici. Con una adeguata base empirica.
Direi così: una buona teoria dell’interpretazione consiste in questo: (i) nel costruire un concetto di interpretazione (mediante una opportuna ridefinizione); (ii) nella descrizione, o comunque nella previa ricognizione, delle (o di alcune) pratiche interpretative esistenti in una determinata cultura giuridica; (iii) nell’analisi logica dei diversi tipi di enunciati interpretativi; (iv) nel distinguere diversi tipi di interpretazione (ad esempio: una cosa è interrogarsi sul significato di un testo normativo, altra cosa sussumere una fattispecie concreta nel campo di applicazione di una norma previamente identificata in astratto; una cosa è constatare l’ambiguità di un testo, altra cosa risolverla scegliendo uno dei due significati in competizione; e così via distinguendo); (v) nell’analisi logica dell’argomentazione dell’interpretazione (ossia delle tecniche interpretative in uso, o delle principali tra esse); (vi) nonché – visto l’ampio uso corrente del vocabolo “interpretazione” – nell’analisi logica delle diverse forme e tecniche di “costruzione giuridica”.
Io, peraltro, rappresenterei le tre tesi in questione in modo un po’ diverso, lasciando da parte la correttezza. Un giudizio di correttezza è un giudizio di valore, ovviamente soggettivo, né vero né falso: è questione di politica del diritto. Sembra avere ad oggetto una interpretazione; in realtà, è esso stesso un atto di interpretazione. Inoltre, quando si discorre di correttezza, ci si riferisce di solito non tanto all’interpretazione propriamente intesa (l’interpretazione in astratto), quanto alla soluzione di casi concreti, ossia all’applicazione.
Nei miei lavori sull’interpretazione non c’è una sola riga sulla correttezza. I discorsi sulla correttezza appartengono non alla teoria (descrittiva), ma alla ideologia (prescrittiva) dell’interpretazione.
Sia detto per inciso, tutti coloro che oggi insistono sulla correttezza – più precisamente: sull’esistenza di criteri oggettivi di correttezza dell’interpretazione – non sono mai stati capaci di chiarire quali siano i criteri in questione. Sarà un caso…
V. A. Poso Qual è, nello specifico, l’oggetto delle tre tesi sopra enunciate?
R. Guastini Tecnicamente parlando, le tre tesi riguardano i valori di verità (ossia il vero e il falso) degli enunciati interpretativi. Possono dirsi veri o falsi enunciati del tipo “L’enunciato E significa S”, “La disposizione D esprime la norma N”?
Della tesi cognitivistica – le disposizioni giuridiche hanno un significato oggettivo; l’interpretazione è atto di conoscenza di questo significato preesistente; esistono dunque interpretazioni vere e interpretazioni false – non mette conto parlare, perché è ormai desueta.
La tesi scettica, o realistica, caratteristica della Scuola genovese sostiene al contrario che non esistono interpretazioni vere e interpretazioni false, per la banale ragione che il significato delle disposizioni normative è precisamente una variabile dipendente dell’interpretazione. Ovviamente, vi sono interpretazioni plausibili e interpretazioni insostenibili, interpretazioni consolidate e comunemente accettate (tanto da apparire ovvie) e interpretazioni innovative, etc. Ma la verità e la falsità sono altra cosa. Un conto è l’interpretazione “scientifica” di Kelsen (io la chiamo “cognitiva”), ossia l’analisi spassionata di un testo, così da metterne in luce l’oscurità, l’ambiguità, la vaghezza, le diverse alternative interpretative. Un altro conto è l’interpretazione propriamente intesa: atto di decisione, non di conoscenza, atto discrezionale. Gli enunciati interpretativi non hanno valori di verità.
La mia opinione, peraltro, è che qualunque enunciato linguistico abbia un senso letterale o prima facie condiviso, e dunque un senso socialmente “oggettivo”. Non penso cioè che prima dell’interpretazione gli enunciati normativi siano, alla lettera, privi di significato (così sembra pensare il mio caro amico Michel Troper, con il quale mi è capitato di discutere in più occasioni). In questo, e solo in questo, senso il mio è uno scetticismo “moderato”. Ciò non toglie che i giudici di ultima istanza possano, di fatto e di diritto, fare quel che vogliono: il diritto è ciò che i giudici (più in generale gli organi dell’applicazione, che includono gli organi costituzionali) dicono che è.
V. A. Poso Come che sia, la tesi oggi dominante è quella neo-cognitivistica.
R. Guastini Sì è così. Essa si regge essenzialmente sulla distinzione tra casi chiari e casi dubbi o difficili. I vocaboli del linguaggio normativo, non diversamente dal linguaggio ordinario, sono vaghi: hanno un nucleo di significato indiscutibile (determinato dalle convenzioni linguistiche esistenti: chi mai negherebbe che un TIR sia un “veicolo”?), e intorno ad esso un alone di incertezza (anche un monopattino è un “veicolo”?). Sicché l’interpretazione è mero atto di conoscenza quando applica una norma ad un caso chiaro, è atto discrezionale quando risolve in un senso o nell’altro un caso dubbio.
Questo modo di vedere – inaugurato da Hart (The Concept of Law, 1961) – ha molti difetti, ma ne segnalerò solo uno. È un modo di vedere cieco di fronte all’interpretazione in astratto e, ancor più, ignaro della costruzione giuridica. Si direbbe che chi lo sostiene non abbia mai letto un libro di dogmatica o una sentenza di cassazione (per tacere delle sentenze costituzionali).
La teoria neo-cognitivistica sembra supporre che l’identificazione in astratto delle norme vigenti non sia cosa problematica, giacché i testi giuridici sono formulati in linguaggio naturale, sicché – pare ovvio – devono essere interpretati in conformità alle regole sintattiche e semantiche della lingua di cui si tratta. Sembra non immaginare che vi siano disposizioni ambigue, antinomie da risolvere, lacune da colmare, principi da concretizzare e da ponderare. Suppone insomma che ogni enunciato normativo incorpori univocamente una norma, sia pur vaga, oggettivamente identificabile per via di interpretazione letterale. Sicché i giudici hanno discrezionalità (solo) nella decisione di (alcuni, marginali) casi concreti, i “casi difficili”, che cadono nell’area di penombra del campo di applicazione delle norme. Ma non hanno alcuna discrezionalità nella identificazione delle norme in quanto tali: come se l’interpretazione in astratto fosse materia di conoscenza, non di decisione.
V. A. Poso Viene negata, quindi, ogni discrezionalità, in controtendenza, peraltro, con quello che leggiamo tutti i giorni.
R. Guastini Si nega non, alla lettera, “ogni” discrezionalità: non quella inerente alla soluzione dei casi concreti “difficili”. Ciò che si disconosce totalmente è la discrezionalità inerente all’interpretazione per eccellenza, ossia all’interpretazione in astratto – opera della dogmatica, prima ancora che della giurisprudenza – che è cosa diversa da, e logicamente antecedente a, l’applicazione a casi concreti di norme; le quali, per essere applicate, necessariamente devono essere state previamente identificate in astratto (previamente in senso logico, non psicologico ).
Peraltro, l’idea che l’interpretazione debba attenersi alle convenzioni linguistiche vigenti è ovviamente una tesi normativa, che prescrive (grosso modo) l’interpretazione letterale. Sono tendenzialmente d’accordo con questa istanza metodologica, ma non mi sfuggono i problemi sottesi.
Come dicevo sopra, io penso che qualunque enunciato linguistico (dotato di senso, s’intende) abbia un significato letterale o prima facie condiviso, e dunque socialmente “oggettivo”. Credo anche che l’interpretazione letterale – conforme alle convenzioni linguistiche vigenti – sia, diciamo così, la “meno discutibile”, e la più “certa” o prevedibile. Forse, si potrebbe persino dire che l’interpretazione letterale (eventualmente corretta, in caso di dubbio, dall’interpretazione teleologica) è l’interpretazione senza aggettivi: tutto il resto è costruzione giuridica. La qual cosa sfugge completamente agli adepti della tesi neo-cognitivistica, i quali semplicemente ignorano il fenomeno stesso della costruzione giuridica.
V. A. Poso La discrezionalità dell’interprete – che esprime la sua chiara scelta tra le diverse opzioni possibili – è un valore aggiunto? E in che limiti deve essere perseguita dall’interprete per non tradire lo spirito della legge?
R. Guastini Non sono sicuro di capire la domanda…
La discrezionalità dell’interprete per me è un disvalore. Preferirei che gli interpreti – i giudici in particolare – non avessero discrezionalità affatto. Ma la discrezionalità interpretativa è una specie di fenomeno naturale, come il vento e la pioggia. Si può circoscrivere mediante una opportuna tecnica di redazione delle leggi (è una “disciplina” che mi è capitato di insegnare ai funzionari degli uffici legislativi di alcuni consigli regionali) e mediante un ferreo controllo di cassazione. Ma non è realistico pensare di eliminarla.
D’altra parte, la cattiva tecnica di redazione dei testi normativi non è solo fonte di discrezionalità, è anche un ostacolo alla conoscibilità del diritto. In altra occasione (un seminario in Banca d’Italia) ho analizzato, sebbene solo sommariamente, alcuni ostacoli alla conoscibilità delle disposizioni vigenti (altra questione è la conoscibilità delle norme). Per esempio, la bulimia delle autorità normative, e quindi la sterminata quantità di disposizioni sincronicamente vigenti nell’ordinamento; la instabilità diacronica dei testi normativi, giacché ogni giorno nuovi testi sono promulgati o emanati – spesso praeter necessitatem – sicché sempre nuovi enunciati normativi sono introdotti nell’ordinamento, mentre enunciati previgenti sono derogati, o soppressi e sostituiti.
E poi c’è la tecnica di redazione in senso stretto. Segnalo solo, tanto per discorrere, alcuni difetti redazionali caratteristici e ricorrenti.
È un fatale errore di redazione non già sostituire, ma solo modificare parzialmente un testo previgente; cambiando, ad esempio, non una legge intera, ma solo una disposizione legislativa, sicché la disciplina della materia in questione si trova dispersa in testi legislativi distinti; o anche (e ancor peggio) cambiando solo alcune parole di una disposizione preesistente (o sopprimendole), e non la disposizione nella sua interezza, sicché per identificare la disposizione vigente occorre combinare due (o più) frammenti di enunciati dispersi in testi normativi differenti.
È un fatale errore l’uso selvaggio di rinvii: una disposizione che faccia rinvio ad un’altra disposizione preesistente è priva di significato autonomo e indipendente, sicché non può essere compresa se non in combinazione con una diversa disposizione collocata in tutt’altro testo normativo. Per dare un’idea, ecco l’incipit del comma 16 dell’art 1 della legge 190/2012: «Fermo restando quanto stabilito nell’articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, come da ultimo modificato dal comma 42 del presente articolo, nell’articolo 54 del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, nell’articolo 21 della legge 18 giugno 2009, n. 69, e successive modificazioni, e nell’articolo 11 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, le pubbliche amministrazioni assicurano i livelli essenziali di cui al comma 15 del presente articolo» etc.
È poi fonte di discrezionalità anche l’abrogazione cosiddetta “innominata”. L’abrogazione produce effetti univoci solo quando è espressa e “nominata”, ossia quando il testo normativo di cui trattasi contiene una clausola di abrogazione e inoltre menziona con precisione (con “nome e cognome”, per così dire) le disposizioni normative abrogate; per contro, quando l’autorità normativa detta una nuova disciplina per una fattispecie qualsivoglia senza abrogare espressamente le disposizioni preesistenti, eventualmente reiterando inutilmente il principio lex posterior (abrogazione meramente tacita), il risultato è fatalmente dubbio e potenzialmente controverso.
Potrei continuare a lungo. Ometto, per carità di patria, qualunque considerazione sulla deprecabile struttura interna di tanti documenti normativi (leggi di un solo articolo con centinaia di commi, in palese violazione della costituzione, art. 72.1) e sul cattivo uso della lingua.
Questi sono problemi di conoscibilità dei testi normativi, altra questione, dicevo, è la conoscibilità delle norme. Qui dovrei fare un discorso davvero lungo. Mi limiterò a dire questo.
È abbastanza evidente che condizione necessaria (ancorché non sufficiente) di conoscibilità delle norme vigenti è una giurisprudenza sincronicamente uniforme e diacronicamente stabile, talché ogni disposizione esprima (almeno tendenzialmente) sempre la medesima norma. Stabilità e uniformità della giurisprudenza dipendono, a loro volta, da varie cose.
V. A. Poso Sarebbe sufficiente (ma ci sono controindicazioni) introdurre la regola del precedente vincolante.
R. Guastini Per certo, la giurisprudenza è tanto più stabile e uniforme là dove vige la regola del precedente vincolante. Mi riferisco sia alla regola del precedente “verticale”, in virtù della quale le corti inferiori non possono discostarsi dagli orientamenti interpretativi delle corti superiori; sia alla regola del precedente “orizzontale”, in virtù della quale ogni corte non può discostarsi dai precedenti orientamenti interpretativi suoi propri. È egualmente ovvio che la giurisprudenza è tanto più stabile e uniforme là dove la Corte di cassazione (così come il Consiglio di stato nell’ambito della giustizia amministrativa) esercita un controllo severo e penetrante sopra la giurisprudenza di merito.
Naturalmente, non ignoro quanti e quali modi esistono per ignorare un precedente. Ma tant’è…
Per inciso: s’intende che non necessariamente la regola del precedente vincolante deve essere statuita da una disposizione legale (o costituzionale); può anche imporsi per via consuetudinaria, o in quanto mero diritto giurisprudenziale, come lasciano intendere molte pronunce della Cassazione (per ciò che concerne il precedente “verticale”).
Per contro, la conoscibilità delle norme vigenti è ostacolata da pratiche giurisprudenziali, quali i revirements, specie quando si situano al livello degli organi giurisdizionali di ultima istanza, e l’interpretazione detta “evolutiva” (o “dinamica”). Entrambe queste pratiche fanno sì che una stessa disposizione venga ad esprimere una norma “nuova”, diversa dal passato.
L’interpretazione detta “evolutiva” – argomentata alla luce della “intenzione” del legislatore (a scapito della interpretazione letterale), talora adducendo la “natura dei fatti” – attribuisce ai testi normativi un significato diverso da quello comunemente accolto. Beninteso, si può convenire che l’interpretazione evolutiva sia cosa politicamente buona di fronte all’inerzia del legislatore nell’adattare le leggi esistenti a mutati contesti sociali. Ma è un fatto che essa riduce la conoscibilità del diritto: fino a quando la nuova interpretazione non si sia consolidata, non sia divenuta “diritto vivente”, le decisioni giurisdizionali sono imprevedibili.
Mi sono dilungato su cose marginali. Chiedo scusa. Tornando alla domanda: sullo spirito della legge – spero di non essere scortese – non so proprio che cosa sia. Forse la cosiddetta “ratio”?
La ratio legis è, in ultima istanza, nulla più che una congettura degli interpreti intorno ad una (inesistente) “volontà” o “intenzione” dell’autorità normativa. Più che altro un modo per scartare l’interpretazione letterale (sia benedetta). D’altro canto, è noto che molte leggi non hanno altra ratio se non quella di comporre conflitti politici (o interessi pratici) senza nulla decidere, e rinviando invece la soluzione dei problemi agli organi dell’applicazione (soprattutto ai giudici).
E comunque, anche se fosse, perché mai dovremmo essere devoti allo “spirito” e non alla “lettera”? Ho già espresso la mia preferenza per l’interpretazione letterale, pur con tutte le cautele necessarie.
V. A. Poso L’interpretazione letterale, però – mi sembra di capire – non incontra il favore degli studiosi e degli interpreti.
R. Guastini No: è una gabbia troppo stretta. Che spesso non soddisfa le idee di giustizia degli interpreti (o, più banalmente, l’estetica architettonica delle loro costruzioni dogmatiche).
Del resto, la simpatia (la preferenza) per l’interpretazione letterale non è universalizzabile. Per varie ragioni: ne enumero qualcuna. (a) Anzitutto, di quali convenzioni linguistiche stiamo parlando: quelle vigenti al momento in cui il testo normativo fu promulgato o quelle vigenti al momento in cui quello stesso testo è soggetto ad interpretazione e applicazione? (b) Le convenzioni linguistiche, comunque, sono sempre alquanto elastiche. Non risolvono, ma al contrario evidenziano (o generano), ambiguità degli enunciati e vaghezza dei predicati. (c) Le convenzioni linguistiche non sono applicabili a larghe parti del linguaggio tecnico o semi-tecnico dei testi giuridici: praticamente sono inutilizzabili per tutti i termini su cui esiste non solo una definizione legale, ma anche una previa elaborazione dogmatica. (d) Le convenzioni linguistiche nulla dicono intorno ai due diversi possibili usi dell’argomento a contrario. Data una disposizione che conferisce il diritto di voto ai cittadini (è un esempio che ho usato altre volte perché mi pare illuminante), che cosa dobbiamo pensare dei non-cittadini? Che la disposizione tacitamente neghi loro il diritto di voto (norma “implicita”), o invece che non dica nulla al riguardo (lacuna, “spazio giuridico vuoto”)? (e) Le convenzioni linguistiche possono condurre a risultati intuitivamente assurdi dal punto di vista assiologico. Chiedo scusa se utilizzo il solito, abusato e stucchevole, esempio di scuola: data una norma che proibisce l’ingresso di “veicoli” nel parco, chi mai sosterrebbe che tale norma è indefettibile sicché si applica anche alle ambulanze? (f) Le convenzioni linguistiche non risolvono lacune, antinomie, problemi di “defettibilità” (ossia di eventuali eccezioni implicite); men che mai i problemi di ponderazione tra principi in conflitto.
Come che sia, tornando alla teoria neo-cognitivistica di cui si stava parlando, essa condivide con la teoria ermeneutica (su cui, immagino, torneremo) la “ossessione del caso concreto”, sicché il suo discorso è programmaticamente circoscritto all’applicazione giurisdizionale. Non ha nulla da dire intorno alla interpretazione dottrinale dei giuristi accademici. E questo è un difetto serio per almeno due ragioni.
Da un lato, l’interpretazione giudiziale e l’interpretazione dottrinale richiedono un trattamento indipendente, giacché sono ovviamente diverse dal punto di vista dell’analisi logica. Per esempio, l’interpretazione dottrinale non involge la soluzione di alcun caso concreto, che è invece un tratto necessario dell’interpretazione giudiziale; a differenza dei giuristi, i giudici non possono limitarsi a identificare i problemi di equivocità dei testi normativi e di vaghezza delle norme (concludendo che la questione non liquet), ma devono risolverli; etc.
Dall’altro lato, sono i giuristi che forniscono ai giudici concetti, dottrine, strumenti interpretativi, e schemi di ragionamento. Di fatto, la pratica interpretativa e dogmatica dei giuristi condiziona la stessa forma mentis dei giudici. L’interpretazione giudiziale non può essere compresa indipendentemente dalla dogmatica.
V. A. Poso Spesso l’interprete si trova ad affrontare il rapporto tra le norme espresse e le norme inespresse e non è facile arrivare ad una soluzione sistematica.
R. Guastini La distinzione tra norme espresse e inespresse è, a mio modo di vedere, fondamentale per comprendere la natura stessa della costruzione giuridica in dottrina e in giurisprudenza.
Conveniamo che ogni enunciato normativo – forse con qualche trascurabile eccezione – ammette “socialmente” una pluralità di interpretazioni. Socialmente, nel senso che non ogni interpretazione astrattamente possibile è… presentabile in società. Tanto per dire – ipotesi un po’ estrema, lo ammetto – chi mai si azzarderebbe a sostenere che nell’art. 49 cost. il vocabolo “cittadini” denota solo i cittadini maschi, dal momento che a differenza del precedente art. 48 omette di specificare «cittadini, uomini e donne»? Banalmente: non qualunque interpretazione è seriamente argomentabile, per ragioni “sociali”, appunto, non semantiche.
Orbene, sono – o producono – norme espresse tutte e sole le interpretazioni plausibili, socialmente ammissibili, di una disposizione (o di una combinazione di disposizioni).
Sono norme inespresse tutte le altre, tutte le norme cioè che nessuna autorità normativa ha mai formulato. Una norma inespressa non corrisponde a – non è sostenibile che costituisca il significato di – alcuna specifica disposizione (o combinazione di disposizioni).
Un solo, macroscopico, esempio. Si legge in una sentenza recente della Corte costituzionale in materia di ammissibilità del referendum abrogativo (Corte cost. 56/2022: nulla di nuovo, intendiamoci; la Corte qui non fa che reiterare una sua giurisprudenza risalente e ormai consolidata a partire dalla sentenza 16/1978): (1) Il quesito da sottoporre al giudizio del corpo elettorale deve consentire una scelta libera e consapevole, richiedendosi che esso presenti i caratteri della chiarezza, dell’omogeneità, dell’univocità, nonché una matrice razionalmente unitaria. (2) Non sono ammissibili richieste referendarie che siano surrettiziamente propositive. (3) Sono sottratte all’abrogazione totale mediante referendum le leggi costituzionalmente necessarie, la cui mancanza creerebbe un grave vulnus nell’assetto costituzionale dei poteri dello Stato. (4) Sono egualmente sottratte all’abrogazione le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato il cui nucleo normativo non può venire alterato o privato di efficacia, senza che ne risultino lesi i corrispondenti specifici disposti della Costituzione stessa (o di altre leggi costituzionali). (5) Il quesito referendario deve incorporare l’evidenza del fine intrinseco all’atto abrogativo, cioè la puntuale ratio che lo ispira. In questo modo, la Corte formula una lunga serie di norme (presuntivamente di rango costituzionale). All’evidenza, non si tratta di enunciati interpretativi: queste formulazioni normative non sono prodotto di interpretazione, per la banale ragione che manca l’oggetto dell’interpretazione, ossia il testo interpretato. Non solo nel senso che il testo interpretato non è menzionato (potrebbe essere sottinteso), ma nel senso che proprio non c’è. Le norme in questione sono frutto consapevole non di interpretazione, ma di costruzione giuridica: sono norme costruite, elaborate, ex novo dalla Corte.
Ogni norma inespressa è ricavata da una o più norme espresse mediante un ragionamento nel quale figurano, come premesse, una o più norme espresse – di solito in combinazione con una qualche assunzione dogmatica – e del quale ragionamento la norma inespressa costituisce conclusione. La costruzione giuridica, riecheggiando, come ho fatto altre volte, il titolo di un famoso ed aureo libretto di Piero Sraffa, è “produzione di norme a mezzo di norme”.
Comunemente, diciamo “implicite” queste norme non formulate. Ma non sono per nulla implicite in senso stretto, ossia in senso logico, perché i ragionamenti che mettono capo a norme inespresse sono argomenti non deduttivi, più o meno persuasivi, ma non logicamente validi, e soprattutto includono premesse che non sono norme positive, ma tesi dogmatiche. Mi spiego con un esempio. La norma “I diciottenni hanno diritto di voto” – essa sì implicita in senso stretto – deriva logicamente dalla congiunzione delle norme “I diciottenni sono maggiorenni” e “I maggiorenni hanno diritto di voto”. Per contro, la norma secondo cui la legislazione statale interna è inapplicabile quando è in conflitto con il diritto dell’Unione europea (Corte di giustizia europea, Costa, 1964) è frutto di un ragionamento che combina una norma del Trattato (la applicabilità diretta dei regolamenti) con la tesi (trattasi appunto di tesi dogmatica, non di una norma positiva) che il diritto dell’Unione europea e il diritto degli stati membri costituiscano un ordinamento unico e che le norme europee siano sovraordinate a quelle statali.
La elaborazione e formulazione di norme inespresse è il cuore stesso della dogmatica: una sorta di legislazione “apocrifa” degli interpreti. Necessaria a colmare lacune e a concretizzare principi. La formulazione di eccezioni inespresse, poi, è uno strumento di soluzione di antinomie.
Beninteso, la linea di confine tra norme espresse e norme inespresse è labile, perché sovente è discutibile se una data norma costituisca uno dei significati ammissibili di una data disposizione, e sia dunque frutto di genuina e “normale” interpretazione, o sia invece frutto di costruzione giuridica.
Gran parte della letteratura sull’interpretazione è dedicata all’analisi dei “metodi” interpretativi, cioè agli argomenti retorici che si adducono a sostegno della interpretazione prescelta, e annovera lavori davvero eccellenti (Giovanni Tarello, Chaïm Perelman, Enrico Diciotti, Pierluigi Chiassoni, Damiano Canale e Giovanni Tuzet, Giorgio Pino). Senonché molte operazioni intellettuali compiute da giudici e giuristi non sono affatto operazioni interpretative: sono, per l’appunto, operazioni costruttive. E, del resto, non tutti gli argomenti comunemente detti “interpretativi” sono propriamente tali: alcuni di essi sono piuttosto “costruttivi”. Esempi paradigmatici e alquanto ovvi: l’argomento analogico e l’argomento a contrario.
In verità, credo che quanto sto dicendo sia un po’ la scoperta dell’acqua calda. Ma lo ripeto per suggerire che forse dovremmo dedicare i nostri studi all’analisi non tanto dei metodi interpretativi, come si è soliti fare, quanto delle tecniche argomentative usate, case by case, per costruire norme nuove. Il che praticamente consiste, credo, nell’analizzare le trame concettuali delle “teorie” elaborate dalla dogmatica e, secondariamente, dalla giurisprudenza. Se ne trova qualche esempio nei miei studi di teoria e meta-teoria costituzionale.
V. A. Poso Le lacune normative sono un problema che può risolvere l’interprete e con quali strumenti?
R. Guastini Per prima cosa, bisogna distinguere tra diversi concetti e tipi di lacuna.
(a) Vi è, anzitutto, un concetto ristretto e molto tecnico, introdotto anni fa da Carlos Alchourrón ed Eugenio Bulygin (nel libro Normative Systems del 1971, forse l’opera di teoria giuridica più importante del secolo scorso dopo la seconda Dottrina pura del 1960; se ne legge la traduzione italiana nella collana “Analisi e diritto” di Giappichelli). Si tratta di questo: c’è una lacuna ogniqualvolta il legislatore ha disciplinato due fattispecie semplici, diciamo A e B, ma ha omesso di disciplinare la loro combinazione, ossia la fattispecie complessa A+B. Non so dire quanto frequente sia questo fenomeno.
(b) Vi è poi il concetto generico e di senso comune, fatto proprio da Karl Bergbohm e adottato da Santi Romano. Ne ho fatto cenno già prima: è l’idea di “spazio giuridicamente vuoto”, l’insieme di quelle fattispecie che risultano giuridicamente “indifferenti” semplicemente perché prive di qualsivoglia disciplina giuridica, come, poniamo, l’uso del guanciale nel sugo all’amatriciana. Le lacune di questo tipo sono ovviamente pervasive (e inquietanti).
(c) E vi è infine il concetto di lacuna assiologica. L’ordinamento presenta una lacuna assiologica (deontologica, ideologica, come pure si usa dire) allorché una data fattispecie è sì disciplinata – si noti bene – ma è disciplinata in modo insoddisfacente agli occhi dell’interprete, sicché “manca” nell’ordinamento non una norma qualsivoglia, bensì una norma “giusta”.
Poniamo che una disposizione riconnetta la conseguenza giuridica “non obbligo di risarcimento” alla fattispecie “danno non patrimoniale” (“Non vi è obbligo di risarcimento per il danno non patrimoniale”). Quella conseguenza giuridica si applica ai danni non patrimoniali tutti, senza distinzioni. Senonché, per ipotesi, la classe di fattispecie “danno non patrimoniale” include diverse sottoclassi: tra le altre, danni morali e danni biologici rispettivamente. E può accadere che la conseguenza giuridica disposta dalla legge appaia ad un interprete assiologicamente inadeguata, ingiusta, per i danni biologici (o esistenziali). Per argomentare la presenza di una lacuna assiologica costui potrebbe ragionare più o meno nel modo che segue.
Si danno due tipi sostanzialmente diversi di danni non patrimoniali: i danni morali e i danni biologici, i quali esigono discipline distinte (è questa la tecnica interpretativa della “dissociazione”). La conseguenza giuridica disposta dal legislatore, “non obbligo di risarcimento”, è ragionevole per i danni morali, ma è irragionevole per i danni biologici. La disposizione in questione deve dunque essere intesa come riferita ai soli danni morali (interpretazione restrittiva). Per conseguenza, la fattispecie “danno biologico” resta priva di disciplina: l’ordinamento è lacunoso in relazione a questa fattispecie.
Può anche accadere (sulla questione ha scritto cose egregie Gianpaolo Parodi) che “manchi” una norma che sarebbe richiesta da un’altra norma superiore: concretamente, da una norma costituzionale. Per esempio, dal principio di eguaglianza, inteso come obbligo di trattare in modo eguale i casi eguali, in modo diverso i casi diversi.
Il legislatore non ha preso in considerazione una differenza (a giudizio dell’interprete) “sostanziale” o “rilevante” tra due classi di fattispecie, e ha dettato per esse la medesima disciplina, omettendo di differenziarle, sicché una stessa conseguenza giuridica è connessa a fattispecie “sostanzialmente” diverse: manca una norma differenziatrice. Oppure: il legislatore, nel disciplinare una data classe di fattispecie, ha omesso di disciplinare nello stesso modo un’altra classe di fattispecie, ritenuta dall’interprete “sostanzialmente” eguale alla prima, sicché a fattispecie “sostanzialmente” eguali sono connesse conseguenze giuridiche distinte: manca una norma eguagliatrice.
Quanto alla domanda come si risolvano le lacune, non ho molto da dire: è ovvio, si risolvono costruendo norme e/o eccezioni implicite. La cosa interessante è analizzare caso per caso le tecniche di costruzione impiegate. Ma, appunto, caso per caso: qualunque generalizzazione sarebbe poco illuminante.
V. A. Poso Teoria ermeneutica versus teoria analitica. Quali sono le ragioni di questo distinguo, di questa contrapposizione?
R. Guastini La teoria ermeneutica dell’interpretazione ha una componente propriamente “teorica”, nel senso di puramente descrittiva, e una evidente componente “ideologica”, nel senso di prescrittiva.
Entrambe sono accomunate da ciò che in altra occasione – discutendo anni fa un libro di Franco Viola e Giuseppe Zaccaria – ho chiamato “l’ossessione del caso concreto”, nel senso che l’orizzonte della teoria ermeneutica è circoscritto ai problemi di applicazione, di soluzione di casi concreti, e dunque all’interpretazione giudiziale.
Da questo punto di vista, l’interpretazione non ha nulla a che vedere con la conoscenza del diritto, con la “scienza giuridica”. Essa è piuttosto un’attività “pratica”, non cognitiva. L’interpretazione dipende dal caso concreto sottoposto al giudice, e non può avere altro scopo che trovare la (giusta) soluzione del caso in questione.
Insomma, non c’è interpretazione senza applicazione. Anche l’interpretazione dottrinale è sempre rivolta alla soluzione di casi concreti, sebbene non a casi reali, ma a casi immaginari. Paradossalmente, dunque, non solo la giurisprudenza, ma anche la dottrina “applica” il diritto. Questo modo di vedere, che svaluta radicalmente l’interpretazione in astratto, come pure l’interpretazione puramente cognitiva (o “scientifica”, per dirlo con Kelsen), e non distingue tra interpretazione e applicazione, contraddice palesemente il linguaggio (e il senso) comune dei giuristi.
La componente descrittiva della teoria, ridotta all’osso, consiste in una serie di congetture intorno al processo mentale di interpretazione: quel che accade nella mente del giudice. Tre congetture in particolare:
(a) la congettura che il giudice muova non dall’interpretazione testuale, ma dalla previa rappresentazione e valutazione del caso concreto a lui o lei sottoposto;
(b) la congettura che il giudice si accosti all’interpretazione dei testi normativi guidato: per un verso, da un bagaglio di presupposizioni e condizionamenti culturali (non necessariamente consapevoli) di vario genere; per un altro verso, dalle sue precostituite idee di giustizia, in generale e in relazione alla specifica controversia di cui trattasi;
(c) la congettura che la giustificazione della decisione (la motivazione), e in particolare delle scelte interpretative, sia nulla più che la razionalizzazione ex post di valutazioni lato sensu morali (“ragionare” significa inferire conclusioni da premesse; “razionalizzare” significa costruire premesse ad hoc a giustificazione di conclusioni previamente stabilite): il giudice prima decide il caso secondo giustizia, dopo cerca la disposizione normativa idonea, opportunamente interpretata, a giustificare la decisione.
D’altra parte, gli ermeneutici sembrano pensare che ciò che i giudici, a loro avviso, comunemente fanno (vedi sopra) sia fatto bene.
La componente prescrittiva, egualmente ridotta all’osso, consiste dunque in una raccomandazione, rivolta al giudice, di non decidere – diciamo così – applicando “ciecamente” o “meccanicamente” le norme esistenti, ma di decidere invece cercando la giustizia del caso concreto, una giustizia, dunque, case by case, scegliendo l’interpretazione più conveniente in vista del risultato. Insomma: decidendo, diciamo, secondo giustizia più che secondo diritto.
Come dice (in modo tanto suggestivo quanto oscuro) Gustavo Zagrebelsky, «il caso preme sul diritto attraverso l’interpretazione», nel senso che ogni caso concreto ha le sue proprie, oggettive, esigenze di giustizia.
Sicché il primo passo dell’interpretazione è non già l’interpretazione della legge, ma la “interpretazione” – la “categorizzazione” – del caso, ossia la cosiddetta “precomprensione”, che consiste nel dare al caso un “senso” e un “valore”, cioè nell’identificare le esigenze di giustizia che esso incorpora. Compito del giudice infatti è, prima, soddisfare questa domanda di giustizia, ossia trovare la soluzione giusta, e dopo cercare l’interpretazione della legge utile a giustificare la soluzione prescelta. A questo scopo, direbbe Paul Feyerabend (parlando non di diritto, ma di metodologia delle scienze), anything goes: qualunque metodo interpretativo va bene.
“Interpretare” un caso, “categorizzare” un caso. Che vuol dire? Gli ermeneutici non si accorgono che il vocabolo “interpretazione” acquista un senso del tutto diverso quando si parla di interpretare un caso (i.e. un fatto) e rispettivamente un testo. Il verbo “interpretare” assume significati affatto diversi a seconda del suo complemento oggetto. Interpretare un testo vuol dire attribuire ad esso significato (Sinn e Bedeutung, direbbe Frege: senso e denotazione). Ma i fatti non hanno affatto un significato in questo senso della parola. Interpretare un fatto vuol dire banalmente qualificarlo, sussumerlo sotto una norma. È ovvio, infatti, che un medesimo fatto può essere classificato (qualificato) come esercizio della libertà di espressione o invece come violazione della intimità della vita privata; un altro fatto può essere classificato come assassinio o invece come esercizio di legittima difesa; etc.
V. A. Poso Questo discorso è assai complesso e merita di essere ulteriormente sviluppato, per una migliore comprensione del problema che pone.
R. Guastini Va bene. Cerco di svolgere ancora qualche osservazione a margine di quello che ho già detto sopra.
In primo luogo, pare che gli ermeneutici non distinguano tra interpretazione e applicazione – anzi espressamente sostengono che non si dà interpretazione senza applicazione – malgrado che le due cose siano manifestamente diverse. È ovvio, ad esempio, che giuristi e giudici “interpretano” i testi normativi, ma sarebbe del tutto inappropriato dire che i giuristi li “applicano”.
Come che sia, una teoria dell’interpretazione circoscritta all’interpretazione giudiziale, e che dunque tace completamente sull’interpretazione dottrinale (e, in qualche caso, si spinge a squalificarla come irrilevante), è una teoria insoddisfacente per varie ragioni.
Intanto, per la ragione, abbastanza ovvia, che si tratta di una teoria monca (incompleta, non esauriente). Poi, per la ragione che non è pensabile un diritto senza giuristi, come non è pensabile una religione senza preti. Poi, ancora, perché risulta piuttosto chiaro, ad uno sguardo disincantato, che molto di ciò che consideriamo diritto vigente è Juristenrecht, diritto creato appunto dai giuristi, e poi fatto proprio dai giudici (lo sanno bene i giuslavoristi che hanno letto il magistrale libro di Tarello sulle dottrine del diritto sindacale). E infine perché è precisamente la dottrina che fornisce ai giudici gli strumenti sia concettuali, sia metodologici, necessari alle loro argomentazioni: dopo tutto, i giudici si formano nelle Facoltà di giurisprudenza, ed è la dottrina, come ho già detto, che determina la loro stessa forma mentis.
In secondo luogo, va detto che le congetture ermeneutiche intorno ai processi psicologici, tramite i quali i giudici pervengono alle loro decisioni, per quanto molto plausibili, sono appunto null’altro che congetture su menti altrui: come tali, difficili da verificare empiricamente.
In terzo luogo, la tesi normativa che il giudice debba ricercare la giustizia del caso concreto, debba insomma decidere secondo equità, si risolve nell’idea che le norme giuridiche (tutte, almeno tendenzialmente) siano “defettibili”, derogabili, ossia soggette ad eccezioni implicite, non identificabili in astratto, cioè in sede di interpretazione testuale, e non enumerabili esaustivamente ex ante, ma identificabili solo in sede di applicazione a casi concreti.
Per inciso: la tecnica interpretativa idonea allo scopo è l’argomento della dissociazione. Vedi sopra quanto dicevo a proposito di lacune assiologiche. Il legislatore ha disciplinato, alla lettera, la classe di fattispecie F (“trasporti”, poniamo); ma la classe F include due sottoclassi, F1 e F2 (trasporti urbani ed extraurbani; oppure trasporti su gomma e su rotaia), “sostanzialmente diverse”, e dunque meritevoli di diverse discipline; alla luce di una presunta ratio legis si deve ritenere che il legislatore intendesse disciplinare solo la sottoclasse F1; sicché la norma non si applica alla sottoclasse F2 (lacuna).
Ora, la dottrina dell’equità è discutibile non solo, com’è ovvio, dal punto di vista etico-politico, ma anche dal punto di vista del diritto positivo vigente, giacché sembra porsi in conflitto con i principi costituzionali di eguaglianza (art. 3.1 cost.) e di legalità nella giurisdizione (art. 101.2 cost.), che caratterizzano lo stato di diritto. Principi, in virtù dei quali i casi sottoposti alle corti devono essere risolti in conformità a norme generali precostituite, e le norme devono essere uniformemente applicate a tutti i casi che ricadono nel loro campo di applicazione (e, ovviamente, solo ad essi), senza eccezioni.
A margine, si può osservare che la congettura che la motivazione delle sentenze sia nulla più che la razionalizzazione ex post di decisioni assunte in virtù di impulsi emotivi, dunque irrazionali, è una tesi che richiama (inconsapevolmente?) il modo di vedere caratteristico di un certo “realismo” americano: un realismo estremo, quel rule-scepticism che nega l’esistenza stessa, o comunque la rilevanza, di norme precostituite alle decisioni giurisdizionali, giacché assume per l’appunto – ancora una congettura non logica, ma psicologica – che i giudici decidano guidati (solo) da impulsi irrazionali. Da questo, ma solo da questo punto di vista, gli ermeneutici non sono troppo lontani dai (da certi) realisti.
V. A. Poso Veniamo finalmente alla teoria analitica.
R. Guastini La teoria analitica dell’interpretazione non ha – per quanto posso vedere – una componente “ideologica”, nel senso di prescrittiva. Gli analitici pretendono solo di descrivere la pratica interpretativa, non di orientarla. Non perché non abbiano anch’essi preferenze ideologiche, di politica del diritto, ma perché pensano che la “teoria” dell’interpretazione non sia il luogo adatto per manifestarle e propagandarle.
Il vocabolo “interpretazione” – lo rilevò Tarello molti anni fa – soffre della tipica ambiguità processo-prodotto: è usato a denotare, secondo i contesti, ora un’attività, ora il suo risultato. Quando si dice, poniamo, che l’applicazione presuppone l’interpretazione, ci si riferisce palesemente ad un’attività; ma, quando si dice, per esempio, che la tale interpretazione è restrittiva, la tal altra è estensiva, che questa è corretta mentre quella è improponibile, e così avanti, ci si riferisce evidentemente al prodotto di un’attività interpretativa, non all’attività stessa.
Ora, l’attività interpretativa è un’attività mentale, come tale inafferrabile (se non forse con gli strumenti analitici della psicologia cognitiva). Il prodotto dell’interpretazione, per contro, è un discorso: come tale suscettibile di analisi logica (in senso ampio).
La teoria analitica dell’interpretazione, ritenendo di non avere accesso alla mente dei giudici e degli interpreti in genere (o, se è per questo, alla mente di chicchessia), preferisce dedicarsi non ai processi intellettuali degli interpreti, ma ai prodotti di questi processi: ossia al discorso interpretativo. E, per ciò che riguarda in particolare l’interpretazione giudiziale, la teoria analitica volge lo sguardo non alla psicologia, ma alla logica. Come si suol dire in filosofia della scienza, non alla “scoperta” della decisione, ma alla sua “giustificazione”: tecnicamente parlando, non ai “motivi”, ma alle “ragioni”.
La psicologia offre “motivi”, la logica fornisce “ragioni”. I motivi sono stati (o eventi) mentali, psichici: sono gli impulsi, le emozioni, gli atteggiamenti, i sentimenti, etc., che inducono ad avere una credenza, a sostenere una tesi, o a prendere una decisione (sono insomma cause, non ragioni, non argomenti). Le ragioni sono invece enunciate in lingua che si adducono pubblicamente a sostegno o giustificazione di una tesi o di una decisione: sono, in altre parole, premesse di un ragionamento. Il vocabolo, “motivazione”, di uso comune per denotare una delle due parti costitutive di qualunque sentenza, è alquanto fuorviante, giacché denota propriamente una esposizione non già di “motivi” (come pure si usa dire), ma di “ragioni”. La motivazione è, insomma, un ragionamento.
V. A. Poso Possiamo considerare la giurisprudenza come fonte del diritto?
R. Guastini Sì, capisco che, dopo quel che ho detto fin qui sull’interpretazione e, ancor più, sulla costruzione giuridica, questa domanda sia inevitabile.
Ora, è abbastanza ovvio che nell’ordinamento vigente la giurisprudenza non può essere fonte di diritto in senso tecnico: diciamo che lo esclude l’art. 101.2 della costituzione, in virtù del quale i giudici sono incondizionatamente soggetti alla “legge” (vocabolo che secondo alcuni, come dicevo sopra, significa nulla più che “diritto oggettivo”). Le cose stanno diversamente negli ordinamenti di common law, dove almeno alcune decisioni giurisdizionali hanno valore di precedente vincolante, e nell’ordinamento svizzero, nel quale i giudici sono espressamente autorizzati a creare diritto nuovo in presenza di lacune (art. 1.2 del codice civile).
Peraltro, anche nell’ordinamento vigente esistono talune decisioni giurisdizionali – le sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, le (rare) sentenze con cui un giudice amministrativo osa annullare un regolamento – che, proprio come la legge, hanno efficacia generale erga omnes. Sono fonti del diritto? Direi di sì, ma francamente mi pare una questione puramente verbale.
Se lasciamo da parte il diritto positivo dell’uno o dell’altro ordinamento, il problema si risolve nella (vetusta) questione se i giudici creino diritto. Ne ho discusso in diverse occasioni, criticando alcune idee correnti, ma fallaci, in proposito. Non mi sembra il caso di tornarci sopra.
D’altra parte, chi mai oggi negherebbe che in qualche senso i giudici creino diritto? Il punto interessante è chiarire in che senso, in che modo, quali giudici, in quali circostanze. Provo a dirlo in maniera succinta.
Possiamo convenire, credo, che “creare diritto” significhi modificare l’ordinamento quale esso è in un momento dato. Ma, parlando di ordinamento ci riferiamo ad un insieme di disposizioni o invece ad un insieme di norme (vigenti, ossia effettivamente applicate)? In entrambi i casi, abbiamo a che fare con un insieme. Ora, un insieme può essere modificato aggiungendo o sottraendo uno degli elementi che lo compongono (trascuro per semplicità la sostituzione di un elemento, che consiste in una combinazione di sottrazione e addizione).
Ebbene, è evidente che – salvo quanto dirò tra un momento a proposito di illegittimità costituzionale – solo i legislatori (nel senso generico di autorità normative) modificano l’ordinamento inteso come insieme di disposizioni, introducendo disposizioni nuove e, rispettivamente, eliminando (per abrogazione espressa “nominata”) disposizioni preesistenti.
I giudici (come anche i giuristi) possono solo modificare l’ordinamento inteso come insieme di norme, non di disposizioni. Con l’eccezione del giudice costituzionale, il quale (beninteso se giudica a posteriori, come accade nel nostro ordinamento) elimina disposizioni preesistenti quando pronuncia una sentenza “secca”, cioè non-interpretativa, di illegittimità costituzionale, annullando senz’altro la disposizione cui si riferisce.
