ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le nuove disposizioni in materia di processo del lavoro
di Gabriele Allieri, giudice del lavoro presso il Tribunale di Gorizia
Giustizia Insieme propone ai suoi lettori una serie di contributi relativi alla riforma della procedura civile, per conoscere, approfondire e discutere. L’articolo presentato riguarda la riforma del processo del lavoro.
I precedenti articoli:
1. La trattazione scritta. La codificazione (art. 127-ter c.p.c.)
2. La riforma del processo civile in Cassazione. Note a prima lettura
3. La riforma del processo civile in appello. Le disposizioni innovate dal D. Lgs n. 149/2022
4. La riforma dell’esecuzione forzata: le novità del D. Lgs n. 149/2022
Abstract L’11 agosto 2023 il processo del lavoro – ossia le disposizioni di cui al Titolo IV c.p.c., titolato «Norme per le controversie in materia di lavoro» – compirà cinquant’anni. Oggi, analizzando le norme ad esso dedicate e contenute nel decreto legislativo n. 149 del 2022, attuativo della legge delega n. 206 del 2021, se ne può affermare la perdurante vitalità, dal momento che le disposizioni di cui agli artt. 409 ss. c.p.c., e la dinamica complessiva del rito in considerazione, non formano oggetto di significativi interventi.
Sommario: 1. Introduzione. 2. La negoziazione assistita in materia di lavoro. 3. Introduzione degli artt. 441-bis e ss. nel codice di procedura civile. 4. Il processo del lavoro da remoto e per iscritto. 5. Le novità in merito al processo d’appello.
1. Introduzione
Il processo del lavoro, per come introdotto dalla legge n. 533 del 1973, si avvia a celebrare il suo cinquantesimo compleanno in perfetta forma: gode di buona salute, è funzionale al suo scopo – la ricerca della verità materiale – e, proprio per questo, va lasciato (pressoché) intatto.
Ne è prova il fatto che la riforma del processo civile ha modificato l’art. 183 c.p.c., «Prima comparizione delle parti e trattazione della causa», prevedendo che il giudice proceda all’interrogatorio libero delle parti, tenute a comparire personalmente, e al tentativo conciliazione, con ciò prendendo atto della particolare efficacia di questi istituti, tipici del processo del lavoro.
Queste poche e semplici parole sono di per sé sufficienti per sintetizzare la portata innovativa delle disposizioni dedicate al processo del lavoro dal decreto legislativo n. 149 del 2022, attuativo della legge delega n. 206 del 2021, e in vigore dal prossimo 28 febbraio 2023.
Infatti, il pacchetto di novità ricondotto alla locuzione “Riforma Cartabia” non interviene in modo significativo sulla dinamica del processo del lavoro. Le disposizioni di nuovo conio che si occupano di negoziazione assistita e quelle introdotte nella trama codicistica (cui fa da pendant una nuova previsione tra le disposizioni d’attuazione) non smentiscono l’attuale assetto, lasciando inalterato il sistema vigente. Anzi, a ben vedere, la riforma ne riespande i confini applicativi, allargandoli a quelle controversie che, altrimenti, sarebbero state gestite, ancora per qualche tempo, secondo lo schema del c.d. rito Fornero.
Per questo, si può affermare che la fiducia nei confronti delle soluzioni legislative del 1973 non è in discussione. Piuttosto, volendo cogliere il senso della riforma, verrebbe da scrivere che ciò che è sfiduciato – o quanto meno richiamato sull’attenti – è l’assetto organizzativo di chi è chiamato ad applicare quelle disposizioni – il giudice -, cui viene consegnata, come si conviene ad un nuovo anno che inizia, una nuova agenda (in parte già compilata).
2. La negoziazione assistita in materia di lavoro
La versione originaria dell’art. 2, comma 2, lett. b) del decreto-legge n. 132 del 2014, con cui fu introdotta la negoziazione assistita da uno o più avvocati – ossia, l’«accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l'assistenza di avvocati iscritti all'albo» - stabiliva che l’oggetto della controversia non doveva riguardare diritti indisponibili o vertere in materia di lavoro.
Con l’art. 9 del d. lgs. cit. il riferimento alla materia del lavoro è soppresso e all’interno del decreto-legge n. 132 del 2014 viene introdotta una nuova disposizione – l’art. 2-ter – in base al quale «per le controversie di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile, fermo restando quanto disposto dall'articolo 412-ter del medesimo codice, le parti possono ricorrere alla negoziazione assistita senza che ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Ciascuna parte è assistita da almeno un avvocato e può essere anche assistita da un consulente del lavoro.
All'accordo raggiunto all'esito della procedura di negoziazione assistita si applica l'articolo 2113, quarto comma, del codice civile.
L'accordo è trasmesso a cura di una delle due parti, entro dieci giorni, ad uno degli organismi di cui all'articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276».
Questo strumento deflattivo del contenzioso si aggiunge agli altri già attualmente previsti. Il rinvio operato all’art. 2113, comma 4, c.c., conduce a ritenere che l’intervento degli avvocati sia stato equiparato a quello del giudice, dell’autorità amministrativa e dell’associazione di categoria, sicché l’accordo raggiunto all’esito della negoziazione sarà assoggettato ad un regime giuridico derogatorio della regola generale - stabilita dai commi secondo e terzo dell’art. 2113 c.c. - dell'impugnabilità nel termine decadenziale di sei mesi, in quanto l'intervento degli avvocati - terzi investiti di una funzione pubblica - è ritenuto idoneo a superare la presunzione di non libertà del consenso del lavoratore, precludendo l’impugnabilità dell’accordo raggiunto[1].
La novità in commento va accolta con favore, se non altro perché il contesto entro cui l’accordo è destinato a maturare garantisce con solidità l’effettiva assistenza nei confronti di ciascuna delle parti. Poiché con questo strumento la loro tutela è garantita in misura quanto meno equivalente a quella assicurata dalle altre ipotesi attualmente vigenti, non v’era motivo per continuare ad escludere l’applicabilità dell’istituto anche alla materia del lavoro.
Va comunque rilevato che solo il tempo potrà suggerire se questa novità sarà in grado di deflazionare il contenzioso. Chi scrive ne dubita, dal momento che la mancanza di una cornice formale, quale la negoziazione assistita, non ha finora impedito ai difensori di attivarsi già in sede stragiudiziale per definire la controversia, sia evitandone l’avvio formale, sia interrompendone il corso prima del compimento di qualsiasi attività successiva all’iscrizione a ruolo della causa.
Del resto, non si può ignorare che l’iniziativa in giudizio funge spesso da propulsore che induce la parte convenuta ad avviare un dialogo con la propria controparte. Inoltre, molto spesso è solo l’intervento del giudice (rectius, di una sua proposta conciliativa alla presenza delle parti) ad indurre le parti a meditare seriamente - e per la prima volta - in ordine ad una composizione conciliativa della lite.
Per quanto apprezzabile, l’estensione della negoziazione assistita alla materia del lavoro non lascia prevedere sensibili modifiche a questa dinamica e al peso specifico assunto, nei fatti, dal dialogo conciliativo svolto in vista dell’intervento del giudice o successivamente ad esso.
3. Introduzione dell'art. 441-bis e ss. nel codice di procedura civile
Che il rito introdotto dall’art. 1, comma 47 e ss., legge n. 92 del 2012, il c.d. rito Fornero, previsto per l’impugnazione dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 St. Lav., fosse destinato ad una naturale estinzione è una circostanza nota a partire dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015, che, nell’introdurre il contratto di lavoro a tutele crescenti e le relative guarentigie nel caso di illegittimo recesso datoriale, ne aveva preannunciato il prossimo naturale “pensionamento”.
Tuttavia, con la riforma del processo civile, il legislatore ha inteso anticipare i tempi e ha decretato una conclusione anticipata dell’esperienza avviata nel 2012, introducendo, nel nuovo Capo I-bis “Delle controversie relative ai licenziamenti” del Titolo IV, una nuova disposizione – l’art. 441-bis - destinata a riferirsi a tutte le ipotesi in cui, con l’impugnazione del licenziamento, venga richiesta la reintegrazione nel posto di lavoro. Ciò, evidentemente, in tutte le ipotesi in cui essa sia prevista, e dunque anche al di là dell’art. 18 St. Lav..
La nuova disposizione, tuttavia, non configura un nuovo rito speciale, ma generalizza l’applicabilità delle disposizioni di cui agli artt. 409 ss. c.p.c., salvi peculiari ed eventuali accorgimenti, utili ad una più spedita trattazione del procedimento.
Il testo dell’art. 441-bis prevede che «la trattazione e la decisione delle controversie aventi ad oggetto l'impugnazione dei licenziamenti nelle quali è proposta domanda di reintegrazione nel posto di lavoro hanno carattere prioritario rispetto alle altre pendenti sul ruolo del giudice, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto.
Salvo quanto stabilito nel presente articolo, le controversie di cui al primo comma sono assoggettate alle norme del capo primo.
Tenuto conto delle circostanze esposte nel ricorso il giudice può ridurre i termini del procedimento fino alla metà, fermo restando che tra la data di notificazione al convenuto o al terzo chiamato e quella della udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di venti giorni e che, in tal caso, il termine per la costituzione del convenuto o del terzo chiamato è ridotto della metà.
All'udienza di discussione il giudice dispone, in relazione alle esigenze di celerità anche prospettate dalle parti, la trattazione congiunta di eventuali domande connesse e riconvenzionali ovvero la loro separazione, assicurando in ogni caso la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria in relazione alle domande di reintegrazione nel posto di lavoro. A tal fine il giudice riserva particolari giorni, anche ravvicinati, nel calendario delle udienze.
I giudizi di appello e di cassazione sono decisi tenendo conto delle medesime esigenze di celerità e di concentrazione».
La ratio della disposizione è chiara. Nonostante l’abrogazione delle norme relative al c.d. rito Fornero, viene ribadita la finalità di procedere ad una definizione rapida delle controversie al cui esito può essere ripristinato il rapporto di lavoro.
La tecnica normativa impiegata per il perseguimento dello scopo è però diversa da quella utilizzata dal legislatore del 2012.
Questi, con le peculiarità, e i problemi interpretativi che notoriamente ne conseguirono, forgiò un rito bifasico, all’interno del quale la rapidità era assicurata, oltre che da termini processuali ridotti e dalla natura monotematica dell’oggetto del processo, dalla sommarietà dell’istruttoria cui il giudice doveva procedere prima di adottare l’ordinanza decisoria.
Solo in caso d’opposizione, aprendosi la seconda fase, il processo e l’istruttoria si sarebbero potuti riespandere, lasciando spazio ad eventuali approfondimenti e ad iniziative del convenuto, quali la chiamata in causa del terzo o la proposizione di una domanda riconvenzionale, inammissibili nella prima fase ma ammissibili nella seconda.
La scelta del legislatore del 2012 fu dunque quella di perseguire l’obiettivo di una maggiore speditezza approntando un rito speciale.