I giudici ordinari modificano l’ordinamento, inteso come insieme di norme, formulando – in motivazione – norme nuove (inespresse) e/o introducendo eccezioni (“implicite”) in norme preesistenti. Sono, queste, operazioni di costruzione giuridica, di cui già abbiamo parlato.
Il giudice costituzionale, dal canto suo, elimina norme (non disposizioni) quando pronuncia una interpretativa di accoglimento. Introduce o sostituisce norme preesistenti quando pronuncia una additiva o, rispettivamente, una sostitutiva.
Come ho già detto, credo, la costruzione giuridica serve a colmare lacune, concretizzare principi, risolvere antinomie. Ma vale la pena di aggiungere una piccola postilla a proposito di lacune: è una ingenuità pensare che le lacune siano un problema “oggettivo” dell’ordinamento, indipendente dall’interpretazione. Al contrario, le lacune sono il risultato di una determinata interpretazione, che una interpretazione diversa, forse, eviterebbe. In altre parole, si crea diritto non solo colmando lacune, ma prima ancora creando le lacune stesse: specie le lacune assiologiche.
V. A. Poso Secondo un diffuso modo di vedere, l’interpretazione costituzionale è del tutto diversa dalla comune interpretazione delle leggi e di altri testi normativi. Ritiene corretta questa opinione?
R. Guastini Sì e no. Di che stiamo parlando esattamente? Degli interpreti? Dei metodi interpretativi? Dei problemi di interpretazione?
Ma, prima di entrare in medias res, occorre una premessa. Tutti quelli che oggidì discorrono di interpretazione costituzionale (alcuni, detti neo-costituzionalisti, in un certo senso non parlano d’altro) sembrano identificare la costituzione con la dichiarazione dei diritti. Il compianto Ronnie Dworkin è un esempio preclaro.
Si tratta di un errore concettuale – ma, prima ancora, politico – gravissimo. È pur vero che ormai quasi tutte le costituzioni scritte vigenti includono una dichiarazione dei diritti. Ma una costituzione non è questo: un documento costituzionale può includere, contingentemente, una dichiarazione dei diritti, ma una costituzione – per definizione, direi – è un’altra cosa. È un insieme di norme di organizzazione e di competenza. Soggetta come tale, in linea di principio, solo all’interpretazione e all’applicazione dei supremi organi costituzionali. Salvo laddove esistano un giudice costituzionale e un istituto del tipo dei conflitti di attribuzione del nostro ordinamento. E su questo tipo di interpretazione, su queste pratiche interpretative, le teorie correnti dell’interpretazione sono drammaticamente mute. Ciò detto, distinguiamo tra interpreti, metodi, e problemi.
(a) Gli interpreti – “autentici”, direbbe Kelsen, quelli cioè le cui decisioni sono inoppugnabili – sono variabili dipendenti dell’assetto costituzionale esistente. Ad esempio, vigente lo Statuto albertino, in assenza di qualsivoglia controllo di legittimità costituzionale delle leggi, gli interpreti “ultimi” della costituzione erano semplicemente i supremi organi costituzionali: il monarca, il governo, il parlamento. In una costituzione rigida, assistita dal controllo di legittimità costituzionale delle leggi, la costituzione è soggetta anche all’interpretazione giudiziale, di un giudice sui generis peraltro.
Beninteso, occorre distinguere tra controllo accentrato e controllo diffuso. A tacer d’altro, una dichiarazione di illegittimità costituzionale con efficacia erga omnes è altra cosa da una dichiarazione di illegittimità costituzionale con effetti inter partes. Anche se, naturalmente, la differenza si attenua laddove, pure in regime di controllo diffuso, la decisione di una Corte suprema abbia valore di precedente vincolante.
Nell’ordinamento vigente, l’interprete ultimo è il giudice costituzionale, almeno per ciò che riguarda la parte “sostanziale” della costituzione (dichiarazione dei diritti, disposizioni di principio). Ma occorre ricordare, uno, che una sentenza costituzionale può essere rovesciata da una revisione costituzionale, e, due, che però la Corte si è auto-conferita il potere di sindacare la legittimità costituzionale delle stesse leggi di revisione. S’intende che una legge di revisione potrebbe sottrarsi al controllo sopprimendo la stessa Corte... (Avete presente il poker? La scala massima batte le scale intermedie, ma non la minima, la quale perde contro tutte le scale superiori, ma vince contro la massima, la quale dunque perde contro la minima. Un sistema circolare di checks and balances pressoché perfetto. Nessun giocatore può mai essere sicuro di vincere il piatto sino a che non si scoprano le carte.)
(b) Per quanto posso vedere, i metodi interpretativi – concretamente gli argomenti retorici – usati da giuristi e giudici nell’interpretazione costituzionale (il significato letterale, l’intenzione dell’autorità normativa, i lavori preparatori, etc.) non sono diversi dai metodi che si usano nell’interpretazione della legge e di altri documenti normativi (non mi pronuncio sull’interpretazione del contratto, perché non ho mai studiato la materia). Fatto salvo ciò che dirò tra un momento. Di solito, la tesi della specificità dell’interpretazione costituzionale non ha fondamento empirico; piuttosto, maschera una qualche dottrina normativa dell’interpretazione costituzionale (più precisamente dell’interpretazione della dichiarazione dei diritti): per esempio, l’originalismo di Scalia o invece l’interpretazione evolutiva prevalente nelle Corti europee.
(c) Quanto ai problemi dell’interpretazione costituzionale, la questione è più complessa.
Da un lato, come ho cercato di argomentare nel mio libro, la maggior parte dei cosiddetti “problemi dell’interpretazione costituzionale” non sono affatto genuini problemi di interpretazione (ossia problemi del tipo: qual è il contenuto di senso della tale disposizione?). Sono piuttosto problemi di costruzione giuridica. Pensate, per fare un esempio, alla funzione del Presidente della Repubblica, di cui si diceva sopra. O pensate, per farne un altro a caso, alla identificazione dei diritti inviolabili di cui all’art. 2: tutti i diritti menzionati in costituzione sono, in qualche senso da stabilire, “inviolabili”, o solo quelli espressamente qualificati tali? (Per dire: si può sostenere che la libertà personale e il diritto di difesa sì, perché così espressamente li qualifica la costituzione, i diritti di riunione e di associazione no, perché la costituzione non lo dice.) Ovviamente non si tratta di un problema di interpretazione del vocabolo “inviolabile”, ma, diciamo così, di una “teoria generale” dei diritti costituzionali. O ancora pensate, per fare un esempio di grande rilievo per la dottrina e la giurisprudenza francesi, alla questione se i preamboli abbiano valore normativo, o siano invece un mero “manifesto politico”.
Dall’altro lato, è innegabile che la costituzione – specie la dichiarazione dei diritti e/o le disposizioni di principio – presenti alcuni problemi di interpretazione ricorrenti. Senonché anche questi, a rigore, non sono affatto problemi di “interpretazione” in senso stretto, bensì problemi di costruzione giuridica. Mi riferisco ai problemi di conflitto tra principi e di concretizzazione dei principi. Ma forse questo richiede un discorso a sé… Suppongo che ne parleremo.
V. A. Poso Riprendendo qualche tema di cui abbiamo ragionato sopra, ci interroghiamo spesso sul valore del precedente in un ordinamento come il nostro. Qual è la Sua opinione in proposito?
R. Guastini Questa domanda è ineludibile, lo capisco, ma mi mette in imbarazzo.
Qualche anno fa – in occasione di un convegno dei Lincei, cui mi aveva invitato Natalino Irti – ho studiato il precedente dal punto di vista della teoria dell’interpretazione, assumendo che in un ordinamento di civil law un precedente sia null’altro che una norma (la ratio decidendi) derivante da una precedente interpretazione di una disposizione normativa ovvero da una precedente costruzione di una norma inespressa.
Ma l’imbarazzo deriva dal fatto che non ho mai studiato la pratica del precedente e neppure la giurisprudenza di cassazione in proposito.
Quanto al “valore” del precedente, se è lecito avere un’opinione in proposito anche in mancanza di studi sulla questione, la mia opinione, di politica del diritto, è che il precedente di cassazione – sebbene non possa avere valore vincolante in virtù dell’art. 101.2 cost – debba di fatto vincolare (“persuadere”) i giudici di merito. Per ovvie ragioni: uniformità della giurisprudenza, certezza del diritto, prevedibilità delle decisioni giurisdizionali. E che dunque la cassazione debba esercitare un controllo stringente sul rispetto dei suoi precedenti.
Ma non mi dilungo. In materia di precedente delego tutti i miei poteri, se così posso dire, all’ottimo lavoro di Álvaro Nuñez (un allievo del dottorato genovese), Precedentes: una aproximación análitica, pubblicato recentemente da Marcial Pons.
V. A. Poso Qual è la differenza, se c’è una differenza, tra principi e regole?
R. Guastini Che camurría, direbbe Salvo Montalbano. Mi aspettavo e temevo questa domanda. La questione pare spinosa, ma alla fine è un po’ tediosa, e non sono sicuro che sia così seria come si vorrebbe.
In quanto questione teorica, la distinzione tra “regole” (in inglese “rules”, in italiano banalmente “norme”) e principi ha una data di nascita precisa: nasce esattamente nel 1967. È l’anno in cui Dworkin, fine giurista e simpaticissima persona, pubblica un saggio famoso, nel quale contesta la veduta corrente secondo cui il diritto è un insieme di “rules” (norme) e nulla più. A suo avviso, l’ordinamento include non solo “rules”, ma anche principi. Questi sono diversi da quelle per due ragioni concomitanti.
La prima ragione è che i principi – con la possibile eccezione dei principi espressamente formulati e depositati nel Bill of Rights – sono privi di fonte (scritta). Dworkin era un giusnaturalista, sia pure sui generis: il diritto, pensava, è inseparabile dalla morale. I principi sono non già diritto positivo, ma morale positiva (o quanto meno un ponte tra diritto e morale), e tuttavia, paradossalmente, sono parte integrante del diritto.
La seconda ragione, più interessante, è che principi e regole hanno struttura logica diversa, sicché si comportano diversamente nel ragionamento giuridico. La tesi di Dworkin, a onor del vero, è concettualmente poco elaborata: qui cerco io di affinarla.
Una regola si applica indefettibilmente quando ricorra la fattispecie in essa prevista: “Se F (fattispecie), allora G (conseguenza giuridica)”. Se è in conflitto con un’altra regola, una delle due è invalida o tacitamente abrogata (lex superior, lex posterior). Un principio, per contro, in primo luogo è privo di fattispecie, e in secondo luogo è sempre in conflitto con altri principi, senza per questo risultare invalido o abrogato, sicché l’applicazione di principi sempre esige ponderazione o bilanciamento. Ogni principio è “defettibile”, ossia soggetto ad eccezioni implicite non identificabili ex ante, che discendono precisamente dalla compresenza di altri principi.
La questione, dicevo, pare spinosa. Ma dopo tutto è abbastanza semplice. Dworkin, come ho cercato qui di ricostruirlo, ha colto un tratto significativo del discorso normativo. Nell’ordinamento si danno norme a struttura logica condizionale (“Se F, allora G”), ma anche norme prive di fattispecie, e tra queste le norme teleologiche o programmatiche. Le norme prive di fattispecie sono appunto i principi. Le “regole” e i “principi” rispettivamente, giocano un ruolo diverso nelle argomentazioni delle corti.
La questione è poi alquanto tediosa, dicevo anche, perché in questi cinquant’anni, le nostre biblioteche si sono riempite di (talora inutili) lavori che rimestano inesauribilmente nella distinzione.
V. A. Poso È un discorso interessante, che merita un approfondimento.
R. Guastini Se si dà uno sguardo alla dottrina e alla giurisprudenza, forse si può aggiungere qualcosa di non ovvio. Mi spiego con un esempio che mi pare illuminante.
Prendiamo l’art. 3.1 della costituzione. A prima vista, esprime un insieme di “regole”: è vietato al legislatore discriminare tra i cittadini per ragioni di sesso, razza, etc. E dunque (combinando l’art. 3.1 con altre disposizioni, specialmente gli artt. 134 e 136): “Se una legge discrimina secondo il sesso (fattispecie), allora è illegittima (conseguenza giuridica)”, “Se una legge discrimina secondo la razza, allora è illegittima”, etc. Si noti che, così inteso, l’art. 3.1 non è una norma generica, del tipo “È vietato discriminare tra i cittadini”, punto. Al legislatore è vietato non già discriminare – ossia distinguere – senza ulteriori specificazioni. Al legislatore è vietato discriminare, distinguere, secondo certi criteri nominati di distinzione.
Insomma, nulla impedisce di interpretare questa disposizione come una regola (un insieme di regole), a fattispecie chiusa e indefettibile, con la conseguenza di ritenere senz’altro incostituzionale qualunque legge che distingua tra i cittadini sulla base dell’uno o dell’altro di questi criteri, e di ritenere non incostituzionale ogni legge che distingua sulla base di criteri diversi da quelli enumerati. Nondimeno, tutti noi consideriamo pacificamente l’art. 3.1 cost. un principio. Così è per la concomitanza di due circostanze.
In primo luogo, consideriamo l’eguaglianza un principio perché ci appare come una norma caratterizzante l’identità assiologica dell’ordinamento. Una norma “fondamentale”, che dà fondamento (nel senso di giustificazione) ad altre norme, ma non richiede a sua volta fondamento (un po’ come un assioma), quasi fosse evidentemente o intrinsecamente giusta. L’idea soggiacente è che le norme giuridiche non abbiano tutte egual valore: talune norme esprimono i valori etico-politici che caratterizzano la fisionomia dell’ordinamento, e in questo senso sono “sovraordinate” alle rimanenti. Sto parlando di una gerarchia assiologica, che nulla ha a che vedere con la gerarchia delle fonti (per dire: fuori dal penale, il principio generale di irretroattività, art. 11 disp. prel. cod. civ., ha mera forza di legge, ma è assiologicamente sovraordinato ad ogni altra legge).
In secondo luogo, l’art. 3.1 è stato, di fatto, trattato proprio come un principio (nel senso di Dworkin), e non come una regola, dal giudice costituzionale. A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, la Corte interpreta questa disposizione come un’eco della concezione aristotelica dell’eguaglianza: i casi eguali devono essere trattati in modo eguale, i casi diversi devono essere trattati in modo diverso. Questa interpretazione converte il divieto di discriminazioni specifiche (sesso, razza, etc.) in un divieto generico. Precisamente: in una norma pressoché vuota di contenuto. La sola cosa che vieta una norma siffatta sono le leggi singolari e concrete. Essa prescrive di dettare norme generali (tecnicamente: con il quantificatore universale “tutti”), che si riferiscano cioè a classi di casi.
Conclusione: in ultima istanza, le norme di principio si distinguono dalle rimanenti non tanto per qualche loro carattere intrinseco, quanto per il modo in cui sono considerate e manipolate dai giuristi e/o dai giudici.
V. A. Poso Questo modo di interpretare il primo comma dell’art. 3 della nostra Costituzione nell’esempio che Lei ha fatto prima mi par di capire che abbia conseguenze di grande rilievo.
R. Guastini Sì, ne segnalo tre.
(a) Il principio di eguaglianza, così inteso, è una norma a fattispecie aperta: in altre parole, l’elenco di discriminazioni vietate, contenuto nella disposizione, è meramente esemplificativo (specifica il divieto di discriminazione, non lo esaurisce). Sono vietate non solo quelle sette cause di discriminazione (sesso, razza, etc.), ma è vietata qualunque discriminazione che non sia “ragionevole”, ossia giustificata dalla obiettiva diversità delle situazioni.
(b) Il principio di eguaglianza, così inteso, è una norma defettibile: quei sette divieti di discriminazione, espressamente enumerati, sono derogabili, cioè soggetti ad eccezioni implicite, non specificabili a priori. Non è escluso che una legge, pur distinguendo secondo il sesso, o la razza, etc., sia tuttavia conforme a costituzione: purché la distinzione sia “ragionevole”, ossia giustificata.
(c) Il principio di eguaglianza si converte così in principio di ragionevolezza. Sono costituzionalmente legittime tutte e sole quelle distinzioni che siano ragionevoli, ossia che appaiano giustificate alla Corte costituzionale.
V. A. Poso L’applicazione giudiziale dei principi costituzionali coinvolge alcune operazioni intellettuali. Vuole spiegarci quali sono?
R. Guastini Ci provo. A mio modo di vedere, le operazioni in questione sono essenzialmente due, logicamente distinguibili sebbene strettamente intrecciate: bilanciamento e concretizzazione.
(1) Il bilanciamento (o ponderazione che dir si voglia) è la tecnica comunemente impiegata dai giudici costituzionali (o supremi nei sistemi a controllo diffuso) per risolvere conflitti tra principi. Questa tecnica è analizzata in modo magistrale da Robert Alexy nel suo libro sui diritti costituzionali. Il conflitto è risolto mediante un “enunciato di preferenza” (così lo chiama Alexy), la cui forma logica è: “Il principio P1 ha più ‘peso’ (ossia più valore) del principio P2 nel contesto X”.
Il “contesto”, cui l’enunciato si riferisce, è un “caso”, ma naturalmente i casi sono diversi nelle diverse giurisdizioni. In un sistema di giustizia costituzionale a controllo “accentrato”, nel quale solo il giudice costituzionale esercita il controllo di legittimità costituzionale sulle leggi, ogni caso ha ad oggetto una norma legislativa, la cui legittimità costituzionale è apprezzata in abstracto: la corte constata, o no, l’esistenza di un’antinomia, ma non risolve direttamente alcuna specifica controversia. Il contesto è dunque un caso “astratto”, ossia tecnicamente una classe di casi. In un sistema di giustizia costituzionale a controllo “diffuso”, nel quale per contro qualunque giudice può esercitare il controllo di legittimità costituzionale, ogni caso è una specifica controversia tra due parti processuali, di tal che la legittimità costituzionale di una norma di legge è apprezzata in concreto, alla luce dei suoi effetti sui diritti e gli obblighi delle parti. Qui il contesto è dunque un caso individuale “concreto”, e il giudice risolve quella particolare controversia.
L’enunciato di preferenza, di cui si diceva, altro non è che un giudizio di valore comparativo, la cui (per lo più tacita) giustificazione va ricercata in un altro giudizio di valore comparativo relativo alla giustizia delle opposte soluzioni del caso offerte rispettivamente dai due principi coinvolti. Il principio P1 condurrebbe alla decisione D1, mentre il principio P2 condurrebbe alla decisione D2, e D1 è più giusta o corretta di D2 (o viceversa).
Così facendo, i giudici costituzionali o supremi creano una relazione gerarchica tra i principi confliggenti coinvolti. Siffatta gerarchia ha natura assiologica, cioè di valore: non ha nulla a che fare con la gerarchia delle fonti, giacché nel sistema delle fonti i principi costituzionali in questione sono ovviamente di pari rango. Mentre la gerarchia delle fonti, ad esempio tra costituzione e legislazione ordinaria, è stabilita dal diritto stesso, questo diverso tipo di gerarchia è frutto di “libera” creazione degli interpreti.
La “preferenza”, i.e. la gerarchia assiologica, stabilita dall’enunciato di preferenza si riferisce ad un determinato caso (una specifica norma legislativa o una controversia concreta, secondo le diverse giurisdizioni). Ciò significa che la prevalenza del principio P1 sul principio P2 (o viceversa) vale solo in quel caso – quella particolare norma legislativa o quella particolare controversia, secondo la giurisdizione – mentre in contesti diversi il principio ora disapplicato ben potrebbe prevalere sull’altro (come di fatto accade). In altre parole, la gerarchia assiologica decisa dalla corte non è assoluta, non vale ora e per sempre. Al contrario, è flessibile, mobile, instabile: dipende dal caso in discussione.
È precisamente questa instabilità della gerarchia assiologica che produce l’apparenza (o l’illusione) di una “via mediana” – una conciliazione – tra i principi confliggenti.
Occorre distinguere tra l’effetto sincronico del bilanciamento tra due dati principi in una singola decisione e l’effetto diacronico del bilanciamento tra quegli stessi principi in una serie di decisioni della medesima corte. In ciascuna decisione, per sé presa, un principio è sacrificato, mentre l’altro è applicato. Se invece si guarda allo sviluppo delle decisioni giudiziali in quella materia, si trova che in una serie di casi P1 è stato preferito e P2 è stato accantonato, mentre in altri casi P2 è stato preferito e P1 accantonato. Per esempio, in certi casi la libertà di stampa prevale sui diritti della personalità (intimità della vita privata, identità personale, etc.), mentre in altri casi accade l’opposto. In altre parole, sul lungo periodo entrambi i principi sono “parzialmente” applicati ed entrambi “parzialmente” disapplicati. Ma “parzialmente” non nel senso che in ciascun caso un principio sia in parte applicato e in parte sacrificato (non so neppure che cosa mai ciò possa significare), bensì nel senso banale che ciascun principio talvolta è applicato e talvolta no: dipende dal “caso” sottoposto alla corte.
(2) I principi costituzionali, non avendo precise condizioni di applicazione (perché sono privi di fattispecie), ed essendo quindi altamente indeterminati, non possono essere direttamente applicati a specifiche controversie. Anzi, è frequente che, nei giudizi costituzionali, i principi debbano essere confrontati con regole, ossia con norme dotate di una diversa struttura logica, il che rende difficile (se non impossibile) il confronto.
Per esempio, il principio «la salute [è] un diritto fondamentale dell’individuo» (art. 32.1 cost.), per sé, non dice nulla intorno al risarcimento dei danni alla salute. Il principio «la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento» (art. 24.2 cost.) nulla stabilisce intorno alla presenza di un avvocato all’interrogatorio dell’accusato. Il principio dell’eguaglianza tra i sessi (art. 3.1 cost.) non disciplina in alcun modo il lavoro notturno delle donne. Il principio «La souveraineté nationale appartient au peuple» (art. 3 cost. francese) non risponde alla domanda se una legge possa, o no, attribuire agli immigrati il diritto di voto nelle elezioni dei consigli comunali. E così via esemplificando.
Ora, applicare una regola consiste nel dedurre da essa, per modus ponens (“Se F allora G, e F, quindi G”), una prescrizione individuale che costituisce la soluzione di una controversia. Per contro, l’applicazione dei principi esige concretizzazione o specificazione: anzi, in un senso consiste proprio in questo.
V. A. Poso Ci spieghi meglio.
R. Guastini Nel ragionamento del giudice si possono distinguere due livelli di discorso, che si usa chiamare rispettivamente “giustificazione interna” (o di primo livello) e “giustificazione esterna” (o di secondo livello). È una fine distinzione introdotta anni fa dal compianto Jerzy Wróblewski. Grosso modo: una decisione è “internamente” giustificata quando è logicamente implicata dalle premesse (“Gli assassini devono essere puniti. Tizio è un assassino. Pertanto, Tizio deve essere punito”); è “esternamente” giustificata quando le stesse premesse sono, a loro volta, ben fondate.
Ebbene, le regole sono le premesse normative della giustificazione “interna” delle decisioni giurisdizionali; l’applicazione di principi appartiene piuttosto alla giustificazione “esterna” delle decisioni. Mentre le regole si applicano per via di sussunzione, i principi si applicano ricavando da essi regole: precisamente regole inespresse (dette “implicite”, sebbene niente affatto implicite in senso stretto, cioè logico, come ho già detto). Concretizzare un principio consiste precisamente nel ricavare da esso una regola. La quale sarà poi la premessa della giustificazione interna.
Sia detto per inciso, è sciocco pensare (come molti pensano) che i principi non ammettano e non richiedano sussunzione. (Ricordo una animata discussione con Pietro Perlingieri, al quale evidentemente sfuggiva il concetto stesso di sussunzione.) La sussunzione non è altro che l’uso (l’applicazione) di un concetto: l’inclusione di una entità individuale entro la classe di entità individuata dal concetto. Data, per esempio, una disposizione costituzionale (di principio, si suppone) che proibisce qualunque «trattamento sanitario» obbligatorio (art. 32.2 cost.), la sussunzione è ovviamente necessaria per decidere, ad esempio, se il concetto si riferisca, o no, alla nutrizione forzata dei pazienti.
Il ragionamento mediante il quale una regola è derivata (costruita) a partire da un principio ha il principio come premessa (una delle premesse) e la regola come conclusione: produzione di norme a mezzo di norme. Nella maggior parte dei casi, si tratta di un ragionamento non deduttivo. In tutti i casi, esso richiede alcune premesse “arbitrarie”: arbitrarie nel senso che sono non norme giuridiche positive, ma assunzioni degli interpreti, come asserti fattuali, definizioni, e costruzioni dogmatiche.
La concretizzazione di principi è un’operazione genuinamente creativa di diritto: in particolare, creativa di regole. Di nuovo: «the Constitution is what the judges say it is» (Charles Evans Hughes, 1907). O, per dirla con l’impareggiabile, ma misconosciuto, filosofo del diritto Vujadin Boskov, «rigore è quando arbitro fischia».
V. A. Poso A proposito di quanto ci ha detto all’inizio, cosa è la “doppia negazione dei precetti” di cui parlava Giovanni Tarello?
R. Guastini Va detto che Tarello chiamava “precetti” le norme. Ma in realtà la “doppia negazione” è una peculiarità – di grande rilievo per la logica deontica – non propriamente delle norme, bensì degli enunciati normativi (tecnicamente: deontici), “È obbligatorio pagare le imposte” poniamo, che possono essere usati sia dal legislatore, per esprimere una norma sia, da un giurista per affermarne l’esistenza.
Orbene, un enunciato descrittivo (una proposizione in senso logico, come tale vera o falsa) ammette una sola negazione. La negazione di un enunciato descrittivo “I gatti hanno quattro zampe” produce un enunciato egualmente descrittivo “I gatti non hanno quattro zampe”: se l’uno è vero, l’altro è falso, e viceversa. Per contro, gli enunciati normativi ammettono una negazione “interna” ed una negazione “esterna”.
La negazione interna di un enunciato normativo, “È obbligatorio non pagare le imposte”, produce una norma di contenuto, per così dire, eguale e contrario alla norma negata.
Invece, la negazione esterna dello stesso enunciato, “Non è obbligatorio pagare le imposte”, non produce un’altra norma, bensì afferma l’inesistenza della norma negata.
Va be’, ho un po’ semplificato, ma il succo è questo.
V. A. Poso Dobbiamo ritenere che non abbia mai seguito il consiglio del Suo Maestro?
R. Guastini Sì, invece. Ho lavorato molto sull’analisi logica degli enunciati normativi.
Una delle questioni centrali, e molto intriganti, su cui sono tornato più volte, riguarda la possibilità stessa di una logica di norme. Ho anche pubblicato in Italia i due saggi fondamentali scritti da giuristi su tale questione: Imperativi e logica di Ross (1941) e Diritto e logica di Kelsen (1965). Il problema è il seguente (mi limito però ad un cenno).
Occorre premettere che le nozioni logiche si definiscono comunemente in termini di verità (ad esempio, due proposizioni sono contraddittorie allorché non possono essere entrambe vere né entrambe false; una inferenza è logicamente valida se, essendo vere le premesse, è vera la conclusione). Senonché le norme sono prive di valori di verità (non sono né vere né false).
Stando così le cose, i casi sono due e solo due: o, malgrado le apparenze, non si danno affatto relazioni logiche tra norme (Kelsen); oppure si danno, sì, relazioni logiche tra norme, ma le nozioni della logica devono allora essere ridefinite senza il concetto di verità (così sosterrà Ross in Direttive e norme, 1968). È questo il dilemma formulato per la prima volta negli anni Trenta da un logico danese, Jörg Jörgensen.
Il dilemma nasce dalla circostanza che, di fatto, tutti noi ragioniamo con norme – inferiamo (o crediamo di inferire) norme da norme, riconosciamo (o crediamo di riconoscere) contraddizioni tra norme – e che tali ragionamenti hanno almeno l’apparenza della fondatezza.
Vi è in realtà un’altra possibile soluzione al dilemma, oltre le due cui ho fatto cenno sopra, che a me sembra persuasiva, e che suona più o meno così. Ogni norma di condotta incorpora, accanto ad una modalità deontica (“È obbligatorio che…”), un frammento che descrive la condotta richiesta (“… che le imposte siano pagate”). Questo frammento è null’altro che una proposizione in senso tecnico, come tale vera o falsa: vera se la norma è effettiva (o “soddisfatta”, se cioè le imposte sono pagate), falsa se è ineffettiva. Ebbene, quando crediamo di ragionare con norme, in realtà ragioniamo con proposizioni incorporate in norme.
Ad esempio, le norme “È obbligatorio pagare le imposte” e, rispettivamente, “Non è obbligatorio pagare le imposte” paiono contraddittorie, ma a ben vedere la contraddizione intercorre non già tra le due norme, bensì tra le due proposizioni in esse incorporate: l’una è vera, l’altra è falsa, a seconda che la norma sia o no “soddisfatta”, che le imposte siano o non siano pagate. Sicché, dopo tutto, non vi è affatto una peculiare logica delle norme. Non vi è altra logica che la logica senza ulteriori specificazioni, la quale governa le relazioni (non tra norme, ma) tra proposizioni (enunciati del discorso non prescrittivo, ma descrittivo). È questo un assaggio della “logica del soddisfacimento” tratteggiata da Ross nel saggio del 1941.
Ma sulle relazioni tra logica e norme ha scritto cose egregie – cui non posso neppure accennare – il grande logico finlandese Georg Henrik von Wright: in molti lavori, tra i quali va ricordato almeno il libro Norm and Action del 1963 (ne esiste una scadente traduzione italiana), perché di grande rilievo anche per la filosofia del diritto.
Però qui mi fermo per non tediare il mio cortese intervistatore e i nostri quattro lettori.
La riforma dell’esecuzione forzata: le novità del D. Lgs n. 149/2022
di Alberto M. Tedoldi, Professore ordinario di Diritto processuale civile
Giustizia Insieme propone ai suoi lettori una serie di contributi relativi alla riforma della procedura civile, per conoscere, approfondire e discutere. L’articolo presentato riguarda la riforma dell’esecuzione forzata.
I precedenti articoli:
1. La trattazione scritta. La codificazione (art. 127-ter c.p.c.)
2. La riforma del processo civile in Cassazione. Note a prima lettura
3. La riforma del processo civile in appello. Le disposizioni innovate dal D. Lgs n. 149/2022
Sommario: 1. Antefatti e fiducia con “doppia conforme” sull’ennesima riforma del processo civile; 2. Regime transitorio; 3. Schema delle principali novità in materia di esecuzione forzata; 4. Abolizione della formula esecutiva; 5. Sospensione del termine di efficacia del precetto in caso di ricerca telematica dei beni da pignorare; 6. La competenza per l’espropriazione di crediti della P.A. attribuita ai tribunali dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede; 7. L’avviso al debitore esecutato e al terzo pignorato di avvenuta iscrizione a ruolo, a pena di inefficacia del pignoramento presso terzi; 8. Deposito della documentazione ipo-catastale entro il medesimo termine di quarantacinque giorni dal pignoramento previsto per il deposito dell’istanza di vendita; 9. Nomina del custode dell’immobile pignorato contestualmente a quella dello stimatore e controllo della documentazione ipo-catastale; 10. Ancora una riscrittura della disciplina sulla liberazione dell’immobile pignorato; 11. Breve excursus: la vendita forzata secondo Salvatore Satta; 12. La «vendita diretta», ovvero «l’inutile precauzione»; 13. Il subprocedimento di vendita: schemi ‘standardizzati’ per la relazione di stima e per gli avvisi di vendita; 14. (segue) Le disposizioni antiriciclaggio; 15. (segue) I requisiti di iscrizione all’elenco, le verifiche, l’aggiornamento, la rotazione e i limiti agli incarichi dei professionisti delegati alle vendite; 16. (segue) L’attività del professionista delegato; 17. (segue) Il controllo sugli atti del professionista delegato o dell’ufficiale incaricato della vendita forzata; 18. Approvazione anche tacita del progetto distributivo e pagamenti demandati al professionista delegato; 19. Limiti temporali alle misure coercitive, revisione dei criterî di quantificazione e conferimento del potere di disporle anche al giudice dell’esecuzione.
1. Antefatti e fiducia con “doppia conforme” sull’ennesima riforma del processo civile
Questo scritto riprende e aggiorna al d.lgs. 149/2022, attuativo della legge delega 206/2021, due precedenti contributi, pubblicati sempre su questa Rivista il 23 giugno 2021 e il 22 aprile 2022. A tali contributi dovremmo fare integrale rinvio per indispensabile brevità, che sarebbe “gran pregio”, come canta Rodolfo nel primo quadro de La Bohème di Giacomo Puccini (su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica), duettando con il pittore Marcello mentre, per scaldar la soffitta, vanno in fumo e in rapida cenere le pagine del suo dramma dedicato all’incendio di Roma, gettate nel «vecchio caminetto ingannatore», cui somiglia l’amore, “che sciupa troppo... ...e in fretta! ...dove l’uomo è fascina... ...e la donna è l’alare... ...l’una brucia in un soffio... ...e l’altro sta a guardare». Anche gli scritti giuridici, consegnati che siano alle pagine o a impalpabili bit, vanno in celere macero, specie di fronte al progressivo e ineluttabile deteriorarsi della tecnica legislativa: come scriveva già nell’Ottocento Bethmann-Hollweg, basta uno iota del conditor legum per fare carta straccia di intere biblioteche.
Le disposizioni dettate nel d.lgs. 149/2022 si pongono in linea con la l. delega 206/2021: sicché pare più comodo e semplice riunire qui un primo commento unitario alle novelle in materia di esecuzione forzata, seguendo l’ordine logico degli argomenti e aggiornando quanto scritto nei precedenti contributi, onde evitare al paziente lettore l’ansiosa ricerca degli altri due scritti (si fa ovviamente per dire…). Seguiamo e applichiamo, a dir così, il principio di autosufficienza del presente scritto sulle novelle in materia esecutiva, evitando dispersioni e rinvii, anche a costo di qualche lungaggine e ripetizione.
Si ricorderà, dunque e in premessa, che il Senato, nel mese di settembre del 2021, approvava con il voto di fiducia il testo uscito dai lavori della Commissione Giustizia, largamente emendato rispetto al disegno di legge presentato dal Governo in esito ai lavori della Commissione Luiso. Fiducia chiesta e concessa “a rime obbligate” anche dalla Camera dei deputati, secondo ormai consolidata metodologia legiferante, dirigistica e governativa: tutto è necessario e urgente e vi è sempre qualche emergenza cui far fronte, senza alternative possibili né plausibili, giusta il motto «There Is No Alternative» (TINA in acronimo), risalente alla buonanima di Margaret Thatcher[1].
Vide così luce la legge 26 novembre 2021, n. 206[2], intitolata «Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata»[3]. Proprio a cagione della fiducia, posta dal Governo e ottenuta dalle due Camere con “doppia conforme”, la legge delega si compone di un solo articolo, suddiviso in numerosi commi, lettere (anche doppie), numeri e sotto-numeri, che rendono arduo orientarsi entro vasta congerie di novelle, per lo più attuate con il d.lgs. 149/2022 di cui appresso diremo, mentre alcune già operano dal 22 giugno 2022, appena dopo il solstizio d’estate, a far tempo dal centottantesimo giorno dall’entrata in vigore della l. 206/2021 (la vigilia di Natale del 2021), come recita il comma 37 dell’articolo unico di quest’ultima.
Il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, intitolato «Attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata», è stato emanato in fretta e furia dal passato Governo tecnico-politico – in articulo mortis (politicae) e in regime di prorogatio appena dopo le elezioni tenutesi a fine settembre 2022 – onde rispettare i tempi di erogazione dei fondi europei del Recovery Plan post-pandemico, tradottosi nell’ormai celebre e quasi proverbiale PNRR, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, in attesa del prossimo Recovery Plan post-bellico, di emergenza in emergenza, in endemico stato di eccezione o di ‘permacrisis’ (che non è una marca di materassi…), secondo l’orribile neologismo, coniato nella neolingua finanziaria e pseudo-anglofona in voga al tempo nostro e già registrato dai vocabolari on line: per il che si rimanda ai ‘picciol libri’ già dianzi ricordati in nota.
Le modifiche al processo esecutivo sono contenute nel comma 12 dell’art. 1 l. 206/2021 quanto alla delega, mentre sono disperse nei commi 29 e 32 quelle entrate in vigore il 22 giugno 2022, in quanto «misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti… in materia di esecuzione forzata», come si legge nell’ultima parte del non breve titolo della l. 206/2021.
L’art. 3, commi da 34 a 46, d.lgs. 149/2022, nell’attuare la delega in materia di esecuzione forzata, è intervenuto sul corpo del libro terzo del c.p.c., già martoriato da precedenti insistite novelle, apportando altresì alcune modifiche di dettaglio al libro quarto (inerenti al procedimento per ingiunzione e a quello per convalida di sfratto); l’art. 4, commi da 9 a 11, d.lgs. 149/2022 modifica, poi, le disp. att. c.p.c. relative all’esecuzione forzata.
2. Regime transitorio
Le nuove disposizioni in materia di esecuzione forzata introdotte dal d.lgs. 149/2022 si applicano ai procedimenti esecutivi iniziati dal 1° marzo 2023.
Occorre, dunque, fare riferimento:
- per l’espropriazione forzata, al perfezionarsi del pignoramento (art. 491 c.p.c.);
- per l’esecuzione in forma specifica per consegna di beni mobili, all’accesso dell’ufficiale giudiziario (art. 606 c.p.c.);
- per l’esecuzione in forma specifica per rilascio di beni immobili, al perfezionarsi della notifica dell’avviso di sloggio (art. 608, comma 1, c.p.c.);
- per l’esecuzione in forma specifica per obblighi di fare e di non fare, al ricorso al giudice dell’esecuzione per determinarne le modalità (art. 612 c.p.c.);
- per la nuova disciplina delle misure coercitive di cui all’art. 614-bis c.p.c., all’emanazione dei provvedimenti di condanna che le contengono (purché sia stata ritualmente formulata la relativa istanza, anche in sede di precisazione delle conclusioni), con la possibilità, sempre dal 1° marzo 2023, di chiederle anche al giudice dell’esecuzione mediante ricorso ex art. 612 c.p.c., quando non siano state richieste nel giudizio di cognizione o quando il titolo esecutivo sia diverso da un provvedimento di condanna (ad es., un atto pubblico o un verbale di conciliazione, giudiziale o stragiudiziale).
L’abrogazione della formula esecutiva vale per i precetti la cui notifica si perfezioni a far tempo dal 1° marzo 2023.
Questo, in estrema e compendiosa sintesi, è il regime transitorio delle novelle in materia di esecuzione forzata, quale si trae dai commi 1 e 8 dell’art. 35 d.lgs. 149/2022, come riscritto – se possibile, ancor meno perspicuamente di prima – dalla l. 197/2022 (l. di bilancio per il 2023), seguendo il consolidato metodo del puzzle normativo, mediante richiami e rinvii da decrittare minutamente e pazientemente, proprio come nei giochi enigmistici.
Come accennato, due novità vigono dal 22 giugno 2022 e, precisamente:
- la competenza per l’espropriazione di crediti della P.A., attribuita ai tribunali nei quali ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede (art. 26-bis, comma 1, c.p.c.);
- l’avviso al debitore esecutato e al terzo pignorato di avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento presso terzi, a pena di inefficacia dello stesso e di estinzione ex officio della procedura (art. 543, commi 5 e 6, c.p.c.).
3. Schema delle principali novità in materia di esecuzione forzata
Esamineremo nei paragrafi successivi le principali novelle introdotte in materia di esecuzione forzata – le quali recepiscono spesso le ‘buone prassi’ adottate dalle sezioni esecuzioni dei tribunali – seguendo all’incirca l’ordine del c.p.c. e riportando, per completezza informativa, numerosi passi delle Relazioni illustrative della l. 206/2021 e del d.lgs. 149/2022.
Pare utile offrire un preliminare schema di sintesi, a funger da bussola per la successiva disamina.
- È stata abrogata la formula esecutiva di cui all’art. 475, ult. co., c.p.c., con la conseguente necessità di intervenire su varie norme sparse nel c.p.c. (ad es., l’art. 654 c.p.c. sul decreto ingiuntivo e l’art. 663 c.p.c. sull’ordinanza per convalida di sfratto) e nelle leggi speciali (ad es., nel processo amministrativo, nel processo contabile, ecc.).
- L’istanza per la ricerca telematica dei beni da pignorare (art. 492-bis, c.p.c.) sospende automaticamente il termine di efficacia del precetto (novanta giorni dalla notificazione, non soggetti a sospensione feriale), che riprende a decorrere una volta acquisite le informazioni tramite banche dati: a regime (non è dato sapere quando), dopo la notifica del precetto e il decorso del termine dilatorio di dieci giorni, l’istanza potrà essere formulata direttamente all’ufficiale giudiziario; nelle more andrà presentata sempre al presidente (della sezione esecuzioni) del tribunale o al suo delegato.
- La competenza per l’espropriazione di crediti della P.A. è stata attribuita ai tribunali dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede (art. 26-bis, comma 1, c.p.c., vigente dal 22 giugno 2022).
- Il creditore procedente ha l’onere di notificare al debitore esecutato e al terzo pignorato avviso di avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento presso terzi, a pena di inefficacia dello stesso e di estinzione della procedura (art. 543, commi 5 e 6, c.p.c., vigente dal 22 giugno 2022).
- La documentazione ipo-catastale o la certificazione notarile sostitutiva vanno depositate entro il medesimo termine di quarantacinque giorni dal pignoramento, quale previsto per il deposito dell’istanza di vendita, salvo proroga di ulteriori quarantacinque giorni (art. 567 c.p.c.).
- Il custode dell’immobile pignorato è nominato contestualmente alla nomina dello stimatore e i due ausiliari cooperano nel verificare la completezza e l’esattezza della documentazione ipo-catastale (art. 559 c.p.c.).
- La disciplina sulla liberazione dell’immobile pignorato è stata nuovamente riscritta: allorché il debitore non occupi l’immobile pignorato o questo sia detenuto da un terzo senza titolo o con un titolo inopponibile alla procedura, l’ordine di liberazione viene emesso nel momento in cui è disposta la vendita; quando l’immobile è occupato dal debitore, salvo che questi o i suoi familiari violino gli obblighi inerenti al bene staggito, l’ordine di liberazione viene emesso contestualmente al decreto di trasferimento; l’ordine viene eseguito direttamente dal custode, senza osservare le formalità dell’esecuzione per rilascio di immobile (art. 560 c.p.c.).
- È stata introdotta la «vendita diretta», per consentire al debitore di reperire un acquirente dell’immobile, purché ciò avvenga senza frode ai creditori e senza procrastinare la procedura (artt. 568-bis e 569-bis c.p.c.).
- Sono previsti schemi ‘standardizzati’ per la relazione di stima e per gli avvisi di vendita su modelli predisposti dal giudice dell’esecuzione ed è imposta all’aggiudicatario un’autocertificazione in ossequio alle norme in materia di antiriciclaggio.
- Vengono disciplinati i requisiti di iscrizione all’elenco, le verifiche, l’aggiornamento, la rotazione e i limiti agli incarichi dei professionisti delegati alle vendite (artt. 179-ter e 179-quater disp. att. c.p.c.).
- È ampliato il novero delle attività demandate al professionista delegato (art. 591-bis c.p.c.), i cui atti sono sottoposti a reclamo al giudice dell’esecuzione entro il termine perentorio di venti giorni dalla loro conoscenza legale (art. 591-ter c.p.c.); avverso il provvedimento del giudice dell’esecuzione è proponibile opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell’art. 617, comma 2, c.p.c.
- Il progetto distributivo e i pagamenti sono curati dal professionista delegato, sotto il controllo del giudice dell’esecuzione, salvo che sorgano controversie distributive ex art. 512 c.p.c., la cui soluzione è rimessa al giudice dell’esecuzione (artt. 596, 597 e 598 c.p.c.).
- Sono stati introdotti limiti temporali alle misure coercitive per il caso di ritardo nell’adempimento, sono stati integrati i criterî di determinazione quantitativa del loro importo e si è prevista la possibilità di chiederle al giudice dell’esecuzione, quando non siano state richieste al giudice della cognizione o per titoli esecutivi diversi dai provvedimenti di condanna, purché relativi a crediti non pecuniari (art. 614-bis c.p.c.).
4. Abolizione della formula esecutiva (artt. 474, 475, 476 abr., 478, 479, 488, 654 e 663 c.p.c., nonché artt. 153, 154 abr., disp. att. c.p.c.)