Il legislatore del 2022, confidando nella naturale rapidità del processo del lavoro, ha invece semplificato la disciplina ripristinando l’unicità del rito: tutte le controversie in materia di licenziamento saranno d’ora innanzi assoggettate alla disciplina di cui gli artt. 409 ss. c.p.c., con conseguente abrogazione, per le controversie instaurate successivamente all'entrata in vigore della novella, dello speciale procedimento di cui alla legge n. 92 del 2012.
La controversia ricadrà entro l’ambito d’applicazione della norma «anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto». L’espressione è mutuata dall’art. 1, comma 47, legge n. 92 del 2012 sicché, anche in questo caso, il necessario accertamento preventivo d’un rapporto cui sia applicabile la tutela ripristinatoria non precluderà l’applicazione della disposizione in esame e, in particolare, degli accorgimenti rispetto al rito ordinario da essa previsti per dare impulso al procedimento.
Questi accorgimenti consistono, innanzitutto, nella possibilità per il giudice di ridurre i tempi del procedimento fino alla metà, tenuto conto delle circostanze esposte nel ricorso, prevedendo un termine congruo, comunque non minore di 20 giorni, fra la data di notificazione del ricorso e l'udienza di discussione.
Il tenore letterale della norma pare affidare al giudice tanto la possibilità di esercitare d’ufficio questo potere, quanto una certa discrezionalità nell’an e nel quomodo del suo esercizio.
Al contempo, se un’esplicita istanza di parte non pare strettamente necessaria, è da ritenersi che il ricorso debba comunque contenere specifiche allegazioni utili a valorizzare ragioni d’urgenza ulteriori rispetto a quelle già sancite ex lege (e da cui deriva la necessaria trattazione prioritaria del procedimento, su cui si tornerà infra).
Può in tal senso immaginarsi una costruzione dell’atto introduttivo non dissimile da quella tipicamente impiegata per l’introduzione di un ricorso ex art. 700 c.p.c. e, dunque, tesa a valorizzare profili che sconsiglino il mantenimento dei termini processuali ordinariamente applicabili, ciò che, pur non precludendo in radice il ricorso alla tutela cautelare, consentirebbe di limitarne l’impiego a casi eccezionali.
La possibile riduzione dei termini processuali è un elemento che echeggia quanto previsto dal c.d. rito Fornero, ma le similitudini si arrestano ad un piano meramente “estetico”.
Con la legge n. 92 del 2012 era previsto nei confronti del convenuto un termine di 5 giorni prima dell'udienza di discussione per rappresentare le sue difese, ma in dottrina e giurisprudenza era pacifico che, nella prima fase, non ricorressero decadenze né per il ricorrente né, soprattutto, per il convenuto, anche in caso di costituzione “tardiva”. Il nuovo art. 441-bis, invece, assoggetta i ricorsi alla disciplina generale del rito del lavoro, sicché l’eventuale riduzione dei termini processuali non incide sulla perfetta applicabilità agli atti introduttivi degli artt. 414 c.p.c. e 416 c.p.c. e delle relative conseguenze decadenziali.
Ulteriore deviazione dallo schema ordinario è poi rintracciabile nel comma quarto dell'art. 441-bis, secondo cui il giudice, nel corso dell'udienza di discussione, può disporre la trattazione congiunta di eventuali domande connesse o riconvenzionali ovvero la loro separazione, assicurando in ogni caso la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria in relazione alle domande di reintegrazione nel posto di lavoro.
La selezione del thema decidendum così prevista è una tecnica già nota nel nostro ordinamento. Appartiene, per esempio, al processo sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c., nel quale, anche all’esito della riforma, è previsto che il giudice possa disporre la separazione della causa relativa alla domanda riconvenzionale quando essa richiede un'istruzione non sommaria (art. 702-ter, comma 3, c.p.c.).
In rapporto al precedente rito Fornero, la soluzione adottata dal legislatore è parzialmente innovativa. In precedenza, le domande riconvenzionali e la chiamata in causa del terzo potevano essere proposte solamente nella fase d’opposizione e le prime, qualora fondate su fatti costitutivi diversi da quelli da scrutinare rispetto all’impugnazione del licenziamento, formavano oggetto di separazione. Nel contesto della riforma, il venir meno di un procedimento speciale e della potenziale duplicità di fasi ha imposto al legislatore l’integrale restaurazione delle facoltà difensive; è dunque fisiologico che sia stata accordata al convenuto la chance di reagire formulando immediatamente la richiesta di estendere il contraddittorio o una domanda riconvenzionale. Per quanto attiene al ricorrente, in mancanza di un’esplicita preclusione in tal senso, non pare che possa escludersi la sua facoltà d’abbinare all’impugnazione del licenziamento domande ulteriori. D’altra parte, l’opzione accordata al giudice rispetto alla trattazione unitaria o separata delle cause consente di mantenere impregiudicata la speditezza che deve contraddistinguere la domanda relativa al recesso e - si può ritenere – la scelta del modus procedendi andrà basata pur sempre sulla considerazione dei fatti posti a fondamento delle pretese. In particolare, l’attenzione andrà posta sulla necessità di concentrare l’istruttoria rispetto alla domanda di reintegrazione, espressamente considerata dall’art. 441-bis, che, in tal senso, riprende una soluzione già prevista dall’art. 1, comma 65, legge n. 92 del 2012, per il c.d. rito Fornero. Per questa via, una domanda subordinata tesa ad ottenere il pagamento del t.f.r. e l’indennità sostitutiva del preavviso, al pari della pretesa di ottenerne la ripetizione, potrà senz’altro coniugarsi con la concentrazione del procedimento introdotto ai sensi degli artt. 414 e 441-bis c.p.c.; lo stesso è a dirsi rispetto all’accertamento della mansioni concretamente svolte dall’interessato, qualora, ad esempio, rappresentino il fatto costitutivo alla base sia della deduzione dell’inadempimento dell’obbligo di repêchage, sia della domanda di condanna al pagamento di differenze retributive. Si può ipotizzare, invece, che un’eventuale separazione “colpirà” la domanda diretta ad ottenere il pagamento di differenze retributive per lo svolgimento di mansioni superiori, la cui fondatezza implichi un approfondimento istruttorio su ambiti estranei a quelli da affrontare per valutare la legittimità del licenziamento.
Il quinto comma dell’art. 441-bis c.p.c. precisa infine che i principi di efficienza della procedura e di celerità dovranno caratterizzare il ricorso in appello nonché il procedimento per cassazione.
Quanto testé esposto identifica le soluzioni normative concrete predisposte per assicurare la spedita definizione delle cause in commento.
Chi scrive dubita invece che possa avere un qualche impatto pratico l’indicazione contenuta nel primo comma della disposizione, secondo cui queste cause sono prioritarie rispetto alle altre pendenti sul ruolo del giudice, sebbene – quasi allo scopo di evitare che il giudice “dimentichi” la “direttiva” del legislatore - il nuovo art. 144-quinquies disp. att. c.p.c. sancisca che «il presidente di sezione e il dirigente dell'ufficio giudiziario favoriscono e verificano la trattazione prioritaria dei procedimenti di cui al capo I-bis del titolo IV del libro secondo del codice. In ciascun ufficio giudiziario sono effettuate estrazioni statistiche trimestrali che consentono di valutare la durata media dei processi di cui all'articolo 441-bis del codice, in confronto con la durata degli altri processi in materia di lavoro».
Si tratta di una soluzione singolare, dalla quale è difficile immaginare possano derivare conseguenze sul singolo processo qualora – in via del tutto ipotetica - il magistrato decida arbitrariamente di non assicurare priorità alla decisione della causa.
D’altra parte, e per ridimensionare notevolmente la questione, è appena il caso d’osservare che la priorità da assegnare alla trattazione delle domande di reintegrazione nel posto di lavoro è stata comunemente (e logicamente) assicurata a prescindere da quest’indicazione normativa. Allo stesso modo, la concentrazione dell’istruttoria è una soluzione organizzativa che, per esigenze di celerità e di buona gestione del processo, non può certo etichettarsi come un’«innovazione» (né, a dire il vero, come una soluzione valida solo per questa categoria di cause).
In un’ottica più ampia, può anche segnalarsi che, da un lato, la disposizione appare incompleta perché, concentrandosi esclusivamente sulle domande relative alla reintegrazione nel posto di lavoro, ha trascurato - nonostante ricorrano analoghe esigenze di speditezza – tutte le altre situazioni in cui sia “in gioco” un posto di lavoro (si pensi, ad esempio, alle iniziative con cui è censurata l’illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro ed è chiesta la sua conversione).
Dall’altro lato, per assicurare una trattazione prioritaria alle sole che cause che lo “meritino”, sarà ineludibile una valutazione del giudice utile a verificare se la domanda di reintegrazione formulata col ricorso sia o meno del tutto strumentale, così da procedere ad una valutazione d’urgenza in concreto (e non sterilmente aprioristica ed astratta). Un simile vaglio, pur nel silenzio della norma, appare inevitabile. Un suo esito negativo dovrebbe suggerire la mancanza della priorità della causa ipotizzata dalla disposizione, con conseguente irrilevanza dei relativi tempi di definizione ai fini dalle estrazioni statistiche trimestrali.
Infine, e più in generale, l’indicazione normativa non appare idonea ad assicurare un’ubiquitaria prontezza nella risposta giurisdizionale, la cui maggiore o minore velocità è - e sarà – notoriamente legata (anche) a nodi critici impregiudicati da questa disposizione e riconducibili a fattori strutturali e macro-organizzativi del tutto avulsi dalla sfera d’influenza del giudice e dalle sue scelte lato sensu gestionali.
Il Capo I-bis prosegue poi con l'art. 441-ter c.p.c rubricato «Licenziamenti del socio della cooperativa». Questo disciplina le controversie aventi ad oggetto l'impugnazione dei licenziamenti dei soci delle cooperative, anch'esse assoggettate alle norme di cui agli art. 409 e ss. c.p.c.. La disposizione prevede che, qualora sia introdotta una di queste controversie «il giudice decide anche sulle questioni relative al rapporto associativo eventualmente proposte. Il giudice del lavoro decide sul rapporto di lavoro e sul rapporto associativo, altresì, nei casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro deriva dalla cessazione del rapporto associativo».
Attraverso questa novità normativa si tiene conto delle ricadute processuali discendenti dal dualismo che caratterizza la figura del socio-lavoratore di cooperativa, in capo alla quale - secondo il modello tracciato dalla legge n. 142 del 2001 - coesistono più rapporti contrattuali: il rapporto associativo e il rapporto di lavoro. Senza alcuna ambizione innovativa, il legislatore ha così codificato un risultato cui si era soliti giungere sulla base di un orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione, laddove il criterio invalso per la ripartizione di competenza funzionale tra il giudice del lavoro e le sezioni specializzate in materia di imprese del tribunale era stato individuato nel petitum e nella causa petendi, con irrilevanza delle controdeduzioni del convenuto, salvo che da esse non emergesse l’artificiosità della prospettazione del ricorrente[2]. Per questa via, se il socio-lavoratore introduceva una causa censurando un atto, formalmente qualificato come delibera d’esclusione, ma sostanzialmente ritenuto da qualificarsi come licenziamento, la competenza del giudice del lavoro, salvo tesi pretestuose, non poteva essere fondatamente posta in discussione.