La lett. a) del comma 12 dell’art. 1 l. 206/2021 demandava al Governo di «prevedere che, per valere come titolo per l’esecuzione forzata, le sentenze e gli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria e gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale debbano essere formati in copia attestata conforme all’originale, abrogando le disposizioni del codice di procedura civile e di altre leggi che si riferiscono alla formula esecutiva e alla spedizione in forma esecutiva».
Nella Relazione illustrativa della delega si legge quanto segue: «Di grande rilievo è certamente la disposizione di cui alla lettera a) con la quale si prevede che, per valere come titolo per l’esecuzione forzata, le sentenze e gli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria e gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale debbano essere formati in copia attestata conforme all’originale, abrogando le disposizioni del codice di procedura civile e di altre leggi che si riferiscono alla formula esecutiva e alla spedizione in forma esecutiva. Già da molto tempo la dottrina ha sottolineato che la formula esecutiva è un requisito formale la cui utilità è scarsamente comprensibile. E anche nella giurisprudenza di legittimità l’articolo 475 del codice di procedura civile è sempre stato interpretato in modo tale da escludere che la formula esecutiva costituisca elemento indefettibile per un titolo esecutivo, la cui identificazione avviene in base ad un approccio sostanziale fondato sulla sussistenza dei requisiti ex articolo 474 del codice di procedura civile (già Cass. 2830/1963, confermata nei decenni successivi, affermava che l’irregolarità della formula o la sua omissione devono essere denunciati con l’opposizione ex articolo 617 del codice di procedura civile). Da ultimo, la Corte di legittimità ha statuito, ulteriormente indebolendo la rilevanza della formula esecutiva, che “L’omessa spedizione in forma esecutiva della copia del titolo esecutivo rilasciata al creditore e da questi notificata al debitore determina una irregolarità formale del titolo medesimo, che deve essere denunciata nelle forme e nei termini di cui all’art. 617, comma 1, c.p.c., senza che la proposizione dell’opposizione determini l’automatica sanatoria del vizio per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c.; tuttavia, in base ai principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e dell’interesse ad agire, il debitore opponente non può limitarsi, a pena di inammissibilità dell’opposizione, a dedurre l’irregolarità formale in sé considerata, senza indicare quale concreto pregiudizio ai diritti tutelati dal regolare svolgimento del processo esecutivo essa abbia cagionato” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 3967 del 12/02/2019). La disciplina legislativa sopravvenuta – riguardo all’iscrizione a ruolo dei processi di espropriazione mediante il deposito di una copia (formata dallo stesso difensore del creditore) del titolo rilasciato in forma esecutiva – rende vieppiù superflua la normativa codicistica che, nell’intento di evitare la formazione di vari duplicati del titolo e di arginare eventuali abusi (i quali possono essere azionati con altri strumenti; v., ad esempio, Cass. 7409/2021), dispone stringenti obblighi formali per il pubblico ufficiale deputato all’apposizione della formula. L’eliminazione della formula esecutiva (rectius, la possibilità di agire in executivis sulla scorta di una copia attestata conforme all’originale del titolo esecutivo) consente di eliminare adempimenti inutili per il personale amministrativo degli uffici giudiziari, per i notai (o per i conservatori degli archivi notarili) e anche per i legali (evitando l’incombente di dover richiedere l’apposizione della formula esecutiva e il rilascio della copia esecutiva, ben potendo gli stessi estrarre copia dei provvedimenti giudiziali dal PCT anche attestandone la conformità ai rispettivi originali)».
Le parole testé riportate si trovavano già nella Relazione della Commissione Luiso (punto 4.1, pagg. 100 ss.), salvo impreziosirla con l’aggiunta di richiami dottrinali a Satta, Carnacini, Redenti e Vellani.
Già altrove[4] ci siamo soffermati sulle origini della formula esecutiva con l’affermarsi dello Stato assoluto di Luigi XIV e le «lettres obligatoires, faites et passées sous Scel Royal», il sigillo reale apposto dal notaro o dal cancelliere per incarico del sovrano, quale espressione del potere esecutivo che a lui soltanto poteva appartenere, esercizio di iurisdictio pars summi imperii. Soltanto l’apposizione del sigillo reale conferiva all’atto giudiziale o notarile l’efficacia esecutiva, legittimando il creditore a rivolgersi agli organi amministrativi dello Stato per l’esecuzione forzata del diritto consacrato nel titolo: «Qualunque sentenza sarà in tutta l’estensione del nostro regno in virtù d’un pareatis del gran suggello, senza che faccia d’uopo domandare il permesso alle nostre corti nella cui giurisdizione vorrassi far eseguire… Sarà nonpertanto permesso alle parti e agli esecutori dei giudicati, fuori l’ambito delle corti ove saranno stati resi, di prendere un pareatis nella cancelleria del parlamento ove dovranno eseguirsi, cui i guardasugelli saran tenuti a sugellare a pena d’interdizione, senza entrare in cognizione di causa» (così il Tit. XXVII, art. 6, dell’Ordonnance regia del 1667).
La formula esecutiva, apposta ai titoli giudiziali e agli atti pubblici, è residuo dell’ancien régime, con quel nos maiestatis («Comandiamo a tutti gli ufficiali giudiziari che ne siano richiesti e a chiunque spetti…»), verso il quale ironizzava Salvatore Satta, facendone seguire puntute critiche sulla sua pratica inutilità[5].
Abrogare la formula – già oltremodo svalutata dalla giurisprudenza, che non fa discendere dalla sua mancanza nullità alcuna, se l’opponente agli atti esecutivi non indichi specificamente quale concreto pregiudizio ai diritti tutelati dal regolare svolgimento del processo esecutivo abbia patito, giusta il principio «pas de nullité sans grief»[6] – significa semplicemente rinunciare a un relitto storico: la forza esecutiva viene soltanto dalla legge, non dalla formula.
Eventuali abusi del creditore e del suo difensore, che eccedano nell’esercizio di plurime o sproporzionate azioni esecutive, ben potranno essere repressi, immediatamente dopo la notifica del precetto, con la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo, ai sensi dell’art. 615, comma 1, c.p.c.; una volta intraprese le azioni esecutive, mediante lo strumento della sospensione dell’esecuzione (art. 624 c.p.c.) e quello della limitazione delle procedure esecutive (art. 483 c.p.c.) o la riduzione del pignoramento (art. 496 c.p.c.).
Potranno esservi abusi e inconvenienti relativamente ad alcune regole che presuppongono la formula esecutiva (si pensi all’art. 663 c.p.c. sulla convalida di sfratto, onde, in mancanza di opposizione, «il giudice convalida la licenza o lo sfratto e dispone con ordinanza in calce alla citazione l’apposizione su di essa della formula esecutiva») e a talune prassi invalse ab immemorabili tempore: ma, si sa, «adducere inconveniens non est solvere argumentum»[7].
Il d.lgs. 149/2022, dando attuazione ai criterî dettati e ai propositi dichiarati dal conditor delegante (solo formalmente il Parlamento, in effetti lo stesso Governo mercé la fiducia, richiesta e ottenuta dalle due Camere con ‘doppia conforme’ sulla l. delega 206/2021), è intervenuto come segue:
- è stato aggiunto un quarto comma all’art. 474 c.p.c., rubricato «Titolo esecutivo», con cui s’apre il libro terzo del codice di rito, onde mantenere la previsione – non più contenuta nell’abrogata formula esecutiva di cui all’art. 475 c.p.c. – per la quale il titolo è messo in esecuzione da tutti gli ufficiali giudiziari che ne siano richiesti e da chiunque spetti, con l’assistenza del pubblico ministero e il concorso di tutti gli ufficiali della forza pubblica, quando ne siano legalmente richiesti, che evoca verbatim la vecchia formula esecutiva.
- L’art. 475 c.p.c., già rubricato «Spedizione in forma esecutiva» e contenente la formula esecutiva propriamente detta, s’intitola ora «Forma del titolo esecutivo giudiziale e del titolo ricevuto da notaio o da altro pubblico ufficiale» e dispone tout court che le sentenze, i provvedimenti e gli altri atti dell’autorità giudiziaria, nonché gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale, per valere come titolo per l’esecuzione forzata, ai sensi dell’art. 474 c.p.c., per la parte a favore della quale fu pronunciato il provvedimento o stipulata l’obbligazione, o per i suoi successori, debbano essere formati in copia attestata conforme all’originale, salvo che la legge disponga altrimenti.
- È stato conseguentemente abrogato l’art. 476 c.p.c. sul rilascio di altre copie in forma esecutiva, così come sono stati modificati gli artt. 478, 479 e 488 c.p.c., nonché l’art. 153 disp. att. c.p.c. (sulle copie degli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale, che debbono essere munite del sigillo del notaio o dell’ufficio al quale appartiene il pubblico ufficiale), abrogando l’art. 154 disp. att. c.p.c. (sul procedimento sanzionatorio per indebito rilascio di copie esecutive): il tutto in considerazione della forma telematica delle copie del titolo esecutivo giudiziale o notarile depositate nel fascicolo dell’esecuzione, anch’esso telematico, mantenendo comunque in capo al giudice il potere di richiedere al creditore procedente l’esibizione dell’originale del titolo o della copia autenticata, anche in considerazione del fatto che vi sono in circolazione ancora molti titoli non in copia digitale, bensì in (prima) copia analogica (id est, cartacea).
Consegue a tali modifiche la possibilità per il creditore di intraprendere liberamente tutte le procedure esecutive che vorrà ai sensi dell’art. 483 c.p.c., semplicemente estraendo dalla consolle copie dei provvedimenti giudiziali esecutivi, muniti di attestazioni di conformità rese dal difensore a norma del nuovo art. 196-octies disp. att. c.p.c. («Potere di certificazione di conformità delle copie degli atti e dei provvedimenti contenuti nel fascicolo informatico o allegati alle comunicazioni e notificazioni di cancelleria»), oppure, in caso di titoli notarili, chiedendo copie conformi ulteriori al pubblico ufficiale che li abbia rogati e che le rilascerà debitamente munite del sigillo, come prescrive l’art. 153 disp. att. c.p.c., parimenti novellato.
Già si è veduto che, in caso di abusi del creditore per eccesso di procedure esecutive a carico del debitore, il debitore potrà reagire ex ante proponendo opposizione a precetto con annessa istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo ex art. 615, comma 1, c.p.c. o, post executionem, chiedendo la limitazione delle procedure esecutive (art. 483 c.p.c.) e la riduzione del pignoramento (art. 496 c.p.c.)[8].
L’abolizione della formula esecutiva ha comportato conseguenti modifiche all’art. 654 c.p.c. sulla dichiarazione di esecutorietà del decreto ingiuntivo, dovendosi dare atto nel precetto unicamente del provvedimento che ha disposto tale esecutorietà e non più della data di apposizione della formula esecutiva, e all’art. 663 c.p.c. sull’ordinanza di convalida di sfratto per mancata comparizione o per mancata opposizione dell’intimato, senza più neppure la necessità di attendere trenta giorni ove l’intimato non sia comparso, giusta quel che prevedeva l’abrogato comma 2 dello stesso art. 663 c.p.c.
Altrettante consequenziali modifiche sono state apportate a varie disposizioni speciali sparse qua e là, tra cui exempli gratia gli artt. 115 e 136 cod. proc. amm. (d.lgs. 104/2010), l’art. 112 cod. giust. cont. (d.lgs. 174/2016) e l’art. 29 l.p.f. (l. 247/2012) in materia di accordi conciliativi sui compensi degli avvocati raggiunti dinanzi al consiglio dell’ordine.
5. Sospensione del termine di efficacia del precetto in caso di ricerca telematica dei beni da pignorare (artt. 492, u.c., e 492-bis c.p.c., nonché artt. 155-bis, 155-ter e 155-quinquies disp. att. c.p.c.)
La lett. b) del comma 12 dell’art. 1 l. delega 206/2021 demandava al Governo di «prevedere che se il creditore presenta l’istanza di cui all’articolo 492-bis del codice di procedura civile, il termine di cui all’articolo 481, primo comma, del codice di procedura civile, rimanga sospeso e riprenda a decorrere dalla conclusione delle operazioni previste dal comma 2, dell’articolo 492-bis», sì da evitare «il paradosso di una perdita di efficacia del precetto indipendente dalla condotta inerte del creditore», come si legge nella Relazione illustrativa.
La prassi era già generalmente orientata nel senso di autorizzare tali indagini telematiche sui beni da pignorare prima che il precetto fosse stato notificato, sia per sfruttare un minimo di ‘effetto sorpresa’ senza mettere il debitore sull’avviso dell’imminente inizio dell’azione esecutiva, sia soprattutto perché le strutture tecnologiche, necessarie a consentire l’accesso diretto da parte dell’ufficiale giudiziario alle banche dati, non sono ancora funzionanti (dal 2014, anno di introduzione dell’art. 492 bis c.p.c.): talché è il creditore medesimo a doversi adoprare per accedervi, previamente munito dell’autorizzazione presidenziale a mente dell’art. 155-quinquies disp. att. c.p.c., il quale conferma l’aforisma per cui «nulla è più definitivo del provvisorio» o, alla francese, «il n’y a que le provisoire qui dure». Tutto ciò dovrebbe pur far riflettere su quali siano i problemi concreti degli uffici giudiziari e, più ancora, i bisogni effettivi di chi quotidianamente con essi abbia la (s)ventura di avere a che fare.
Il d.lgs. 149/2022, attuando la delega, ha diversificato la disciplina di cui all’art. 492-bis c.p.c. – e, conseguentemente, quella di cui all’art. 155-quinquies disp. att. c.p.c., quando (come ora… usque ad kalendas graecas …) l’ufficiale giudiziario attesta che le strutture tecnologiche, necessarie a consentire l’accesso diretto alle banche dati non sono funzionanti – a seconda che l’istanza per le ricerche telematiche venga presentata dopo la notifica del precetto (e dopo il decorso del termine dilatorio di dieci giorni previsto dall’art. 482 c.p.c.) oppure prima di tale momento.
Nella prima ipotesi, è stata soppressa la necessità di autorizzazione da parte del presidente del tribunale, in quanto tale attività – si legge nella Relazione illustrativa al d.lgs. 149/2022 – implica lo svolgimento di meri controlli formali, non diversi da quelli che l’ufficiale giudiziario già svolge prima di procedere al pignoramento. Peraltro, l’ufficiale giudiziario ha già il potere di ricercare i beni del debitore, come prevedono l’art. 492, commi 4, 5 e 7, c.p.c., nonché l’art. 513 c.p.c. Tale soppressione, quando il sistema delineato dall’art. 492-bis c.p.c. sarà effettivamente praticabile, ridurrà notevolmente – nota la Relazione illustrativa, con un certo qual panglossiano ottimismo («Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate»: Inf., III, 9) – il carico dei presidenti delle sezioni esecuzioni dei tribunali, dato che il numero delle richieste di autorizzazione (attualmente presentate ai sensi dell’art. 155-quinquies disp. att. c.p.c.: non è dato sapere sino a quando…) è molto elevato (circa 90.000 nel 2021) e in costante crescita.
La disciplina delineata dal riscritto art. 492-bis c.p.c. – in forma tutt’altro che sintetica e chiara (assieme all’art. 492 quasi supera i versi della Gerusalemme liberata del Tasso, recando peraltro a chi legge assai minore diletto…) – notificato il precetto e decorso il termine dilatorio di dieci giorni dal perfezionarsi della notifica, prevede che, su istanza del creditore, l’ufficiale giudiziario addetto al tribunale del luogo in cui il debitore ha la residenza, il domicilio o (in subordine) la dimora oppure (per gli enti) la sede, verificata la regolarità dell’istanza, munito del titolo esecutivo e del precetto, proceda alla ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare.
Nella seconda ipotesi, allorché la richiesta di ricerca telematica preceda la notifica del precetto o quando ancora non sia spirato il termine dilatorio di dieci giorni di cui all’art. 482 c.p.c. (ipotesi quest’ultima davvero marginale), è mantenuta la previsione relativa alla necessità dell’autorizzazione da parte del presidente del tribunale (o di un magistrato da lui designato: usualmente il presidente della sezione esecuzioni), posto che in tali casi occorre valutare anche il presupposto dell’urgenza.
Il termine di efficacia del precetto di cui all’art. 481, comma 1, c.p.c. (novanta giorni, non soggetti a sospensione feriale) rimane sospeso ipso iure dalla proposizione dell’istanza, tanto nel caso in cui sia presentata all’ufficiale giudiziario ai sensi del nuovo primo comma dell’art. 492-bis c.p.c., quanto nel caso in cui sia stata formulata al presidente del tribunale ai sensi del nuovo secondo comma dell’art. 492-bis c.p.c., ovviamente a precetto già notificato e fintanto che non sia funzionante il sistema di accesso alle banche dati operata direttamente dall’ufficiale giudiziario.
La sospensione ipso iure del termine opera per tutta la durata del subprocedimento di cui all’art. 492-bis c.p.c., fino alla comunicazione dell’ufficiale giudiziario di non aver eseguito le ricerche per mancanza dei presupposti dell’istanza o al rigetto dell’istanza presentata al presidente del tribunale oppure fino alla comunicazione del processo verbale di cui al quarto comma dello stesso art. 492-bis c.p.c., contenente le risultanze dell’accesso effettuato dall’ufficiale giudiziario alle banche dati dell’anagrafe finanziaria, compreso l’archivio dei rapporti finanziari, e degli enti previdenziali.
La comunicazione da parte dell’ufficiale giudiziario, prevista ex novo nell’anzidetto quarto comma, è necessaria per poter determinare con certezza il momento nel quale il termine di efficacia del precetto riprende il suo corso. Inoltre, per evitare possibili contestazioni mediante opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c. con riguardo alla perenzione del precetto, è stato introdotto un ultimo comma all’art. 492-bis c.p.c., nel quale è previsto che, al fine di verificare il rispetto del termine di novanta giorni dalla notifica del precetto, previsto dall’art. 481, comma 1, c.p.c. a pena di inefficacia del pignoramento, il creditore, nel caso di sospensione di tale termine per effetto delle ricerche telematiche, con la nota d’iscrizione a ruolo depositi, con le stesse modalità e nei medesimi termini di questa, l’istanza, l’autorizzazione del presidente del tribunale, quando è prevista, nonché la comunicazione del verbale con le risultanze dell’accesso dell’ufficiale giudiziario alle banche dati dell’anagrafe finanziaria, compreso l’archivio dei rapporti finanziari, e degli enti previdenziali, oppure la comunicazione dell’ufficiale giudiziario di non aver eseguito le ricerche per mancanza dei presupposti dell’istanza o il provvedimento del presidente del tribunale di rigetto dell’istanza.
In conseguenza delle modifiche apportate e sempre con le medesime finalità appena evidenziate, è stato introdotto anche un nuovo ultimo comma all’art. 492 c.p.c. (in sostituzione del precedente, abrogato in seguito all’abolizione della formula esecutiva), nel quale si prevede che, nell’ipotesi di cui all’art. 492-bis c.p.c., l’atto o il verbale di pignoramento debba contenere l’indicazione della data di deposito dell’istanza di ricerca telematica dei beni, l’autorizzazione del presidente del tribunale, quando è prevista, e la data di comunicazione del processo verbale con le risultanze dell’accesso dell’ufficiale giudiziario alle banche dati dell’anagrafe finanziaria, compreso l’archivio dei rapporti finanziari, e degli enti previdenziali di cui allo stesso art. 492-bis, comma 4, c.p.c., oppure la data della comunicazione dell’ufficiale giudiziario di non aver eseguito le ricerche per mancanza dei presupposti o del provvedimento del presidente del tribunale di rigetto dell’istanza, ai sensi dell’art. 492-bis, comma 3, c.p.c., anche in tal caso allo scopo di evitare che il debitore, ignaro della sospensione del termine di efficacia del precetto, proponga opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c., sostenendo l’intervenuta perenzione del precetto.
6. La competenza per l’espropriazione di crediti della P.A. attribuita ai tribunali dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede (art. 26-bis, comma 1, c.p.c., vigente dal 22 giugno 2022)
Il comma 29 dell’art. 1 l. 206/2021 ha riscritto l’art. 26-bis, comma 1, c.p.c. sul «Foro relativo all’espropriazione forzata di crediti» nel seguente modo: «Quando il debitore è una delle pubbliche amministrazioni indicate dall’art. 413, quinto comma, per l’espropriazione forzata di crediti è competente, salvo quanto disposto dalle leggi speciali, il giudice del luogo dove il terzo debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede».
Nella Relazione illustrativa della l. 206/2021 si spiegano le ragioni dell’intervento, imposte dai nuovi criterî di finanza pubblica che, soprattutto in vista degli ingenti fondi europei del Recovery Plan, accentrano in Roma il servizio di tesoreria e così, sperabilmente, il controllo della spesa pubblica, che aggrava viepiù il debito nazionale, il quale ha superato, nell’ottobre 2022, i 2.771 miliardi di euro, come ci viene ripetuto ogni dì, tanto da indurci a rivolgere a Domineddio evangelica supplica: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori»… ancor più in questo periodo di crescita dei tassi di inflazione e di interesse (usurae si chiamavano un tempo)... [9].
«Con un primo intervento viene modificata la competenza per territorio nei procedimenti di espropriazione forzata di crediti nei confronti della P.A.», si legge nella suddetta Relazione. «In particolare, per effetto del prossimo accentramento della funzione di tesoreria statale, il mantenimento del criterio di cui al vigente articolo 26-bis del codice di procedura civile comporterebbe la concentrazione di tutte le procedure esecutive di cui sopra presso il Tribunale di Roma, con conseguente insostenibilità del relativo carico. La modifica introdotta, conciliando il nuovo criterio del foro del creditore con il principio del foro erariale, radica la competenza nel foro dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede, consentendo così una ragionevole distribuzione delle controversie tra diversi tribunali distrettuali».
La modifica della competenza – per la quale varrà ovviamente la regola della perpetuatio competentiae di cui all’art. 5 c.p.c., nel senso che il nuovo criterio si applica soltanto alle procedure esecutive promosse a partire dal 22 giugno 2022 – non è di lieve momento, atteso che:
- sostituisce al foro del terzo debitor debitoris il foro del creditore verso la P.A.;
- concentra le procedure sul tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello in cui il creditore risiede o ha domicilio o ha sede (in caso di ente): talché, per esemplificare, quando il creditore verso la P.A. risieda o abbia domicilio o sede a Viterbo, competente per l’espropriazione del credito sarà il Tribunale di Roma; quando il creditore verso la P.A. risieda o abbia domicilio o sede a Como, competente per l’espropriazione del credito sarà il Tribunale di Milano.
Frutto di iterativo lapsus calami appare il richiamo alla «dimora» del creditore, in alternativa alla residenza o al domicilio: per le persone fisiche il criterio della dimora è solo sussidiario, essendo invocabile solo quando residenza o domicilio siano ignoti (cfr. l’art. 18 c.p.c.); ritenere che il creditore possa procedere in executivis in qualunque luogo abbia una dimora, magari una seconda casa di vacanza, significa consegnare il criterio di competenza al più assoluto arbitrio e ripetere le gravi incertezze che abbiamo conosciuto in questo periodo di limitazioni pandemiche, avuto riguardo ai trasferimenti da e verso le seconde case.
All’emendamento è sottesa la peculiare disciplina dell’espropriazione di crediti a carico della P.A. che, per dovere di completezza, par d’uopo compendiare di seguito, traendola da altro lavoro[10].
Stante la demanialità e, dunque, l’impignorabilità di gran parte dei beni della P.A., il pignoramento delle somme della stessa P.A. è il modo più efficace e, dove possibile, rapido per conseguire il pagamento dei crediti vantati verso la stessa, in forza di titoli esecutivi che vanno notificati centoventi giorni prima di poter intimare il precetto, secondo quanto prevede l’art. 14, comma 1-bis, d.l. n. 669 del 1996 e successive modificazioni, a pena di nullità del precetto e di inammissibilità dell’azione esecutiva, rilevabile anche d’ufficio dal giudice dell’esecuzione. Scaduto tale spatium deliberandi et adimplendi, concesso alla P.A. per dare corso all’adempimento secondo le procedure burocratiche interne, il creditore potrà intimare il precetto e, decorso il termine dilatorio di dieci giorni, chiedere il pignoramento oppure potrà proporre dinanzi al TAR il giudizio per l’ottemperanza ai sensi degli artt. 112 ss. cod. proc. amm., mediante nomina di un commissario ad acta, che compia in luogo della P.A. gli atti amministrativi necessari ad adempiere.
La l. n. 720 del 1984 ha istituito il sistema di tesoreria unica, imponendo a enti e organismi pubblici in genere l’obbligo di mantenere le proprie disponibilità liquide o le eccedenze di cassa esclusivamente in contabilità speciali o conti correnti infruttiferi presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato. A istituti di credito convenzionati sono affidate le funzioni di tesorieri o cassieri degli enti e degli organismi pubblici soggetti al sistema della tesoreria unica. Gli istituti di credito convenzionati effettuano, nella qualità di organi di esecuzione degli enti e degli organismi suddetti, le operazioni di incasso e di pagamento a valere sulle contabilità speciali aperte presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato.
La disciplina sulla tesoreria unica si basa sul principio che il denaro pubblico deve uscire esclusivamente dalla tesoreria dello Stato solo al momento della effettiva spesa da parte degli enti destinatari: questo sistema accentua il ruolo della Banca d’Italia, quale affidataria del servizio unico di tesoreria e gestore dell’intero sistema dei flussi finanziari connessi con gli incassi e i pagamenti di pertinenza del bilancio dello Stato e degli altri enti ricompresi nel settore pubblico.
Ai sensi dell’art. 14, comma 1-bis, d.l. n. 669 del 1996, decorso il termine dilatorio di centoventi giorni dal perfezionarsi della notificazione del titolo esecutivo, l’atto di precetto e il successivo pignoramento vanno notificati, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio dal giudice dell’esecuzione, presso la struttura territoriale dell’ente pubblico debitore, nella cui circoscrizione risiedono o hanno sede i soggetti privati interessati.
Ai sensi dell’art. 1-bis dell’anzidetta l. n. 720 del 1984 sul sistema di tesoreria unica, i pignoramenti a carico di enti e organismi pubblici delle somme affluite nelle contabilità speciali intestate agli stessi si eseguono esclusivamente secondo le forme del pignoramento presso terzi, con atto di pignoramento ex art. 543 c.p.c. notificato all’azienda o istituto cassiere o tesoriere dell’ente od organismo contro il quale si procede, nonché al medesimo ente od organismo debitore. Il cassiere o tesoriere assume la veste del terzo pignorato, ai fini della dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c. e di ogni altro obbligo e responsabilità ex art. 546 c.p.c., essendo tenuto a vincolare l’ammontare per cui si procede nelle contabilità speciali con annotazione nelle proprie scritture contabili.
In base al Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato, r.d. n. 827 del 1924 (artt. 498 e 502), le amministrazioni, enti, uffici o funzionari ai quali siano notificati pignoramenti relativi a somme dovute dalla P.A., sospendono l’ordine di pagamento delle somme ai quali i suddetti atti si riferiscono, dandone notizia alla Corte dei conti e all’amministrazione centrale. Quando gli atti contengano citazione a comparire davanti all’autorità giudiziaria, ne è subito avvertita l’Avvocatura dello Stato per i provvedimenti di sua competenza, comunicando gli elementi necessari perché possa essere resa la dichiarazione delle somme dovute, secondo le norme del codice di rito. Se gli atti non siano nulli o inefficaci per disposizione esplicita di legge o per vizio di forma, l’amministrazione centrale, sentita l’Avvocatura dello Stato, dispone che il pagamento venga effettuato. In caso contrario, non si dà corso al pagamento, fino a che non sia notificata sentenza dell’autorità giudiziaria passata in giudicato sulla validità degli atti o sull’assegnazione delle somme, salvo che il creditore pignorante non rinunzi formalmente al pignoramento notificato.
La normativa sulla tesoreria unica prevede dunque, quale unica forma di pignoramento del denaro della P.A., quella del pignoramento presso il tesoriere. In ragione di ciò, non sono ammessi pignoramenti presso le sezioni di tesoreria dello Stato e presso le sezioni decentrate del bancoposta anziché presso l’azienda o l’istituto cassiere o tesoriere dell’ente debitore, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio. Gli atti di pignoramento eventualmente notificati non determinano obbligo di accantonamento da parte delle sezioni di tesoreria dello Stato e presso le sezioni decentrate del bancoposta e non sospendono l’accreditamento di somme nelle contabilità intestate agli enti ed organismi pubblici.
Il tesoriere convenzionato con la P.A. non agisce in forza di un mandato o per effetto di delegazione di pagamento, bensì quale adiectus solutionis causa necessario, non potendo i pagamenti in denaro della P.A. aver luogo, se non, appunto, mediante il tesoriere, in forza della normativa applicabile al rapporto di concessione del servizio di tesoreria e per la natura pubblicistica del servizio svolto per conto della P.A. Il servizio convenzionato di tesoreria è, dunque, strumento necessario per il pagamento dei debiti dell’ente pubblico e veicolo per la corresponsione della liquidità necessaria a estinguere i debiti di questo.
Nel precedente testo dell’art. 26-bis, comma 1, c.p.c., la competenza funzionale veniva attribuita, in deroga alla regola generale dettata nel comma 2 del medesimo art. 26-bis c.p.c., all’ufficio giudiziario del luogo dove il terzo debitor debitoris aveva la residenza, il domicilio, la dimora (in via puramente sussidiaria) o la sede, cioè segnatamente all’ufficio giudiziario del luogo dove si trovava l’articolazione territoriale dell’azienda o istituto cassiere o tesoriere dell’ente od organismo pubblico debitore, che provvede in concreto all’espletamento del servizio di tesoreria, secondo le convenzioni fra P.A. e il cassiere o tesoriere incaricato, cioè segnatamente all’ufficio giudiziario del luogo in cui opera la filiale, la succursale o l’agenzia che ha in carico il rapporto che forma oggetto della dichiarazione da parte del terzo tesoriere convenzionato.
Tuttavia, sempre ai sensi del suddetto art. 14, comma 1-bis, d.l. n. 669 del 1996 e in deroga all’art. 26-bis, comma 1, c.p.c., per l’espropriazione di crediti a carico di enti o istituti esercenti forme di previdenza e assistenza obbligatorie e organizzati su base territoriale (come l’INPS e l’INAIL), la competenza funzionale appartiene non già al tribunale del luogo in cui ha residenza, domicilio, dimora o sede il terzo debitor debitoris, bensì al tribunale del circondario in cui è stato emesso il provvedimento giurisdizionale in forza del quale la procedura esecutiva è promossa, a pena di improcedibilità rilevabile (recte di declinatoria di competenza rilevabile e pronunciabile) anche d’ufficio.
Il pignoramento presso terzi a carico della P.A. perde ipso iure efficacia, quando dal suo compimento è trascorso un anno senza che sia stata disposta l’assegnazione. L’ordinanza che dispone l’assegnazione dei crediti ai sensi dell’articolo 553 c.p.c. perde ipso iure efficacia, se il creditore procedente, entro il termine di un anno dalla data in cui è stata emessa, non provvede ad agire per l’esazione delle somme assegnate. Norme queste dettate dall’art. 14, comma 1 bis, d.l. n. 669 del 1996 allo scopo di evitare che il vincolo pignoratizio si protragga per un tempo eccessivamente lungo nella contabilità dell’ente pubblico.
Accentrando in Roma il sistema di tesoreria unica, il criterio del debitor debitoris nell’ante vigente art. 26-bis, comma 1, c.p.c. finiva per concentrare tutte le procedure presso terzi a carico della P.A. negli uffici giudiziari della capitale. Di qui l’idea – stante il controllo demandato all’Avvocatura dello Stato sulle procedure di espropriazione di crediti a carico della P.A. ai sensi della su descritta disciplina – di affidare la competenza al foro dove essa ha sede, cioè presso i tribunali del capoluogo del distretto di corte d’appello in cui risiede o ha domicilio o ha sede il creditore, anziché il terzo debitor debitoris, cioè il cassiere o tesoriere esercente il servizio per la P.A. in sede decentrata. E di qui anche il nuovo art. 26-bis, comma 1, c.p.c., introdotto dalla l. 206/2021 e vigente dal 22 giugno 2022, che concentra le procedure esecutive a carico della P.A. sul «giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede», cioè presso il tribunale della sede distrettuale, anziché fare riferimento al foro del terzo pignorato.
7. L’avviso al debitore esecutato e al terzo pignorato di avvenuta iscrizione a ruolo, a pena di inefficacia del pignoramento presso terzi (art. 543, commi 5 e 6, c.p.c., vigente dal 22 giugno 2022)
Il comma 32 dell’art. 1 l. 206/2021 così recita: «All’articolo 543 del codice di procedura civile dopo il quarto comma sono aggiunti i seguenti:
«Il creditore, entro la data dell’udienza di citazione indicata nell’atto di pignoramento, notifica al debitore e al terzo l’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e deposita l’avviso notificato nel fascicolo dell’esecuzione. La mancata notifica dell’avviso di cui al precedente comma o il suo mancato deposito nel fascicolo della esecuzione determina l’inefficacia del pignoramento.
Qualora il pignoramento sia eseguito nei confronti di più terzi, l’inefficacia si produce solo nei confronti dei terzi rispetto ai quali non è notificato o depositato l’avviso. In ogni caso, ove la notifica dell’avviso di cui al presente comma non è effettuata, gli obblighi del debitore e del terzo cessano alla data dell’udienza indicata nell’atto di pignoramento».
La Relazione illustrativa della l. 206/2021 osservava quanto segue: «La previsione mira a completare il disposto dell’articolo 164-ter disp. att. del codice di procedura civile che, al primo comma, stabilisce che il creditore – entro cinque giorni dal termine prescritto per il deposito della nota di iscrizione a ruolo della procedura (nell’espropriazione presso terzi, 30 giorni ex articolo 543 del codice di procedura civile) – provveda a dichiarare al debitore e all’eventuale terzo, “mediante atto notificato”, la sopravvenuta inefficacia del pignoramento derivante dal tardivo o mancato deposito. La disposizione vigente mira a consentire una rapida liberazione dei beni (soprattutto, dei crediti pignorati presso debitores debitorum pubblici, come INPS) già sottoposti a pignoramento, evitando il ricorso al giudice dell’esecuzione per sbloccare somme o cespiti non più vincolati alla soddisfazione del creditore in ragione dell’automatica cessazione degli obblighi di custodia in capo al terzo. Tuttavia, la disposizione non prevede alcuna sanzione (salvo, presumibilmente, una responsabilità aquiliana del creditore nei confronti dell’esecutato) e la mancata informazione al terzo non consente a quest’ultimo di avvedersi della già verificatasi liberazione dei beni. Occorre conseguentemente prevedere che anche dell’avvenuta iscrizione a ruolo – e, dunque, della permanenza del vincolo di pignoramento – sia reso edotto il terzo pignorato, stabilendo altresì che l’inottemperanza all’obbligo di avviso del terzo comporti il venir meno degli obblighi ex articolo 546 del codice di procedura civile in capo a quest’ultimo a far data dall’udienza indicata nell’atto di pignoramento».
I nuovi commi 4 e 5 aggiunti all’art. 543 c.p.c. pongono a carico del creditore pignorante ulteriori adempimenti formali, dopo che era già stato onerato a depositare telematicamente copie attestate conformi del titolo esecutivo, del precetto e del pignoramento, iscrivendo a ruolo la procedura esecutiva presso terzi, entro un termine perentorio di trenta giorni dalla restituzione del pignoramento da parte dell’ufficiale giudiziario, innovando rispetto al sistema precedente, che prevedeva tout court la trasmissione del pignoramento direttamente dall’ufficiale giudiziario alla cancelleria, per la formazione del fascicolo d’ufficio, inserendo poi titolo esecutivo e precetto al momento della costituzione del creditore.
Il comma 4 dell’art. 543 c.p.c., che le legge 206/2021 ha arricchito (si fa per dire…) di ulteriori due commi a far tempo dal 22 giugno 2022, era stato introdotto con d.l. 132/2014 e così recita: «Eseguita l’ultima notificazione, l’ufficiale giudiziario consegna senza ritardo al creditore l’originale dell’atto di pignoramento, con il titolo esecutivo ed il precetto. Il creditore deve depositare telematicamente nella cancelleria dell’ufficio giudiziario competente per l’esecuzione la nota di iscrizione a ruolo, con copie conformi dell’atto di pignoramento, del titolo esecutivo e del precetto, entro il termine perentorio di trenta giorni dalla restituzione effettuata dall’ufficiale giudiziario. La conformità di tali copie è attestata dall’avvocato del creditore. Il cancelliere al momento del deposito forma il fascicolo telematico dell’esecuzione. Il pignoramento perde efficacia, quando la nota di iscrizione a ruolo e le copie degli atti sono depositate oltre il termine di trenta giorni dalla consegna al creditore»[11].
L’outsourcing privatistico del servizio giustizia – che procede e s’incrementa pari passu con «le magnifiche sorti e progressive» della digitalizzazione e del PCT-Processo Civile Telematico (v. ora le ampie e dettagliate novelle di cui allo stesso d.lgs. 149/2022, che introduce gli artt. 196-quater ss. disp. att. c.p.c., raccogliendoli nel titolo V-ter, contenente le nuove «Disposizioni relative alla giustizia digitale»)[12] – or si preoccupa di porre il creditore a servizio del debitore esecutato e del terzo pignorato, onerandolo a notificare loro, entro la data dell’udienza indicata in citazione nell’atto di pignoramento, l’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo, con indicazione del numero di R.G.E. della procedura, per poi depositare tale avviso nel fascicolo dell’esecuzione: il tutto a pena di inefficacia ipso iure del pignoramento, onde scongiurare il rischio (peraltro ben tollerabile dal sistema) che il creditore che non abbia iscritto a ruolo la procedura nel termine di trenta giorni dalla restituzione del pignoramento (usualmente perché non sono pervenute medio tempore dichiarazioni dei terzi o queste sono negative e il creditore non saprebbe come altrimenti accertare l’esistenza di debiti del terzo verso l’esecutato), ometta di darne avviso al debitore e ai terzi pignorati, affinché questi possano togliere il vincolo apposto, a norma dell’art. 164-ter disp. att. c.p.c., introdotto anch’esso con il d.l. 132/2014, rubricato (con evidente metonimia) «Inefficacia del pignoramento per mancato deposito della nota di iscrizione a ruolo» e che così recita nel suo primo comma: «Quando il pignoramento è divenuto inefficace per mancato deposito della nota di iscrizione a ruolo nel termine stabilito, il creditore entro cinque giorni dalla scadenza del termine ne fa dichiarazione al debitore e all’eventuale terzo, mediante atto notificato. In ogni caso ogni obbligo del debitore e del terzo cessa quando la nota di iscrizione a ruolo non è stata depositata nei termini di legge».
Par di trovarsi nel ‘mondo alla rovescia’ di cui favellava Hegel: l’esecuzione forzata dovrebbe servire a realizzare i crediti e dovrebbe porre la tutela dei creditori al centro dei proprî scopi, facendosi strumento perché essi ottengano «tutto quello e proprio quello cui hanno diritto» in base al titolo esecutivo. Continuare ad affliggerli con adempimenti pro debitoribus et tertiis, onerandoli di notificazioni che potrebbero essere assai difficoltose, significa solo generare artificiosi ostacoli al concreto esercizio dell’azione esecutiva e far sorgere ulteriori questioni che, non dubitiamo, giungeranno a bussare alle vetuste aule della Suprema Corte di cassazione.
Si confida che almeno per l’avviso da notificare al debitore basti il deposito telematico in cancelleria, quando questi abbia omesso di dichiarare la residenza o di eleggere domicilio nel circondario del giudice adito, giusta l’invito contenuto nell’atto di pignoramento, ai sensi dell’art. 492, comma 2, c.p.c. Quanto al terzo, si dovrà notificargli l’avviso di iscrizione a ruolo della procedura nei modi previsti ex lege, anche tramite posta elettronica certificata o a mezzo del servizio postale, ai sensi della l. 53/1994 sulle notificazioni in proprio degli avvocati muniti di procura, oppure con ufficiale giudiziario[13], affrettandosi poi a depositare il tutto nel fascicolo telematico della procedura prima dell’udienza di comparizione dinanzi al giudice dell’esecuzione, a pena di inefficacia del pignoramento e di estinzione dell’esecuzione, rilevabili anche d’ufficio.
Peraltro, «esta selva selvaggia e aspra e forte» di adempimenti formalistici a carico del creditore pare assai poco compatibile con la celerità che dovrebbe esser propria dell’espropriazione presso terzi, la quale prevede un termine a comparire di soli dieci giorni tra il perfezionarsi della notificazione dell’atto di pignoramento e l’udienza fissata per la comparizione del debitore (v. lo stesso art. 543 c.p.c., che al comma 2 richiama il termine dilatorio del pignoramento, di cui all’art. 501 c.p.c.).
Bisanzio e il bizantinismo non cessano di esercitare il loro millenario influsso sul diritto italiano nel secolo XXI, in postmoderne fogge burocratico-digitali.
8. Deposito della documentazione ipo-catastale entro il medesimo termine di quarantacinque giorni dal pignoramento previsto per il deposito dell’istanza di vendita (art. 567 c.p.c.)
La lett. c) del comma 12 dell’art. 1 l. 206/2021 demandava al Governo di «prevedere che il termine prescritto dal secondo comma dell’articolo 567 del codice di procedura civile per il deposito dell’estratto del catasto e dei certificati delle iscrizioni e trascrizioni ovvero del certificato notarile sostitutivo coincida con quello previsto dal combinato disposto degli articoli 497 e 501 del medesimo codice per il deposito dell’istanza di vendita, prevedendo che il predetto termine possa essere prorogato di ulteriori 45 giorni, nei casi previsti dal terzo comma dell’articolo 567».
Nella Relazione illustrativa della delega si legge quanto segue: «Al fine di contenere la durata del processo di esecuzione immobiliare si propone di eliminare il termine – attualmente di 60 giorni, con decorrenza dall’istanza di vendita – per il deposito della documentazione ipotecaria e catastale ex articolo 567, secondo comma, del codice di procedura civile, disponendo che anche tale documentazione debba essere depositata entro 45 giorni dal pignoramento. La modifica proposta non rende più gravosa l’attività dei creditori, i quali sono consapevoli dell’esigenza di produrre la documentazione volta a fornire al giudice dell’esecuzione la prova della titolarità del bene staggito in capo all’esecutato (Cass. 11638/2014; Cass. 15597/2019) sin dall’inizio del processo; inoltre, l’ampio ricorso, nella prassi giudiziaria, alla certificazione notarile sostitutiva (spesso formata con consultazione telematica dei pubblici registri) non giustifica più un lungo lasso temporale per reperire le certificazioni rilasciate dai pubblici uffici, ferma restando, peraltro, la possibilità di prorogare il termine – per un identico periodo di 45 giorni – negli stessi casi già previsti dall’articolo 567, terzo comma, del codice di procedura civile».
Pertanto, il d.lgs. 149/2022 ha modificato l’art. 567 c.p.c., riducendo i termini per il deposito della documentazione ipotecaria e catastale e per l’eventuale proroga di ulteriori quarantacinque giorni. Benché il termine per il deposito dell’istanza di vendita e quello per il deposito della documentazione ipo-catastale coincidano, deve escludersi che, in virtù della nuova formulazione della norma, da un lato, debba necessariamente depositarsi la documentazione unitamente all’istanza di vendita e, dall’altro lato, che il deposito della suddetta documentazione possa precedere l’istanza di vendita, come si legge nella Relazione illustrativa al d.lgs. 149/2022.
La novella pare di scarso momento, salvo imporre ulteriore, non meno che vana, solerzia agli utenti del (dis)servizio giustizia, a pena di inefficacia del pignoramento e di estinzione ex officio della procedura, con tanto di ordine di cancellazione della trascrizione del pignoramento medesimo. Non è abbreviando i termini ai creditori (adempimenti sempre più onerosi e stringenti preclusioni vengon fatti sempre ricadere sugli utenti, mai sugli uffici, nell’incessante e implacabile privatizzazione delle tutele processuali) o risparmiando sessanta giorni (ammesso che il creditore li utilizzi tutti) che si otterranno chissà quali accelerazioni delle procedure e risparmi di tempo. Di ciò si trae, ove occorresse, probatio probata dall’inutile e dannosa dimidiazione di vari termini cui si ricorse nel 2009 (tra cui quello lungo ad impugnandum ex art. 327 c.p.c., portato da un anno a sei mesi, con non lievi problemi di coordinamento con altre disposizioni che presupponevano la durata annuale del termine, come gli artt. 328, ult. comma, e 330, ult. comma, c.p.c.) e dall’ancor più inutile e giugulatoria riduzione al solo mese di agosto della sospensione feriale dei termini cui si assistette nel 2014.