Con la disposizione in esame la questione di competenza pare trovare la propria soluzione a monte, fermo restando che, nel merito, la diversità di tutele da approntare in ragione della corretta qualificazione dell’atto censurato resterà impregiudicata e sarà fondata su un ulteriore orientamento che la Corte di cassazione ha perfezionato nel corso del tempo[3].
Infine, l'art. 441 -quater, rubricato «Licenziamento discriminatorio», prevede che «le azioni di nullità dei licenziamenti discriminatori, ove non siano proposte con ricorso ai sensi dell'articolo 414, possono essere introdotte, ricorrendone i presupposti, con i riti speciali. La proposizione della domanda relativa alla nullità del licenziamento discriminatorio e alle sue conseguenze, nell'una o nell'altra forma, preclude la possibilità di agire successivamente in giudizio con rito diverso per quella stessa domanda».
I riti speciali cui allude la disposizione vanno individuati in quelli disciplinati dagli art. 38 d. lgs. n. 198 del 2006 e dall’art. 28, d.lgs. n. 150 del 2011.
Poiché, in ogni caso, si tratta d’un’azione atta a censurare il licenziamento, è da ritenersi che l’introduzione del giudizio soggiaccia agli ordinari termini decadenziali previsti per l’impugnazione del recesso. D’altra parte, nella misura in cui la deduzione della discriminatorietà del licenziamento è frequentemente abbinata a quella d’altri vizi dell’atto datoriale, è da ipotizzare che l’ordinario rito del lavoro rimarrà la struttura procedimentale più diffusa, specie al fine di non prestare il fianco ad eccezioni del convenuto rispetto all’impiego del rito speciale per la proposizione di domande ulteriori rispetto a quelle relative alla discriminatorietà del licenziamento impugnato.
4. Il processo del lavoro da remoto e per iscritto
Benché non si tratti di disposizioni dedicate specificamente al processo del lavoro, non è poi possibile eludere un’analisi dei «nuovi» artt. 127-bis e 127-ter c.p.c.[4], con i quali il legislatore ha inteso stabilizzare la possibilità di svolgere l’udienza mediante collegamento audiovisivo a distanza o la possibilità di sostituire l’udienza mediante deposito e scambio di note scritte.
Ciò in quanto la collocazione sistematica delle due disposizioni, introdotte nel Libro I, Titolo IV “Degli atti processuali”, le rende senz’altro rilevanti al di là del processo ordinario di cognizione disciplinato dagli artt. 163 ss. c.p.c..
Si tratta di due strumenti noti, la cui genesi, come altrettanto noto, è legata all’emergenza pandemica della primavera del 2020. All’epoca, hanno rappresentato l’unico strumento in grado di consentire la prosecuzione dell’attività giudiziaria. Come la prassi ha però dimostrato, l’impiego di queste soluzioni si è protratto ben oltre la situazione strettamente emergenziale. Il legislatore, dunque, pare aver essenzialmente colto l’occasione per consacrare il positivo riscontro fornito dagli operatori rispetto a queste novità.
Nel far ciò, il legislatore ha previsto, all’art. 127-bis c.p.c., che «lo svolgimento dell'udienza, anche pubblica, mediante collegamenti audiovisivi a distanza può essere disposto dal giudice quando non è richiesta la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice.
Il provvedimento di cui al primo comma è comunicato alle parti almeno quindici giorni prima dell'udienza. Ciascuna parte costituita, entro cinque giorni dalla comunicazione, può chiedere che l'udienza si svolga in presenza. Il giudice, tenuto conto dell'utilità e dell'importanza della presenza delle parti in relazione agli adempimenti da svolgersi in udienza, provvede nei cinque giorni successivi con decreto non impugnabile, con il quale può anche disporre che l'udienza si svolga alla presenza delle parti che ne hanno fatto richiesta e con collegamento audiovisivo per le altre parti. In tal caso resta ferma la possibilità per queste ultime di partecipare in presenza.
Se ricorrono particolari ragioni di urgenza, delle quali il giudice dà atto nel provvedimento, i termini di cui al secondo comma possono essere abbreviati».
Proiettando la disposizione nel processo del lavoro (e nel processo previdenziale), può ritenersi che di per sé l’unica udienza per cui sia precluso lo svolgimento a distanza sia quella in cui è prevista l’escussione di testimoni. Nulla osta, formalmente, a che il tentativo di conciliazione, l’interrogatorio libero delle parti, il conferimento dell’incarico al c.t.u. e la discussione, con lettura del dispositivo o della sentenza con motivazione contestuale, si svolgano attraverso il collegamento audiovisivo.
Sotto un profilo letterale, l’iniziativa rispetto alla scelta di procedere con questa peculiare modalità pare rimessa al giudice. Alle parti sarebbe concessa solo la facoltà di formulare un’opposizione in tal senso e il giudice deciderà in merito a tale opposizione sulla base dei criteri di «utilità» ed «importanza» della presenza delle parti, con la possibilità che l’udienza si tenga in forma mista, ossia per i richiedenti “in presenza” e per i non richiedenti “a distanza”.