9. Nomina del custode dell’immobile pignorato contestualmente a quella dello stimatore e controllo della documentazione ipo-catastale (art. 559 c.p.c.)
Ben nota è la centralità del custode nelle best practices invalse anche prima delle varie riforme delle espropriazioni immobiliari, intervenute a far tempo dal 2005-2006. È personaggio in continua «ricerca d’autore»: un privato, ausiliario occasionale di giustizia (art. 65 c.p.c.), che ha visto ampliare a dismisura i compiti assegnatigli, sino a far le veci dell’ufficiale giudiziario nel dare esecuzione all’ordine di liberazione dell’immobile pignorato, senza neppure essere tenuto a osservare le forme dell’esecuzione in forma specifica per rilascio di immobile (artt. 605 ss. c.p.c.), come subito vedremo a proposito dell’ennesima novella recata al martoriato art. 560 c.p.c.
Il progressivo e crescente utilizzo di ausiliari privati nelle procedure esecutive non contraddice la riserva statuale dei poteri di esecuzione forzata, sebbene codesta forma di ‘esternalizzazione’ e di più o meno larvata (ma oramai palese) privatizzazione del processo civile si sia spinta forse un po’ troppo al di là delle colonne d’Ercole che segnano, a garanzia di tutti i concives, la suddetta riserva statuale, là dove, ad esempio, sistematicamente si delegano le vendite forzate a liberi professionisti o si affida la liberazione degli immobili staggiti al custode giudiziario, cui il giudice dell’esecuzione conferisce il potere di valersi direttamente della forza pubblica senza necessità di rivolgersi all’ufficiale giudiziario, che è l’organo istituzionalmente preposto all’uso legittimo della forza in sede esecutiva. Per non parlare della crescita esponenziale e della moltiplicazione delle spese inerenti alle procedure esecutive, in tal modo ‘privatizzate’ attraverso l’apporto degli ausiliari: spese che, trovando collocazione ed essendo soddisfatte prima di qualsiasi altro credito azionato in executivis, riducono le somme distribuibili ai creditori e finiscono per danneggiare loro e il debitore medesimo, al quale ben difficilmente potrà essere attribuito il residuo della liquidazione dei suoi beni e sul quale, anzi, graverà la differenza dei crediti che non abbiano trovato integrale soddisfazione sul ricavato, non giovandosi di alcuna esdebitazione in grazia dell’espropriazione patita, se non quando acceda agli strumenti e alle procedure disciplinate dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, approvato con d.lgs. n. 14 del 2019 ed entrato in vigore il 15 luglio 2022[14].
I variegati compiti affidati al custode, minuziosamente elencati nel d.m. 80/2009 in materia di compensi liquidabili, fanno di lui il «factotum della città», «pronto a far tutto, la notte e il giorno – Sempre d’intorno in giro sta», e così controllore, riscossore, agente immobiliare, accompagnatore nelle visite ai beni immobili subastati, esecutore degli ordini del giudice, ufficiale giudiziario, e chi più ne ha più ne metta.
Sempre secondando quest’ottica privatistica, la lett. e) del comma 12 dell’art. 1 l. 206/2021 demandava al Governo di «prevedere che il giudice dell’esecuzione provveda alla sostituzione del debitore nella custodia nominando il custode giudiziario entro quindici giorni dal deposito della documentazione di cui al secondo comma dell’articolo 567 del codice di procedura civile, contemporaneamente alla nomina dell’esperto di cui all’articolo 569 del medesimo codice, salvo che la custodia non abbia alcuna utilità ai fini della conservazione o amministrazione del bene ovvero per la vendita».
Nella Relazione illustrativa della delega si legge: «La sostituzione del debitore nella custodia assegnatagli ex lege (articolo 559, primo comma, del codice di procedura civile) può essere disposta A) su istanza del creditore pignorante o di un creditore intervenuto, B) quando l’immobile non sia occupato dal debitore, C) in caso di inosservanza degli obblighi incombenti sul custode. La stessa deve, invece, essere disposta – se custode dei beni pignorati è (ancora) il debitore e salvo che per la particolare natura degli stessi la sostituzione non abbia alcuna utilità – al più tardi nel momento in cui il giudice pronuncia l’ordinanza con cui è autorizzata la vendita o sono delegate le relative operazioni. La prassi della nomina anticipata del custode (coeva alla designazione dell’esperto stimatore) è largamente diffusa negli uffici giudiziari ed è stata annoverata tra le “Buone prassi” (individuate dal C.S.M. con propria delibera del 2017), perché essa consente di acquisire informazioni da soggetto qualificato già nella fase anteriore alla messa in vendita del cespite, nonché di assicurare alla procedura i frutti (naturali e civili) che sono oggetto di pignoramento ex articolo 2912 del codice civile. Solo in via residuale, quando nessuna delle funzioni custodiali appaia utile per la procedura, si deve invece prevedere che il giudice possa soprassedere alla designazione di un custode professionale».
Completa il quadro la lett. d) del comma 12, introdotta dalla Commissione Giustizia del Senato in sede di approvazione della l. 206/2021, che demandava al Governo di «prevedere che il custode di cui all’articolo 559 del codice di procedura civile collabori con l’esperto nominato ai sensi dell’articolo 569 del codice di procedura civile al controllo della completezza della documentazione di cui all’articolo 567, secondo comma, del codice di procedura civile». Il principio non fa che positivizzare una prassi già invalsa nelle attività dei vari ausiliari privati, ai quali è oramai delegata per intero la gestione dell’espropriazione immobiliare, sotto la vigilanza del giudice dell’esecuzione.
Il d.lgs. 149/2022 provvede di conseguenza, rispetto a criterî dettati dalla delega in modo già così dettagliato. La stessa Relazione illustrativa al d.lgs. 149/2022 ricorda che il CSM, con delibera del 7 dicembre 2021, nell’aggiornare le «Linee guida funzionali alla diffusione di buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari», già approvate con delibera dell’11 ottobre 2017, aveva apprezzato e valorizzato la prassi della nomina anticipata del custode giudiziario contestualmente alla nomina dell’esperto stimatore, sottolineando l’opportunità di un supporto convergente e di un operato sinergico di professionalità distinte: l’una, quella dello stimatore, portatore di conoscenze e competenze specialistiche in ordine agli aspetti catastali, planimetrici, urbanistico-edilizi e di estimo; l’altra, quella del custode, espressione di una formazione in discipline giuridiche, più idonea a cogliere le implicazioni legali salienti della connotazione urbanistica, della titolarità e dello stato di occupazione del cespite, soprattutto nella prospettiva di individuare eventuali situazioni opponibili alla procedura e, pertanto, da considerarsi in decremento al valore di mercato del bene, evidenziando altresì che il coordinamento tra i due professionisti si concretava nell’esame della documentazione ipo-catastale e nella compilazione di una check-list riepilogativa delle verifiche effettuate (concernenti anche profili di regolarità della procedura esecutiva), dalla quale far emergere, in uno stadio ancora iniziale dell’espropriazione, eventuali criticità inficianti l’ulteriore corso del procedimento.
Ulteriori ragioni, al fondo ispirate alla ricerca di una maggiore efficienza dell’espropriazione, erano state da più parti prospettate in favore dell’anticipazione della nomina del custode rispetto al momento di emanazione dell’ordinanza di vendita del bene, come previsto dall’ante vigente art. 559 c.p.c.: la sostituzione del debitore nelle mansioni di custode (che egli ricopre ex lege con la notifica dell’atto di pignoramento, ai sensi dell’art. 559, comma 1, c.p.c.) consente, per un verso, di assicurare alla procedura la riscossione di frutti e rendite cui il pignoramento dell’immobile si estende (articolo 2912 c.c.) e, per altro verso, permette al custode giudiziario di svolgere un’attività informativa del debitore sulle possibili definizioni della procedura ancora praticabili, senza addivenire alla liquidazione del compendio staggito (conversione del pignoramento, vendita diretta, accesso alle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento, chiusura con un c.d. saldo e stralcio).
Le puntuali e specifiche disposizioni delle lettere d) ed e) del comma 12 dell’art. 1 l. 206/2021 non hanno ingenerato particolari difficoltà nell’elaborazione dell’articolato in parte qua attuativo: si è semplicemente trattato di riportare il contenuto già precettivo della legge delega all’interno dell’art. 559 c.p.c., di cui è stato effettuato anche un riordino che, senza incidere sulla sua portata dispositiva, superasse alcuni dubbi ermeneutici indotti dal difetto di coordinamento con il successivo art. 560 c.p.c., come modificato dal legislatore nel 2019 e nel 2020 e ancora nuovamente nel 2022, con effetto per le procedure iniziate dal 1° marzo 2023.
Il d.lgs. 149/2022 ha, dunque, modificato il secondo comma dell’art. 559 c.p.c., prevedendo la nomina anticipata del custode, contestualmente alla nomina dell’esperto e ribadendo la ristretta cerchia dei soggetti abilitati all’incarico, da individuare nell’istituto vendite giudiziarie (I.V.G.) o in uno dei professionisti delegabili per le operazioni di vendita, inseriti nell’elenco di cui all’art. 179-ter disp. att. c.p.c.; è stata poi inserita nel comma 2 una clausola di salvezza («Salvo che la sostituzione nella custodia non abbia alcuna utilità ai fini della conservazione o della amministrazione del bene o per la vendita»), in forza della quale, in situazioni eccezionali e dall’àmbito applicativo limitatissimo, al giudice dell’esecuzione è data facoltà di non provvedere alla sostituzione del debitore con un custode giudiziario.
Il successivo terzo comma dell’art. 559 c.p.c. recepisce i nuovi compiti del custode giudiziario (che si sommano a quelli analiticamente indicati nel D.M. n. 80/2009), cioè il controllo, in ausilio all’esperto stimatore, della completezza della documentazione di cui all’art. 567 c.p.c., con l’aggiunta di una relazione informativa in un termine che il giudice dell’esecuzione, nell’esercizio dei poteri di direzione della procedura, avrà cura di fissare.
10. Ancora una riscrittura della disciplina sulla liberazione dell’immobile pignorato (art. 560 c.p.c.)
La lett. f) del comma 12 dell’art. 1 l. 206/2021 demandava al Governo di intervenire nuovamente sull’art. 560 c.p.c., prevedendo che «il giudice dell’esecuzione ordin[i] la liberazione dell’immobile pignorato non abitato dall’esecutato e dal suo nucleo familiare ovvero occupato da soggetto privo di titolo opponibile alla procedura al più tardi nel momento in cui pronuncia l’ordinanza con cui è autorizzata la vendita o sono delegate le relative operazioni e che debba ordinare la liberazione dell’immobile abitato dall’esecutato convivente col nucleo familiare al momento dell’aggiudicazione, ferma restando comunque la possibilità di disporre anticipatamente la liberazione nei casi di impedimento alle attività degli ausiliari del giudice, di ostacolo del diritto di visita di potenziali acquirenti, di omessa manutenzione del cespite in uno stato di buona conservazione o di violazione degli altri obblighi che la legge pone a carico dell’esecutato o degli occupanti».
Nella Relazione illustrativa della delega si legge: «La proposta modifica è volta ad ottenere la liberazione anticipata degli immobili occupati sine titulo o da soggetti diversi dal debitore convivente col nucleo familiare, conformemente a quanto già ritenuto, sulla base del previgente articolo 560 del codice di procedura civile, dalle “Buone prassi” (delibera CSM 2017). Una maggiore tutela è data all’esecutato che abiti l’immobile staggito con la propria famiglia, prevedendo che la liberazione possa essere disposta soltanto in esito all’aggiudicazione del bene, sempre che l’esecutato non ostacoli lo svolgimento della procedura o non arrechi danni all’immobile o pregiudizio agli interessi del futuro aggiudicatario».
La lett. h) del comma 12 dell’art. 1 l. delega 206/2021 demandava al Governo di «prevedere che sia il custode ad attuare il provvedimento di liberazione dell’immobile pignorato secondo le disposizioni del giudice dell’esecuzione immobiliare, senza l’osservanza delle formalità di cui agli articoli 605 e seguenti del codice di procedura civile, successivamente alla pronuncia del decreto di trasferimento nell’interesse dell’aggiudicatario o dell’assegnatario se questi non lo esentano». Criterio questo francamente superfluo, ché la precedente versione del tormentato art. 560 c.p.c. già lo prevedeva in uno dei suoi numerosi periodi.
Il quale art. 560 c.p.c., rubricato «Modo della custodia», è stato malgré soi oggetto di continue, ondivaghe e contraddittorie novelle nel giro di pochissimi anni, alle quali faceva da sfondo una contrapposizione ideologica tra chi si schierava ex parte creditoris – soprattutto banche, società veicolo (SPV in acronimo) e servicer nelle cartolarizzazioni dei crediti deteriorati, gestite da fondi di private equity e da grandi istituti di credito internazionali – e chi si volgeva, invece, ex parte debitoris, incline a riconoscere a ognuno la possibilità di permanere sino all’ultimo nell’immobile pignorato od anche – ricorrendo a una procedura di composizione delle crisi da sovraindebitamento ex lege n. 3/2012 (ed ora ai sensi del codice della crisi e dell’insolvenza), della quale dare avviso sin dal precetto, a mente dell’art. 480, comma 2, ultima frase, c.p.c. – una second chance e un fresh start, esdebitandosi una volta per tutte, recuperando il “merito creditizio” mercé cancellazione del nominativo dalla Centrale rischi e rientrando così nel circuito economico, consumistico e finanziario che si assume oggidì come virtuoso e che manda innanzi il mondo nel secolo XXI[15].
Così, l’art. 560 c.p.c., ch’era nel testo originario disposizione neutra e, tutto sommato, anodina, è divenuto campo di scaramucce tra i due schieramenti ideologici, «l’un contro l’altro armati». Era parso al conditor legum utile e opportuno, per favorire le vendite, anticipare congruamente la liberazione dell’immobile staggito, in modo da trasmettere all’aggiudicatario (o all’assegnatario) non soltanto la proprietà del bene con il decreto di trasferimento, ma anche la detenzione materiale, come usa avvenire nelle vendite volontarie mediante la consegna delle chiavi e la traditio ficta contestuale al rogito notarile, sì da garantire piena corrispondenza temporale tra acquisto del diritto e possesso del bene.
In tale ottica e con queste finalità il testo dell’art. 560 c.p.c., dedicato alla custodia del bene immobile pignorato, era stato novellato pro creditoribus nel 2014 e poi ancora nel 2016. Successivamente, con novella vigente dal 2019, l’art. 560 c.p.c. era stato nuovamente modificato, invertendone l’ispirazione e il segno pro debitore, salvo ancora intervenire nel 2020, a parziale rettifica, al fine di assicurare all’aggiudicatario la sollecita liberazione dell’immobile acquistato sine strepitu ac figura executionis (si fa ovviamente per dire…).
Il non breve testo che ne è sortito, neppure diviso in separati commi bensì unicamente in periodi secondo attuale malvezzo, prevedeva che il debitore e i familiari che con lui convivono non perdessero la detenzione dell’immobile e delle sue pertinenze sino al decreto di trasferimento, a meno che ostacolassero le visite da parte di potenziali acquirenti interessati a partecipare alla vendita o l’immobile non fosse adeguatamente tutelato e mantenuto in uno stato di buona conservazione, per colpa o dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare oppure il debitore avesse violato altri obblighi che la legge pone a suo carico o, ancora, l’immobile non fosse abitato dal debitore e dal suo nucleo familiare.
Qualora l’immobile pignorato sia abitato dal debitore e dai suoi familiari, salvi i casi di violazione degli obblighi dianzi indicati, il giudice dell’esecuzione non può mai disporne la liberazione prima del decreto di trasferimento di cui all’art. 586 c.p.c., che peraltro costituisce titolo esecutivo per il rilascio a favore dell’assegnatario o dell’aggiudicatario. Dopo la notifica o la comunicazione del decreto di trasferimento il custode, su istanza dell’aggiudicatario o dell’assegnatario e in mancanza di spontaneo adempimento da parte degli occupanti, provvede all’attuazione dell’ordine di rilascio contenuto nel decreto di trasferimento, decorsi sessanta giorni e non oltre centoventi giorni dall’istanza, senza l’osservanza delle formalità di cui agli artt. 605 ss. c.p.c. e con autorizzazione a valersi della forza pubblica e a nominare ausiliari ai sensi dell'art. 68 c.p.c. In mancanza di istanza dell’aggiudicatario o dell’assegnatario, saranno questi a dover procedere nell’esecuzione forzata per rilascio di immobile, avvalendosi del decreto di trasferimento quale titolo esecutivo, previe l’intimazione del precetto e la notifica dell’avviso di sloggio, seguendo le forme di cui all’art. 608 c.p.c. con l’intervento dell’ufficiale giudiziario. Quando invece sia stata ordinata la liberazione dell’immobile prima del decreto di trasferimento per violazioni ascrivibili al debitore o ai suoi familiari, sarà il custode a curarne l’attuazione coattiva (ex littera su istanza dell’aggiudicatario, quindi dopo che l’aggiudicazione sia avvenuta: il che non pare compatibile con la ratio della novella del 2020, ma tant’è), sempre secondo le disposizioni del giudice dell’esecuzione e senza l’osservanza delle formalità dettate dagli artt. 605 ss. c.p.c. per l’esecuzione in forma specifica per rilascio di immobile.
Ora il criterio direttivo dettato dalla lett. f) del comma 12 dell’art. 1 l. 206/2021 si proponeva lo scopo di far liberare l’immobile non abitato dal debitore e dai suoi familiari ovvero occupato da soggetto privo di titolo opponibile alla procedura sin dal momento in cui il g.e. abbia disposto la vendita, delegandone le operazioni. Quando invece l’immobile sia abitato dal debitore e dai suoi familiari, salve le ipotesi di ostruzionismo o di violazioni degli obblighi, la liberazione dovrà essere disposta non appena sia avvenuta l’aggiudicazione, prima cioè del decreto di trasferimento, con il quale si produce l’effetto traslativo della vendita forzata. Qualora l’aggiudicazione provvisoria venga meno (ad es., per inadempienza dell’aggiudicatario), cesserà ovviamente la necessità di procedere alla liberazione dell’immobile, sino a una nuova aggiudicazione, con il rischio insomma di qualche possibile andirivieni.
Come ben vedesi, i vari estensori e suggeritori dei testi dell’art. 560 c.p.c. imbandiscono ossessivamente una satura lanx, affetta da ‘analitico furore’, che riuscirebbe indigesta persino a Pantagruel, ripetendo anche il superfluo, come nella lett. h) del comma 12 dell’art. 1 l. 206/2021, che si premura di dettare un criterio direttivo per emanare norma già scritta nel c.p.c.
Ad ogni buon conto, a petto di criterî direttivi tanto dettagliati, il d.lgs. 149/2022, quanto ai presupposti e ai tempi di adozione dell’ordine di liberazione, ha confermato l’impianto di massima risultante dalle modifiche del 2019 e del 2020, distinte – come veduto – in due fattispecie correlate allo stato di occupazione dell’immobile pignorato, a seconda che al momento del pignoramento: i) sia utilizzato dal debitore a fini diversi dall’abitazione oppure sia occupato da un terzo privo di titolo opponibile alla procedura, oppure ii) sia abitato dal debitore e dai suoi familiari.
i) Nel primo caso, l’emanazione del provvedimento di liberazione è obbligatoria ed è sottratta alla discrezionalità del giudice dell’esecuzione, con la previsione di un termine ne ultra quem, ai sensi del nuovo settimo comma dell’art. 560 c.p.c., così formulato: «Il giudice dell’esecuzione, con provvedimento opponibile ai sensi dell’articolo 617, ordina la liberazione dell’immobile non abitato dall’esecutato e dal suo nucleo familiare oppure occupato da un soggetto privo di titolo opponibile alla procedura non oltre la pronuncia dell’ordinanza con cui è autorizzata la vendita o sono delegate le relative operazioni», anche qui senza valenza innovativa, ma meramente ricognitiva di quanto già statuito dall’art. 560 c.p.c. prima delle riforme del 2019 e di quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità.
ii) Nel secondo caso (immobile occupato dal debitore e dai suoi familiari), è stato mantenuto l’ordito risultante dalle riforme del 2019/2020: il debitore che, al momento del pignoramento, occupi l’immobile staggito non perde la detenzione dello stesso sino al decreto di trasferimento; la permanenza nell’occupazione del cespite è ope legis, non abbisogna cioè (come accadeva invece nel sistema anteriore) di un’autorizzazione del giudice dell’esecuzione.
A fronte di tale rilevante beneficio, sono posti a carico del debitore precisi doveri di collaborazione per il buon esito della procedura espropriativa, estesi anche ai familiari conviventi: la costante osservanza di tali obblighi rappresenta la condizione legittimante il permanere del debitore nel godimento dell’abitazione pignorata. Sono tipizzati i presupposti per l’adozione dell’ordine di liberazione, corrispondenti alla violazione di obblighi inerenti all’immobile (in certo senso, propter rem) e alle condotte pregiudizievoli, idonee a ledere l’interesse della procedura a realizzare il miglior risultato economico, diminuendo il valore dell’immobile o determinando una minore appetibilità dello stesso, o a recare danno alla posizione giuridica dell’aggiudicatario, provocando il sorgere di costi destinati a gravare a carico di quest’ultimo.
In tale configurazione – si osserva sempre nella Relazione illustrativa al d.lgs. 149/2022 – l’ordine di liberazione non assume natura o veste sanzionatoria di qualsivoglia condotta non gradita del debitore, ma mira a garantire un corretto equilibrio tra gli interessi in gioco: da un lato, l’interesse a liberare l’immobile per realizzare la maggiore soddisfazione dei crediti azionati e, quindi, in ultima analisi, tutelare il credito; dall’altro lato, l’interesse del debitore all’abitazione, avente natura di vero e proprio diritto fondamentale, come tale idoneo a comprimere, seppur in via temporanea, il pieno esercizio della tutela esecutiva[16]. Proprio la salvaguardia del diritto all’abitazione, avente valenza di «diritto sociale», rientrante «fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» come ratio della permanenza ex lege del debitore nell’immobile occupato a fini abitativi[17], ha consentito di sciogliere il nodo sulla possibilità di attribuire il beneficio anche al debitore single: la natura individuale del diritto all’abitazione e l’esigenza di evitare ingiustificate differenziazioni di trattamento, difficilmente compatibili con il principio di eguaglianza, hanno indotto a non recepire stricto sensu la locuzione «convivente» adoperata dal legislatore delegante, in guisa da riconoscere la permanenza sino al trasferimento anche al debitore che occupi da solo l’immobile.
L’unico ritocco apportato dalla legge delega, tradottosi in una corrispondente interpolazione dell’attuale nono comma (previgente sesto comma) dell’art. 560 c.p.c., è consistito nell’individuazione di una nuova situazione legittimante l’emissione dell’ordine di liberazione anticipata rispetto al trasferimento: il comportamento del debitore che rechi impedimento allo svolgimento delle attività degli ausiliari del giudice dell’esecuzione.
Quanto all’attuazione – si legge sempre nella Relazione illustrativa al d.lgs. 149/2022 – la legge delega 206/2021, con la già ricordata lettera h) del comma 12 dell’art. 1, scioglie l’inestricabile groviglio di criticità applicative sollevate dalla formulazione, per vari versi atecnica, del sesto comma dell’articolo 560 c.p.c., frutto dei plurimi e mal coordinati interventi del 2009 e del 2020, operando un ritorno al passato, attraverso il ripristino in parte qua della disposizione dell’art. 560 c.p.c., quale a suo tempo introdotta dal d.l. 59/2016 e poi travolta dalla l. 12/2019: con il nuovo decimo comma dell’art. 560 c.p.c., il custode attua il provvedimento di liberazione dell’immobile pignorato secondo le disposizioni del giudice dell’esecuzione immobiliare, senza l’osservanza delle formalità di cui agli artt. 605 ss. c.p.c. sull’esecuzione in forma specifica per rilascio di immobile, successivamente alla pronuncia del decreto di trasferimento nell’interesse dell’aggiudicatario o dell’assegnatario, salvo che questi non lo esentino.
Nell’ipotesi di immobile abitato dal debitore, con il nuovo ottavo comma dell’art. 560 c.p.c. si è precisato, dissipando plurime letture ermeneutiche, che l’ordine di liberazione costituisce provvedimento autonomo e separato, emesso (salvi i casi di ordine anticipato per comportamenti violativi del debitore) contestualmente alla pronuncia del decreto di trasferimento. Il regime dell’ordine di liberazione è, dunque, self-executing, cioè esecutivo, con effetti diversi dal decreto di trasferimento (che, comunque, è e resta titolo esecutivo in favore dell’aggiudicatario, da azionare nelle forme della procedura per rilascio di immobile ex artt. 605 ss. c.p.c., attuato dal custode secondo le disposizioni del giudice dell’esecuzione immobiliare, senza l’osservanza delle formalità di cui agli artt. 605 ss. c.p.c., con l’attribuzione al custode di un’ultrattività della funzione, limitata alla materiale liberazione di un immobile divenuto di proprietà di altri e, quindi, non più soggetto al munus custodiale.
11. Breve excursus: la vendita forzata secondo Salvatore Satta
A guisa d’interludio – ma anche per introdurre il discorso su una tra le maggiori novità della riforma dell’esecuzione forzata, la «vendita diretta» o, alla francese, vente privée, di cui diremo nel successivo paragrafo – merita d’essere ricordata un’eterodossa lettura poetica della vendita forzata, offerta da Salvatore Satta nel capitolo XIII del romanzo postumo Il giorno del giudizio[18].
Narra Satta che il maestro di scuola don Ricciotti Bellisai si presentò di notte a casa del notaio don Sebastiano Sanna Carboni, invitandolo perentoriamente a restituirgliela, in quanto era appartenuta al padre ed era stata acquistata all’asta da don Sebastiano: «Ancora una volta io ti chiedo se vuoi restituirmi la casa di Loreneddu, prima che io me la riprenda con la forza». «Tu hai comprato all’asta quella casa, [...] questo vuol dire che mio padre non te l’ha venduta. L’hai comprata senza la sua volontà. È come se l’avessi rubata». Ma, replica don Sebastiano, «tuo padre era pieno di debiti con la banca, e nessuno voleva comprare la casa messa all’incanto. Venne piangendo da me perché mi presentassi alla gara, altrimenti gli avrebbero portato via anche la camicia». «Lo so bene, ed è questo che ti condanna. Se nessuno offriva, la casa restava a lui», esclamò don Ricciotti. Il notaio avrebbe voluto dargli del pazzo, ma poi rifletté: «Nella pazzia di quell’uomo c’era un fondo di verità [...] Il debitore che non paga è soggetto alla espropriazione dei beni: questo era scritto nel codice che gli stava davanti [...], ed era più che giusto: era il fondamento stesso del vivere. Ma era anche vero che il debitore non c’entrava per nulla, i suoi beni ritornavano per così dire alla comunità dalla quale erano usciti, che provvedeva alla vendita. Sotto questo aspetto, ogni esproprio era un furto, e per questo i compratori all’asta erano guardati di malocchio. Una persona amica non partecipava alle gare, e anch’egli aveva sempre rispettato questo pregiudizio. Uno dei motivi di dissenso con la moglie era anche questo». Don Sebastiano, fatto questo pensiero, replicò: «Tu potresti avere qualche ragione, alla lontana, rispose. Ma su quella stessa sedia su cui stai seduto tu, e a questa stessa ora, tuo padre mi scongiurò di concorrere, come ti ho detto. Io non volevo, e per contentarlo dovetti indebitarmi al suo posto. Questo avveniva venti anni fa».
Come noto, la vendita forzata, a differenza di quella volontaria, non è il risultato di un incontro fra volontà negoziali, ma di una volontà negoziale (dell’offerente resosi aggiudicatario) e di una disposizione coattiva (del creditore o dell’organo) in luogo del debitore inadempiente[19]. La separazione dell’effetto traslativo dal potere di disporre della res – cioè appunto la previsione che il bene del quale è proprietario il debitore possa essere alienato senza la sua volontà – comporta necessariamente la pubblicità della vendita forzata, nel senso che la libera scelta del titolare non può essere sostituita che da una partecipazione al trasferimento dell’intero gruppo, della comunità nel suo insieme. Sotto questo profilo si affianca all’interesse del titolare del bene un interesse dei terzi, cioè dei possibili partecipanti alla gara per aggiudicarselo: con la conseguenza che l’assoluto difetto di pubblicità dell’avviso di vendita rende invalida l’alienazione coattiva[20].
Questa è probabilmente la comunità alla quale pensa don Sebastiano: il pubblico, l’insieme dei potenziali offerenti all’incanto, come se il coinvolgimento della comunità nella vendita forzata e l’appartenenza di colui che risulterà effettivo acquirente a un’indefinita e illimitata pluralità di persone valessero a legittimare l’espropriazione forzata e, con questa, «il sacrificio del debitore, il distacco dalla sua cosa e in un certo senso da sé stesso»[21].
Don Sebastiano aveva concorso all’incanto e si era aggiudicato la casa solo perché il debitore lo aveva scongiurato di farlo. Il che dovrebbe eliminare a monte il problema, non solo di carattere morale, ma anche teorico e giuridico: nel suo caso la vendita, sebbene coattiva, era stata sollecitata spontaneamente dal debitore-proprietario all’offerente all’incanto, resosi poi aggiudicatario. Sennonché l’acquirente all’incanto forzoso, quali che siano le soggettive motivazioni all’acquisto, rischia comunque di apparire come qualcuno che profitta delle disgrazie altrui, destando quella stessa ripugnanza che suscitano la vista o anche solo il pensiero di mani sconosciute e rapaci che si posano, profanandole, sulle cose che fino a poco prima facevano parte della vita del debitore e della sua famiglia, del suo essere prima e più che del suo avere[22].
Il clima della vendita immobiliare è divenuto quanto mai asettico nella postmodernità liquida e digitale, tanto più nelle modalità telematiche oggi imposte dal codice di procedura civile, in luogo della fiammella e del fumo delle tre candele vergini accese dopo ogni offerta, prima che divenisse definitiva e desse così luogo all’aggiudicazione del bene al maggior offerente, come ancora avveniva sino a qualche lustro fa. Ma non è certamente meno drammatico né meno doloroso per il debitore «il distacco dalla sua cosa e in un certo senso da sé stesso», come scriveva Satta, sul piano sociale e psicologico, specialmente quando l’oggetto della vendita è la sua casa di abitazione.
Don Ricciotti non accusa il notaio di aver rubato la «casa di Loreneddu», bensì gli dice: «è come se l’avessi rubata». Dal canto suo, don Sebastiano non qualifica come furto l’acquisto all’incanto, bensì come «esproprio», cioè una procedura complessa, una fattispecie a formazione progressiva, alla quale concorrono, prima dell’aggiudicatario, il creditore procedente e gli organi esecutivi. «Il debitore che non paga è soggetto alla espropriazione dei beni»: questa è la regola (cfr. gli artt. 2740 e 2910 c.c.) che costituisce, prima e più che una norma del codice (che il notaio, infatti, non apre nemmeno), «il fondamento stesso del vivere». Ma questa soggezione e questa espropriazione del debitore hanno, in fondo, poco a che fare con i soggetti dell’obbligazione inadempiuta e della responsabilità patrimoniale. Sono, piuttosto, le conseguenze naturali e oggettive di un comportamento riprovevole e antisociale (non pagare i debiti) che, come tale, interessa soprattutto la comunità; la quale non acquista la proprietà dei beni del debitore esecutato, ma si trova investita – non come istituzione statale, ma come collettività – del potere di sostituirsi al debitore in quella ‘espiazione’ del debito e della colpa (alienando i beni per ricavarne il denaro necessario alla soddisfazione dei creditori), che egli non ha voluto o saputo compiere, come anticamente faceva il bonorum emptor nella bonorum venditio dell’intero patrimonio del debitore. È dunque la comunità che provvede alla vendita: non a chiunque, bensì a quello tra i suoi componenti che si sarà dichiarato disponibile all’acquisto e avrà presentato la migliore offerta.
12. La «vendita diretta», ovvero «l’inutile precauzione» (artt. 568-bis e 569-bis c.p.c.)
La lett. n) del comma 12 dell’art. 1 l. 206/2021 conteneva un’assai dettagliata disciplina di un’eclatante novità tra le novelle divisate dal conditor in materia esecutiva. Si tratta della «vendita diretta», dichiaratamente ispirata al modello francese della vente privée, ma strutturata in modo assai articolato e complesso, prevedendo:
«1) che il debitore, con istanza depositata non oltre dieci giorni prima dell’udienza prevista dall’articolo 569, primo comma, del codice di procedura civile, può chiedere al giudice dell’esecuzione di essere autorizzato a procedere direttamente alla vendita dell’immobile pignorato per un prezzo non inferiore al prezzo base indicato nella relazione di stima, prevedendo che all’istanza del debitore deve essere sempre allegata l’offerta di acquisto irrevocabile per centoventi giorni e che, a garanzia della serietà dell’offerta, è prestata cauzione in misura non inferiore a un decimo del prezzo proposto;
2) che il giudice dell’esecuzione, con decreto, deve, verificata l’ammissibilità dell’istanza, disporre che l’esecutato rilasci l’immobile nella disponibilità del custode entro trenta giorni a pena di decadenza dall’istanza, salvo che il bene sia occupato con titolo opponibile alla procedura; disporre che entro quindici giorni sia data pubblicità, ai sensi dell’articolo 490 del codice di procedura civile, dell’offerta pervenuta rendendo noto che entro sessanta giorni possono essere formulate ulteriori offerte di acquisto, garantite da cauzione in misura non inferiore a un decimo del prezzo proposto, il quale non può essere inferiore a quello dell’offerta già presentata a corredo dell’istanza dell’esecutato; convocare il debitore, i comproprietari, il creditore procedente, i creditori intervenuti, i creditori iscritti e gli offerenti a un’udienza da fissare entro novanta giorni per la deliberazione sull’offerta e, in caso di pluralità di offerte, per la gara tra gli offerenti;
3) che con il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione aggiudica l’immobile al miglior offerente devono essere stabilite le modalità di pagamento del prezzo, da versare entro novanta giorni, a pena di decadenza ai sensi dell’articolo 587 del codice di procedura civile;
4) che il giudice dell’esecuzione può delegare uno dei professionisti iscritti nell’elenco di cui all’articolo 179-ter delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, alla deliberazione sulle offerte e allo svolgimento della gara, alla riscossione del prezzo nonché alle operazioni di distribuzione del ricavato e che, una volta riscosso interamente il prezzo, ordina la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie ai sensi dell’articolo 586 del codice di procedura civile;
5) che, se nel termine assegnato il prezzo non è stato versato, il giudice provvede ai sensi degli articoli 587 e 569 del codice di procedura civile;
6) che l’istanza di cui al numero 1) può essere formulata per una sola volta a pena di inammissibilità entro novanta giorni, a pena di decadenza ai sensi dell’articolo 587 del codice di procedura civile».
Nella Relazione illustrativa della delega si legge: «L’introduzione di un meccanismo di vente privée può favorire una liquidazione ‘virtuosa’ e rapida attraverso la collaborazione del debitore o, al contrario, costituire mezzo per allungare infruttuosamente i tempi processuali o volto a perpetrare frodi in danno dei creditori. La correzione del testo originario dell’articolo 8 d.d.l. S-1662 è necessaria al fine di:
- evitare che lo strumento ivi previsto si ripercuota in danno della ragionevole durata del processo, divenendo strumento dilatorio o fonte di opposizioni esecutive;
- impedire che lo stesso debitore possa impiegare lo strumento per liquidare il cespite pignorato senza una corretta individuazione del suo valore di mercato o, peggio, che l’esecutato possa diventare vittima di malversazioni di soggetti che utilizzino il meccanismo della vendita privata come un patto commissorio o, comunque, per approfittarsi della sua situazione;
- assimilare il trattamento della proposta di vendita portata dal debitore a quello previsto nel concordato con proposte concorrenti;
- rendere favorevole per l’acquirente l’acquisto del bene, in ragione della verifica giudiziale dei presupposti e, soprattutto, dell’assunzione dei costi del trasferimento e della cancellazione dei gravami a carico della procedura (come già avviene col provvedimento ex articolo 586 del codice di procedura civile).
Per perseguire tali scopi, si è pensato a un sistema che ricalca, a grandi linee, la vendita senza incanto praticata in numerosi uffici giudiziari prima della riforma entrata in vigore l’1/3/2006, quando, una volta messo in vendita il bene, alla ricezione di una prima offerta di acquisto si provvedeva sollecitamente a darne pubblicità al fine di stimolare eventuali altri interessati, per poi effettuare, entro breve tempo, un’udienza nella quale provvedere all’aggiudicazione, previa gara in caso di pluralità di offerte
Più in dettaglio, la proposta di modifica prevede che:
- il valore minimo per il quale può essere avanzata la proposta deve essere quello del prezzo base individuato dall’esperto stimatore nell’elaborato peritale: in tal modo si evitano sia accertamenti ulteriori (incongrui rispetto alla struttura del processo esecutivo), potenzialmente dilatori, sia un pregiudizio per il creditore (che potrebbe avanzare istanza di assegnazione, anche a favore di terzi, per il medesimo valore);
- l’esecutato che introduca una seria proposta di acquisto (ovviamente irrevocabile) garantita da cauzione deve altresì rilasciare l’immobile in un ragionevole lasso temporale, posto che la prosecuzione dell’occupazione costituisce di per sé indice di un’offerta “di comodo” e, inoltre, riduce l’appetibilità del bene sul mercato; fa eccezione il caso di immobile occupato con titolo di godimento opponibile alla procedura (al quale dovrebbe comunque soggiacere anche l’aggiudicatario);
- il giudice dell’esecuzione adotta con decreto (evitando, così, l’aggravio di un’udienza) i provvedimenti conseguenti alla presentazione dell’istanza: oltre alla verifica dell’ammissibilità dell’istanza e al controllo sullo stato di occupazione (ai fini della consequenziale liberazione spontanea da parte del debitore), l’offerta pervenuta deve essere adeguatamente pubblicizzata (sito internet autorizzato dal Ministero, PVP, eventuale pubblicità straordinaria) e posta in competizione con eventuali altre, solo così potendosi conseguire un prezzo di mercato (lasciar determinare al perito il valore di mercato sarebbe in contrasto con la giurisprudenza che esclude l’opposizione agli atti esecutivi avverso la perizia in quanto il valore ivi indicato è suscettibile di “correzione” nella gara; allo stesso modo, una determinazione giudiziale del valore attirerebbe defatiganti opposizioni ex articolo 617 del codice di procedura civile);
- l’aggiudicazione può essere pronunciata all’esito di una eventuale gara tra plurimi offerenti o, in alternativa, all’unico originario offerente nel corso di un’udienza fissata subito dopo la scadenza del termine per la pubblicità; un provvedimento di formale aggiudicazione (anziché una mera individuazione dell’acquirente) è vantaggioso per l’offerente, stante il disposto dell’articolo 187-bis disp. att. del codice di procedura civile[23];
- la predeterminazione legislativa di un periodo temporale per il versamento del prezzo garantisce uniformità tra tutti gli interessati ed evita l’adozione di provvedimenti discrezionali suscettibili di impugnazione;
- in caso di mancato versamento del prezzo deve trovare applicazione l’articolo 587 del codice di procedura civile;
- la vendita de qua non è soggetta al consenso dei creditori, né a provvedimenti del giudice dell’esecuzione volti a superare il loro dissenso: attribuire al giudicante valutazioni discrezionali, infatti, potrebbe attirare opposizioni ex articolo 617 del codice di procedura civile, sia da parte dei creditori, sia (prevalentemente) da parte dei debitori che potrebbero sindacare il provvedimento di rigetto per non avere il giudice ritenuto superabile il dissenso dei creditori;
- nell’interesse del debitore e dell’acquirente, il trasferimento deve essere compiuto dal giudice dell’esecuzione col provvedimento ex articolo 586 del codice di procedura civile, col quale può disporsi la cancellazione dei gravami a spese della procedura (lo stesso onere deriverebbe in esito allo svolgimento della procedura ordinaria, ma in tal caso in tempi assai più lunghi); prevedere, al contrario, che i costi di trasferimento e cancellazione siano a carico dell’acquirente renderebbe meno vantaggiosa la partecipazione e incerta la spesa da sostenere, posto che non sarebbe anteriormente identificato il costo per l’eliminazione di eventuali gravami medio tempore iscritti o trascritti;
- la facoltà di delegare a un professionista le operazioni garantisce il rispetto della tempistica individuata, non risentendo degli altri impegni gravanti sul giudicante».
Ben poco v’è da aggiungere all’esauriente esposizione delle ragioni della novella contenute nella Relazione illustrativa alla l. delega 206/2021, che fa proprî e mira a rendere ius positum i suggerimenti e le esperienze dei pratici, come avviene ormai da più di tre lustri a questa parte in materia di esecuzione forzata.
Vien solo fatto di osservare, ancor qui, che il ‘furore analitico’ nella stesura delle disposizioni normative e persino dei principii e dei criterî direttivi della delega, già apparecchiati per il decreto delegato e scritti a guisa di istruzioni per l’uso o di protocolli applicativi, non giova alla chiarezza delle idee e alla sicurezza delle soluzioni, recando inevitabilmente seco questioni esegetiche e problemi ermeneutici che rampollano abbondanti da ogni eccesso di scrittura, dando sfogo a contestazioni, opposizioni, impugnazioni, reclami, e via dicendo, dei quali il genio italico è sempre stato maestro in ogni tempo all’orbe intero, sin dalle scuole dei sofisti che fiorirono nell’antica Magna Grecia. Sovviene la raccomandazione che Socrate dava a Fedro, nell’omonimo dialogo di Platone, evocando il mito del dio egizio Theuth sull’invenzione della scrittura, la quale impedisce agli uomini di trovare dentro di sé la risposta ai quesiti fondamentali e la vera sapienza, cercando risposta sempre e solo ab extra, con il richiamare alla memoria attraverso la frenetica consultazione di scritti che non appartengono loro, conoscitori di molte cose, ma dotati unicamente di soggettive opinioni anziché di vera epistème, e con i quali non sarà neppure possibile intavolare un confronto dialogico[24].
V’era, peraltro, da dubitare che fosse necessario introdurre una disciplina (tantomeno così analitica) della vendita dell’immobile pignorato procurata a miglior prezzo dal medesimo debitore esecutato, ché in questo si risolve la vendita diretta, o vente privée che dir si voglia, senza che il francesismo possa aduggiare sulla vera essenza dell’istituto. Accade spesso che, onde mitigare gli ingenti costi della procedura e i ribassi nel prezzo, sia il debitore ad attivarsi per collocare sul mercato l’immobile, anziché lasciare che venga subastato forzosamente. I creditori di buona fede accolgono di buon grado la proposta, lieti che i crediti possano soddisfarsi in maggior misura e minor tempo. Quelli in malafede, che volessero trarre illecito profitto dal decremento di valore del bene immobile staggito, possono essere già oggi ostacolati mercé strumenti di composizione delle crisi da sovraindebitamento (codice della crisi e dell’insolvenza, di cui al d.lgs. 14/2019), che sospendono le procedure esecutive e, con il buon esito, le estinguono, trasferendo il tradizionale conflitto tra ragioni del credito e ragioni della proprietà dall’esecuzione forzata al piano negoziale, con l’ausilio di esperti e sotto il controllo del tribunale.
Insomma, non vorremmo che la disciplina della vendita diretta sia «inutile precauzione», fonte soltanto di ulteriori complicazioni: ve ne sono già abbastanza nel processo civile, e in quello esecutivo in specie, che affliggono i tribunali con questioni sempre nuove, giungendo sino al grado di legittimità con gran dovizia di ripetuti interventi nomofilattici, al punto che par quasi che si tragga intellettuale divertissement da codesta sorta di giuochi procedurali, nello scriver le regole dapprima e nel darne poi l’esegesi e l’ermeneutica, scordando che il processo è unicamente mezzo allo scopo, non già fine a sé stesso e dovrebbe essere, come scriveva Giuseppe Chiovenda sulle orme di Franz Klein, «semplice, rapido e poco costoso».