Salve le considerazioni che si compiranno in seguito, se per un verso la norma si fa apprezzare per l’approccio pragmatico adottato – in effetti, non sempre la presenza delle parti in udienza assume rilievo nello sviluppo del processo -, deve al contempo osservarsi che le valutazioni in proposito si porranno, ragionevolmente, a monte della decisione del giudice di stabilire questa modalità di svolgimento dell’udienza, e non a valle ed in vista di una conferma del relativo decreto sollecitata dall’istanza di parte.
Inoltre, rispetto allo svolgimento dell’udienza in forma mista, non può tacersi come l’effettività del contraddittorio – prevista dal nuovo art. 196-duodecies disp. att. c.p.c. e identificabile nella perfetta percepibilità di quanto avviene davanti al giudice per tutti i partecipanti – dipenda da fattori del tutto contingenti, relativi alla dotazione informatica a disposizione del giudice e all’assetto strutturale del luogo in cui si svolge l’udienza. Per restare pragmatici, un corretto svolgimento dell’attività implica la disponibilità di un doppio schermo, di un sistema che consenta un flusso sonoro congruo e della disponibilità di una telecamera che consenta l’inquadratura contestuale del giudice e di quanti siano presenti davanti a lui. Nell’esperienza quotidiana, è noto come la disponibilità di quest’apparato organizzativo non sia scontata.
Quanto alla c.d. trattazione scritta, l’art. 127-ter c.p.c. prevede che «l'udienza, anche se precedentemente fissata, può essere sostituita dal deposito di note scritte, contenenti le sole istanze e conclusioni, se non richiede la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice. Negli stessi casi, l'udienza è sostituita dal deposito di note scritte se ne fanno richiesta tutte le parti costituite.
Con il provvedimento con cui sostituisce l'udienza il giudice assegna un termine perentorio non inferiore a quindici giorni per il deposito delle note. Ciascuna parte costituita può opporsi entro cinque giorni dalla comunicazione; il giudice provvede nei cinque giorni successivi con decreto non impugnabile e, in caso di istanza proposta congiuntamente da tutte le parti, dispone in conformità. Se ricorrono particolari ragioni di urgenza, delle quali il giudice dà atto nel provvedimento, i termini di cui al primo e secondo periodo possono essere abbreviati.
Il giudice provvede entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle note.
Se nessuna delle parti deposita le note nel termine assegnato il giudice assegna un nuovo termine perentorio per il deposito delle note scritte o fissa udienza. Se nessuna delle parti deposita le note nel nuovo termine o compare all'udienza, il giudice ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l'estinzione del processo.
Il giorno di scadenza del termine assegnato per il deposito delle note di cui al presente articolo è considerato data di udienza a tutti gli effetti».
La disposizione forgia un meccanismo del tutto diverso da quello previsto dal collegamento audiovisivo a distanza. Se quest’ultimo lascia di per sé impregiudicata l’oralità e il confronto contestuale tra le parti, con la trattazione scritta essi vengono totalmente omessi in favore di un approccio cartolare.
La lettera della norma considera questo scambio come sostitutivo dell’udienza, ciò che induce ad escludere che, diversamente da quanto avvenuto sulla base della disciplina emergenziale, si debba far luogo alla fissazione d’una data d’udienza e alla redazione d’un verbale in sua coincidenza. Invero, il decreto con cui il giudice dispone la c.d. trattazione scritta pare avere natura “soppressiva” dell’udienza e, dal versante del magistrato, determina una situazione in tutto analoga a quella in cui, all’esito dell’udienza, questi decida di riservarsi. Ciò è suggerito anche dal fatto che egli debba provvedere entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle note, dies a quo da cui calcolare il termine per lo scioglimento di una sorta di “riserva ex lege”.
Va sottolineato che, in discontinuità rispetto al suo predecessore – l’art. 221, comma 4, decreto-legge n. 34 del 2020 –, l’art. 127-ter c.p.c. è applicabile non solo rispetto alle udienze in cui sia richiesta la presenza dei soli difensori, ma nelle stesse occasioni contemplate dall’art. 127-bis c.p.c..
Tuttavia, se va senz’altro escluso che con questo strumento farsi luogo all’interrogatorio libero delle parti, non pare che esso sia efficacemente applicabile neanche per procedere al tentativo di conciliazione. In questi termini, del resto, si è espresso anche l’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione, la cui relazione in merito alla riforma indica in modo netto che «non sembra compatibile con l’udienza cartolare la nuova prima udienza ex art. 183 c.p.c., così come riformulata nel d.lgs. in esame, essendo previsto che le parti compaiano personalmente e che il giudice tenti la conciliazione ai sensi dell’art. 185 c.p.c. L’obbligo del tentativo di conciliazione appare incompatibile con la trattazione scritta». Sotto questo profilo, deve sommessamente osservarsi che il legislatore pare non aver tenuto conto né delle peculiarità del rito del lavoro né, per la verità, delle modifiche introdotte, con la medesima riforma, per il giudizio ordinario.
Allo stesso modo, se le note debbono contenere le sole istanze e conclusioni, esse, di per sé, non potrebbero ospitare argomentazioni quali quelle che tipicamente si collocano nella discussione orale, salvo non ritenere che il provvedimento che dispone lo scambio di note in luogo dell’udienza contempli quell’implicita valutazione sulla necessità di note difensive prevista dall’art. 429 c.p.c..
Rispetto alla discussione, va poi segnalato che l’art. 430 c.p.c. - in base al quale la sentenza doveva essere depositata in cancelleria entro quindici giorni dalla pronuncia - è stato riscritto, verosimilmente in funzione dello svolgimento cartolare della discussione medesima, nel senso che «quando la sentenza è depositata fuori udienza, il cancelliere ne dà immediata comunicazione alle parti». È uno schema non del tutto inedito nel processo del lavoro, in quanto sovrapponibile al modulo decisorio previsto dall’art. 1, comma 57, legge n. 92 del 2012, nella fase d’opposizione del rito Fornero.
L’elemento maggiormente significativo dell’istituto in esame è però relativo all’iniziativa rispetto alla sostituzione dell’udienza. Il dato testuale lascia spazio all’iniziativa ufficiosa del giudice ma, al contempo, pone in capo alle parti un apparente potere assoluto: la loro richiesta congiunta pare imporre al giudice di disporre assecondando la richiesta, senza che a tale indicazione si abbini una clausola espressa che gli consenta di disattendere la volontà delle parti, notoriamente irrilevante in materia processuale. Così elaborata la norma, una sua interpretazione letterale si rivela però del tutto insoddisfacente. Risulta di gran lunga preferibile un’esegesi che consenta al giudice, al quale compete “ancora”, ai sensi del precedente art. 127 c.p.c., il potere di direzione dell’udienza, ogni valutazione in vista di una congrua gestione della stessa, e dunque del processo, avendo come punto di riferimento non già le preferenze delle parti e dei loro difensori, ma la funzionalità delle forme processuali rispetto all’accertamento della verità materiale, obiettivo imprescindibile del processo del lavoro.
D’altra parte, questa lettura si salda con la circostanza che l’incombente sostitutivo dell’udienza sia ad essa assimilabile. Ne è testimonianza la predisposizione di un meccanismo affine a quello di cui all’art. 309 c.p.c. in caso d’inerzia delle parti.
Ragionando infine da un punto di vista più generale rispetto all’applicazione degli artt. 127-bis e 127-ter nel contesto in esame, non può sottovalutarsi che questi rappresentano altrettanti strumenti che consentono allo scenario forense d’affacciarsi alla modernità e, in particolare, alla possibilità indotta dalla tecnologia di ridurre – financo di annullare – la distanza fisica tra soggetti. Va quindi senz’altro valorizzato il fatto che, soprattutto mediante il collegamento audio-visivo a distanza, il difensore appartenente ad un foro distante da quello in cui si svolge il processo avrà la possibilità di partecipare alla discussione senza incontrare alcun ostacolo o onere. Trattasi di un’opportunità non trascurabile, specie in funzione della pienezza della difesa tecnica nei confronti della parte assistita. D’altra parte, non può nemmeno trascurarsi la funzionalità di entrambi gli strumenti qualora lo svolgimento del processo, specie in materia previdenziale, non implichi particolari valutazioni di fatto o giuridiche che la partecipazione delle parti o una discussione orale tradizionale potrebbero agevolare.
Tuttavia, pur senza accedere a sterili posizioni di retroguardia, va comunque considerato che, al di là dei dubbi interpretativi esposti, il trapianto di queste disposizioni nel contesto in esame, specie in quello lavoristico in senso stretto, deve pur sempre fare i conti con le peculiarità che lo contraddistinguono rispetto al contenzioso ordinario.
A parere di chi scrive, si impongono al giudice attente ed equilibrate valutazioni, utili ad evitare che l’impiego di questi strumenti pregiudichi la funzionalità del procedimento, assicurata, finora, dalla sua caratteristica principale, ossia l’oralità.
Con particolare riguardo al primo grado, l’oralità è un tratto che si rivela decisivo per procedere ad un adeguato tentativo di conciliazione e ad un proficuo interrogatorio libero delle parti. Come già accennato, l’esperienza quotidiana suggerisce che l’incontro effettivo tra le parti – e tra queste e il giudice – è spesso decisivo.
L’esito conciliativo – valorizzato dal legislatore anche ai fini della deflazione del contenzioso– è sicuramente agevolato dall’audizione della proposta conciliativa dalla “viva voce” del giudice, senza il filtro di uno schermo nel caso di udienza da remoto. Quanto alla trattazione scritta, al di là della sua incompatibilità con l’incombente, può invece rilevarsi che indurre le parti a meditare su un esito conciliativo, formulando la relativa proposta per iscritto, è un’ipotesi chimerica.
Rispetto all’interrogatorio libero, detto che esso è ontologicamente incompatibile con la c.d. trattazione scritta, non può negarsi che il suo svolgimento con collegamento da remoto non sia in grado di restituire alla parte e, soprattutto, al giudice - che dalle risposte può trarre elementi utili ai fini della decisione - un compendio di conoscenze complessivo equivalente a quello derivante da uno svolgimento in presenza dell’incombente.
È in ragione di questi aspetti, meramente esemplificativi, che la scelta di procedere con queste nuove modalità di gestione del dialogo fra le parti andrà compiuta sia tenendo conto dell’intrinseca differenza tra le stesse modalità alternative, sia del fatto che non sempre questi due strumenti – al di là della loro formale ammissibilità – sono in grado di assicurare il valore aggiunto garantito dalla comparizione delle parti e dei loro difensori, ossia da uno svolgimento dell’udienza in forma ordinaria e “classica”, ancora oggi del tutto preferibile per la materia in esame.
5. Le novità in merito al processo d’appello
La mancanza d’effettive innovazioni constatata rispetto al giudizio di primo grado può essere affermata anche con riguardo al giudizio d’appello, del quale il legislatore ha mantenuto inalterata la complessiva fisionomia delineata dal quadro normativo vigente. Esso è stato inciso – direttamente - solo da poche disposizioni e, per il resto, è stata disposta l’applicazione delle modifiche previste per il rito ordinario, in quanto applicabili[5].