Ma tant’è: avendo deciso il Governo di esercitare la delega conferita per questo nuovo istituto, il d.lgs. 149/2022 altro non poteva fare che scrivere quel che era già scritto, introducendo i nuovi artt. 568-bis e 569-bis c.p.c., che cercan di dipanar la matassa e che la Relazione illustrativa al medesimo d.lgs. illustra come segue (la riportiamo integralmente per comodità di lettura, senza che occorra aggiunger altro):
«Particolare rilievo assume poi l’introduzione dell’istituto della c.d. vendita diretta, con l’inserimento degli articoli 568-bis e 569-bis c.p.c., in attuazione del criterio di cui alla lettera n) del comma 12 della legge delega.
La previsione, contenuta nella lett. n) del comma 12 del procedimento di vendita c.d. diretta promossa dal debitore, ha lo scopo di favorire una “liquidazione ‘virtuosa’ e rapida attraverso la collaborazione del debitore”, facendo attenzione a non allungare “infruttuosamente i tempi processuali” e ad evitare che siano perpetrate “frodi in danno dei creditori”.
L’idea, contenuta nella legge delega è quella di rendere interessante per l’acquirente l’acquisto del bene, in ragione della verifica giudiziale dei presupposti e, soprattutto, dell’assunzione dei costi del trasferimento e della cancellazione dei gravami a carico della procedura (come già avviene col provvedimento ex articolo 586 c.p.c.).
La legge delega stabiliva:
a) la previsione di una offerta minima legata all’esito del procedimento di stima;
b) una proposta di acquisto irrevocabile per un congruo periodo e garantita da cauzione per dimostrare la serietà dell’offerta;
c) la possibilità che l’offerta fosse posta in competizione con eventuali altre;
d) la predeterminazione legislativa dei tempi di durata del procedimento di vendita;
e) la previsione che, nell’interesse del debitore e dell’acquirente, il trasferimento fosse compiuto dal giudice dell’esecuzione col provvedimento ex articolo 586 c.p.c., con la cancellazione dei gravami a spese della procedura ovvero che il trasferimento fosse operato con atto privato lasciando al giudice solo l’autorizzazione alla cancellazione dei gravami;
f) la facoltà di delegare a un professionista le operazioni garantendo il rispetto della tempistica individuata;
g) l’immediata liberazione del bene oggetto di pignoramento da parte del debitore esecutato dopo la presentazione dell’offerta.
La delega poneva, però, una serie di criticità ed introduceva un meccanismo di nessun interesse per la parte debitrice, che non avrebbe mai avuto alcun interesse ad utilizzare l’istituto così come delineato nella legge delega.
Veniano, in primo luogo a due criticità, per così dire, sistematiche.
La prima è quella del rapporto tra questa nuova “vendita immobiliare” e l’udienza disciplinata dall’art. 569 c.p.c., che costituisce sostanzialmente l’unica udienza dell’espropriazione immobiliare. La proposizione dell’istanza non può certamente determinare il venire meno di tale udienza, giacché in questa il giudice dell’esecuzione, oltre a fissare i termini per la vendita ordinaria (articolo 569, 3° comma, c.p.c.), alla quale la vendita c.d. diretta sarebbe alternativa, nel contraddittorio delle parti, (a) svolge i necessari accertamenti prodromici alla vendita, tra cui quello di verificare che il creditore procedente abbia effettuato le notificazioni previste dall’articolo 498, 3° comma, c.p.c., (b) provvede sulle opposizioni agli atti, (c) determina, ai sensi dell’articolo 568 c.p.c., il prezzo base all’esito dell’iter dettato dall’articolo 173-bis, 3° e 4° comma, disp. att. c.p.c. ovvero delega il professionista a tale incombenza sempre all’esito del predetto iter, ai sensi dell’art. 591-bis, 3° comma, n. 1), c.p.c. (disposizione quest’ultima pressoché inutilizzata), (d) fissa l’udienza prevista dall’art. 499, 5° comma, c.p.c.
Inoltre, l’udienza ex articolo 569 c.p.c. è “spartiacque” per l’intervento tempestivo dei creditori ai sensi degli articoli 499, 2° comma, 564 e 565 c.p.c., nonché per proporre l’opposizione all’esecuzione fondata su fatti antecedenti, ai sensi dell’articolo 615, 2° comma, seconda parte, c.p.c., quando nel corso della medesima viene disposta la vendita.
La seconda criticità è costituita dal “prezzo base” al di sotto del quale l’offerta della vendita c.d. diretta è inammissibile. Infatti, considerato che il prezzo base, come detto, è determinato dal giudice dell’esecuzione all’udienza ex art. 569 c.p.c., all’esito dell’iter scandito dall’articolo 173-bis, 3° e 4° comma, disp. att. c.p.c., nel termine ultimo per la proposizione dell’istanza per la vendita c.d. diretta (dieci giorni prima della udienza), il medesimo non è stato ancora determinato. Né l’ipotesi di sdoppiare l’udienza, fissando la prima solo per la determinazione del prezzo base, avrebbe pregio, considerato che ciò implicherebbe un’inutile e irrazionale perdita di tempo in ogni procedura solo in funzione della remota eventualità che il debitore proponga la predetta istanza. Del resto, nella prassi, i tempi di fissazione dell’udienza ex art. 569 c.p.c. sono scanditi dai tempi necessari all’esperto per la valutazione del compendio immobiliare oggetto dell’espropriazione forzata.
Nemmeno è ipotizzabile prevedere che in caso di istanza per la vendita c.d. diretta (dieci giorni prima dell’udienza), in pieno iter per la determinazione del prezzo base (ai sensi dell’articolo 173-bis, 4° comma, le parti possono depositare all’udienza note purché queste siano state trasmesse all’esperto almeno 15 giorni prima, per consentire al medesimo di replicare in udienza), il “prezzo base” diventi quello determinato dall’esperto nella relazione di stima.
Di qui l’esigenza di prevedere che, da un lato, dopo la proposizione dell’istanza di vendita diretta da parte del debitore l’udienza di cui all’articolo 569 c.p.c. si tenga comunque, dall’altro, che l’offerta di acquisto depositata unitamente all’istanza del debitore non più tardi di 10 gg. prima dell’udienza debba essere integrata (unitamente alla cauzione) nel caso in cui, all’udienza, il prezzo base determinato dal giudice ai sensi dell’articolo 568 c.p.c. sia superiore al valore determinato nella perizia di stima e, conseguentemente, all’offerta.
Questa soluzione ha il pregio di superare entrambe le criticità in precedenza indicate, ma la vendita c.d. diretta, nella quale è prevista la pubblicità dell’offerta ai sensi dell’articolo 490 c.p.c. e la procedura competitiva tra più offerenti, non sarebbe molto diversa dalla vendita ordinaria di cui all’articolo 569, 3° comma, c.p.c., anche con riferimento ai tempi di attuazione, considerando, tra l’altro, che con la riforma il professionista delegato è tenuto in un anno ad esperire almeno tre tentativi di vendita.
Il procedimento avrebbe, quindi, una scarsissima appetibilità per il debitore in alternativa alla vendita ordinaria.
Se poi si considera che la legge delega prevede la liberazione dell’immobile, ancorché abitato dal debitore con la sua famiglia, in termini ristrettissimi, a pena di decadenza dall’istanza, allora è evidente che le prospettive di impiego dell’istituto sarebbero del tutto nulle. Nel caso probabilissimo di accordo tra l’offerente e il debitore affinché quest’ultimo possa continuare ad abitare l’immobile con la sua famiglia, si verificherebbe l’assurdo che il medesimo sarebbe tenuto a lasciare l’immobile libero da persone e da cose, per poi rientrare dopo pochi mesi con le persone e le cose.
Non si comprende per quale ragione il debitore dovrebbe preferire la vendita diretta, con offerta formulata al prezzo base e assoggettata alla procedura competitiva, in cui è tenuto entro trenta giorni a liberare l’immobile abitato con la sua famiglia, anziché la vendita ordinaria con offerta dell’interessato “non ostile” a prezzo minimo (ossia ridotto del 25% rispetto al prezzo base), che, a differenza della vendita diretta, meglio gli garantirebbe la permanenza nell’immobile, dal medesimo abitato con la sua famiglia, sino al decreto di trasferimento e, quindi, senza soluzione di continuità. Peraltro, l’obbligo del debitore istante, a pena di decadenza, di liberare entro trenta giorni l’immobile anche se abitato con la sua famiglia, in deroga a quanto stabilito dall’art. 560, 8° comma, c.p.c. pone seri dubbi sulla legittimità costituzionale della disciplina.
La soluzione adottata è quella di un procedimento di vendita diretta a prezzo base senza la procedura competitiva in caso di accordo dei creditori titolati e di quelli indicati dall’articolo 498 c.p.c., manifestato anche tacitamente mediante mancata opposizione; questa soluzione offre al debitore un istituto appetibile, alternativo alla vendita ordinaria, senza alterare gli equilibri e senza pregiudicare gli interessi delle parti nel processo esecutivo.
È pur vero che con l’offerente “non ostile” e l’accordo con i creditori, il debitore può sempre sottrarre il bene alla vendita forzata, previa rinuncia agli atti dei soli creditori titolati (contestuale alla vendita e al pagamento nelle loro mani), senza necessità di ricorrere alla vendita diretta; è anche vero, però, che tale iter è spesso complesso, lungo ed articolato e in alcuni casi il debitore, soprattutto quando i creditori sono istituti bancari o soggetti similari, incontra con questi serie difficoltà finanche alla interlocuzione. La procedura della vendita diretta senza opposizione dei creditori ha il pregio di smussare tali asperità: il creditore troverebbe la sua convenienza non soltanto nella vendita a prezzo base senza ribassi, nemmeno il primo ribasso costituito dal prezzo minimo, ma soprattutto, nella drastica riduzione dei tempi del processo. D’altro canto, però, si è ben consapevoli che l’accordo extraprocessuale con i creditori, “a saldo e stralcio”, avrebbe, al pari della procedura di sovraindebitamento, il pregio di esdebitare il debitore, mentre la vendita diretta con l’accordo dei creditori, manifestato mediante la mancata opposizione, raggiungerebbe tale obiettivo sole se il prezzo offerto sia sufficiente a soddisfare tutti i creditori.
Ad ogni modo, la vendita diretta con l’accordo dei creditori avrebbe il pregio di depotenziare anche l’iniziativa dilatoria del debitore, con la perdita del 10% della cauzione, considerando che in caso, appunto, di mancata opposizione dei creditori, l’espletamento della vendita, seguìto dal mancato versamento del saldo-prezzo, comporterebbe un rallentamento della procedura di non più di quattro o cinque mesi, a fronte dei 10/12 mesi della vendita diretta con procedura competitiva nel caso di opposizione dei creditori. Il che giustifica ulteriormente la mancata previsione della deroga alla disciplina prevista dall’articolo 560, 8° comma.
Lo scostamento dalla legge delega della vendita senza la procedura competitiva si ha solo con l’accordo dei creditori manifestato mediante la mancata opposizione.
Del resto, tale istituto è già previsto nell’ordinamento per la vendita esattoriale dall’articolo 52, comma 2-bis, d.p.r. 29 settembre 1972, n. 602, come modificato d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. Decreto del fare), convertito in l. 9 agosto 2013, n. 98, ancorché con l’adesione espressa dell’Agente di Riscossione che, considerando l’art. 54, è l’unico creditore agente della procedura.
Se invece il creditore titolato o quello indicato dall’art. 498 c.p.c. si oppone alla vendita senza procedura competitiva, si ripristina il sistema previsto nella legge delega.
In tale ultima ipotesi, la disciplina della vendita con la procedura competitiva prevede termini che complessivamente non si discostano da quelli indicati nella legge delega, ancorché con una diversa distribuzione interna dovuta alla impossibilità materiale di effettuare la pubblicità entro quindici giorni dal provvedimento del giudice dell’esecuzione, come previsto dalla legge delega. Peraltro, il termine di trenta giorni successivo al termine per la presentazione delle offerte, previsto nella legge delega per convocare il debitore, i comproprietari, il creditore procedente, i creditori intervenuti, i creditori iscritti e gli offerenti per la deliberazione sull’offerta e, in caso di pluralità di offerte, per la gara tra gli offerenti, può essere ridotto, anche in considerazione delle modalità telematiche delle vendite, senza pregiudizio alcuno per le parti.
Al fine di accelerare la chiusura della procedura di vendita si è altresì previsto che, su istanza dell’aggiudicatario, il giudice dell’esecuzione possa autorizzare il trasferimento del diritto mediante atto notarile da trasmettere ad opera del notaio rogante nel fascicolo della procedura esecutiva. In tal caso spetta comunque al giudice il compito relativo alla cancellazione delle trascrizioni e iscrizioni pregiudizievoli».
Una chiosa soltanto, già in precedenza formulata: semplice, rapido e poco costoso ha da essere il processo, raccomandava Giuseppe Chiovenda seguendo le orme di Franz Klein… «vox clamantis in deserto»…
13. Il subprocedimento di vendita: schemi ‘standardizzati’ per la relazione di stima e per gli avvisi di vendita (art. 169-quinquies disp. att c.p.c., artt. 570, ult. comma, e 591-bis, ult. comma, ult. frase, c.p.c., artt. 173-bis e 173-quater disp. att. c.p.c.)
Si legge nella Relazione illustrativa del d.lgs. 149/2022 che «concerne anche (ma non solo) il professionista delegato la previsione della lettera g) del comma 12 [dell’art. 1 l. delega 206/2021, ndr], ovvero l’introduzione di schemi standardizzati per la redazione degli avvisi di vendita (nonché della relazione di stima dell’esperto stimatore), tradotta nell’articolato attuativo nella interpolazione dell’articolo 570 c.p.c. e dell’articolo 173-quater disp. att. c.p.c. (nonché, per la relazione di stima dell’esperto, dell’articolo 173.bis disp. att. c.p.c.). La funzione della modifica è rivolta tanto al giudice dell’esecuzione, onde facilitare la necessaria interlocuzione con i propri ausiliari, tanto alla platea dei potenziali interessati all’acquisto dell’immobile staggito, dacché l’uniformità dei modelli adoperati senza dubbio agevola la lettura e la comprensione di due atti fondamentali per determinarsi all’offerta».
Inoltre, «in forza delle disposizioni in materia di c.d. vendita diretta si è reso necessario integrare la disciplina della delega ex articolo 591-bis c.p.c. per adattarla al nuovo istituto, aggiungendo differenti previsioni secondo che la vendita avvenga senza opposizione dei creditori e conseguente procedura competitiva, o con l’opposizione dei medesimi. È stato poi introdotto, sempre all’articolo 591 bis c.p.c., un nuovo comma quattordicesimo, allo scopo di collocare nella sede ritenuta più appropriata la disposizione attualmente contenuta al comma 9-sexies dell’articolo 16-bis del decreto-legge n. 179 del 2012. Tale norma prevede che il professionista delegato a norma dell’articolo 591-bis del codice di procedura civile, entro trenta giorni dalla notifica dell’ordinanza di vendita, deposita un rapporto riepilogativo iniziale delle attività svolte; che a decorrere dal deposito del rapporto riepilogativo iniziale, il professionista deposita, dopo ciascun esperimento di vendita, un rapporto riepilogativo periodico delle attività svolte; che entro dieci giorni dalla comunicazione dell’approvazione del progetto di distribuzione, il professionista delegato deposita un rapporto riepilogativo finale delle attività svolte successivamente al deposito del rapporto di cui al periodo precedente. Tale disposizione è stata quindi spostata nell’articolo 591-bis c.p.c., con modifiche di mero drafting. L’ultimo periodo del nuovo quattordicesimo comma dell’articolo 591-bis c.p.c. precisa che i rapporti riepilogativi contengono i dati identificativi dell’esperto che ha effettuato la stima, con disposizione che ricalca quella attualmente contenuta al comma 9-septies dell’articolo 16-bis del decreto-legge n. 179 del 2012».
Si tratta, come ben vedesi, di modifiche operative – introdotte anche nel corpo dell’art. 169-quinquies, ult. frase, disp. att. c.p.c. per i prospetti riepilogativi delle stime e delle vendite mobiliari – che, peraltro, altro non fanno che rinviare a «modelli predisposti dal giudice dell’esecuzione», id est dalle sezioni esecuzioni in base alle linee guida diramate dal CSM, come si legge nell’art. 570, ult. comma, c.p.c. per l’avviso di vendita, nell’art. 591-bis, ult. comma, ult. frase, c.p.c. per i rapporti riepilogativi del professionista delegato, nell’art. 173-bis, ult. comma, disp. att. c.p.c. per la relazione di stima e nell’art. 173-quater, ult. frase, disp. att. c.p.c. nuovamente per l’avviso di vendita a cura del professionista delegato.
Sono disposizioni che di giuridico hanno soltanto la forma esteriore, non la sostanza, ancorché il diritto sia per definizione «forma / che l’universo a Dio fa simigliante» (Par., I, 104-105). Già da tempo le c.d. buone prassi adoperano motu proprio schemi standardizzati – mercé protocolli, schemi, modelli e tutta quella vasta congerie che oggi suole chiamarsi soft law – specialmente dopo l’avvento delle vendite telematiche, senza che si sentisse la necessità di tradurle in norme di legge, con il consueto ‘furore analitico’ del conditor postmoderno, che confonde la legislazione con la burocrazia degli uffici.
14. (segue) Le disposizioni antiriciclaggio (artt. 585, 586 e 591-bis c.p.c.)
Le vendite forzate sono spesso ricettacolo di malintenzionati: un tempo si discorreva di una famigerata ‘Compagnia della buona morte’, adusa a frequentare i pubblici incanti per accaparrarsi beni altrui a poco prezzo, riciclando denaro di dubbia origine. Molte inchieste penali l’hanno dimostrato e il fenomeno perdura tutt’oggi, nonostante la progressiva e sempre più ampia apertura al mercato delle procedure esecutive immobiliari.
Per contrastare fenomeni di riciclaggio e di infiltrazione della criminalità organizzata, le lettere p) e q) del comma 12 dell’art. 1 l. delega 206/2021 imponevano di «p) prevedere che, nelle operazioni di vendita dei beni immobili compiute nelle procedure esecutive individuali e concorsuali, gli obblighi previsti dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, a carico del cliente si applichino anche agli aggiudicatari e che il giudice emetta il decreto di trasferimento soltanto dopo aver verificato l’avvenuto rispetto di tali obblighi; q) istituire presso il Ministero della giustizia la banca dati per le aste giudiziali, contenente i dati identificativi degli offerenti, i dati identificativi del conto bancario o postale utilizzato per versare la cauzione e il prezzo di aggiudicazione, nonché le relazioni di stima. I dati identificativi degli offerenti, del conto e dell’intestatario devono essere messi a disposizione, su richiesta, dell’autorità giudiziaria, civile e penale».
Il d.lgs. 149/2022 ha, dunque, esteso alle procedure espropriative le disposizioni in materia di antiriciclaggio, apportando modifiche agli artt. 585, 586 e 591-bis c.p.c., onde applicare agli aggiudicatari di beni immobili oggetto di espropriazione forzata gli obblighi previsti dal d.lgs. 231/2007 a carico dei ‘clienti’. Con le modifiche agli artt. 585 e 586 c.p.c. è previsto che l’aggiudicatario, nel termine fissato per il versamento del saldo prezzo, con dichiarazione scritta resa nella consapevolezza delle responsabilità, civili e penali, previste per le dichiarazioni false o mendaci, fornisce al giudice dell’esecuzione o al professionista delegato le informazioni prescritte dall’art. 22 d.lgs. 231/2007.
Il legislatore delegato non ha, invece, ritenuto di porre a carico del professionista compiti di controllo o verifica delle informazioni così acquisite, sia perché in tal senso non disponeva la legge delega, sia perché il d.lgs. 231/ 2007 prevede una serie variegata di modalità di controllo delle dichiarazioni ad opera del professionista e di strumenti di indagine (alcuni assai incisivi) a disposizione di questo: sicché, in mancanza di indicazioni della legge delega, «la scelta dell’uno o dell’altro metodo di controllo sarebbe stato esercizio di discrezionalità istituzionalmente non conferita al legislatore delegato», come si legge nella Relazione illustrativa al d.lgs. 149/2022.
15. (segue) I requisiti di iscrizione all’elenco, le verifiche, l’aggiornamento, la rotazione e i limiti agli incarichi dei professionisti delegati alle vendite (artt. 179-ter e 179-quater disp. att. c.p.c.)
L’art. 179-ter disp. att. c.p.c. sull’elenco dei professionisti (avvocati, commercialisti e notai) che, su delega del giudice dell’esecuzione, provvedono alle operazioni di vendita di beni mobili registrati e di beni immobili, rispettivamente ai sensi degli artt. 534-bis e 591-bis c.p.c., è stato ampiamente riscritto dalla riforma di cui al d.lgs. 149/2022, in uno all’art. 179-quater disp. att. c.p.c., per garantirne l’affidabilità e la competenza e per assicurare la trasparenza e la rotazione nel conferimento degli incarichi.
Si legge, a tale proposito, nella Relazione illustrativa al d.lgs. 149/2022 che è stato «modificato l’articolo 179-ter disp. att. c.p.c. recante la disciplina dell’elenco dei professionisti che provvedono alle operazioni di vendita, come sostituito dall’art. 5-bis, primo comma, della legge 30 giugno 2016, n. 119, di conversione del decreto-legge 3 maggio 2016, n. 56. In particolare la disposizione vigente, rubricata “Elenco dei professionisti che provvedono alle operazioni di vendita”, demanda ad un decreto non regolamentare del Ministro della giustizia di stabilire: a) gli obblighi di prima formazione per ottenere l’iscrizione nell’elenco; b) gli obblighi di formazione periodica da assolvere ai fini della conferma dell’iscrizione; c) la composizione e le modalità di funzionamento della commissione preposta alla tenuta dell’elenco, all’esercizio della vigilanza sugli iscritti, alla valutazione delle domande di iscrizione e all’adozione dei provvedimenti di cancellazione dall’elenco.
Tale decreto, peraltro, non è mai stato emanato, essenzialmente in ragione dell’incompletezza della disciplina di rango primario, che non attribuiva copertura normativa ad alcuni aspetti essenziali della materia che non potevano dunque essere rimessi neppure alla regolazione secondaria, peraltro espressamente esclusa dall’articolo 179-ter che richiama un decreto non regolamentare (si pensi, senza pretesa di completezza alle modalità di esercizio del potere di vigilanza, ai presupposti per disporre la cancellazione dall’elenco, ai requisiti del primo popolamento, tutti elementi che non paiono ricompresi nel perimetro disciplinatorio dell’articolo 179-ter vigente e senza i quali concretamente la nuova disciplina non può operare).
Pertanto, dando attuazione al criterio di delega di cui all’articolo 1, commi 12 e 16, si è colta l’occasione per disciplinare nel dettaglio la materia direttamente con norma primaria stabilendo che le modalità di tenuta e formazione dell’elenco, attribuita ad un comitato presieduto dal Presidente del tribunale o da un suo delegato e composto da un giudice addetto alle esecuzioni immobiliari e da un professionista iscritto nell’albo professionale, designato dal consiglio dell’ordine, a cui appartiene il richiedente l’iscrizione nell’elenco. Sono stati inoltre disciplinati nel dettaglio i requisiti necessari per la proposizione della prima domanda di iscrizione nell’elenco (comi 3, 4 e 5 dell’articolo novellato) e per la conferma della medesima (commi 6 e 7).
Il comma 10, infine, attribuisce al comitato il potere di disporre la sospensione fino a un anno e, in caso di gravi ovvero reiterati inadempimenti, la cancellazione dall’elenco dei professionisti ai quali in una o più procedure esecutive sia stata revocata la delega in conseguenza del mancato rispetto dei termini per le attività delegate, delle direttive stabilite dal giudice dell’esecuzione o degli obblighi derivanti dagli incarichi ricevuti.
Si stabilisce altresì che i professionisti cancellati dall’elenco a seguito di revoca della delega non possano essere reinseriti nel triennio in corso e nel triennio successivo».
È stato altresì novellato l’art. 179-quater disp. att. c.p.c., prevedendo che a nessuno dei professionisti iscritti possano essere conferiti incarichi in misura superiore al dieci per cento di quelli affidati dall’ufficio e dal singolo giudice, in modo tale da garantire un’ampia rotazione dei professionisti iscritti all’elenco, in modo da evitare in apicibus la concentrazione degli incarichi in capo a pochi professionisti.
16. (segue) L’attività del professionista delegato (art. 591-bis c.p.c.)
La lett. i) del comma 12 dell’art. 1 l. delega 206/2021 prevedeva che «la delega delle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare abbia durata annuale, con incarico rinnovabile da parte del giudice dell’esecuzione, e che in tale periodo il professionista delegato debba svolgere almeno tre esperimenti di vendita con l’obbligo di una tempestiva relazione al giudice sull’esito di ciascuno di essi» e che «il giudice dell’esecuzione debba esercitare una diligente vigilanza sull’esecuzione delle attività delegate e sul rispetto dei tempi per quelle stabiliti con l’obbligo di provvedere immediatamente alla sostituzione del professionista in caso di mancato o tardivo adempimento».
Nella Relazione illustrativa della delega si legge: «Per un sollecito svolgimento delle operazioni di vendita delegate ai professionisti è necessario fissare un termine entro il quale le attività devono essere svolte, nonché determinare un numero minimo di esperimenti di vendita da svolgere nell’arco di un anno. Occorre poi stabilire esplicitamente l’obbligo del giudice dell’esecuzione di vigilare sulle attività dei professionisti e sul rispetto dei tempi concessi per gli adempimenti delegati, al fine di evitare che eventuali inerzie o ritardi vengano scoperti ad anni di distanza dalla delega e che solo con grave ritardo il professionista negligente venga sostituito».
Ben poco v’è, invero, da aggiungere, trattandosi anche qui, sic et simpliciter, di un’indicazione di buone prassi da tradurre in norme di legge.
Al professionista delegato spetta il compito di esperire tempestivamente almeno tre tentativi di vendita l’anno, con eventuali ribassi predeterminati nell’ordinanza di conferimento della delega, entro il limite di un quarto del valore dell’immobile, ai sensi dell’art. 591, comma 2, c.p.c.; al giudice dell’esecuzione spetta di vigilare diligentemente, affinché i tempi siano rispettati e le procedure delegate di vendita siano esperite con regolarità e sollecitudine, sotto comminatoria di sostituzione del delegato, previa audizione delle ragioni del ritardo. Il quale professionista delegato, ove contesti il provvedimento di sostituzione, potrà chiederne sommessamente la revoca allo stesso giudice dell’esecuzione, le cui ordinanze sono sempre modificabili e revocabili finché non abbiano avuto esecuzione ai sensi dell’art. 487 c.p.c., e potrà spingersi sino a interporre opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c. entro venti giorni dalla conoscenza legale del provvedimento: ma in questo caso, come è evidente, si alienerà comunque le simpatie di chi ebbe a nominarlo, scegliendolo dall’elenco dei professionisti di cui all’art. 179-ter disp. att. c.p.c., subendo un probabile ostracismo.
Basti poi ricordare che, quando l’immobile resta invenduto e non vi sono domande di assegnazione, il giudice dell’esecuzione (recte, il professionista delegato, sulla scorta dell’ordinanza di vendita che, come d’uso, già lo preveda) fissa una nuova vendita, sempre con procedura senza incanto, stabilendo eventualmente diverse condizioni e diverse forme di pubblicità, per un prezzo base inferiore al precedente fino al limite di un quarto e, dopo il quarto tentativo di vendita andato deserto, fino al limite della metà del valore dell’immobile, quale stimato con la perizia. Vi sarà, ovviamente, un nuovo termine (che la legge ottativamente indica in misura non inferiore a sessanta giorni e non superiore a novanta) entro il quale possono essere formulate le offerte d’acquisto (cfr. l’art. 591, comma 2, c.p.c.).
L’incanto potrà essere disposto soltanto qualora il giudice dell’esecuzione ritenga che la vendita con tale modalità possa aver luogo a un prezzo superiore della metà rispetto al valore del bene, quale determinato nella perizia (art. 591, comma 1, ultima parte, c.p.c.): cioè, in pratica, mai.
Se anche dopo il quarto esperimento di vendita, con prezzo ridotto sino al limite della metà del valore di perizia, l’immobile resta invenduto, il giudice dell’esecuzione, previa audizione delle parti, potrà chiudere la procedura per infruttuosità, a norma dell’art. 164-bis disp. att. c.p.c. Misura questa che andrà adottata cum grano salis, quando risulti che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo. Le ingenti spese della procedura esecutiva immobiliare resterebbero, in caso di chiusura anticipata, a carico dei creditori che le hanno anticipate, i quali non solo non ottengono soddisfazione dei loro crediti, ma subirebbero in tal modo un pregiudizio assai grave. Perciò, la chiusura anticipata per infruttuosità presuppone l’estrema esiguità del realizzo, da stimare non soltanto in termini relativi, avendo riguardo alla percentuale del credito soddisfatto rispetto a quello azionato, ma anche in termini assoluti, avuto riguardo all’importo in concreto recuperabile, quantomeno a copertura delle spese affrontate per l’espropriazione.
Nella Relazione illustrativa al d.lgs. 149/2022 si legge che «la disposizione della legge delega ha sollevato criticità operative: intesa alla lettera, cioè a dire come riferita all’intero corpus delle attività oggetto di delega analiticamente descritte dal num.1) al num. 13) dell’art. 591-bis, terzo comma, c.p.c., essa dava luogo ad una concreta irrealizzabilità, in quanto, pur ammettendo il felice esito del primo esperimento di vendita, i tempi occorrenti per il compimento delle varie attività (il versamento del saldo prezzo, l’emissione del decreto di trasferimento, la redazione e l’approvazione del progetto di distribuzione) sforavano di certo l’anno; d’altro canto, forti perplessità sono state sollevate dagli operatori circa la possibilità di tentare tre esperimenti di vendita in un anno, in ragione degli obbligatori tempi da accordare per la formulazione delle offerte di acquisto e per le tempistiche di prassi degli adempimenti pubblicitari. Nella consapevolezza di questi problemi, si è dato egualmente corso alla delega, intendendo la durata annuale, al di là del tenore letterale, nell’unico senso plausibile, cioè a dire come riferito alle operazioni di vendita in senso stretto: con il modificato primo comma dell’art. 591-bis c.p.c., si è pertanto statuito che con l’ordinanza che dispone la vendita il giudice dell’esecuzione fissi un termine finale per il completamento delle operazioni delegate, nella loro globalità intese, e disponga altresì lo svolgimento, entro il termine di un anno dall’emissione dell’ordinanza, di un numero di esperimenti di vendita non inferiore a tre, secondo i criteri stabiliti dall’articolo 591, secondo comma, stabilendo le modalità di effettuazione della pubblicità, il luogo di presentazione delle offerte d’acquisto e il luogo ove si procede all’esame delle stesse, alla gara tra gli offerenti ed alle operazioni dell’eventuale incanto. Il concreto pericolo di non riuscire ad effettuare nell’anno i tre tentativi di vendita è salvaguardato dalla possibilità per il delegato di richiedere tempestiva proroga al giudice della esecuzione, fermo restando che non sono inficiati da nullità gli atti del subprocedimento compiuti oltre il termine accordato per gli stessi. Lo sforamento del termine ha infatti ripercussioni solo e soltanto sull’incarico al professionista, che può essere revocato (come nell’ipotesi di inosservanza delle direttive impartite) dal giudice dell’esecuzione, previo contraddittorio con l’interessato, secondo la regola posta dal novellato undicesimo comma dell’art. 591-bis c.p.c., che recepisce anche la previsione (più che altro un monito o raccomandazione per i giudici dell’esecuzione) della vigilanza del giudice dell’esecuzione sul regolare e tempestivo svolgimento delle attività delegate e sull’operato del professionista delegato, da realizzarsi mediante richiesta (in ogni momento) di informazioni sulle operazioni di vendita».
È così dunque che il d.lgs. 149/2022 ha interamente riscritto l’art. 591-bis c.p.c., ponendo soprattutto l’accento sulla necessità che il giudice dell’esecuzione, nell’ordinanza con cui dispone la vendita, fissi il termine finale per il completamento delle operazioni delegate al professionista, chiamato a svolgere entro un anno dall’emanazione dell’ordinanza un numero di esperimenti di vendita non inferiore a tre.
Segue nel terzo comma dell’art. 591-bis c.p.c. il lungo elenco delle attività demandate al professionista, sulle cui attività e sul cui operato vigila il giudice dell’esecuzione, con il potere di chiedere in ogni momento informazioni sulle operazioni di vendita e di sostituirlo, dopo averlo sentito, qualora non siano rispettati i termini e le direttive per lo svolgimento delle operazioni di vendita, salvo che il professionista delegato dimostri che il mancato rispetto della delega sia dipeso da causa a lui non imputabile (art. 591-bis, comma 11, c.p.c.). A tale funzione di vigilanza del giudice dell’esecuzione rispondono i rapporti riepilogativi telematici, previsti ora, in gran messe e ad ogni passaggio, dal già ricordato ultimo comma dell’art. 591-bis c.p.c., che riproduce la norma dianzi dispersa nel comma 9-septies dell’art. 16-bis d.l. 179/2012 sul processo civile telematico.
Anche in tal caso, come ormai per l’intero libro terzo del codice di rito (si veda, ad es., l’ineffabile, eppure essenziale, coppia di artt. 492 e 492-bis c.p.c.), la scrittura è quella delle circolari ministeriali: istruzioni per l’uso, ben più lunghe e complicate di quanto l’attività esecutiva, anzitutto pratica e materiale, non richieda di suo. Va da sé che sproloqui e soverchie verbosità burocratiche fomentano di continuo nuove questioni, alimentando unicamente sé stesse, com’è proprio in generale della tekne e del dominio ch’essa esercita incontrastata in ogni campo: risolvendo un problema, la tecnocrazia ne pone altri dieci, in una spirale perversa e incessante «sans trêve et sans merci»[25].
17. (segue) Il controllo sugli atti del professionista delegato o dell’ufficiale incaricato della vendita forzata (artt. 534-ter e 591-ter c.p.c., art. 168 disp. att. c.p.c.)
La lett. l) del comma 12 demandava al Governo di «prevedere un termine di 20 giorni per la proposizione del reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’atto del professionista delegato ai sensi dell’articolo 591-ter del codice di procedura civile e prevedere che l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione decide il reclamo possa essere impugnata con l’opposizione di cui all’articolo 617 dello stesso codice».
Nella Relazione illustrativa della delega si legge: «La proposta modifica è volta a rafforzare la stabilità del decreto di trasferimento. Infatti, in base al vigente articolo 591-ter del codice di procedura civile (così come interpretato da Cass. 12238/2019), il reclamo avverso l’atto del delegato (i cui atti non sono suscettibili di opposizione ex articolo 617 del codice di procedura civile) non costituisce un mezzo di impugnazione da esperire entro un certo lasso di tempo, decorso il quale l’atto si stabilizza; al contrario, eventuali vizi nell’attività del delegato possono essere fatti valere proponendo opposizione avverso l’atto esecutivo conclusivo della fase liquidativa e, cioè, avverso il decreto di trasferimento. Ciò determina una nociva instabilità del provvedimento traslativo della proprietà del cespite staggito, la quale può essere eliminata stabilendo un termine entro il quale dolersi degli atti del delegato (e decorso il quale eventuali vizi antecedenti non potrebbero più essere denunciati) innanzi al giudice dell’esecuzione, la cui ordinanza potrebbe essere impugnata entro il termine decadenziale ex articolo 617 del codice di procedura civile, evitando qualsivoglia ripercussione dei vizi sul decreto ex articolo 586 del codice di procedura civile».
Ai sensi del pregresso art. 591-ter c.p.c. quando, nel corso delle operazioni di vendita, insorgevano difficoltà, il professionista delegato poteva rivolgersi al giudice dell’esecuzione, il quale provvedeva con decreto. Le parti e gli interessati potevano proporre reclamo avverso il decreto, nonché avverso gli atti del professionista delegato, con ricorso allo stesso giudice dell’esecuzione, il quale provvedeva con ordinanza: il ricorso non sospendeva le operazioni di vendita, salvo che il giudice dell’esecuzione, concorrendo gravi motivi, disponesse la sospensione. Contro l’ordinanza del giudice era ammesso reclamo al collegio entro quindici giorni dalla conoscenza legale dell’ordinanza, ai sensi dell’art. 669-terdecies c.p.c.: del collegio non poteva far parte il giudice dell’esecuzione.
Il soggetto interessato aveva, dunque, l’onere di proporre il reclamo previsto dall’ante vigente art. 591-ter c.p.c. avverso il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione avesse impartito istruzioni al professionista delegato, prima che le istruzioni reputate erronee o inopportune fossero eseguite: in mancanza, era inammissibile il reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’atto del delegato, una volta che le istruzioni avessero esaurito la loro funzione, restando tuttavia impregiudicata la facoltà di qualunque interessato di proporre reclamo avverso gli atti successivi del delegato affetti da illegittimità derivata ovvero opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c. avverso il primo atto del giudice dell’esecuzione conclusivo della relativa fase, ivi incluso il decreto di trasferimento, per vizi proprî o derivati da precedenti difetti della sequenza procedurale, compresi quelli già fatti valere mediante i reclami di cui all’art. 591-ter c.p.c., ancorché rigettati dal giudice dell’esecuzione e dal collegio.
Pertanto, secondo il sistema ricostruito dalla Corte di cassazione[26]:
- tutti gli atti del professionista delegato erano reclamabili dinanzi al giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 591-ter c.p.c.;
- gli atti con i quali il giudice dell’esecuzione avesse dato istruzioni al professionista delegato o avesse deciso sul reclamo avverso i di lui atti avevano contenuto meramente ordinatorio e non vincolavano il giudice dell’esecuzione nell’adozione dei successivi provvedimenti della procedura;
- il reclamo al collegio avverso gli atti suddetti del giudice dell’esecuzione metteva capo a un provvedimento che non aveva natura decisoria e non era suscettibile di passare in giudicato e, come tale, non era soggetto a ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost.;
- eventuali nullità verificatesi nel corso delle operazioni delegate al professionista e non rilevate nel procedimento di reclamo ex art. 591-ter c.p.c. potevano essere fatte valere impugnando, ai sensi dell’art. 617, comma 2, c.p.c., il primo provvedimento successivo adottato dal giudice dell’esecuzione.
Un sistema assai articolato, per non dir labirintico, sul quale era certo d’uopo intervenire: la legge delega opportunamente lo ha previsto, imponendo un termine di venti giorni per proporre reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’atto del delegato, eliminando la superfetazione del reclamo al collegio ex art. 669-terdecies c.p.c. e assoggettando l’ordinanza del giudice dell’esecuzione sul reclamo avverso atti del delegato all’usuale rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c., da proporre mediante ricorso depositato entro il termine di venti giorni dalla conoscenza legale dell’ordinanza. Si scandiscono, insomma, i rimedî relativi alla sottofase di vendita gestita dal delegato, imponendo termini perentori e conseguenti decadenze, sì da evitare che i vizî che la inficino possano propagarsi per derivazione sino al decreto di trasferimento, caducando la vendita forzata in pregiudizio del terzo aggiudicatario e dei creditori, che rischierebbero di veder dilazionati sine die i tempi di soddisfazione dei loro crediti.
Il d.lgs. 149/2022 ha dovuto semplicemente trasporre nel corpo dell’art. 591-ter c.p.c. per le vendite delegate di beni immobili e dell’art. 534-ter c.p.c. quanto alle vendite delegate di beni mobili registrati, nonché nell’art. 168 disp. att. c.p.c. per le vendite mobiliari tramite ufficiale incaricato, le modifiche suggerite dalla legge delega che, come si legge nella Relazione illustrativa al d.lgs. 149/2022, «appaiono senza dubbio funzionali allo scopo: esse eliminano i due principali problemi posti dalla disciplina del reclamo avverso gli atti del professionista delegato, ovvero la mancata indicazione del termine per la presentazione del reclamo e la previsione del reclamo al collegio come strumento di impugnazione dell’ordinanza del giudice dell’esecuzione. Il nuovo sistema prefigura un meccanismo di progressiva stabilizzazione degli atti del delegato alla vendita (e di sanatoria dei vizi del relativo subprocedimento) che si forma prima dell’emissione del decreto di trasferimento: l’atto si stabilizza se non è impugnato nei venti giorni successivi alla sua conoscenza e, in caso di impugnazione, il meccanismo di stabilizzazione è quello generale dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. (ripristinando il rimedio analogo a quello previsto dalla disciplina anteriore alla riforma del 2015) e, quindi, al successivo controllo della Corte di Cassazione. Nella traduzione in articolato, per dissipare eventuali dubbi interpretativi, si è precisato che le modifiche interessano – seguendo pedissequamente la legge delega – il reclamo proposto da parti ed interessati avverso l’atto del professionista (e non già il reclamo motu proprio da questi sollevato al giudice dell’esecuzione, in quanto originato non da questioni di diritto bensì da mere difficoltà materiali), che il termine per il reclamo (venti giorni dal compimento dell’atto o dalla sua conoscenza) ha natura perentoria. Oltre all’art. 591-ter c.p.c. in tema di espropriazione immobiliare (cui testualmente era riferita la legge delega), ragioni di coerenza sistematica hanno imposto di novellare nello stesso senso anche i corrispondenti e speculari istituti concernenti l’espropriazione mobiliare: il reclamo avverso gli atti del professionista delegato o del commissionario (articolo 534-ter c.p.c.) ed il reclamo contro l’operato dell’ufficiale incaricato della vendita (articolo 168 disp. att. c.p.c.)».
18. Approvazione anche tacita del progetto distributivo e pagamenti demandati al professionista delegato (artt. 591-bis, 596, 597 e 598 c.p.c.)
La lett. m) del comma 12 dell’art. 1 l. delega 206/2021 demandava al Governo di «prevedere che il professionista delegato proceda alla predisposizione del progetto di distribuzione del ricavato in base alle preventive istruzioni del giudice dell’esecuzione, sottoponendolo alle parti e convocandole innanzi a sé per l’audizione, nel rispetto del termine di cui all’articolo 596 del codice di procedura civile; nell’ipotesi prevista dall’articolo 597 del codice di procedura civile o qualora non siano avanzate contestazioni al progetto, prevedere che il professionista lo dichiari esecutivo e provveda entro sette giorni al pagamento delle singole quote agli aventi diritto secondo le istruzioni del giudice dell’esecuzione; prevedere che in caso di contestazioni il professionista rimetta le parti innanzi al giudice dell’esecuzione».
Nella Relazione illustrativa della delega si legge quanto segue: «La proposta, in conformità a quanto già previsto dalle buone prassi in materia esecutiva, estende il perimetro della delega al professionista. L’idea è quella di liberare il g.e. da incombenti meccanici, che gravano essenzialmente sulle cancellerie e che possono essere svolti dal delegato».
In effetti, il principio dettato dalla delega ratificava ex lege le buone prassi già invalse nelle esecuzioni forzate immobiliari, come si legge anche nella Relazione illustrativa al d.lgs. 149/2022: «Trasposizione positiva di prassi diffuse in molti uffici giudiziari (ed avallate come virtuose dal Consiglio Superiore della Magistratura nella delibera del 7 dicembre 2021 recante l’approvazione delle “linee guida funzionali alla diffusione di buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari”), viene affidato al professionista delegato il potenziale svolgimento di tutta la fase della distribuzione del ricavato: non soltanto la predisposizione del piano di riparto (sulla scorta delle preventive istruzioni del giudice dell’esecuzione), ma anche la convocazione delle parti innanzi a sé per l’audizione e la discussione sul progetto, la cui approvazione, in caso di mancata comparizione o mancata contestazione, compete al professionista delegato, il quale avrà altresì cura di provvedere al materiale pagamento delle singole quote agli assegnatari. Sono stati così ridisegnati gli articoli 596, 597 e 598 c.p.c. nonché l’art. 591-bis, facendo salva in ogni caso la preventiva verifica del giudice dell’esecuzione sul progetto di distribuzione elaborato dall’ausiliario (onde apportare le opportune correzioni e integrazioni) e la competenza esclusiva del medesimo giudice in caso di insorgenza di controversie in fase distributiva; una serie di stringenti termini sono stati fissati, onde accelerare il momento conclusivo dell’espropriazione, per il compimento della verifica del giudice sul progetto, della fissazione della data per l’audizione delle parti innanzi il professionista delegato, per l’emissione dei bonifici o mandati di pagamento dopo l’approvazione del piano».
In grazia, dunque, della novella in vigore per le procedure intraprese dal 1° marzo 2023, ma già per pregresso e consolidato usus fori, ai sensi dei novellati artt. 596, 597 e 598 c.p.c., il professionista delegato, entro trenta giorni dal versamento del prezzo, provvede, secondo le direttive impartite dal giudice dell’esecuzione, alla formazione di un progetto di distribuzione, anche parziale (in tal caso, nei limiti del novanta per cento delle somme da ripartire), contenente la graduazione dei creditori che vi partecipano, e lo trasmette al giudice dell’esecuzione mediante deposito nel fascicolo telematico. Entro dieci giorni dal suo deposito il giudice dell’esecuzione esamina il progetto di distribuzione e, apportate le eventuali variazioni, lo deposita a propria volta nel fascicolo telematico della procedura, perché possa essere consultato dalle parti, e ne dispone la comunicazione al professionista delegato, il quale fissa innanzi a sé, entro trenta giorni, l’audizione delle parti per la discussione sul progetto di distribuzione, con un preavviso di almeno dieci giorni. Resta ferma la possibilità di distribuire le somme anche a creditori che abbiano diritto al solo accantonamento o i cui crediti siano contestati, a fronte del deposito di fideiussione autonoma, irrevocabile e a prima richiesta, rilasciata da banche, società assicuratrici o intermediari finanziari, che svolgono in via esclusiva o prevalente attività di rilascio di garanzie e che sono sottoposti a revisione contabile da parte di una società di revisione.
La mancata comparizione della parte equivale a tacita approvazione del progetto. Se il progetto è approvato o si raggiunge l’accordo tra tutte le parti, se ne dà atto nel processo verbale e il professionista delegato ordina il pagamento agli aventi diritto delle singole quote entro sette giorni. Se vengono sollevate contestazioni innanzi al professionista delegato, questi ne dà conto nel processo verbale e rimette gli atti al giudice dell’esecuzione, il quale provvede a risolvere la controversia distributiva ai sensi dell’art. 512 c.p.c., con ordinanza soggetta al consueto rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c., sospendendo in tutto o in parte la distribuzione, con ordinanza soggetta a reclamo al collegio, a norma degli artt. 624 e 669-terdecies c.p.c.
Va da sé che questa ulteriore attività ‘privatizzata’ ed ‘esternalizzata’ al delegato, ivi inclusi i pagamenti da effettuare ai creditori ad instar di un curatore fallimentare, dovrà essere controllata e verificata dal giudice dell’esecuzione con occhio assai vigile e pronto.
19. Limiti temporali alle misure coercitive, revisione dei criterî di quantificazione e conferimento del potere di disporle anche al giudice dell’esecuzione (art. 614-bis c.p.c.)
La lett. o) del comma 12 demandava al Governo di «prevedere criteri per la determinazione dell’ammontare, nonché del termine di durata delle misure di coercizione indiretta di cui all’articolo 614-bis del codice di procedura civile; prevedere altresì l’attribuzione al giudice dell’esecuzione del potere di disporre dette misure quando il titolo esecutivo sia diverso da un provvedimento di condanna oppure la misura non sia stata richiesta al giudice che ha pronunciato tale provvedimento».
Nella Relazione illustrativa della delega si legge: «La proposta interviene sull’istituto delle misure di coercizione indiretta disciplinato dall’articolo 614-bis del codice di procedura civile, attribuendo al legislatore delegato il compito di individuare dei criteri per la determinazione del quantum e del limite temporale della misura, di modo che la stessa non possa avere durata illimitata determinando l’insorgenza di obbligazioni sanzionatorie del tutto sproporzionate rispetto all’originaria obbligazione inadempiuta. La proposta, inoltre, attribuisce anche al G.E. il potere di imporre l’astreinte, misura particolarmente utile ove vengano in rilievo titoli esecutivi diversi da un provvedimento di condanna o nel caso in cui la misura di coercizione indiretta non sia stata richiesta al giudice della cognizione».
Quando la prestazione dovuta dal debitore sia infungibile, a causa del contenuto – in tutto o in parte – personale della stessa, o quando si tratti di obblighi di non facere, cioè di astenersi dal compimento di futuri atti lesivi, la sostituzione del debitore con l’attività dell’apparato giurisdizionale esecutivo non è possibile. In questi casi, per far conseguire al creditore l’utilità che gli è dovuta, occorre premere sulla volontà del debitore, affinché questi sia indotto ad adempiere per evitare di patire un pregiudizio superiore allo svantaggio che gli procura l’adempimento. L’esecuzione forzata è, dunque, indiretta, in quanto non si traduce in atti dell’ufficio esecutivo compiuti in sostituzione del debitore inadempiente, in modo da far ottenere al creditore la prestazione dovutagli, ma in misure coercitive idonee a premere sul debitore per spingerlo ad adempiere: «coactus voluit, sed voluit», come suol dirsi[27].
Il legislatore italiano, nell’art. 614-bis c.p.c., ha adottato come generale il modello delle misure coercitive civili mediante pagamento di somme di denaro a favore del creditore, secondo l’esperienza francese delle astreintes. Con la differenza, però, che mentre le astreintes francesi sono comminate nel provvedimento di condanna alla prestazione principale in via provvisoria e vengono poi irrogate in via definitiva soltanto dopo un sommario accertamento delle inadempienze all’ordine esecutivo commesse dal debitore, le misure coercitive ex art. 614-bis c.p.c. vengono quantificate unilateralmente dal creditore, salvo contestazione del debitore mediante opposizione a precetto o all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. Sistema quello francese preferibile rispetto a quello adottato uno actu nel nostro art. 614-bis c.p.c., con riferimento ai soli provvedimenti di condanna e, dunque, in sede di cognizione e di dichiarazione dell’obbligo cui la misura coercitiva accede, anziché in sede esecutiva, per il caso in cui l’obbligo primario sia stato violato. Il che è dipeso da un equivoco sistematico di fondo del nostro legislatore: quello di riferire l’esecuzione forzata, anche indiretta, al provvedimento, anziché al diritto che ne forma l’oggetto e il contenuto. Con l’ulteriore deleterio effetto di impedire l’utilizzo delle misure coercitive in relazione ai titoli esecutivi stragiudiziali o, comunque, non decisori, come i verbali di conciliazione, che non contengono condanne di sorta.
Per rafforzare l’efficacia esecutiva dei provvedimenti di condanna l’art. 614-bis c.p.c., introdotto nel 2009 e novellato nel 2015, ha esteso le misure coercitive a tutti i provvedimenti di condanna a prestazioni diverse dal pagamento di somme di denaro, indipendentemente dal carattere fungibile o infungibile di tali prestazioni. Perciò, quando le misure coercitive assistono prestazioni fungibili (di consegna di beni mobili, di rilascio di beni immobili, di fare fungibile o di distruggere), il creditore può procedere sia con l’esecuzione diretta (in forma specifica, a seconda dell’utilità perseguita), sia con la c.d. esecuzione indiretta, esigendo la somma di denaro complessivamente dovuta per i giorni di ritardo del debitore nell’adempiere alla prestazione (fungibile) cui è stato condannato in via principale.
Le misure coercitive sono autorizzate dal giudice della cognizione o della cautela, su istanza di parte, nello stesso provvedimento di condanna, salvo che ciò non risulti manifestamente iniquo, ad es. per la natura strettamente personale della prestazione principale dovuta dall’obbligato (si pensi a una prestazione artistica o di ricerca scientifica o di scrittura di un libro o di un articolo, ecc.). L’imposizione di misure coercitive non può risolversi nella creazione di corvées irredimibili, degne della servitù della gleba di matrice feudale, dovendosi comunque salvaguardare il fondamentale principium libertatis insito nel brocardo del «nemo ad factum praecise cogi potest».
Stranamente e per evidente scelta politica, le misure coercitive non si applicano nel campo dei rapporti di lavoro, privato e pubblico, subordinato e parasubordinato di cui all’art. 409 c.p.c. Scelta questa che appare del tutto irragionevole e affetta da evidente incostituzionalità, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., avuto riguardo ai principii di ragionevolezza e di effettività delle tutele. Un’esclusione tanto più paradossale alla luce del dibattito che a suo tempo sorse intorno all’obbligo, parzialmente infungibile, del datore di lavoro di reintegrare nel posto e nelle mansioni il lavoratore illegittimamente licenziato, nel cui contesto si propose di rinvenire nell’ordinamento o, comunque, di introdurre misure coercitive affinché tale obbligo fosse integralmente e puntualmente adempiuto.
La misura coercitiva è stabilita nel suo ammontare discrezionalmente dal giudice della cognizione o della cautela, tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile, senza alcuna predeterminazione legislativa di un massimo edittale, suscitando per questo dubbi di legittimità costituzionale. Il problema si è posto anche per la condanna al risarcimento dei ‘danni punitivi’ per abuso del processo, ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., che parimenti non predetermina l’entità della sanzione: tuttavia, la Corte costituzionale ha ritenuto che ciò non violasse l’art. 23 Cost. sul divieto di imporre prestazioni personali o patrimoniali, può essere imposta se non in base alla legge[28].
Come si legge nella Relazione illustrativa al d.lgs. 149/2022, il criterio dettato nella l. delega imponeva diversi ordini di interventi sull’art. 614-bis c.p.c. «Il primo concerne l’ammontare della somma che diviene dovuta – a seguito del provvedimento che la prevede – quando si verifichi l’inadempimento all’obbligo previsto nel titolo esecutivo.
A tal riguardo la previsione di cui al secondo comma del testo attualmente vigente è stata integrata con il richiamo al vantaggio che l’obbligato trae dall’inadempimento. È infatti pacifico che l’esecuzione indiretta ha la finalità di indurre l’obbligato all’adempimento volontario, in quanto l’inadempimento produce nella sua sfera giuridica conseguenze negative superiori ai vantaggi che egli trae dall’inadempimento. Pertanto, la misura coercitiva, per poter essere effettiva, deve essere commisurata principalmente a questo parametro. Il danno che l’inadempimento produce nella sfera giuridica dell’avente diritto assume invece un ruolo secondario, posto che l’esecuzione indiretta si aggiunge al – e non sostituisce il – risarcimento del danno prodotto dall’inadempimento.
Non è stato possibile determinare l’entità massima della sanzione pecuniaria, in quanto tale quantificazione esorbita da valutazioni di natura giuridica, investendo essenzialmente profili di politica legislativa. […]
Un ulteriore intervento concerne la durata massima della misura coercitiva; in particolare si è integrato il primo comma della norma con un ultimo periodo, che consente al giudice di fissare un termine di durata della misura.
Sembra evidente che una tale previsione ha rilevanza nei casi di inadempimento di un obbligo avente come contenuto una prestazione, mentre non ha rilevanza ove si tratti di un obbligo di astensione. In quest’ultimo caso, poiché la sanzione diviene operativa solo ove sia tenuto un comportamento contrario all’obbligo di astensione, non vi è necessità di assicurare che l’entità della somma da corrispondere non divenga esorbitante.
Esemplificando: se ad un soggetto è fatto divieto, sotto comminatoria di una sanzione pecuniaria, di chiudere a chiave un cancello o di suonare la tromba dopo le 23, non ha senso prevedere un termine massimo di durata della misura esecutiva. In caso, invece, di obblighi positivi, può essere opportuno porre un limite massimo alla durata della misura coercitiva, e così alla somma complessiva che divenga dovuta. Non è infatti possibile che essa divenga perpetua. Esemplificando: se ad un soggetto è prescritto, sotto comminatoria di una sanzione pecuniaria pari a X euro per ogni giorno di ritardo, di consegnare un certo bene, non è concepibile che la sanzione pecuniaria assuma entità stratosferiche.
La seconda previsione della legge delega è volta a porre rimedio ad una lacuna della normativa vigente che attribuisce al solo giudice, che pronuncia la condanna, il potere di concedere la misura coercitiva: ciò che produce l’inconveniente di penalizzare i titoli esecutivi diversi dalle sentenze di condanna, che pure la recente legislazione ha equiparato ai titoli esecutivi giudiziali – si pensi solo alla disciplina della mediazione e della negoziazione assistita – onde rendere appetibili gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie. Lo stesso deve dirsi per il lodo arbitrale.
In ossequio alla legge delega, che imponeva di attribuire tale potere al giudice dell’esecuzione, la norma richiama le disposizioni di cui all’esecuzione per obblighi di fare. Dopo la notificazione del precetto, l’avente diritto presenta il ricorso al giudice dell’esecuzione competente, il quale – sentite le parti – provvede a determinare la misura esecutiva.
Avverso tale provvedimento resta ovviamente proponibile l’opposizione agli atti esecutivi, mentre l’opposizione all’esecuzione può essere utilizzata nelle ipotesi di cui all’art. 615 c.p.c., anche nelle forme dell’opposizione a precetto».
In conclusiva sintesi, la riforma è intervenuta, anzitutto, per porre un limite all’entità delle misure coercitive e alla loro durata, affinché non divengano strumento di ‘speculazione finanziaria’ del creditore mediante accumulazione di crediti pecuniari verso il debitore. Il giudice deve, dunque, stabilirne la decorrenza e può fissare un termine di durata della misura, tenendo conto della finalità della stessa e di ogni circostanza utile.
Oltre a ciò – producendo anche in questo ad consequentias le critiche sollevate in dottrina, proprio dal presidente della commissione ministeriale, Francesco Paolo Luiso – l’adozione delle misure coercitive viene attribuita anche al giudice dell’esecuzione, quando si tratti di titoli esecutivi che contengano prestazioni diverse dal pagamento di somme di denaro. Si tratterà, dunque, di atti pubblici per obblighi di consegna o rilascio (le scritture private autenticate valgono quali titoli esecutivi solo per crediti pecuniari), di verbali di conciliazione giudiziale o in esito a procedure di mediazione o di accordi raggiunti a seguito di negoziazione assistita da avvocati, di lodi arbitrali, purché aventi ad oggetto prestazioni diverse da quelle di pagamento di somme di denaro, alle quali sole si applicano le misure coercitive ex art. 614-bis c.p.c.
La novella consente anche di sopperire alla mancata richiesta della misura al giudice della cognizione, chiedendola ex novo al giudice dell’esecuzione.
La forma dell’istanza è quella del ricorso ai sensi dell’art. 612 c.p.c., dopo la notificazione del precetto allo stesso giudice dell’esecuzione competente per l’esecuzione in forma specifica, sì da compulsare il debitore renitente ad adempiere, onde evitare maggiori esborsi.
Il quantum della misura viene determinato dal giudice (della cognizione, della cautela o dell’esecuzione nei casi previsti), tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione dovuta, del vantaggio per l’obbligato derivante dall’inadempimento, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile.
[1] Sia consentito rinviare a Tedoldi, «Come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». Il Pater noster secondo Francesco Carnelutti e la responsabilità del debitore, Bologna, 2021; Id., Il giusto processo (in)civile in tempo di pandemia, Pisa, 2021.
[2] Promulgata esattamente trentun anni dopo la l. 26 novembre 1990, n. 353 «Provvedimenti urgenti [ça va sans dire…, ndr] per il processo civile», che segnò l’inizio dell’interminabile stagione di riforme processuali che perdura tutt’oggi, la meno peggiore delle quali fu l’abolizione del rito societario, introdotto nel 2003 (d.lgs. 5/2003), abrogato nel 2009 dopo più di un lustro di estenuante esasperazione degli operatori (l. 69/2009), eppure ancor riesumato, per molti inopinati profili, dalla l. delega 206/2021 (art. 1, comma 5) e dal susseguente d.lgs. 149/2022 per il nuovissimo rito ordinario di cognizione (v. in particolare i nuovi artt. 171-bis e 171-ter c.p.c.): e sì che errare humanum est,…
[3] Commenti alla delega in Miccolis, L’esecuzione forzata nella riforma che ci attende, in Questione giustizia, 3/2021, 112 ss.; Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», in Questione giustizia, 3/2021, 122 ss.; E. Fabiani, Piccolo, Le modifiche in tema di esecuzione forzata di cui alla legge di riforma (n. 206/2021) della giustizia civile. Note a prima lettura, in Giust. insieme, 4 febbraio 2022.
[4] Cfr. Tedoldi, Esecuzione forzata, cit., 26 ss.
[5] Satta, Commentario al c.p.c., III, Milano, 1965, 93: «L’origine di questa formula la rende del tutto estranea ai moderni ordinamenti, né si riesce a capire la sua singolare vitalità. Basti pensare al ridicolo di un cancelliere che comanda, sia pure in nome della legge, e col nos maiestatis, ai giudici dell’esecuzione e al pubblico ministero»
[6] Cass. 12 febbraio 2019, n. 3967, in Rass. esec. forz., 2019, 385, con note di S. Rusciano, F. Auletta, M. Farina, B. Capponi, A più voci sui principi di diritto pronunciati d'ufficio in tema di spedizione in forma esecutiva e interesse all'opposizione
[7] V., però, la posizione critica di E. Fabiani, Considerazioni critiche sulla proposta di abrogazione della spedizione del titolo in forma esecutiva, in Giust. insieme, 19 giugno 2021; nonché amplius E. Fabiani, Piccolo, Il controllo del notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva con particolare riguardo all’oggetto del diritto, in www.notariato.it, 2021.
[8] Su tali istituti sia consentito, per brevità, rinviare a Tedoldi, Esecuzione forzata, cit., 101 ss. e 407 ss.
[9] Cfr., si vis, Tedoldi, «Come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». Il Pater noster secondo Francesco Carnelutti e la responsabilità del debitore, Bologna, 2021.
[10] Tedoldi, Esecuzione forzata, cit., 211 ss.
[11] Sulla norma sia consentito rinviare a Tedoldi, Esecuzione forzata, cit., 195 ss.
[12] Nonché, si vis, Tedoldi, Il processo civile telematico tra logos e techne, in Riv. dir. proc., 2021, 843 ss.
[13] Nei pochi mesi di applicazione della novella è già stato necessario diramare una circolare del Ministero della giustizia del 5 dicembre 2022, a rettifica di una precedente diversa disposizione ministeriale, onde chiarire l’ovvio, cioè che la notificazione dell’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo della procedura al debitore e al terzo pignorato può essere effettuata anche in proprio dal difensore munito di procura, a mezzo posta elettronica certificata o con il servizio postale ai sensi della l. 53/1994, oppure richiedendola all’ufficiale giudiziario.
[14] Sia consentito rinviare, anche qui per mere ragioni di brevità, a Tedoldi, Crisi insolvenza sovraindebitamento, Pisa, 2022.
[15] Cfr., si vis, Tedoldi, Come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, cit.; Id., Crisi insolvenza sovraindebitamento, cit.
[16] Cfr. Corte cost., 22 giugno 2021, n. 128 che ha dichiarato incostituzionale l’art. 13, 14° comma, d.l. 31 dicembre 2020 n. 183, convertito, con modificazioni, nella l. 26 febbraio 2021 n. 21, nella parte in cui prevede la sospensione delle procedure esecutive immobiliari aventi ad oggetto l’abitazione principale del debitore.
[17] Così Corte cost., 22 giugno 2021, n. 128, cit., in motivazione.
[18] S. Satta, Il giorno del giudizio, Milano, 1979, 186 ss.
[19] Satta, L’esecuzione forzata, Torino, 1952, 5.
[20] Satta, Commentario al c.p.c., III, Processo di esecuzione, Milano, 1965, 181.
[21] Satta, Commentario, cit., III, 179.
[22] Cavallone, L’aggiudicatario come ricettatore, in Riv. dir. proc., 2014, 370.
[23] Come interpretato da Cass., sez. un., 28 novembre 2012, n. 21110, in Foro it., 2013, I, 1224, con nota di Longo; in Corr. giur., 2013, 387, con nota di Capponi; in Riv. dir. proc., 2013, 1551, con nota di Vincre.
[24] Cfr., si vis, Tedoldi, Il giusto processo (in)civile in tempo di pandemia, cit., 88 ss.
[25] V., si vis, Tedoldi, Il giusto processo (in)civile in tempo di pandemia, cit.; Id., «Come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori», cit.
[26] Cass. 9 maggio 2019, n. 12238, in Rass. esec. forz., 2019, 1179, con nota di M.L. Guarnieri; ivi, 2020, 917, con nota di Santagada.
[27] Si vis v. amplius Tedoldi, Esecuzione forzata, cit., 9 ss. e spec. 330 ss.
[28] Corte cost., 6 giugno 2019, n. 139, in Foro it., 2019, I, 2644 e in Giur. it., 2020, 578 (m), con nota di Ghirga.
Focus sui programmi di scambio internazionale tra magistrati - 2. Il tirocinio presso il desk italiano di Eurojust “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”
di Federica La Chioma
[L’articolo segue a I programmi di scambio internazionali tra le Autorità Giudiziarie di Marco Alma e all’Editoriale dedicato all'iniziativa]
Sommario: 1. Introduzione - 2. Mandato d’arresto europeo - 3. Estradizione - 4. Ordine europeo di indagine - 5. Sequestro e confisca all’estero - 6. Conflitto di giurisdizioni - 7. Reati informatici e/o commessi con mezzi informatici - 8. Conclusioni.
1. Introduzione
Questo contributo intende rassegnare una sintesi delle principali attività, di carattere prettamente giurisdizionale ovvero speculativo-compilativo, da me svolte nel corso del tirocinio della durata di quattro mesi che ho avuto l’opportunità di svolgere presso il Desk italiano ad Eurojust “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” nel corso dei periodi 19.04.2022-29.07.2022 e 26.09.2022-15.10.2022 sotto la direzione del Membro Nazionale dott. Filippo Spiezia ed in affiancamento ai magistrati assistenti dott.ri Silvio Franz, Teresa Magno, Aldo Ingangi, agli esperti nazionali distaccati Dir. PP Sergio Orlandi, Mar. C. GdF Marco Mosele, T. Col. CC Simone Martano e con la collaborazione delle assistenti sig.re e dott.sse Annamaria Petrucci, Daniela Menozzi, Marina Cociancich.
Occorre premettere che l’avvio del tirocinio è stato preceduto dalla mia partecipazione a tre sessioni di formazione ad opera di personale in servizio presso le funzioni di Human resources and Operation Units dell’Agenzia, prodromiche allo svolgimento delle attività assegnate e relative a Induction training for newcomers, Data protection regulation e CMS training. Tali brevi corsi mi hanno infatti permesso di apprendere anzitutto la struttura, il mandato ed il funzionamento dell’ente di assegnazione del tirocinio, in modo da consentirne lo svolgimento più proficuo e consapevole.
Invero, con riferimento al primo aspetto, la cui illustrazione è stata integrata anche dalla lettura della Relazione Annuale per il 2021 messa a disposizione dal Membro Nazionale dott. Spiezia, è stato fornito un inquadramento generale di Eurojust, quale agenzia di cooperazione giudiziaria dell’Unione Europea, ne sono stati approfonditi gli organi (segnatamente il College, l’Ufficio di Presidenza, il Consiglio di Amministrazione, il Direttore Amministrativo) e le relative unità, sia operative che di gestione delle risorse umane e finanziarie, con le quali avrei avuto modo di confrontarmi giornalmente nello svolgimento dell’ordinaria attività di tirocinante assegnata ad un Desk nazionale. È stato inoltre illustrato il metodo di formazione e archiviazione digitale dei procedimenti tramite Case Managemente System o CMS, con particolare riguardo alla materia della gestione dei dati personali in essi contenuti, alla luce delle regole di procedura adottate dal College con propria decisione del 20.12.2019, che costituisce un esempio di lex specialis rispetto al Regolamento (UE) 2018/1725 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2018, sulla tutela delle persone fisiche in relazione al trattamento dei dati personali da parte delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell’Unione e sulla libera circolazione di tali dati, e che abroga il regolamento (CE) n. 45/2001 e la decisione n. 1247/2002/CE, che ha riconosciuto il diritto del titolare del dato personale a ricevere comunicazione chiara e trasparente del trattamento da parte del suo responsabile (Data Protectcion Officer), a richiedere l’accesso allo stesso, a promuoverne la cancellazione o la correzione in caso di errori.
Con riferimento invece al secondo aspetto, concernente il mandato dell’Agenzia, è stato affrontato direttamente con il Membro Nazionale dott. Spiezia, anche mediante l’analisi di alcuni contributi dottrinari[1], l’excursus storico, politico e normativo che ha portato all’approvazione del Regolamento (UE) 2018/1727 che istituisce l’Agenzia dell’Unione Europea per la cooperazione giudiziaria penale (Eurojust) e che sostituisce e abroga la decisione 2002/187/GAI del Consiglio.
Tale strumento normativo, direttamente applicabile in tutti gli Stati membri, ha chiarito che funzione di Eurojust è “sostenere e potenziare il coordinamento e la cooperazione tra le autorità nazionali responsabili delle indagini e dell’azione penale contro la criminalità grave che interessa due o più Stati membri o che richiede un’azione penale su basi comuni, sulla scorta delle operazioni effettuate e delle informazioni fornite dalle autorità degli Stati membri e dall’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione nell’attività di contrasto (Europol)”.
Tale mandato si esplica mediante una pluralità di funzioni operative, che comprendono attività di informazione, assistenza, promozione delle indagini presso le competenti autorità nazionali che abbiano in corso indagini o procedimenti in grado di incidere su scala unionale, consultazione, sia con le autorità nazionali che con altre istituzioni, organi ed organismi dell’Unione Europea, collaborazione anche ai fini dell’implementazione delle banche dati dell’European Judicial Network (EJN) ed anche con il neoistituito European Public Prosecutor Office (EPPO), supporto anche operativo, tecnico e finanziario, ad esempio per il tramite della costituzione di squadre investigative comuni (SIC) o per la prestazione di servizi di interpretariato o ancora per la concertazione di azioni comuni.
Nell’assolvimento di tali funzioni Eurojust può chiedere, specificandone i motivi, che le autorità competenti degli Stati membri interessati avviino un’indagine od un’azione penale per fatti precisi, o che concentrino i relativi procedimenti presso l’una o l’altra autorità, ovvero che si coordinino fra loro o che infine intraprendano azioni concordate, sempre informandone l’Agenzia.
Al fine di consentirmi di cogliere, sin dall’inizio, le variegate potenzialità operative di Eurojust appena sintetizzate è stata calendarizzata, da parte del Membro Nazionale dott. Spiezia, la realizzazione di alcuni incontri tematici con i componenti del Desk, volti all’immediato inquadramento e all’approfondimento – anche per il tramite della condivisione di presentazioni in power point[2] e di manuali operativi[3] nonché dello studio di contributi di fonte normativa e dottrinaria[4] – di alcuni istituti di maggiore rilievo pratico nell’ambito della cooperazione giudiziaria internazionale o di alcune materie particolarmente sensibili fra quelle rientranti nella competenza dell’Agenzia.
In particolare sono stati svolti, mediante mirate interlocuzioni nonché mediante visite presso la sede delle altre istituzioni interessate, dialoghi tematici in materia di:
- ordine di indagine europeo ed altri strumenti di cooperazione per l'acquisizione della prova in ambito europeo ed internazionale, fra cui quelli previsti dalla Convenzione stabilita dal Consiglio conformemente all’art. 34 del Trattato sull’Unione Europea, relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione Europea, firmata a Bruxelles il 29 maggio 2000, con il dott. Ingangi;
- sequestro e confisca all'estero e quadro normativo ed amministrativo di riferimento (regolamenti, circolari, intese operative) con il dott. Franz;
- prova digitale, data retention e relative questioni applicative con la dott.ssa Magno;
- mandato d’arresto europeo e rapporti con il Ministero della Giustizia con la dott.ssa Magno;
- lotta al terrorismo (quadro normativo internazionale ed unionale, strategie di contrasto e di prevenzione, strumenti di cooperazione giudiziaria, esame di alcuni casi pratici) con il Dir. PP Orlandi;
- squadre investigative comuni (funzione, normativa di riferimento, formalità costitutive e modalità di gestione) con il Mar. C. GdF Mosele;
- Europol (mandato, struttura, modalità di raccordo con Eurojust) con il T. Col. CC Martano;
- sintesi sul coordinamento investigativo sovranazionale con il Membro Nazionale dott. Spiezia.
Con riferimento infine al terzo fra gli aspetti sopra evidenziati, relativo al funzionamento di Eurojust, dopo essere stata opportunamente introdotta sia personalmente ai colleghi di nazionalità straniera che collettivamente dinanzi al College, ho avuto l’occasione di immergermi nella vita dell’Agenzia, di cui ho avuto modo di cogliere sia l’operatività rivolta all’esterno che quella tesa a regolare la propria struttura interna.
Sono stata infatti ammessa a partecipare alle riunioni del Desk italiano indette nel corso del periodo di tirocinio dal Membro Nazionale dott. Spiezia, in particolare al fine di approvare il Terzo Progetto Organizzativo nonché di condividere le schede sull’attività di Eurojust destinate a confluire nella pubblicazione della Scuola Superiore della Magistratura lanciata in occasione della ricorrenza del ventennale della fondazione dell’Agenzia, celebrata mediante la programmazione da parte della medesima SSM di un apposito corso a Bari nei giorni 13 e 14 ottobre 2022.
Tali occasioni di condivisione mi hanno fornito l’opportunità di addentrarmi pienamente nelle dinamiche di funzionamento del medesimo Desk, permettendomi di comprenderne meglio le regole di organizzazione e gli ambiti di attività, finalizzati alla fornitura di tutti i servizi necessari ed utili ad assicurare il migliore coordinamento investigativo in tutti i casi di criminalità transnazionale e di terrorismo.
Provvista dunque di questi ineludibili strumenti di conoscenza, sono stata messa in condizione di sviluppare una mia operatività interna al Desk, ritagliata secondo le disposizioni impartite di volta in volta dal Membro Nazionale dott. Spiezia, anche in conformità degli interessi maturati e delle curiosità da me espresse d, e sotto la guida degli Assistenti ed Esperti Distaccati, che con garbo e spontanea generosità hanno sempre fornito preziosi consigli e suggerimenti.
Dunque nel corso dei menzionati periodi di tirocinio sono stata incaricata di avviare e completare lo studio di numerosi casi pendenti presso il Desk al fine di procedere ad una loro revisione, volta alla redazione di proposte operative e/o definitorie da condividere con i rispettivi titolari nonché eventualmente, previa autorizzazione di questi ultimi, con i magistrati stessi assegnatari dei procedimenti nazionali dai quali originavano le richieste di assistenza giudiziaria, relative alle più varie fattispecie delittuose (fra cui particolarmente numerose sono risultate essere quelle afferenti alla criminalità organizzata di stampo ‘ndranghetista e camorristico, all’associazione finalizzata al traffico di armi e stupefacenti, al riciclaggio di proventi illeciti, al trasferimento fraudolento di valori ed altre utilità) e insistenti verso i più diversi Paesi (oltre agli Stati Membri dell’Unione Europea infatti sono risultati coinvolti nelle procedure assegnate alla scrivente anche il Regno Unito, l’Albania, la Svizzera, l’Armenia, il Brasile, gli Stati Uniti, l’Australia).
Analogamente sono stata incaricata di procedere alla iniziale trattazione di procedure di nuova iscrizione, in modo da poter sviluppare autonome iniziative di gestione delle richieste di assistenza pervenute in relazione alle più varie fattispecie delittuose (come si è visto spesso di competenza distrettuale).
In un caso, poi, ho assunto il duplice ruolo da un lato di autorità nazionale redattrice di una complessa rogatoria internazionale in materia di criminalità finanziaria transnazionale, trasmessa per il tramite di Eurojust all’autorità extraeuropea competente, e dall’altro di tirocinante affiancata ai titolari della procedura aperta presso la stessa Agenzia per le esigenze di cooperazione internazionale. Queste ultime in particolare si sono tradotte nell’organizzazione di una riunione di coordinamento presso la sede di Eurojust e nella predisposizione del modulo investigativo, condiviso con le autorità giudiziarie del Paese estero richiesto di compiere gli accertamenti, più adatto a raccogliere emergenze suscettibili di utilizzazione congiunta presso tutti i Paesi coinvolti.
La trattazione dei casi sin qui esposti ha dunque comportato, oltre che lo studio della corposa corrispondenza intercorsa con le autorità nazionali e con i corrispettivi Desk stranieri e della documentazione trasmessa a corredo delle istanze di cooperazione avanzate, anche la partecipazione a numerose riunioni di coordinamento a carattere bilaterale e multilaterale, alla presenza, oltre che dei rappresentanti dell’Agenzia e delle autorità giudiziarie coinvolte (fra cui anche in talune occasioni i Procuratori Europei Delegati o PED), pure di esponenti della polizia giudiziaria.
Due delle menzionate riunioni di coordinamento sono state finanche condotte autonomamente da me, così come, in talune occasione, ho pure avuto modo di partecipare alla verifica della regolare esecuzione di contestuali provvedimenti di perquisizione, sequestro e di misure cautelari personali e reali presso più Stati nel corso di action days durante i quali Eurojust ha funzionato da coordination centre per le autorità giudiziarie e di polizia coinvolte in indagini fra loro collegate.
La gestione da parte mia delle procedure sin qui menzionate, pur se foriera di numerosi adempimenti di natura operativa (quali la tempestiva tenuta della corrispondenza, l’approfondita preparazione delle riunioni di coordinamento e, all’esito, l’esaustiva rendicontazione finale tramite brevi sintesi o follow up aggiuntive ai verbali redatti dal personale di Operation Unit a ciò appositamente deputato o l’assistenza alla redazione di ordini di indagine europeo in conformità a quanto deciso nel corso dei meeting), è tuttavia stata sempre accompagnata da una rielaborazione teorica delle materie affrontate.
L’assegnazione di numerosi casi per fini di diretta trattazione ovvero di mero studio e/o revisione ha infatti invariabilmente costituito per me un’occasione di approfondimento dei diversi ambiti nei quali si sviluppa la cooperazione giudiziaria in materia penale, che come dinanzi rammentato sono stati oggetto di appositi confronti tematici calendarizzati con tutti i componenti del Desk in ragione della specifica competenza sviluppata e/o assegnata a ciascuno o che sono stati oggetto di puntuale rielaborazione scritta in note riepilogative, schede o pareri, in alcuni casi anche destinati, previa rilettura e/o approvazione da parte del Membro Nazionale dott. Spiezia, alla diffusione agli Uffici di Procura sparsi sul territorio nazionale.
Tale è stato il caso della nota riepilogativa redatta in occasione della diffusione del Cybercrime Judicial Monitor, la pubblicazione annuale destinata a magistrati e forze dell’ordine impegnati nella lotta ai reati informatici e ai reati commessi con mezzi informatici trasmessa dall’EJCN (European Judicial Cybercrime Network) o del parere in tema di conflitti di giurisdizioni, redatto in occasione della trattazione di una procedura relativa all’omicidio di un cittadino italiano commessa da cittadini stranieri sul territorio di uno Stato terzo.
Inoltre la rielaborazione delle materie trattate in occasione della cogestione delle procedure a me assegnate mi ha permesso di intervenire ad alcune riunioni organizzate dai gruppi di lavoro istituiti all’interno di Eurojust, quale quella dedicata all’esame della disciplina degli agenti sotto copertura ai sensi dell’art. 21 del decreto legislativo n. 108 del 21 giugno 2017, che ha recepito in Italia la Direttiva 2014/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014 relativa all'ordine europeo di indagine penale o dell’avvio di procedimenti in base all’own iniative dell’Agenzia alla luce dell’art. 2, comma 3 del Regolamento (Ue) 2018/1727 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 novembre 2018 che istituisce l’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione giudiziaria penale (Eurojust) e che sostituisce e abroga la decisione 2002/187/GAI del Consiglio.
Inoltre, in ragione delle conoscenze acquisite nel corso del tirocinio, ho avuto modo di partecipare, su designazione del Membro Nazionale dott. Spiezia, al Corso di Alta Formazione per Amministratori giudiziari di aziende e beni sequestrati e confiscati (AFAG) – X edizione organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, presentando una relazione sul tema delle procedure di esecuzione dei provvedimenti nazionali di sequestro e confisca all’estero a seguito dell’entrata in vigore del Regolamento (UE) 2018/1805 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 novembre 2018, relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca.
Le procedure a me affidate, invero, sono state sempre trattate avendo riguardo all’inquadramento sistemico degli istituti di volta in volta rilevanti nell’ambito delle disposizioni speciali contenute negli strumenti di diritto internazionale pattizio ovvero nelle fonti di diritto dell’Unione Europea vigenti. Tanto è stato assicurato in conformità alla fondamentale norma contenuta nell’art. 696 c.p.p., che, nell’aprire il Titolo I del Libro XI del codice di procedura penale, nella sua versione riformata per effetto del decreto legislativo n. 149 del 3 ottobre 2017, che ha dato esecuzione alla legge delega n. 149 del 21 luglio 2016 di modifica del Libro XI del codice di procedura penale in materia di rapporti giurisdizionali con autorità straniere, ha stabilito il principio della prevalenza del diritto dell’Unione Europea (per i Paesi che ne sono membri) nonché del diritto internazionale di fonte pattizia o consuetudinaria (per tutti gli altri), assegnando dunque alla disciplina codicistica un carattere di sussidiarietà, peraltro superabile per effetto del potere del Ministero della Giustizia di non dare corso alle richieste che non presentino idonee garanzie di reciprocità.
Passerò dunque in rassegna i principali istituti oggetto di studio da parte mia nel corso del tirocinio, corredandoli di un breve descrizione della loro declinazione applicativa – depurata dei dati sensibili e personali rilevanti – in relazione ai casi aperti presso il Desk italiano dei quali è stata autorizzata la consultazione da parte mia.
2. Estradizione
L’estradizione costituisce la procedura volta alla consegna ad uno Stato estero di una persona per l’esecuzione di una sentenza straniera di condanna a pena detentiva o di altro provvedimento restrittivo della libertà personale. La stessa è attualmente disciplinata dagli artt. 697 e segg. c.p.p., ove non trovino applicazione, ai sensi dell’art. 696 c.p.p., le norme relative al mandato d’arresto europeo per gli Stati membri dell’Unione Europea o, per quelli che non ne fanno parte, le specifiche norme di diritto internazionale previste da fonte pattizia o, in subordine, consuetudinaria.
Nel corso del tirocinio sono state affrontate da me le principali innovazioni introdotte dalla legge di riforma del Titolo I del Libro XI del codice di procedura italiano al processo bifasico (in parte amministrativo, nelle fasi di apertura e chiusura, in parte giudiziario) della procedura di estradizione, consistite prevalentemente:
relativamente al procedimento di estradizione passiva:
- nel riconoscimento espresso del dovere, gravante sull’autorità giudiziaria al momento del primo contatto con l’estradando, di procedere al suo interrogatorio, alla presenza del difensore e, ove necessario, di un interprete (artt. 703, comma 2 e 717, comma 1 c.p.p.);
- nella previsione di una scansione temporale rigorosa (sebbene di natura ordinatoria) ed oggi ridotta degli adempimenti gravanti sull’autorità giurisdizionale e su quella ministeriale (artt.703, comma 1, 704 comma 2, 706, comma 1, 708, comma 1, 716, comma 2 c.p.p.);
- nella esplicitazione della possibilità per l’autorità giurisdizionale di richiedere direttamente all’autorità richiedente eventuale documentazione integrativa a corredo della domanda, incluso il provvedimento di commutazione della pena di morte che fosse stata inflitta al condannato di cui è richiesta la consegna (art. 700, comma 2, lett. b-bis c.p.p.), nonché dei criteri che quella ministeriale deve seguire per fissare un ordine di priorità nel caso di concorrenti richieste di estradizione (art. 697 comma 2 c.p.p.);
relativamente al procedimento di estradizione attiva:
- nella previsione di una causa di sospensione del processo avviato in Italia in relazione ai reati per i quali non possa farsi luogo all’estradizione in attuazione del principio di specialità (art. 721, comma 2 c.p.p.), salvo il compimento di atti urgenti, l’assunzione di prove non rinviabili nonché di quelle che possano determinare il proscioglimento per fatti anteriori alla consegna (art. 721, comma 4 c.p.p.);
- nella previsione dei casi in cui non opera il principio di specialità, per effetto del consenso all’estensione da parte dello Stato richiesto o dell’estradando, espressa in forma esplicita o per facta concludentia (art. 721, comma 5 c.p.p.);
- nel computo del periodo di detenzione sofferta all’estero ai fini della determinazione del termine di fase e del termine massimo di custodia cautelare (art. 722 c.p.p.) e della riparazione per ingiusta detenzione (art. 722 bis c.p.p.).
Il mio coinvolgimento nella gestione di un caso relativo alla richiesta di estradizione avanzata da parte dell’autorità giudiziaria statunitense di un cittadino ungherese detenuto presso l’autorità giudiziaria italiana ha costituito l’occasione per approfondire il principio espresso nella sentenza resa il 6 settembre 2016 dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso Petruhhin, C-182/15 (ECLI:EU:C:2016:630), in forza del quale “quando a uno Stato membro nel quale si sia recato un cittadino dell’Unione avente la cittadinanza di un altro Stato membro viene presentata una domanda di estradizione da parte di uno Stato terzo con il quale il primo Stato membro ha concluso un accordo di estradizione, esso è tenuto a informare lo Stato membro del quale il predetto cittadino ha la cittadinanza e, se del caso, su domanda di quest’ultimo Stato membro, a consegnargli tale cittadino, conformemente alle disposizioni della decisione quadro 2002/584, purché detto Stato membro sia competente, in forza del suo diritto nazionale, a perseguire tale persona per fatti commessi fuori dal suo territorio nazionale. Nell’ipotesi in cui a uno Stato membro venga presentata una domanda di uno Stato terzo diretta a ottenere l’estradizione di un cittadino di un altro Stato membro, il primo Stato membro deve verificare che l’estradizione non recherà pregiudizio ai diritti di cui all’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.”
3. Mandato d’arresto europeo
L’assegnazione a me dello studio di un caso relativo all’esecuzione in Italia di un mandato d’arresto europeo emesso dall’autorità giudiziaria tedesca, concorrente con quello – successivo e dunque recessivo – emesso dall’autorità giudiziaria maltese, ha rappresentato un’utile occasione per approfondire il menzionato istituto, che consiste nella decisione emessa dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea in vista dell’arresto e della consegna da parte di altro Stato membro di una persona, al fine dell’esercizio nei suoi confronti di azioni giudiziarie in materia penale o dell’esecuzione di una pena privativa della libertà personale.
Tale istituto, disciplinato dalla legge del 22 aprile 2005, n. 69 recante disposizioni per conformare il diritto interno alla Decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002 relativa al mandato di arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, è sintomatico del mutual trust esistente fra gli Stati membri dell’Unione Europea, nella quale è ormai assicurata la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi, dei capitali, ma anche dei provvedimenti giudiziari validamente emessi dalle autorità nazionali. Infatti il MAE si segnala in quanto, a differenza dell’estradizione, la sua emissione ed esecuzione sono riservate all’autorità giudiziaria, residuando al Ministro della Giustizia solo una funzione amministrativa di ricezione dei MAE da eseguire in Italia e di trasmissione (previa opportuna traduzione) dei MAE emessi dai giudici italiani.
L’approfondimento di un caso concernente la richiesta di consegna all’autorità giudiziaria italiana, in forza di apposito titolo cautelare custodiale, di un indagato residente nel Regno Unito mi ha consentito di approfondire il relativo procedimento applicabile a seguito della fuoriuscita di tale ultimo Stato dall’Unione Europea. Venuta meno l’operatività del MAE, nel caso di specie trova infatti applicazione il titolo VII del Trade and Cooperation Ageement che regola i rapporti fra l’Unione Europea e la Gran Bretagna a seguito della Brexit.
L’art. 596 del TCA in particolare prevede l’istituto della “consegna” o surrender, destinato a sostituire l’analogo istituto del mandato d’arresto europeo, favorendo un sistema agevolato di estradizione tra gli Stati membri dell’Unione ed il Regno Unito, che prevede infatti limitate cause di rifiuto (analoghe a quelle previste a fronte di un MAE) ed una procedura limitata nel tempo. Secondo i termini dell’Accordo inoltre anche la nuova procedura di surrender è regolata dal principio di proporzionalità, in quanto la consegna deve essere necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti dell’indagato/imputato e della vittima, considerata la gravità dell’atto e la probabile pena che verrebbe inflitta nonché la possibilità che il soggetto da consegnare possa affrontare lunghi periodi di detenzione preventiva. L'Accordo prevede inoltre che gli Stati prendano in considerazione la possibilità di intraprendere azioni meno coercitive rispetto al processo di consegna, come il rinvio del caso alle proprie autorità giudiziarie, ove opportuno.
In base all'Accordo, poi, può essere emessa una richiesta di consegna in relazione a qualsiasi reato che comporti una pena detentiva per un periodo massimo di almeno dodici mesi o, nel caso in cui sia stata emessa una sentenza o una misura coercitiva, di almeno quattro mesi. La consegna, come il MAE, è dunque soggetta al concetto di “doppia incriminazione”, secondo cui il reato per cui è attivata la procedura debba essere perseguito in entrambe le giurisdizioni. Tuttavia l’Accordo comprende un elenco di reati particolarmente gravi per i quali la doppia incriminazione è presunta, analogo a quello previsto per il MAE.
Una delle caratteristiche principali del sistema di consegna è poi l’eccezione di nazionalità, in base a cui gli Stati possono scegliere di rifiutare di consegnare i propri cittadini o di farlo solo in determinate circostanze. L'Accordo prevede tuttavia una disposizione che impone a qualsiasi Stato membro che rifiuti l'estradizione di prendere in considerazione l'avvio di un procedimento contro un proprio cittadino che sia commisurato all’oggetto della procedura di consegna tenendo conto del parere dello Stato emittente.
L’Accordo prevede altresì un lungo elenco di altri motivi in base ai quali uno Stato può rifiutarsi di eseguire un mandato di consegna, che possono essere applicabili in particolari circostanze, come allorché il fatto per cui si procede sia già perseguito dallo Stato di esecuzione, o nel caso in cui vi sia motivo di ritenere che il mandato sia stato emesso con finalità persecutorie in relazione a razza, religione o orientamento sessuale.
In sostanza dunque occorre seguire una procedura mutuata dalla disciplina del MAE e basata sui seguenti passaggi:
- la richiesta di consegna deve essere trasmessa all’autorità del Regno Unito (normalmente in formato elettronico);
- l’autorità britannica competente emette un certificato all’esito della verifica del test di proporzionalità;
- segue l’arresto da parte delle autorità britanniche;
- si insatura così un subprocedimento finalizzato alla concessione o meno del trasferimento, che prevede l’audizione del consegnando volta ad accertare se lo stesso acconsenta al trasferimento ed, in caso contrario, la valutazione di competenza da parte del giudice nel termine di 21 giorni dall’arresto;
- all’esito la consegna sarà effettuata nel termine di 10 giorni dall’emissione dell’ordine.
4. Ordine europeo di indagine
L’assegnazione a fini di studio o di diretta trattazione di numerose procedure aventi ad oggetto la richiesta di facilitazione da parte del Desk italiano di Eurojust alla trasmissione di ordini europei di indagine provenienti dall’autorità giudiziaria italiana verso l’autorità giudiziaria straniera o viceversa ha costituito per me l’occasione per approfondire il citato istituto, espressione del principio del mutuo riconoscimento all’interno dell’Unione europea.
In forza di tale principio, infatti, per la prima volta enunciato nella sentenza della Corte di Giustizia, Cassis de Dijon, del 20 febbraio 1979, C-120/78, i beni ed i servizi prodotti all’interno di qualunque Paese dell’Unione Europea possano circolare liberamente in ciascuno Stato membro, costituendo l’Unione un unico spazio interno di libertà, sicurezza e giustizia. Tale principio ha dunque trovato negli anni applicazione anche al settore giustizia, nel quale si è progressivamente ritenuto che esso dovesse riferirsi anche ai provvedimenti giurisdizionali di natura decisoria (si veda la già menzionata Decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri ad esempio per il tramite del mandato d’arresto europeo) e ordinatoria in relazione all’acquisizione di atti di indagine e prove.
Dunque tale principio è stato esteso anche al settore della cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale, nel quale si è affermata, in virtù della Direttiva 2014/41/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014 relativa all'ordine europeo di indagine penale, l'istituzione di un sistema di acquisizione delle prove nelle fattispecie aventi dimensione transfrontaliera fondato sulla emissione di uno strumento – appunto l’ordine di indagine europeo – destinato a circolare liberamente fra i Paesi dell’Unione.
Esso può definirsi (art. 1 della Direttiva) come la decisione giudiziaria emessa o convalidata da un’autorità competente di uno Stato membro o Stato di emissione per compiere uno o più atti di indagine specifici in un altro Stato membro o Stato di esecuzione al fine di acquisire prove ovvero per ottenere prove già in possesso delle autorità competenti di quest’ultimo. Sullo Stato ricevente grava infatti un obbligo di esecuzione come se l’ordine fosse stato emesso dalle proprie autorità, salvi i casi di rifiuto di esecuzione giustificato:
1. da ragioni meramente formali (in realtà riconducibili alla sola incompetenza ai sensi dell’art. 9, comma 3 della direttiva, in forza del quale lo Stato di esecuzione restituisce l’OEI non emesso dalle autorità a ciò legittimate. In tutti gli altri casi in cui non siano rispettate le formalità previste dalla direttiva è consigliabile, ai sensi dell’art. 9, comma 6, il ricorso ad apposite consultazioni con qualsiasi mezzo appropriato finalizzate a dare la migliore esecuzione all’ordine);
2. da ragioni sostanziali, riferibili alle cause facoltative ma tassative di diniego di esecuzione previste dall’art. 11, rispetto alle quali tuttavia permane l’obbligo dello Stato ricevente di consultare con qualsiasi mezzo appropriato l'autorità di emissione a cui richiedere, se del caso, qualsiasi informazione necessaria a prevenire il proprio rifiuto.
Il ricorso a consultazioni fra le autorità coinvolte nell’emissione dell’OIE è raccomandato anche per il caso in cui non siano rispettati i principi di necessità, proporzionalità e non aggravamento della procedura per l’acquisizione della prova all’estero che presiedono l’emissione dell’ordine. Tali principi, infatti, pur se previsti quali condizione dell’emissione dell’OIE dall’art. 6, non integrano, in caso di loro violazione, causa legittima di diniego di esecuzione, limitandosi a dispiegare efficacia quale possibili cause di ritiro dell’ordine da parte dello Stato di emissione.
Vige dunque nell’attuale ordinamento unionale un principio di conservazione dell’efficacia dell’OIE, che si manifesta anche nella previsione, introdotta dall’art. 10, che, nel caso in cui sia richiesto un atto di indagine non disponibile o non previsto nello Stato di esecuzione, le autorità di quest’ultime debbano ricorrere all’atto di indagine alternativo previsto dal loro ordinamento interno, potendo solo, in caso di assoluta indisponibilità, limitarsi ad informare lo Stato di esecuzione che non è stato possibile fornire l’assistenza richiesta.
La peculiare efficacia dell’OIE all’interno dell’Unione Europea, dunque, sorretta dall’applicazione del principio del mutuo riconoscimento, si giustifica con la circostanza che esso possa essere emesso solo in relazione alle più gravi fattispecie penali, costituite da reati punibili nello Stato di emissione con una pena detentiva o una misura privativa della libertà personale della durata massima non inferiore a tre anni ovvero inclusi nella apposita lista contenuta nella Sezione G.3 dell’Allegato A alla direttiva, che costituisce l’esemplare standardizzato di decreto da utilizzare per la redazione di un OIE.
Tale precisazione peraltro si riferisce non soltanto al caso in cui l’ordine venga emesso nell’ambito di un procedimento penale avente ad oggetto l’accertamento di un reato incluso fra quelli sin qui menzionati; esso infatti, ai sensi dell’art. 4, lett. c, può essere anche emesso nell’ambito di procedimenti avviati in relazione all’accertamento di tali reati, quali i procedimenti di prevenzione domestici che presuppongono la consumazione di un reato, in disparte il suo accertamento.
Dunque i casi in cui l’OIE non possa essere emesso appaiono limitati ai seguenti, che tuttavia, attesa la vastità della casistica, appaiono avere carattere esemplificativo e non tassativo:
1. emissione da o verso uno Stato che non abbia recepito la direttiva (o che ne sia uscito, come il Regno Unito);
2. emissione in relazione a reati non ricadenti nella Sezione G.3 dell’Allegato A alla direttiva;
3. emissione finalizzata all’esecuzione dei seguenti provvedimenti:
- notifica degli atti del procedimento penale: essa rimane disciplinata dall’art. 5 della già richiamata Convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea, firmata a Bruxelles il 29 maggio 2000, eseguita in Italia con decreto legislativo 5 aprile 2017, n. 52. L’OIE potrà essere utilizzato solo per le notifiche attinenti all’atto di indagine da compiere all’estero e funzionali alla sua esecuzione;
- scambio spontaneo di informazioni, che resta disciplinato dall’art. 7 della medesima Convenzione;
- sequestri finalizzati alla confisca e provvedimenti di confisca, disciplinati dal Regolamento (UE) 2018/1805 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 novembre 2018 relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca;
- istituzione delle squadre investigative comuni per l’acquisizione di prove nell’ambito delle stesse che trovano regolamentazione specifica nel decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 34 attuativo della Decisione quadro 2002/465/GAI;
- scambio di informazioni estratte dal casellario giudiziale, rispetto al quale continuano a trovare applicazione i decreti legislativi 12 maggio 2016 n. 74 e n. 75, attuativi della Decisione Quadro 2009/315/GAI, relativa all’organizzazione e al contenuto degli scambi fra gli Stati membri di informazioni estratte dal casellario giudiziale;
- denuncia di trasferimento dei procedimenti penali, di cui all’art. 21 della Convenzione di assistenza giudiziaria in materia penale del Consiglio d’Europa, firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959.
Una disciplina specifica è infine prevista dalla direttiva per l’esecuzione degli OIE finalizzati all’esecuzione di:
- trasferimento temporaneo nello Stato di emissione di persone detenute ai fini di un atto d'indagine;
- audizione mediante videoconferenza o altra trasmissione audiovisiva;
- audizione mediante teleconferenza;
- informazioni relative a conti bancari e altri conti finanziari;
- atti di indagine che implicano l'acquisizione di elementi di prova in tempo reale, in modo continuo e per un periodo determinato;
- operazioni di infiltrazione;
mentre una peculiare disciplina è prevista per l’emissione degli OIE avente ad oggetto l’esecuzione di operazioni di intercettazione.
La direttiva ha trovato attuazione in Italia con il decreto legislativo 21 giugno 2017, n. 108 recante norme di attuazione della direttiva 2014/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 aprile 2014, relativa all'ordine europeo di indagine penale, che ha opportunamente distinto la procedura passiva di ricezione dell’OIE trasmesso da altra autorità di emissione da quella attiva di esecuzione e trasmissione di un OIE ad altro Stato membro.
Con riferimento alla procedura passiva, il decreto ha individuato nel Procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto nel quale devono essere compiuti gli atti richiesti (o del distretto nel quale deve compiersi il maggior numero di atti richiesti, o che ha eseguito ordini di cui il successivo costituisca completamento ed integrazione) l’autorità deputata al riconoscimento, con decreto motivato, dell’ordine di indagine nel termine di trenta giorni dalla sua ricezione o entro il diverso termine indicato dall’autorità di emissione, e comunque non oltre sessanta giorni (mentre un termine di cinque giorni è imposto per la trasmissione della ricevuta di ricezione dell’ordine). La trasmissione della copia dell’OIE al Ministero della Giustizia, prevista dal decreto, non ha dunque finalità esecutive ma di mera verifica statistica del flusso di richieste provenienti dall’estero.
Nell’intento di contemperare le esigenze del rispetto della riservatezza delle attività richieste con quelle di coordinamento interno in materie particolarmente sensibili il decreto ha altresì previsto che della ricezione dell’OIE il Procuratore della Repubblica informi il Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo ai fini del coordinamento investigativo in caso di indagini relative ai delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale.
Con riferimento alla procedura attiva, per la quale restano salvi gli obblighi di coordinamento con il Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, il decreto ha inteso chiarire:
- il contenuto dell’OIE (artt. 30 e 31), che, fra le altre cose, impone una sintetica descrizione del fatto per cui si procede e dei soggetti a carico dei quali si procede, non già al fine di consentire all’autorità di esecuzione una (inammissibile) delibazione sulla richiesta avanzata (incompatibile con l’accoglimento del principio del mutuo riconoscimento) bensì al fine di contestualizzare meglio l’attività di indagine da svolgere, a cui sono ammessi a partecipare, ove ne abbiano fatto richiesta, le autorità dello Stato di emissione;
- le modalità della sua trasmissione idonee a garantire l’autenticità della provenienza, anche con l'ausilio dell’autorità centrale se necessario, rappresentata dal Ministero. Tuttavia l’autorità di emissione può ricorrere anche al sistema di telecomunicazione della Rete Giudiziaria Europea, alla cui rete di Punti di Contatto (accessibile al sito https://www.ejn-crimjust.europa.eu/ejn2021/Home/EN ) è possibile chiedere assistenza anche per l’individuazione dell’autorità di esecuzione. Sul sito della Rete Giudiziaria Europea sono altresì disponibili i modelli (in formato editabile) di Allegato A, B, e C, contenenti rispettivamente l’ordine di indagine, la conferma di ricezione e la notifica di intercettazioni non necessitanti di assistenza tecnica.
Attività di facilitazione alla trasmissione e assistenza all’esecuzione è rimessa anche ad Eurojust, che ha messo a disposizione sul proprio sito una Nota congiunta di Eurojust e della Rete giudiziaria europea sull'applicazione pratica dell'ordine europeo d'indagine.
Particolarmente rilevante nella prassi è infine la previsione contenuta nell’art. 32, comma 4 del decreto, che impone la trasmissione dell’OIE nella lingua ufficiale dello Stato di esecuzione o nella lingua appositamente indicata dall’autorità di esecuzione. La disposizione deve essere interpretata nel senso che debba essere tradotta nella lingua dello Stato di esecuzione non solo la lettera di trasmissione, bensì l’intero ordine. Esso dunque andrà individuato in quello disponibile nella lingua del Paese di esecuzione fra quelli previsti nell’apposita sezione del sito della Rete Giudiziaria Europea, del quale sarà poi cura dell’autorità di emissione riempire – sempre nella lingua dello Stato di esecuzione – le parti motive, con l’indicazione, in particolare, della prova richiesta e delle specifiche modalità della sua esecuzione.
Il rispetto delle formalità previste dal legislatore consentirà dunque la piena utilizzabilità degli atti di indagine e delle prove acquisite all’estero in virtù di un OIE redatto conformemente al decreto legislativo, ai sensi dell’art. 36 del medesimo.
Merita evidenziare come, avendo assistito gli assegnatari nella gestione di procedure aperte presso Eurojust per la facilitazione nella trasmissione ovvero per la esecuzione di OIE, io stessa sono stata incentivata a redigerne alcuni, in qualità di Pubblico Ministero nazionale, finalizzati alla richiesta di acquisizione di chat criptate attraverso il sistema SkyECC, che sono stati trasmessi per l’esecuzione alla competente autorità giudiziaria francese per il tramite di Eurojust, come da accordo assunto in seno all’Agenzia stessa e comunicato a tutti gli Uffici di Procura con apposita nota del Membro Nazionale. A tal proposito nel corso del tirocinio ho anche approfondito la tematica dell’utilizzabilità delle prove in tal modo assunte, anche grazie alla circolazione della giurisprudenza di merito e di legittimità che il Desk italiano è impegnato a raccogliere con l’ausilio e la collaborazione delle autorità giudiziarie nazionali, alla quale è pure impegnato a riversare i frutti di tale preziosa opera di collazione e ragionato riordino.
Inoltre nel corso del tirocinio ho avuto modo di affrontare, sia in virtù della partecipazione ad un coordination meeting involgente un ufficio delegato della Procura Europea che in forza della assegnazione di una procedura promossa da altro Procuratore Delegato Europeo, la questione relativa alla possibilità di emissione da parte di tali Uffici di un ordine di indagine verso Stati europei rispettivamente aderenti e non aderenti all’istituzione dell’EPPO.
In tale ultimo caso la trasmissione di un EIO ai fini dell’esecuzione, per il tramite di Eurojust, da parte del Procuratore Europeo Delegato verso uno Stato non aderente alla cooperazione rafforzata relativa all’istituzione di EPPO, ha imposto di prendere in considerazione la nota del Consiglio dell’Unione Europea relativa alle notifiche di cui all’art. 105, comma 3 del Regolamento UE 2017/1939 istitutivo dell’EPPO, in forza delle quali l’Italia ha notificato EPPO quale autorità deputata all’applicazione, nei confronti dei Paesi non aderenti alla cooperazione rafforzata, della Direttiva 2014/41/UE in materia di ordine di indagine europeo, prevedendo dunque tale strumento normativo come applicabile pure ai rapporti fra EPPO ed i Paesi non aderenti alla cooperazione rafforzata, in seno alla quale è stata istituita la Procura Europea.
Analogamente, la medesima questione è stata affrontata in occasione dello studio di una procedura, prevenuta in occasione del turno estivo, trasmessa dall’Ufficio di un Procuratore Delegato italiano, avente ad oggetto la richiesta di facilitazione alla trasmissione di una rogatoria verso un Paese terzo. Anche in questo caso, infatti, è stato osservato come, ai sensi dell’art. 104, comma 4 del Regolamento UE 2017/1939, è stata rilasciata dall’Italia la dichiarazione concernente la notifica di EPPO quale autorità competente in relazione alla Convenzione europea di mutua assistenza in materia penale firmata a Strasburgo il 1959, di cui anche lo Stato richiesto è parte. In particolare, le richieste trasmesse o indirizzate all’EPPO sono interpretate come riferibili allo Stato membro UE di appartenenza del PED. Conseguentemente, per la richiesta di assistenza giudiziaria verso il Paese terzo in questione è stata correttamente utilizzata come base legale la Convenzione di amicizia e buon vicinato vigente fra l’Italia e lo Stato terzo.
5. Sequestro e confisca all’estero
L’assegnazione a me di un caso avente ad oggetto la facilitazione alla trasmissione di un certificato di congelamento emesso dall’autorità giudiziaria tedesca, avente ad oggetto il sequestro di un conto corrente e di un immobile localizzati in Italia, ha costituito l’occasione per approfondire l’istituto dell’esecuzione sul territorio di uno Stato membro dell’Unione Europea di un provvedimento – cautelare o definitivo, basato su una precedente statuizione di responsabilità o non conviction based – a carattere ablatorio emesso dall’autorità giudiziaria di un altro Stato membro.
Viene in tal caso in rilievo il Regolamento (UE) 2018/1805 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 novembre 2018 relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca, applicabile a tutti i Paesi dell’Unione Europea ad accezione della Danimarca e dell’Irlanda (a cui continuano ad applicarsi la Decisione quadro 2003/577/GAI del Consiglio del 22 luglio 2003 relativa all'esecuzione nell’Unione Europea dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio e la Decisione quadro 2006/783/GAI del Consiglio del 6 ottobre 2006 relativa all'applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca). Tale Regolamento, infatti, situandosi nel solco del già citato mutual trust fra le giurisdizioni dell’Unione Europea, ha previsto il riconoscimento reciproco da parte di tutti gli Stati membri (ad eccezione dei due soli richiamati) dei provvedimenti di congelamento (da intendersi quali decreti di sequestro preventivo, essendo il sequestro con finalità probatoria disciplinato dalla Decisione quadro 2003/577/GAI) e di confisca validamente emessi dalle rispettive autorità nazionali “nel quadro di un procedimento in materia penale” e dunque non solo nell’ambito di procedimenti finalizzati all’accertamento giudiziario della responsabilità penale per specifici fatti criminosi.
Tale ultima specificazione, espressamente voluta dall’Italia nel corso delle negoziazioni per l’approvazione finale del testo, consente oggi il riconoscimento all’interno dell’Unione Europea dei provvedimenti di sequestro e confisca emessi nell’ambito dei procedimenti di prevenzione dal giudice italiano, che, invero, pur non essendo volti all’accertamento della responsabilità penale, presuppongono una modalità illecita di arricchimento che l’ordinamento non può tollerare in quanto riconducibile (salvo onere della prova contraria) ad una accumulazione illecita di ricchezza discendente da attività delittuose.
Onere dell’autorità richiedente l’esecuzione del provvedimento ablatorio all’estero sarà dunque la compilazione di un certificato di congelamento o confisca da trasmettere all’autorità centrale designata, da individuarsi, in Italia, nel Ministero della Giustizia, che tuttavia, in forza di apposita Intesa Operativa all’esito dell’incontro tra la Direzione Generale per la Cooperazione Internazionale del Ministero della Giustizia ed il Desk italiano di Eurojust ai fini dell’applicazione del Regolamento EU 1805/18, può avvalersi di quest’ultima Agenzia quale snodo di ricezione dei certificati ove la loro esecuzione sia connessa all’esecuzione di misure cautelari personali o di attività di indagine quali perquisizioni, audizione di testimoni, intercettazioni.
Merita inoltre di essere segnalata sul tema la Circolare in tema di attuazione del Regolamento (UE) 2018/1805 relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e confisca del Ministero della Giustizia, che, nel ricostruire il contenuto del Regolamento, ne ha chiarito le modalità di esecuzione in Italia, costituendo un agevole strumento di consultazione per la soluzione delle diverse questioni applicative sorte in relazione al funzionamento pratico del nuovo istituto.
6. Conflitto di giurisdizioni
Nel corso del tirocinio, avendo affiancato il collega assegnatario di una procedura relativa ad un grave delitto di sangue perseguito contemporaneamente dalle autorità dello Stato di origine della vittima e da quelle dello Stato ove il fatto è avvenuto, in relazione al quale ha anche avuto modo di partecipare ad un coordination meeting alla presenza di rappresentanti della Procura Generale presso la Corte d’Appello di Roma, ha avuto l’opportunità di affrontare la complessa questione del conflitto di giurisdizioni, che origina dal principio del divieto di bis in idem stabilito dall’art. 54 dell’Accordo di Schengen, in forza del quale “una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un’altra Parte contraente a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge dello Stato contraente di condanna, non possa più essere eseguita.”
I contenuti dell’Accordo di Schengen costituiscono infatti a pieno titolo diritto dell’Unione Europea a seguito del Protocollo sull’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione Europea, allegato al Trattato di Amsterdam.
Il principio, che impone di scongiurare il verificarsi di una doppia incriminazione e di una doppia condanna per il medesimo fatto di reato, è posto a salvaguardia della libertà dell’individuo dinanzi all’autorità della res iudicata all’esito di un giusto processo svoltosi secondo la legge (fair trial, presidiato dal combinato disposto degli artt. 4 del Protocollo 7 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, 50 della carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e 6, comma 2 del Trattato sull’Unione Europea) nonché a garanzia del principio di unitarietà dell’ordinamento unionale avverso il pericolo di giudicati confliggenti (secondo il dovere di loyal cooperation imposto dall’art. 4, comma 3 del Trattato dell’Unione Europea ai singoli Stati Membri).
L’importanza del principio dunque è tale che l’Unione Europea ha inteso assicurarne non solo la protezione ma anche la prevenzione attraverso la predisposizione di adeguati strumenti volti a consentire una gestione dei procedimenti suscettibili di esitare in una doppia condanna per i medesimi fatti tale da evitare questo rischio.
Si definiscono dunque procedimenti paralleli quelli che, versando nella fase procedimentale o in quella processuale, siano condotti in due o più Stati Membri in relazione ai medesimi fatti nei quali sia implicata la medesima persona (art. 3, lett. a della Decisione Quadro 2009/948/GAI del Consiglio del 30 novembre 2009 sulla prevenzione e la risoluzione dei conflitti relativi all’esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali).
L’eventualità che essi possano sfociare in un bis in idem è dunque astrattamente elevata, ma è di fatto preclusa dalla previsione del ricorso agli strumenti di prevenzione e risoluzione indicati dalla menzionata Decisione Quadro 2009/948/GAI del Consiglio del 30 novembre 2009, sintetizzabili nell’auspicio, espresso dal suo quarto considerando, che abbiano luogo “consultazioni dirette tra le autorità competenti degli Stati membri allo scopo di raggiungere un consenso su una soluzione efficace volta ad evitare le conseguenze negative derivanti da procedimenti penali paralleli ed evitare perdite di tempo e risorse delle autorità competenti interessate.” Obiettivo delle consultazioni dovrebbe infatti essere la concentrazione dei procedimenti penali in un unico Stato membro, ad esempio mediante il trasferimento del procedimento penale dinanzi alla giurisdizione dello Stato che, in virtù degli enunciati criteri, come di volta in volta declinati, appaia prevalente.
Ove tale consenso non venga raggiunto dagli Stati interessati, potrebbe farsi ricorso ad Eurojust, che, ai sensi dell’art. 4 comma 4 del Regolamento (UE) 2018/1727 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 novembre 2018, che istituisce l’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione giudiziaria penale (Eurojust) e che sostituisce e abroga la decisione 2002/187/GAI del Consiglio, in caso di disaccordo fra le parti coinvolte, può formulare un parere non vincolante circa lo Stato presso il quale debba concentrarsi la giurisdizione.
La circostanza che l’individuazione della giurisdizione prevalente sia raccomandata da Eurojust, opportunamente informato ai sensi dell’art. 21, comma 6, lett. a del suo Regolamento istitutivo, in virtù del quale le autorità nazionali competenti informano i rispettivi membri nazionali in ordine ai casi in cui sono sorti o possono sorgere conflitti di giurisdizione, trova giustificazione nel principio, espresso all’undicesimo considerando della Decisione quadro, secondo cui nessuno Stato membro dovrebbe essere obbligato a rinunciare o a esercitare la competenza giurisdizionale contro la sua volontà. Finché non sia raggiunto un consenso sulla concentrazione dei procedimenti penali, le autorità competenti degli Stati membri dovrebbero poter proseguire un procedimento penale per qualsiasi reato che rientri nella loro giurisdizione nazionale, in osservanza del principio di obbligatorietà dell’azione penale e del divieto di denegata giustizia.
Nondimeno, esse dovrebbero sempre osservare, non appena abbiano fondato motivo di ritenere che si stia conducendo un procedimento penale parallelo in un altro Stato membro per gli stessi fatti in cui è implicata la stessa persona e che potrebbe dar luogo ad una pronuncia definitiva in due o più Stati membri, l’obbligo, sancito dall’art. 5 della Decisione quadro, di prendere contatti con l’autorità competente dell’altro Stato membro, a cui farebbe da contraltare l’obbligo, per quest’ultima, di rispondere alla richiesta presentata, ai sensi dell’art. 6. Il contatto diretto tra le autorità individuate dai singoli Stati membri, in sede di esecuzione, come competenti a condurre le consultazioni finalizzate alla prevenzione e risoluzione dei conflitti di giurisdizione dovrebbe essere il principio informatore della cooperazione istituita dalla Decisione quadro, che assiste gli Stati membri nell’individuazione dei criteri a cui tali autorità dovrebbero ispirarsi.
Essi sono infatti tratti dagli orientamenti pubblicati nella Relazione annuale 2003 di Eurojust ed elaborati ad uso degli operatori del settore mediante la pubblicazione di apposite Linee Guida per decidere quale giurisdizione dovrebbe procedere, come da ultimo aggiornate.
Fra i criteri suggeriti, si segnalano quello del luogo in cui si è verificato prevalentemente il fatto costituente reato, il luogo in cui si è subita la maggior parte dei danni, il luogo in cui si trova l’indagato o l’imputato e la possibilità di assicurare la sua consegna o estradizione in altre giurisdizioni, la cittadinanza o la residenza dell’indagato o dell’imputato, gli interessi rilevanti delle vittime e dei testimoni, l’ammissibilità degli elementi probatori o possibili ritardi.
La decisione quadro ha trovato attuazione in Italia con il decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 29, che in realtà, lungi dal limitarsi a recepire nell’ordinamento italiano una fonte di diritto dell’Unione Europea, ha contribuito all’attuazione del principio del mutuo riconoscimento nel settore della cooperazione giudiziaria penale. Esso merita infatti di essere letto alla luce dell’ulteriore decreto legislativo 7 settembre 2010 n. 161, che, nel dare attuazione alla Decisione quadro 2008/909/GAI, relativa al reciproco riconoscimento delle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale ai fini della loro esecuzione dell’Unione Europea, ha consentito di superare il presupposto di cui all’art. 737 c.p.p. dell’impossibilità del riconoscimento della sentenza straniera quando risulti un procedimento in corso in Italia per gli stessi fatti contro la stessa persona. Il decreto n. 29/2016 ha inteso infatti risolvere i casi di procedimenti paralleli mediante una soluzione quanto più concordata della litispendenza internazionale.
Essa si basa dunque sui seguenti principi, rispetto ai quali vengono di volta in volta in esame distinte autorità competenti (autorità procedente o Procura Generale presso la Corte di Appello):
1. obbligo di informazione: l’autorità giudiziaria italiana procedente che abbia fondato motivo di ritenere la pendenza, presso un altro Stato membro o presso altro Stato individuato mediante il ricorso alla Rete Giudiziaria Europea, di un procedimento relativo ai medesimi fatti ed alle medesime persone è tenta a prendere contatti in forma scritta con l’autorità straniera procedente, volti al duplice obiettivo di:
- riscontrare l’effettiva pendenza e, in caso affermativo;
- avviare le consultazioni finalizzate all’eventuale concentrazione dei procedimenti penali in un unico Stato membro.
L’autorità contattata è gravata dall’obbligo di dare risposta entro il termine o senza ritardo, in ogni caso con urgenza qualora l’indagato o imputato per cui si procede siano detenuti;
2. obbligo di risposta: l’autorità contattata è tenuta a:
- dare risposta;
- esprimersi entro il termine o senza ritardo, in ogni caso con urgenza qualora l’indagato o imputato per cui si procede siano detenuti.
- fornire tutte le informazioni necessarie a individuare l’oggetto e lo stato del procedimento;
3. obbligo di consultazioni: accertata l’esistenza di procedimenti paralleli, l’autorità giudiziaria contattante prosegue il procedimento, che non è soggetto a sospensione se non relativamente alla pronuncia della sentenza. Essa, tuttavia, rimette la questione della litispendenza internazionale al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello nel cui distretto ha sede la prima (o l’autorità contattata, nel caso in cui l’autorità giudiziaria italiana sia stata investita di una richiesta di informazioni dall’autorità di altro Stato membro). A sua volta il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello informa il Ministero della Giustizia, che entro dieci giorni può opporsi alla concentrazione dei procedimenti qualora essa violi la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato. In caso contrario il Procuratore generale può proseguire le consultazioni con la corrispondente autorità straniera, ispirandosi ai criteri già enunciati ed eventualmente scambiando con quest’ultima informazioni sugli atti rilevanti compiuti nel corso del processo, a meno che ciò comprometta interessi nazionali essenziali in materia di sicurezza o la sicurezza di una persona;
4. facoltà di cooperazione con Eurojust: sebbene, ai sensi del citato Regolamento istitutivo, le autorità nazionali siano obbligate a dare comunicazione ai rispettivi Membri Nazionali presso Eurojust ogniqualvolta possano insorgere conflitti di giurisdizione, esse in ogni momento possono – ma non sono obbligate a – sottoporre la questione all’Agenzia.
All’esito della procedura le parti possono convenire la concentrazione dei procedimenti, che verrà comunicata al Ministro della Giustizia e determinerà la traslatio iudicii verso il foro ritenuto più appropriato, le cui autorità dovranno computare l’eventuale periodo di custodia già patito ai fini del calcolo dei termini di durata massima della custodia cautelare nonché dell’eventuale pena espiata senza titolo e potranno utilizzare gli atti probatori eventualmente già compiuti, se assunti non in dispregio dei divieti interni. La concentrazione dei procedimenti presso altra autorità determinerà la sopravvenienza di una causa di improcedibilità del procedimento trasferito all’estero.
Nel caso in cui non venga raggiunto un accordo, ciascun processo o procedimento seguirà il suo corso, almeno sino alla pronuncia di una sentenza passata in giudicato in relazione al medesimo fatto (come definito da copiosa giurisprudenza, costituzionale – ad esempio Corte Costit. n. 102/2016 – e dell’Unione Europea – ad esempio CGUE, Grande Sezione, 29 giugno 2016, Kossowski, C-486/149) che obbligherà il giudice a pronunciare sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento ai sensi dell’art. 649 c.p.p..
7. Reati informatici e/o commessi con mezzi informatici
Tra le attività di carattere compilativo da me svolte nel corso del tirocinio di essere segnalato quello svolto in relazione alla redazione di una sintesi, ad uso degli Uffici di Procura del territorio nazionale, degli esiti raggiunti dall’EJCN (European Judicial Cybercrime Network), che ha lanciato nella primavera del 2022 la settima edizione del Cybercrime Judicial Monitor (in seguito CJM), la pubblicazione annuale destinata a magistrati e forze dell’ordine impegnati nella lotta ai reati informatici e ai reati commessi con mezzi informatici.
Il documento consta di quattro sezioni, di cui la prima dedicata alla rassegna delle principali novità legislative registrate nel 2021 in materia di criminalità informatica e prova digitale.
In proposito merita segnalare l’adozione, da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, del Secondo Protocollo Addizionale alla Convenzione di Budapest sulla Criminalità Informatica del 23.11.2021, che è stato sottoscritto il 17.11.2021 ed aperto alla firma degli Stati dal 12.5.2022. Il Protocollo costituirà, per gli Stati che lo ratificheranno, la base legale sulla quale fondare richieste di assistenza volte all’acquisizione dei dati di registrazione direttamente verso i service provider localizzati presso ordinamenti stranieri nonché forme di cooperazione dirette da Stato a Stato, specie a fronte di situazioni di emergenza. Esso, inoltre, estenderà specificamente alle indagini in materia di criminalità informatica il ricorso a strumenti di cooperazione quali la videoconferenza e le squadre investigative comuni ed è dunque auspicabile che, nell’attuazione di tali strategie, le autorità nazionali possano avvalersi della lunga e trasversale esperienza maturata nella gestione di tali strumenti di cooperazione da parte di Eurojust a fronte delle richieste di assistenza sinora avanzate nei più diversificati settori di indagine.
Si segnala inoltre l’adozione, da parte del Parlamento Europeo e del Consiglio, di una proposta di regolamento per l’armonizzazione delle legislazioni in materia di intelligenza artificiale nonché del regolamento (EU) 2021/1232 del 14.7.2021, che consentirà provvisoriamente ai fornitori di servizi di comunicazione destinati alla diffusione generalizzata (come la posta elettronica o la messaggeria istantanea), di derogare ad alcune disposizioni contenute nella direttiva 2022/58/EC al fine di continuare a monitorare, segnalare e rimuovere, sino al 3.8.2021, materiale digitale a carattere pedopornografico. Sono tuttavia in corso i lavori finalizzati all’adozione di una normativa di settore a carattere permanente.
Sul piano nazionale si segnala l’adozione, da parte della Francia, della legge n. 478/2021, che ha specificamente introdotto la fattispecie di sextortion, nonché l’adozione, da parte dell’Irlanda, di un emendamento al Money Laudering and Terrorism Financing Act, che per la prima volta qualifica i fornitori di criptovalute come istituzioni finanziarie, come tali soggetti agli obblighi (primo fra tutti quello di registrazione) dinanzi all’authority di settore, costituita dalla Banca Centrale irlandese. Anche sotto tale aspetto, dunque, merita di essere raccomandato un approccio investigativo particolarmente attento agli aspetti di transnazionalità della fattispecie, che possa condurre a ritenere configurabile il reato di abusivo esercizio dell’attività finanziaria, per la parte di condotta consumata in Irlanda, da parte di fornitori di servizi di cripovaluta che, per la restante parte delle condotte, ad esempio a carattere associativo, siano destinati ad essere giudicati in Italia in base alla legge italiana. L’expertise maturata da Eurojust nel supporto alle autorità nazionali impegnate in indagini connesse nonché nella gestione degli eventuali conflitti di giurisdizione che possano derivarne rende prevedibile anche in relazione a tale materia un rinnovato ricorso all’assistenza giudiziaria fruibile per il tramite dell’Agenzia.
Sul piano della legislazione domestica si segnala inoltre l’adozione, da parte della Repubblica Slovacca, la legge n. 236/2021 di introduzione del reato di molestia informatica nonché della legge n. 312/2020, che ha inserito la definizione di criptovaluta (quale mezzo di pagamento) nel codice penale ed ha previsto, oltre all’ordine di conservazione e disvelamento dei dati, anche quello di sequestro, da intendersi quale provvedimento del Pubblico Ministero o del giudice avente ad oggetto l’ablazione (sotto forma di consegna della password e di ogni altro codice di accesso) dei dati informatici integranti moneta elettronica che abbiano costituito strumento o profitto del reato. Dunque le autorità nazionali competenti sono incentivate a considerare, in presenza dei presupposti di legge, l’emissione dei corrispondenti provvedimenti interni, che potranno essere portati ad esecuzione nella Repubblica Slovacca (quale Stato nel quale si trovi il server che fornisca il servizio di criptovaluta), anche per il tramite di Eurojust.
La seconda sezione del CJM è riservata all’esame di alcuni casi giurisprudenziali, fra cui si segnala la sentenza della Corte d’Appello irlandese (2021) IECA 45 in materia di agenti sotto copertura, da ritenersi scriminati nella misura in cui la loro attività non si sia limitata ad una sollecitazione o ad un incoraggiamento a commettere fatti integranti reati, preannunciati o avviati anche qualora non abbiano ancora integrato la soglia del tentativo punibile, ma si sia estesa al punto da configurare un vero e proprio entrapment, ossia una induzione a commettere reati, propria dell’agent provocateur.
Ancora, si segnala la pronuncia della Corte Suprema spagnola STS n. 395/2021, che ha ammesso la configurabilità del concorso di reati anche in materia di produzione di materiale pedopornografico, anche se involgente il medesimo minore, ove reiterata in distinte condotte distanziate nel tempo, nonché la pronuncia della Corte Distrettuale di Oslo del 2.11.2021, che ha ammesso (seppure con pronuncia non ancora divenuta irrevocabile) l’utilizzabilità processuale delle chat scambiate sulla piattaforma Encrochat.
La terza sezione del CJM presenta alcune sentenze in materia di trattamento dei dati personali rese dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, fra cui si segnala quella pubblicata nel caso C-746/18 “Prokuratuur”, che ha ribadito l’incompatibilità con il diritto dell’Unione Europea (nella specie, l’art. 15(1) della Direttiva 2002/58/EC) della legislazione nazionale che affidi all’ufficio del Pubblico Ministero il potere di autorizzare l’accesso ai dati di traffico nel corso di un procedimento penale.
Da ultimo la quarta sezione del CJM affronta il tema delle indagini in materia di attacco informatico mediante virus o ransomware, individuando quali cruciali strumenti di contrasto la denuncia delle presunte persone offese, la conservazione delle prove digitali e l’investigazione da parte di personale specializzato della polizia giudiziaria.
La sinergia tra questi fattori è tuttavia spesso inficiata dalla sussistenza di confliggenti interessi, dal momento che le vittime aspirano prevalentemente alla rapida reintegrazione dello strumento informatico utilizzato, anche a costo della dispersione delle tracce del reato commesso su di esso, spesso anche al fine di prevenire il danno reputazionale subito, mentre le autorità preposte alla repressione penale necessitano della cristallizzazione del quadro investigativo, anche ove questa richieda la disconnessione del sistema informatico oggetto di attacco.
Dalla rassegna delle legislazioni degli Stati coinvolti nella redazione del report è emerso che nessuna di esse si sia dotata, in materia di ransomware, di disposizioni sostanziali ad hoc (avvalendosi invece ciascuna delle fattispecie già esistenti, riportate nel quadro sinottico presente nel CJM), mentre dal punto di vista procedurale i diversi ordinamenti contemplano disposizioni a carattere generale, che tuttavia andrebbero implementate mediante la diffusione di buone prassi.
Fra queste ultime appaiono particolarmente virtuose quelle che, sulla falsariga della disciplina in materia di segnalazioni antiriciclaggio, prevedano obblighi di denuncia in capo agli operatori del settore, che tuttavia andrebbero contemperate con la necessaria preservazione del segreto investigativo, che impedisce uno scambio sic et simpliciter di informazioni fra autorità pubbliche (organi di polizia giudiziaria e magistratura) e private (utenti o fornitori di servizi informatici esposti al ransomware).
Da ultimo si osserva come il carattere transnazionale di tali attacchi informatici suggerisca una immediata centralizzazione dell’attività investigativa (come correttamente prevedono oggi le norme in materia di reati informatici di competenza distrettuale) nonché la creazione di specifici punti di contatto per lo svolgimento delle indagini, che agevolerebbe anche la definizione di modelli di denuncia quanto più standardizzati, attesa la necessità di acquisizione immediata di informazioni tecniche e puntuali.
Anche sotto questo aspetto dunque l’intervento di Eurojust, teso all’assistenza e al raccordo fra le diverse autorità nazionali impegnate nel contrasto a fenomeni criminali ormai globalizzati, specie a seguito dell’insorgere della crisi pandemica, che ha incrementato il ricorso a forme di comunicazione virtuali, appare quanto mai sfidante ed auspicabile.
8. Conclusioni
La rassegna degli istituti sin qui svolta ha consentito di individuare solo alcune delle tematiche afferenti la cooperazione internazionale con le quali ho avuto modo di confrontarmi nel corso del tirocinio, durante il quale tuttavia molteplici sono state le sollecitazioni provenienti dal Membro Nazionale dott. Spiezia alla riflessione e all’approfondimento.
Basti a tal fine menzionare i numerosi report a me sottoposti, provenienti sia da Eurojust (e.g. Eurojust Report on Money Laundering del 29.04.2022, Joint report of Eurojust and the European Judicial Network on the extradition of EU citizens to third countries del novembre 2020) che da Europol (e.g. Online Jihadist propaganda: 2021 in review, European Unione Terroism situation and trend report 2022), nonché la condivisione, per il tramite dell’accesso alla posta istituzionale di Eurojust, delle iniziative disseminate dal magistrato di collegamento ucraino in relazione alla gravissima crisi politica ed umanitaria determinatasi a seguito dell’aggressione russa.
Fra queste ultime merita in particolare segnalare la costituzione, presso Eurojust, di una squadra investigativa comune composta, oltre che dalle competenti autorità dell’Ucraina, della Lituania, della Polonia, della Lettonia, dell’Estonia e della Slovacchia, anche dall’Ufficio del Pubblico Ministero presso la Corte Penale Internazionale e finalizzata alla repressione dei crimini internazionali asseritamente commessi sul suolo ucraino, che ha comportato la riflessione sui temi di grande attualità quale quello della formazione della prova digitale e della sua catalogazione e conservazione.
Tale iniziativa mi ha inoltre motivato ad affrontare la tematica delle modalità di repressione dei cosiddetti crimina iuris gentium, resa vieppiù attuale dalla costituzione, con decreto ministeriale del 22 marzo 2022, della Commissione Palazzo e Pocar, finalizzata all’esame delle iniziative già proposte per la compiuta attuazione dello Statuto di Roma e alla stesura di un Codice dei crimini interazionali che ne assicuri il compiuto adattamento, i cui lavori hanno condotto, il 20 giugno 2022, alla redazione di una Relazione finale che pure ha costituito oggetto di studio da parte mia.
Conclusivamente dunque il completamento del tirocinio preso il Desk italiano “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”, sia per la pregevolezza delle tematiche affrontate, di grande impatto non solo giuridico ma anche storico, sia per lo spessore umano e professionale degli operatori incontrati, che ha avuto spesso modo di manifestarsi anche nel corso di occasioni conviviali estranee alle sedi prettamente istituzionali e lavorative, alle quali sono stata sempre calorosamente invitata a partecipare, ha costituito per me la compiuta realizzazione di un’esperienza formativa di grande valore ed estrema preziosità, in quanto in grado di apportare al mio bagaglio umano e specialistico la rinnovata consapevolezza che le società umane, tanto più ove basate sul diritto, debbano fondarsi sulla solidarietà reciproca, in ossequio al principio, al quale ambisco ad ispirarmi nello svolgimento della mia stessa quotidiana attività lavorativa, secondo cui un giudice senza umanità è un giudice senza giustizia[5].
[1] Segnatamente DEL MONTE, M. (2021), Understanding Eurojust: The European Union Agency for criminal justice cooperation, in EPRS – European Parliamentary Research Service, PE 690.615, pp. 1-12, SALAZAR, L. (2019), La riforma di Eurojust e i suoi riflessi sull’ordinamento italiano, in Diritto penale contemporaneo, 1/2019, pp. 43-55, MANGENOT, M. (2009), European games and institutional innovation: the making of Eurojust (1996-2004), in GSPE Working Papers, 5/2009, pp. 1-16.
[2] In particolare in materia di terrorismo e di ordine di congelamento e confisca all’estero.
[3] In particolare la versione, aggiornata al dicembre 2021, della Guida Operativa alle squadre investigative comuni (JITs Practical Guide) realizzata dall’EU Network of National Experts on joint Investigation Teams (JITs network).
[4] Quali URBINATI, F. (2021), La riforma del mandato d’arresto europeo, in Archivio Penale, 1/2021, pp. 1-26 e PICCIOTTI, V. (2021), La riforma del mandato d’arresto europeo. Note di sintesi a margine del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, in Legislazione penale, ISSN:2421-552X, pp. 1-40, BARGIS, M. (2020), Estradizione e cittadino di uno Stato dell’Associazione Europea di Libero Scambio (AELS): la Corte di Giustizia applica per analogia la sentenza Petruhhin, in Sistema Penale, luglio 2020, MAUGERI, A. M. (2019), Il Regolamento (UE) 2018/1805 per il reciproco riconoscimento dei provvedimenti di congelamento e di confisca: una pietra angolare per la cooperazione e l’efficienza, in Diritto penale contemporaneo, disponibile sul sito https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6411-il-regolamento-ue-20181805-per-il-reciproco-riconoscimento-dei-provvedimenti-di-congelamento-e-di-c, pp. 1-40, DE AMICIS, G. (2019), Lineamenti della riforma del Libro XI del Codice di procedura penale, in Diritto Penale Contemporaneo, disponibile sul sito https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6637-lineamenti-della-riforma-del-libro-xi-del-codice-di-procedura-penale, pp. 1-29, Modifica del libro XI del codice di procedura penale n materia di rapporti giurisdizionali con autorità straniere, Atto del Governo n. 434, Schede di lettura, Servizio Studi della Camera dei Deputati, settembre 2017.
[5] Libero BOVIO, Napoli 8.6.1883-26.5.1942.
Giustizia insieme e il valore dell’accoglienza - 3. Il fenomeno (im)migratorio e le sfide per l’ordinamento giuridico
di Domenico Carbonari
Sommario: 1. Premessa: la difficile regolamentazione di un fenomeno umano (oltre che criminale) complesso. – 2. La disciplina normativa internazionale: il soccorso in mare. – 2.1. Prima fase: soccorso e recupero dei naufraghi. La delimitazione delle zone SAR. - 2.2. Gli interventi nelle zone SAR: problemi di coordinamento tra i navigli privati e lo Stato. - 2.3. Seconda fase: indicazione del POS e avvio delle operazioni di sbarco. – 3. Normativa italiana: il T.U. Immigrazione e fonti normative secondarie. – 4. Ultimi sviluppi in materia di sbarchi: i decreti interministeriali di divieto di sbarco.
1. Premessa: la difficile regolamentazione di un fenomeno umano (oltre che criminale) complesso.
L’impatto del fenomeno migratorio ha posto la disciplina generale sull’immigrazione al c.d. stress test, che ne impone una valutazione in termini di coerenza e di efficacia. E’ pacifica la tendenza legislativa e amministrativa a restringere il campo delle esigenze di tutela, allorquando si verificano situazioni emergenziali o, quantomeno, ritenute tali.
L’approccio disarmonico adottato dall’ordinamento è, in realtà, la conseguenza di un’analisi in chiave prettamente emergenziale del fenomeno migratorio, che sembra quasi giustificare, in modo paradossale, gli interventi disorganici dell’ultimo periodo. La disciplina sugli sbarchi e sul controllo delle partenze ne è un chiaro esempio, perché incentrata sulla stipula di accordi internazionali con i paesi africani rivieraschi, tra questi la Libia, e sulla deroga amministrativa alle regole di assegnazione del c.d. place of safety (d’ora in poi POS), in evidente contrasto con le convenzioni internazionali.
Il sistema del diritto vigente e il contesto storico-sociale non sono sufficienti a conformare la volontà legislativa ad un determinato risultato, perché è necessario considerare e fronteggiare un fenomeno nella prospettiva della sua futura stabilizzazione[1]. Tuttavia, se difetta questa stabilità, il legislatore dovrebbe quantomeno abbandonare il criterio dell’emergenza e definire un assetto normativo flessibile, fondato su principi e regole generali ricavabili dal diritto internazionale generale e pattizio, oltre che dai principi elaborati dalla giurisprudenza, sia nazionale che internazionale.
2. La disciplina normativa internazionale.
Il tema delle ricerche e del soccorso in mare è stato oggetto di diversi interventi della comunità internazionale, al fine di disciplinare – in certa misura limitare - l’ambito di discrezionalità degli Stati[2]. Il risultato di tali sforzi dovrebbe essere l’armonizzazione delle prassi dei singoli Stati, tenuti all’adempimento degli obblighi primari cogenti in relazione alla tutela dei diritti fondamentali degli individui[3].
La rilevanza dei diritti, e in particolare la salvaguardia della vita in mare, è il presupposto teleologico di ogni intervento di soccorso in mare, a tal punto che le Convenzioni impongono agli Stati di intervenire anche nel caso di incidenti che si verificano «al di fuori della proprio regione (SAR) fino a quando l’RCC responsabile della regione o un altro RCC in una posizione migliore intervenga a gestire il caso»[4]. La tutela dei diritti fondamentali assurge, quindi, a parametro necessario dell’azione di soccorso in mare, anche in una zona Search and rescue (da ora in poi SAR) rientrante nella competenza di altro Stato.
Non è un caso, infatti, che il legislatore internazionale ha avvertito l’esigenza di specificare, in seno alla Convezione SAR[5], che l’assistenza a chi è in pericolo in mare prescinde dalla nazionalità o dallo statuto della persona e, ancora, delle circostanze in cui si è trovata[6]. In altri termini, il sistema del soccorso in mare è informato all’esigenza di tutelare la persona fisica, statuendo obblighi che assurgono a principi generali non derogabili da norme nazionali finalizzate al contrasto dell’immigrazione irregolare e/o alla repressione del traffico o della tratta di esseri umani.
La stessa direzione finalistica è impressa dalla definizione di “soccorso” fornita dalla Convenzione SAR[7], intesa come“un’operazione per recuperare persone in pericolo, per provvedere alle loro prime necessità mediche o di altro tipo e portarle in un luogo sicuro”. In particolare, gli Stati devono garantire, specie se in supporto dei natanti privati, che i “sopravvissuti assistiti siano sbarcati dalla nave che li ha assistiti e condotti in luogo sicuro”.
Dalla formulazione normativa se ne inferisce che le operazioni di soccorso hanno una struttura unitaria, senza che si possa distinguere la fase del salvataggio da quella dello sbarco presso un luogo sicuro[8]. L’esigenza di tutela dei diritti fondamentali spiega anche il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità, per la quale «l’obbligo di prestare soccorso dettato dalla Convezione internazionale Sar di Amburgo non si esaurisce nell’atto di sottrarre ai naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. place of safety)»[9].
Pertanto, i principi che informano il diritto internazionale del mare possono essere considerati, ad un tempo, regole operative e parametri di legittimità rispetto alle normative nazionali che prevedano, animate dall’esigenza di tutelare la sovranità statale, norme derogatorie eccezionali rispetto ai suddetti obblighi di intervento. Nell’ordinamento giuridico italiano, in particolare, le regole del diritto del mare assurgono a principi generali, di rango superiore alla legge, in virtù del combinato disposto degli artt. 10, 11 e 117 Cost.: le fonti subordinate alla Costituzione o alla legge primaria non condizionano la cogenza di queste regole[10].
Per una agevole comprensione del quadro normativo, reso complesso dalla quantità delle fonti, è opportuno scindere, idealmente, l’unitaria operazione di soccorso in mare in più fasi: 1) soccorso e recupero dei naufraghi; 2) consegna in luogo sicuro e sbarco dei sopravvissuti da una nave; 3) accoglienza e avvio delle fasi di identificazione. Quest’ultima fase attiene, in particolare, al momento successivo della collocazione dei migranti nei centri di accoglienza o negli hotspots.
2.1. Prima fase: soccorso e recupero dei naufraghi. La delimitazione delle zone SAR.
Il primo intervento in mare non pone particolari questioni interpretative.
Una volta ricevuta la richiesta di soccorso, le imbarcazioni degli Stati rivieraschi o i natanti privati hanno l’obbligo di prestare soccorso alle persone in pericolo. L’art. 98 della Convezione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (d’ora in poi Convenzione UNCLOS[11]), rubricato “obbligo di prestare soccorso”, statuisce che gli Stati parte devono “esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa”.
La Convenzione delinea, dunque, un obbligo positivo di tipo verticale e, al contempo, orizzontale. Nel primo senso, gli effetti si producono sul singolo Stato e si riverberano a cascata sul comandante del natante battente bandiera dello Stato interessato. In particolare, le autorità nazionali hanno il dovere di vigilare sullo svolgimento delle operazioni di soccorso e recupero, specie se poste in essere da soggetti privati[12].
Il suddetto obbligo ha anche carattere orizzontale e grava sul singolo comandante, il quale è tenuto ad intervenire quando, secondo ragionevolezza, l’intervento non mette a “repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri” o, comunque, quando la nave si trovi “nella posizione di essere in grado di prestare assistenza”[13].
La posizione del comandante della nave e degli Stati è stata consolidata, altresì, dagli emendamenti apposti dall’IMO, che all’obbligo di intervento del primo ha accompagnato il dovere di cooperazione in capo ai secondi. Ed infatti, gli Stati devono sollevare, nel minor tempo possibile, i privati dai relativi oneri e garantire ai soggetti soccorsi di essere trasferiti in luogo sicuro.
Il meccanismo di soccorso e salvataggio opera automaticamente quando i soccorsi vengono attivati nell’ambito delle acque territoriali dello Stato. Tuttavia, già dalla fine degli anni ’70 si è rilevato che la sovranità territoriale lasciava scoperti gli incidenti che si verificavano nelle acque internazionali. Per tal motivo, la comunità internazionale ha previsto che ogni Stato stabilisca, in accordo con gli Stati confinanti, le rispettive zone di ricerca e di salvataggio (cc.dd. SAR)[14], la cui ampiezza prescinde dai confini territoriali delineati.
2.2. Gli interventi nelle zone SAR: problemi di coordinamento tra i natanti privati e lo Stato.
Con la previsione delle zone SAR, il legislatore internazionale ha, ulteriormente, specificato il quadro degli obblighi dello Stato, perché tenuto al coordinamento delle operazioni di soccorso nella stessa zona[15]. Il criterio operativo impiegato consente, da un lato, la celere individuazione di un luogo sicuro “entro un termine ragionevole” e, dall’altro, la proficua cooperazione tra gli Stati confinanti.
Entro la propria zona SAR, gli Stati godono di flessibilità nell’adozione delle misure concrete per fronteggiare il pericolo, anche al fine di “assicurare che i comandanti delle navi che forniscono assistenza siano sollevati dalle loro responsabilità all’interno di un tempo ragionevole e con il minor impatto possibile sulla nave”[16].
Ulteriore criticità verificatasi nella prassi riguardava i casi in cui le autorità nazionali non assolvevano agli obblighi di soccorso nella propria zona SAR, talvolta a causa dell’inadeguatezza dei mezzi aereo-navali o dell’instabilità politica del Paese o, ancora, in ragione della categoria di soggetti da soccorrere. Per colmare il vulnus di tutela, il legislatore internazionale ha valorizzato il principio del c.d. centro di coordinamento del primo contatto, per il quale gli Stati hanno il dovere di adoperarsi per “coprire anche incidenti al di fuori della propria regione fino a quando l’RCC responsabile della regione in cui fornita l’assistenza o un altro RRC in una posizione migliore intervenga a gestire il caso accettandone la responsabilità”.
Tale principio assurge anche a criterio di risoluzione delle questioni di coordinamento, perché si basa sulla considerazione che l’RRC responsabile della zona SAR dovrebbe assumere il coordinamento delle operazioni con le correlate responsabilità, tra cui l’indicazione del luogo sicuro. In assenza di intervento dell’RRC competente, il primo RRC è responsabile fino a quando il secondo non ne abbia assunto il controllo.
Deve ritenersi, inoltre, che lo Stato di primo contatto non sia, necessariamente, quello di bandiera della nave ausiliatrice, bensì lo Stato cui fa capo il primo RCC contattato. Questa soluzione è sicuramente la più conforme alla ratio di tutela dei soggetti in pericolo in mare, cui sono informate tutte le Convenzione e che non può subire elusioni (ciò potrebbe accadere nei casi nella prassi molto frequente in cui lo Stato di bandiera sia distante dal luogo del salvataggio)[17].
In particolare, nel caso del soccorso dei migranti nel mediterraneo centrale, va osservato che, sebbene si possa affermare un “dovere” di soccorso delle autorità libiche, queste non sempre vi hanno ottemperato, anche perché lo Stato non ha ratificato la Convezione SAR. Ciò ha comportato l’assunzione di un più gravoso onere di intervento in mare da parte delle autorità italiane e dell’UE, concretizzatosi anche nelle operazioni di soccorso collettivo Mare Nostrum, Sophia, Triton e Triton plus e, da ultimo, Eunavformed.
2.3. Seconda fase: indicazione del POS e avvio delle operazioni di sbarco.
Avvenuto il soccorso e il salvataggio, le autorità nazionali devono indicare il POS (place of safety) o posto sicuro: questo ulteriore passaggio costituisce il frammento finale dell’unitaria operazione di soccorso.
Quest’ultimo pone, invero, le questioni interpretative e operative più complesse. Basti pensare al tema delle caratteristiche che il POS deve possedere o, ancora, all’indicazione del POS al natante privato che soccorre i migranti in pericolo, specie quando l’operazione viene eseguita in assenza di coordinamento delle autorità marittime dello Stato cui viene inoltrata richiesta di indicazione del posto sicuro.
Sotto il profilo teleologico, dalla Risoluzione MSC 167-78 si evince che la ratio dell’indicazione del POS è la garanzia che, in ogni caso, un luogo sicuro venga fornito entro un termine ragionevole, perché è solo con lo sbarco che cessa lo stato di pericolo per le persone soccorse. La richiesta deve essere rivolta, in primo luogo, al responsabile della zona SAR in cui avviene il salvataggio[18]; nel caso di mancata risposta, il comandante della nave potrà rivolgersi ai centri di altri Stati.
Si dà atto che, talvolta, la disciplina in questione è stata applicata in modo non coerente e/o conforme ai principi del diritto internazionale del mare, come nel caso della mancata indicazione del POS ad un natante battente bandiera di uno Stato diverso per presunte ragioni organizzative o di sicurezza.
Per superare le incertezze applicative, la Risoluzione ha fornito una serie di elementi esplicativi, tra cui la stessa definizione di place of safety[19]: luogo in cui “la sicurezza della vita dei sopravvissuti non è più minacciata e in cui le primarie necessità umane possono essere soddisfatte”, essendo dallo stesso “possibile organizzare il trasporto per la destinazione successiva o finale dei sopravvissuti”. La precisazione si è resa necessaria a causa della prassi dei c.d. respingimenti in mare[20], posti in essere dagli Stati rivieraschi verso le coste di partenza o, comunque, oltre la propria zona SAR.
La questione è tornata oggetto di dibattito con riguardo all’indicazione di un porto libico quale posto sicuro. La dottrina e la giurisprudenza[21] hanno unanimemente fornito una risposta negativa, perché, per un verso, dalle fonti internazionali emerge che luogo sicuro non può essere quello di partenza o provenienza dei naufraghi, specie laddove questi abbiano il timore di subire pregiudizi. Per altro verso – come sostenuto anche dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa[22] - l’inadeguatezza dei porti libici è conseguenza delle detenzioni arbitrarie, torture, estorsioni, lavori forzati, violenze sessuali, ed altri trattamenti inumani e degradanti cui i migranti vengono continuamente sottoposti proprio in quel territorio.
Un secondo elemento chiarificatore attiene all’inadeguatezza e al carattere temporaneo della presenza sulla nave ausiliaria quale luogo sicuro: “non deve essere considerata un luogo di sicurezza solo perché i sopravvissuti non sono più in pericolo immediato una volta a bordo della nave”[23]. Il legislatore internazionale ha sopito ogni dubbio circa la possibilità che le autorità nazionali, nell’intento di impedire lo sbarco o in attesa di accordi di ridistribuzione dei migranti, ritengano la nave ausiliaria che ha prestato soccorso come posto sicuro ai sensi della Convenzione SAR.
Di recente, le autorità nazionali italiane hanno giustificato il divieto di sbarco anche in considerazione della (presunta) idoneità del natante e dell’equipaggio nel fronteggiare la situazione a bordo della nave, nel predisporre luoghi di accoglienza e nell’apprestare cure medico-assistenziali. E’ vero che, «in via provvisoria, fintantoché i naufraghi non siano stati sbarcati, anche la nave che presta soccorso può essere considerata un luogo sicuro», tuttavia la decisone statale non deve prescindere dal contesto di precarietà e dalla condizione di vulnerabilità in cui versano i migranti e dalla natura, appunto provvisoria ed emergenziale, del primo soccorso.
La Risoluzione specifica, altresì, che “la nave che assiste o un'altra nave deve essere in grado di trasportare i sopravvissuti in un luogo di sicurezza. Tuttavia, se svolgere questa funzione fosse un disagio per la nave, gli RCC dovrebbero farlo tentando di organizzare altre alternative ragionevoli per questo scopo”. L’impiego del termine “disagio” non è casuale, perché alle condizioni di precarietà dei migranti soccorsi si aggiunge la valutazione delle condizioni della nave che interviene.
Quanto detto si interseca con un’altra questione, priva di rilevanza, relativa alla (eventuale) sovrapposizione giuridica e terminologica tra porto sicuro e porto vicino. Ed infatti, premesso che il posto sicuro è quello in cui è possibile tutelare le situazioni giuridiche soggettive dei migranti, si osserva che non sempre può definirsi tale un porto geograficamente vicino, come nel caso dei porti libici o tunisini.
Deve osservarsi, inoltre, che la suddetta distinzione non è avallata da alcuna Convenzione in materia di soccorso in mare[24], attesa la difficoltà di conciliare i diversi fattori che influiscono sullo svolgimento dell’attività di soccorso e salvataggio, tra cui il numero di persone da salvare, le condizioni metereologiche avverse, la rotta del natante e l’impossibilità di stabilire a priori la misura della distanza giuridica o materiale. Contesto reso più incerto, secondo la dottrina, dalla situazione di quei natanti che «non possiedono una rotta predefinita, come quelle delle ONG e i cui capitani si trovano a dover dare preminenza alla sicurezza e alla protezione dei naufraghi soccorsi in mare»[25].
3. Normativa italiana: il T.U. Immigrazione e fonti normative secondarie.
La normativa italiana è caratterizzata dalla eterogeneità delle fonti. La sedes materiae del soccorso e dello sbarco dei migranti si rinviene negli artt. 10 ss. T.U. Immigrazione, i quali sono informati al criterio del “fenomeno patologico”, per cui le autorità nazionali presumono l’esistenza di una condizione di irregolarità. La collocazione sistematica delle suddette disposizioni non pone alcun dubbio al riguardo: sono contenute nel Capo II relativo al controllo delle frontiere, del respingimento e dell’espulsione.
L’attenzione degli interpreti si è rivolta gli artt. 10 ter e 11 T.U. Immigrazione, il cui comma 1 ter [26] - oggi abrogato - prevedeva il potere del Ministro dell'interno di limitare o vietare l'ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale al ricorrere di due presupposti: a) motivi di ordine e sicurezza pubblica; b) sussistenza delle condizioni di cui all'articolo 19, paragrafo 2, lettera g), della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. Alla violazione del suddetto provvedimento conseguivano effetti amministrativi e penali, quest’ultimi ove il comandante della nave avesse violato il divieto di transito.
Il legislatore ha tentato, implicitamente, di relazionare le due disposizioni in termini di specialità, per cui il comma 1 ter avrebbe trovato applicazione nell’ipotesi in cui l’ingresso o la sosta “apparivano” contrari all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica. Questa impostazione avrebbe comportato, quindi, una sorta di abrogazione tacita dell’art. 10 ter, tutte le volte in cui ad essere soccorsi in mare fossero stati migranti e l’intervento gestito da navi battenti bandiera straniera.
Della nuova norma, la dottrina[27] ha censurato l’incompatibilità con il diritto internazionale del mare, perché il presupposto legittimante della “chiusura dei porti” veniva individuato nella presenza a bordo di immigrati irregolari. Le conseguenze erano ovvie: l’eccessiva anticipazione della repressione penale, al punto da impedire lo sbarco ai migranti soccorsi, e, quantomeno sotto il profilo sociologico, la preventiva criminalizzazione dell’operato delle ONG[28]. Si è sostenuto, inoltre, che la scelta normativa in questione avrebbe inciso, in modo notevole, sulla instaurazione e sullo svolgimento dei processi amministrativi e penali, a causa del paventato incremento dei provvedimenti ministeriali di divieto[29].
Da non escludere, altresì, i rischi derivanti dalla eventuale “de-strutturazione” del giudizio penale, causata dalla surrogazione della valutazione incidentale sulla legittimità del provvedimento amministrativo con l’obbligo del giudice penale di esprimersi sugli atti discrezionali, presupposti della fattispecie criminosa, talvolta espressione di scelte politiche o di alta amministrazione di carattere opinabile[30].
Prima dell’abrogazione avvenuta con il D.L. n. 130/2020[31], della disposizione è stata offerta un’interpretazione conforme alle norme convenzionali, nella specie leggendo in combinato disposto il citato comma 1 ter con gli artt. 18 e 19, paragrafo 2, lettera g), Convenzione UNCLOS. Le norme pattizie identificano le nozioni di “passaggio pregiudizievole” e “passaggio inoffensivo”: il primo caso consiste nell’attività di “carico o scarico di […] persone in violazione delle leggi e dei regolamenti […] di immigrazione vigenti nello Stato costiero”; il secondo consente, invece, la “fermata e l’ancoraggio, ma soltanto se questi […] sono resi necessari da forza maggiore o da condizioni di difficoltà oppure sono finalizzati a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo”.
Il principio di sovranità consente allo Stato di regolare, in senso limitativo, l’ingresso, il transito e la sosta nelle proprie acque territoriali, salvo le ipotesi in cui fatti di forza maggiore o esigenze di soccorso alle persone impongono di fornire riparo al natante privato. Il bilanciamento tra contrapposti interessi vede, dunque, la sovranità statale cedere di fronte alla necessità della salvaguardia della vita dei migranti naufraghi, a maggior ragione se la presenza o il trasporto delle persone sulle navi deve essere temporaneo (cfr. Risoluzione MSC 167-78, punto 6.13).
Conclusione, questa, corroborata sia sotto il profilo strutturale dell’unitarietà dell’operazione di soccorso e salvataggio, che termina con lo sbarco dei naufraghi presso il POS, sia sotto il profilo soggettivo: chiunque sia stato soccorso in mare vive una condizione di vulnerabilità, che non viene meno per la sola presenza o permanenza sul natante.
L’art. 11, comma 1 ter, T.U. Immigrazione, ha inoltre sollevato dubbi di compatibilità con il principio del non respingimento (c.d. non refoulement), nella specie sotto forma di respingimenti collettivi[32]. Invero, nel momento in cui un provvedimento interministeriale nega l’accesso o il transito ad un porto italiano, si configurerebbe una forma di respingimento indiretto - contrario agli artt. 4 del Protocollo Addizionale n. 4 della CEDU e 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 – che impedisce ai migranti di accedere alla protezione internazionale. Ed infatti, per il giudice europeo non sono legittime misure che «possano produrre l’effetto di rinviare un richiedente asilo o un rifugiato verso le frontiere di un territorio in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate»[33].
Le suddette argomentazioni avrebbero escluso l’applicabilità dell’abrogato comma 1 ter dell’art. 11 alle fattispecie in cui l’ingresso o la sosta nelle acque territoriali avesse riguardato una nave soccorritrice di migranti in mare, perché non è legittima una presunzione di contrarietà all’ordine pubblico o alla sicurezza. Stessa conclusione se si considerano le altre norme dell’art. 11, il cui campo applicativo coincide con le attività di potenziamento e coordinamento delle frontiere, piuttosto che con le operazioni soccorso e successiva identificazione dei migranti.
È evidente, allora, che la fase della gestione del soccorso e dello sbarco va sussunta nell’art. 10 ter, il quale dispone l’identificazione dello straniero “giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare”. Non solo la disposizione non crea alcuna distinzione tra navi straniere e italiane, ma individua anche gli adempimenti successivi a carico delle autorità nazionali, tra cui lo sbarco – previa concessione del POS da parte dell’autorità competente - e l’accoglienza presso centri in cui è assicurata l’informazione sulla protezione internazionale.
4. Ultimi sviluppi in materia di sbarchi: i decreti interministeriali di divieto di sbarco.
Più di recente, le autorità ministeriali hanno esercitato il potere di vietare il transito o la sosta nelle acque territoriali italiane ai natanti che trasportano migranti, nell’intento – almeno così dichiarato - di non favorire le pratiche di immigrazione clandestina e contestare il fenomeno criminale del traffico di esseri umani. Tuttavia, al di là dell’obiettivo programmatico, i contenuti e le conseguenze giuridiche dei suddetti decreti hanno riproposto il tema dell’obbligo di indicazione del POS e della gestione degli sbarchi.
Nella specie, l’ingresso delle navi delle ONG nelle acque territoriali è stato consentito – seppure dopo notevoli esitazioni e contraddizioni - al fine di trovare riparo in presenza di condizioni metereologiche avverse. Successivamente, è stato autorizzato lo sbarco dei soli minori e dei soggetti in condizioni di salute precarie, ordinando alle navi di riprendere il largo con a bordo i restanti migranti. La decisione politica è stata definita, dai primi commentatori, come una forma di “ammissione selettiva”, in aperto contrasto con la disciplina convenzionale e con il divieto di non respingimento collettivo.
In questa sede, è opportuno analizzare i possibili fattori di criticità dei suddetti decreti, seguendone la non corretta impostazione della scomposizione giuridica e materiale dell’operazione di soccorso e salvataggio in due momenti. Ed infatti, le autorità italiane hanno riconosciuto la possibilità di apprestare immediata assistenza ai soli vulnerabili, negando però l’indicazione del POS, sul presupposto che l’obbligo gravasse in capo alle autorità dello Stato di bandiera del natante.
Il mancato accoglimento delle richieste dei natanti privati è stato giustificato dalla circostanza che le “operazioni in mare [sono] avvenute al di fuori dell’area SAR di responsabilità italiana, rilevando come tali operazioni siano state effettuate in mancanza di qualsivoglia istruzione e forma di coordinamento da parte della competente Autorità SAR”. Per ciò solo, “il transito e la sosta nel mare territoriale si configurano come pregiudizievoli per l’ordine e la sicurezza pubblica, ai sensi dell’art. 1, comma 2, D.L. 130/2020”. La presunzione accolta dalle autorità ministeriali è distonica sia rispetto al mancato intervento delle autorità SAR di altri Stati (ad es. Malta, Libia o Tunisia) sia all’impossibilità di chiedere l’intervento delle autorità di paesi (ad esempio Libia) in cui le precarie condizioni geo-politiche e/o la complessiva instabilità politica della regione non lo consentivano.
La prima criticità si rinviene nella scelta di consentire l’accesso ai soli vulnerabili e di negarlo a coloro che non erano valutabili come tali, non assumendo così la responsabilità dello sbarco. Di contro, l’espressione “operazioni di soccorso e salvataggio” comprende anche l’indicazione del POS e il conseguente sbarco, per cui le autorità italiane hanno assunto, fittiziamente, la responsabilità della sola messa in sicurezza dei più fragili, rimettendo invece l’esecuzione dello sbarco dei restanti naufraghi alla competenza degli Stati della bandiera.
In secondo luogo, deve rilevarsi l’inosservanza del principio c.d. dello Stato di primo contatto. Sulla scorta delle norme convenzionali[34], è legittimo che un natante chieda l’intervento di un RCC diverso da quello della zona SAR in cui avviene il salvataggio, con obbligo del primo di “coprire anche incidenti al di fuori della propria regione”. Lo Stato contattato per secondo, pur se non ha coordinato o partecipato alle operazioni, non può esimersi dal fornire un supporto in quanto geograficamente più vicino. Concludere in senso difforme condurrebbe all’elusione del principio del centro di coordinamento di “primo contatto” e ad un vuoto di tutela delle situazioni soggettive delle persone salvate[35].
Nel momento in cui si ordina alle navi di riprendere il largo, si innesca un ulteriore momento di crisi della disciplina in questione: viene perpetrata la violazione del principio di non discriminazione e, con esso, del divieto di respingimento collettivo. Non solo si crea una disparità di trattamento tra soggetti che sono da ritenersi tutti in pericolo, ma le autorità ministeriali adottano una nozione di vulnerabilità restrittiva, inclusiva solo delle categorie dei minori e di coloro in situazioni precarie di salute. Appare più coerente considerare vulnerabili, secondo una logica rimediale, tutti coloro che sono stati salvati in mare, a prescindere dalla sussistenza di specifiche condizioni[36] (cfr. punto 6.13 Risoluzione: “una nave ausiliaria non deve essere considerata un luogo di sicurezza solo perché i sopravvissuti non sono più in pericolo immediato una volta a bordo della nave”).
Alla medesima conclusione si perviene considerando il combinato disposto degli artt. 1 T.U. Immigrazione (diritti degli stranieri) e 92 Convezione UNCLOS secondo cui la nave è soggetta alla giurisdizione dello Stato della bandiera, “salvo casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione”. In sintesi no n può escludersi la sottoposizione alla giurisdizione dello Stato costiero del natante privato che ha soccorso in mare i migranti, atteso che solo così è possibile svolgere pienamente tutte quelle attività necessarie e funzionali alla tutela dei diritti umani.
All’opposto, ai migranti “respinti” è stata di fatto negata la possibilità di attivare la procedura della protezione internazionale. Come ribadito anche dalla giurisprudenza di legittimità, una nave in mare non è un luogo sicuro (o quantomeno lo è solo temporaneamente) e non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, tra cui quello di presentare domanda di protezione internazionale, «operazione che non può certamente essere effettuata sulla nave»[37]. A sostegno si può dedurre il già citato art. 10 ter del T.U. Immigrazione, il quale impone alle autorità nazionali di discernere la posizione dei richiedenti asilo da coloro per i quali difettano i presupposti di legge.
Anche a voler ammettere che i migranti possano attivare la procedura di protezione internazionale a bordo della nave, si osserva però che la condotta delle autorità italiane condurrebbe, ipso facto, alla creazione di una nuova regola internazionale. Invero, l’art. 13 del Regolamento di Dublino III verrebbe interpretato nel senso di radicare la competenza per l’accoglimento delle relative richieste sugli Stati di bandiera delle navi, perché queste sono considerate dal diritto internazionale “a tutti gli effetti territorio dello Stato”.
Questa prassi, tuttavia, non può essere avallata, perché la Corte EDU richiede agli Stati di applicare i Regolamenti di Dublino in modo conforme alla Convezione, risultando ingiustificato il respingimento sotto qualsiasi forma, anche c.d. indiretto[38]. Anche la Raccomandazione della Commissione europea (23 settembre 2020) ribadisce che le normative nazionali non possono alterare l’obbligo sulla ricerca e soccorso in mare, nonostante gli Stati di bandiera abbiano una responsabilità relativa al controllo dei requisiti per la registrazione della nave.
Invocare la competenza degli Stati di bandiera, nell’intento di porre sui comandanti delle navi l’onere di raggiungerne i relativi porti di attracco, contrasta con le regole generali in tema di obbligo di indicazione del POS contenute anche nella Risoluzione[39]. Può ritenersi, inoltre, concreto il rischio che gli Stati aggravino, eccessivamente, le condizioni del natante ausiliario, dovendo gli stessi organizzare in tal caso delle “alternative ragionevoli”.
[1] I fattori che connotano di complessità il fenomeno migratorio sono di due tipi, rispettivamente, spaziale-temporale e sociologico. Sul punto, D. G. Carbonari, Vulnerabilità delle donne vittima di tratta: la Cassazione riconosce lo status di rifugiato in virtù dell’appartenenza ad un gruppo sociale discriminato, in questa rivista, 22 marzo 2022.
[2] N. Parisi, I limiti posti dal diritto internazionale alle scelte di penalizzazione del legislatore interno in materia di immigrazione irregolare, in R. Sicurella (a cura di), Il controllo penale dell’immigrazione irregolare: esigenze di tutela, tentazioni simboliche, imperativi garantistici, Torino, 2012, pp. 55 ss.
[3] In tal senso, Cass., sez. VI, del 16.12.2021, n. 15869.
[4] Linee guida contenute nella Risoluzione MSC 167-78, riportante gli emendamenti dell’Organizzazione Marittime Internazionale (IMO)al regolamento SOLAS V/33 (Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974) e all’allegato alla Convenzione SAR, paragrafo 3.1.9.
[5] Convezione di Amburgo sulla ricerca ed il soccorso marittimi del 1979, ratificata dall’Italia con legge del 3 aprile 1989, n. 147, punto 2.1.10.
[6] Si tratta di una regola generale intimamente connessa al principio di non discriminazione.
[7] Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il soccorso marittimo cit., paragrafi 1.3.2 e 3.1.
[8] La scissione giuridica e materiale dell’operazione di soccorso e salvataggio è una delle censura mosse al decreto interministeriale del 4 novembre 2022.
[9] Cass., III sez., del 20.02.2020, n. 6626.
[10] Allo stesso risultato si perviene in considerazione della vincolatività dei c.d. pacta sunt servanda, presidiati a livello costituzionale dall’art. 117 Cost.
[11] Convenzione sottoscritta a Montego Bay nel 1982, ratificata dall’Italia con legge 2 dicembre 1994, n. 689.
[12] L’art. 98, comma 2, della Convenzione UNCLOS recita che “ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali”.
[13] In tal senso, il Capitolo R, del regolamento 33 relativo alla Convezione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione SOLAS), ratificata con legge del 23 maggio 1980, n. 131.
[14] Convenzione SAR, capitolo 2.1.5
[15] Sempre la Convezione SAR prevede che “qualora vengano informati che una persona è in pericolo in mare, in una zona in cui una Parte assicura il coordinamento generale delle operazioni di ricerca e di salvataggio, le autorità responsabili di detta Parte adottano immediatamente le misure necessarie per fornire tutta l’assistenza possibile”.
[16] Risoluzione MSC 167-78, emendamento 2.6
[17] Soluzione, questa, non condivisa da chi sostiene che, così ragionando, i comandanti delle navi delle ONG godrebbero della libertà o dell’arbitrio nella individuazione dell’autorità SAR da contattare.
[18] Per l'Italia, il place of safety è determinato dall'Autorità SAR in coordinamento con il Ministero dell'Interno (IMRCC).
[19] V. punto 6.12 Risoluzione MSC 167-78.
[20] I respingimenti in mare costituiscono violazione del divieto di ricondurre le persone verso luoghi nei quali la loro vita, la loro incolumità e la loro libertà sarebbero minacciate, oppure nei quali sarebbero sottoposte a pene o a trattamenti inumani o degradanti. Rilevano gli artt. 3 e 14 CEDU, art. 33 della Convenzione di Ginevra, art. 19 CDFUE, art. 19, commi 1, 1 bis e 2 d.lgs. 286/98.
[21] Di recente, il GUP del Tribunale di Napoli, con sentenza n. 1621/2021, ha sostenuto che, «al fine di sgombrare il campo da un possibile equivoco di fondo, è necessario affermare che la Libia non poteva e non può, allora come ora, essere considerata porto sicuro». Nello stesso senso, anche le sentenze del GUP del Tribunale di Messina, della Corte d’assise di Milano del 10 ottobre 2017 (caso Matammud), Cass., Sez. V, del 12 settembre 2019, n. 48250 e, infine, Cass., sez. III, del 16 gennaio 2020, n. 6626.
[22] V. Raccomandazione Lives Saved. Rights protected. Bridging the protection gap for refugees and migrants in the Mediterranean, del 2019.
[23] V. Risoluzione MSC 167-78, punto 6.13. Nello stesso senso, Cass., sez. VI, del 16.12.2021, n. 15869, per la quale una nave «non può quindi essere qualificato "luogo sicuro", per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse».
[24] Il concetto di porto sicuro è impiegato, invece, dal diritto internazionale marittimo nel caso di collisioni tra navi, limitazioni per definire un arcipelago o le acque territoriali, porti dove ormeggiare per riparare guasti che stanno causando danni ambientali e sversamenti in mare di sostanze tossiche o per definire la “più vicina rappresentanza diplomatica dello stato di bandiera”. Deve darsi conto dell’impiego, da parte della giurisprudenza internazionale, del concetto di “minima deviazione possibile”, cui si fa ricorso nell’intento di limitare i danni economici di mercantili e armatori e ridurre il lasso di tempo in cui un'imbarcazione inadeguata si trova a navigare sovraccarica di esseri umani.
[25] F. Floris, Porti sicuri e sbarchi incerti. I “buchi neri” del diritto internazionale del mare, in Redattore Sociale, 3 luglio 2019.
[26] Introdotto con il decreto legge del 14 giugno 2019, n. 53, convertito in legge n. 77/2019.
[27] S. Calabria, Respingimenti in mare dopo il cd. decreto sicurezza-bis (ed in particolare alla luce del comma 1-ter dell’art. 11 del d.lgs n. 286/1998), in www.questionegiustizia.it, 29 luglio 2019; A. Natale, A proposito del decreto sicurezza bis, in www.questionegiustizia.it, 20 giungo 2019. Inoltre, il comma 1 ter sanzionava penalmente condotte già stigmatizzate dall’art. 83 del codice della navigazione. Ulteriori profili di criticità, rilevati anche dal Capo dello Stato, attenevano alla indeterminatezza relativa alla tipologia delle navi da sanzionare, al contenuto della condotta di ingresso o sosta e ai motivi della presenza di soggetti soccorsi sulle navi.
[28] Si è discusso, infatti, di elevato uso simbolico della leva penale.
[29] Incideva sulla complessità del tema anche il discrimine tra le ipotesi in cui viene adottato il provvedimento ministeriale di divieto e quelle in cui non è fisiologicamente possibile adottarlo, come nel caso dei c.d. sbarchi autonomi o fantasma.
[30]Sul punto, L. Masera, La criminalizzazione delle ONG ed il valore della solidarietà in uno Stato democratico, in www.federalismi.it, del 25 marzo 2019; P. De Sena – F. De Vittori, La minaccia italiana di bloccare gli sbarchi dei migranti e il diritto internazionale, in Quaderni di SIDIBlog, 2017-2018.
[31] Non con poche perplessità manifestate dalla Cassazione, perché vengono riproposti alcuni aspetti problematici comuni alla precedente normativa del 2019.
[32] Tra tutti, S. Calabria, Respingimenti in mare dopo il cd. decreto sicurezza-bis (ed in particolare alla luce del comma 1-ter dell’art. 11 del d.lgs n. 286/1998), cit.
[33] Il non refoulement è un principio di diritto internazionale consuetudinario, nonché «norma di ius cogens: non subisce alcuna deroga ed è imperativa». Corte EDU, Grande Camera, sentenza 26 febbraio 2008, Saadi c. Italia; Corte EDU, Grande Camera, sentenza del 23 febbraio 2012, Hirsi ed altri c. Italia. Nella più recente giurisprudenza nazionale, Cass., Sez. VI, del 16.12.2021, n. 15869 e GUP del Tribunale di Napoli, con sentenza n. 1621/2021.
[34] Punto 6.7 della Risoluzione MSC 167-78.
[35] Nella specie, la mancanza di coordinamento o istruzione è stata considerata delle Autorità italiane, per ciò solo, quale violazione delle norme internazionali, in particolare dell’art. 19 Convezione UNCLOS, perché espressione della “intenzione reale di trasferire in Italia le persone a bordo piuttosto che assicurare loro la più tempestiva salvezza”. Le criticità sono conseguenza anche della mancata ratifica degli emendamenti da parte dello Stato maltese.
[36] Al riguardo, la Corte EDU esprime una nozione di vulnerabilità “per categorie”. Bisogna valutare i bisogni concreti e addivenire ad una classificazione dei soggetti. Se ne inferisce che la vulnerabilità è una “nozione relazionale”, nella quale ricondurre soggetti o gruppi che si esaminano in relazione al contesto in cui si trovano. Sul tema, F.R. Partipilo, Porti chiusi alle navi umanitarie: diritti e obblighi di Stati e capitani, in www.sistemapenale.it, 8.11.2022.
[37] Cass., III sez., del 20.02.2020, n. 6626.
[38] In questo senso, depongono una serie di fonti internazionali che negano la responsabilità e la competenza del comandante della nave circa la determinazione dello status dei migranti. V. Guida sul salvataggio in mare, redatta congiuntamente da IMO, UNHCR e Camera di Commercio Internazionale.
[39] C. Favilli, La stagione dei porti semichiusi: ammissione selettiva, respingimenti collettivi e responsabilità dello Sato di bandiera, in www.questionegiustizia.it, 8 novembre 2022.
Tutta un’altra storia
Recensione di Dino Petralia
Si può decidere di scrivere per inseguire un sogno, per lanciare una protesta, un’accusa sociale, oppure per consacrare una confessione o togliersi uno scrupolo. Ma si può scrivere anche per omaggio, confezionando una storia dedicata, un dono al sentimento di riconoscenza. Ed è il caso di “Tutta un’altra storia”, racconto di verità intima di un figlio che ha perso il padre per mano mafiosa e che, con orgogliosa resistenza, ma senza salvifici velleitarismi, asseconda con la scrittura l’affettuosa presunzione di cambiare la tragica vicenda, ricostruendola a modo suo nel doloroso intento di riappropriarsi del genitore.
Per la cronaca Antonino Burrafato, sottufficiale degli Agenti di Custodia - così all’epoca si chiamava l’odierna Polizia Penitenziaria - matricolista in servizio al carcere dei Cavallacci di Termini Imerese, fu assassinato il 29 giugno 1982 da quattro sicari di Cosa Nostra perché considerato “colpevole” di avere tempestivamente effettuato la notifica di un provvedimento cautelare al detenuto Leoluca Bagarella, così di fatto impedendo l’esecuzione di un permesso di necessità che il boss avrebbe dovuto fruire per recarsi in visita al genitore morente. Per la mafia una sollecitudine ritenuta insolente e offensiva, tanto da avere innescato un verdetto di morte per lo scrupoloso brigadiere. Collaborazioni interne al sodalizio consentirono successivamente di svelare fatti e movente fino al definitivo giudizio penale.
Senza svelare nulla di un libro in bilico tra realtà e immaginazione, gradevole e commovente insieme, cadenzato in una scrittura graziosamente espressiva anche nel vezzo camilleriano di intercalare qua e là vocaboli dialettali siciliani così da radicarne efficacemente - ed orgogliosamente - la matrice isolana, può dirsi che appaiono sostanzialmente pagine dense di vita familiare, autobiografiche nel privato e nel pubblico, un libro organizzato come un girotondo intorno ad una figura amatissima e autorevolmente protettiva, quella di papà Nino, e ingegnosamente arricchito di un altro sé di famiglia, che il narratore fa debuttare come suo gemello, Nicola. Sfrontato ed estroso, attraente nei suoi slanci e trascinante, un fratello inventato in cui specchiarsi e interrogarsi, la sparizione del quale, ad un tratto della storia, acuisce la curiosità di approfondirne la conoscenza attraverso i suoi appunti che lui Totò freneticamente legge ricostruendo stati d’animo e scoprendone insondate e gratificanti virtù morali e sociali.
Una seconda figura compare poi nel solco del racconto ed è quella del Commissario Galvano, poliziotto ed investigatore verace in perfetto stile siculo, amico fedelissimo del padre, ben conscio del rischio corso da questi per l’affronto fatto in carcere al capomafia corleonese e latore in casa Burrafato della notizia che il solerte brigadiere era ormai nel mirino di Cosa Nostra. Dipinto caratterialmente crudo e di brusche maniere, l’alone del suo profilo è tuttavia quello di schietta e protettiva sincerità per l’amico Nino; è Galvano alla fine ad essere scelto dall’autore per fare da collante all’intera storia, dialogando con padre e figlio come un intimo familiare e raccontando col silenzio delle sue carte investigative, incustodite sul tavolo di casa Burrafato, la trama del delitto come fosse tutta un’altra storia, e non quella tragica dell’irreprensibile brigadiere.
Il delicato intento di Totò è dunque quello di ricostruire con la penna i fatti come se accaduti al suo cospetto, nell’illusione che un calore corale - quello che invece è mancato sulla strada del delitto - possa essere d’ausilio al passaggio; e così, dopo avere anticipato tra le pagine sanguinanti premonizioni, finisce per coagularle tutte nel finale, dove, senza tempo o meglio in un tempo contemporaneo del prima e del dopo, compaiono tutti come personaggi e interpreti di una tragedia accanto al papà in abito scuro, in una toccante composizione scenica in cui fa da sfondo l’istituto dei Cavallacci già intestato al V. Brig. Antonino Burrafato.
Pagine da leggere tutte d’un fiato, senza cedimenti ma con la fierezza della partecipazione, quella stessa fierezza di chi ha indossato una divisa grigio sbiadito, quasi un grigio topo con la mente e il cuore di fedele servitore dello Stato.
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