È stato così parzialmente riscritto l’art. 434 c.p.c., il quale, pur continuando a fare rinvio all’art. 414 c.p.c. per la struttura dell’atto introduttivo, adesso stabilisce che, per ciascun motivo, debba essere indicato, a pena d’inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico: (i) il capo della decisione di primo grado che viene impugnato; (ii) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado; (iii) le violazioni di legge denunciate e la loro rilevanza al fine della decisone impugnata.
Trattasi di una disposizione analoga a quella prevista per il giudizio d’appello dall’art. 342 c.p.c.. Con essa, e segnatamente mediante la sanzione dell’inammissibilità, la chiarezza e la sinteticità degli atti paiono assumere il rango di veri e propri requisiti di cui il difensore dovrà tenere conto nella redazione dell’atto, sebbene la sanzione in parola sia – realisticamente - prefigurabile solo allorché un loro deficit finisca per convertirsi in una mancanza di specificità dell’atto.
È poi interessante notare che con l’art. 436-bis c.p.c. - richiamato per ragioni sistematiche anche nel successivo art. 437 c.p.c., dedicato all’udienza di discussione - il legislatore ha introdotto nel giudizio d’appello, analogamente a quanto previsto dall’art. 429 c.p.c. per il processo di primo grado, la possibilità della definizione del giudizio mediante l’adozione di una sentenza con motivazione contestuale. Lo scenario è contemplato nelle ipotesi in cui l’appello sia inammissibile, improcedibile, manifestamente fondato o infondato. In questi casi è previsto che il collegio, all’udienza di discussione, sentiti i difensori delle parti, pronunci sentenza, dando lettura del dispositivo e della motivazione redatta in forma sintetica, anche mediate esclusivo riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi o mediante rinvio a precedenti conformi. Se quest’ultimo profilo echeggia la previsione di cui all’art. 118 disp. att. c.p.c., il riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi richiamano il c.d. principio della ragione più liquida, consolidato dalla giurisprudenza di legittimità in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio.
È poi da constatare, in correlazione con le considerazioni sopra espresse rispetto all’applicazione dell’art. 127-ter c.p.c. nel processo del lavoro, che la locuzione «sentiti i difensori» pare alludere ad un’interlocuzione possibile solo in caso di discussione orale della causa. Detto che, come già osservato, il contenuto delle note di trattazione scritta non pare ex se idoneo a condensare le tipiche argomentazioni da svolgersi in sede di discussione, la lettera della norma in esame offre ulteriori motivi per dubitare che la definizione della causa possa “accontentarsi” di uno scambio scritto, non preceduto da un effettivo confronto dialettico tra le parti sollecitato dal giudice.
Infine, l’art. 438 c.p.c. prevede che nelle ipotesi diverse dall’art. 436-bis c.p.c., la sentenza deve essere depositata entro sessanta giorni dalla pronuncia e che il cancelliere è tenuto a darne immediata comunicazione alle parti. Se in precedenza il rinvio all’art. 430 c.p.c. imponeva il deposito della motivazione entro quindici giorni dalla pronuncia, la riforma consentirà, analogamente a quanto prevede per il processo di primo grado l’art. 429 c.p.c., di procedere al predetto deposito entro il più ampio termine di sessanta giorni.
[1] cfr. Cass., n. 16283/2004
[2] Cfr. Cass., n. 25237/2014
[3] Cfr., tra le altre e da ultimo, Cass., n. 35367/2021.
[4] Per un commento all’art. 127-ter c.p.c., si rinvia a F. Caroleo – R. Ionta, La trattazione scritta. La codificazione (art. 127-ter c.p.c.), in questa Rivista al link https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-civile/2562-la-trattazione-scritta-la-codificazione-art-127-ter-c-p-c
[5] Per un commento alla riforma del giudizio d’appello, si rinvia a F. Petrolati, La riforma del processo civile in appello. Le disposizioni innovate dal D. Lgs. n. 149/2022, accessibile al link https://www.giustiziainsieme.it/it/riforma-cartabia-civile/2616-la-riforma-del-processo-civile-in-appello-le-disposizioni-innovate-dal-d-lgs-n-149-2022.
L’intento di queste brevi considerazioni è di individuare quale disciplina hanno i poteri di parti e P.G. nell’ipotesi che abbia luogo la fissazione di un’udienza pubblica con decreto emesso ai sensi del nuovo art. 377 c.p.c., cosa possibile a partire dal 1° gennaio 2023.
Com’è noto, l’effettivo svolgimento dell’udienza pubblica è divenuto condizionato per le udienze pubbliche da svolgersi fino a tutto il 30 giugno 2023, così come lo era stato fino al 31 dicembre 2022 per il regime emergenziale COVID. Tale condizionamento è stato disposto dall’art. 8, comma 8, del d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, pubblicato sulla G.U. dello stesso giorno ed entrato in vigore il 30 dicembre 2022, giusta l’art. 24 dello stesso d.l.
L’art. 8 è rubricato “Proroga di termini in materia di giustizia” e al comma 8 così dispone:
"8.Anche in deroga alle disposizioni di cui al decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, le disposizioni di cui all'articolo 221, comma 8, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, e di cui all'articolo 23, commi 8-bis, primo, secondo, terzo e quarto periodo, e 9-bis, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, continuano ad applicarsi, rispettivamente, alle udienze e alle camere di consiglio da svolgere fino al 30 giugno 2023 e alle formule esecutive rilasciate fino al 28 febbraio 2023, fermo restando quanto disposto dall'articolo 35, comma 1, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149."
La proroga della c.d. cameralizzazione e dunque della mera eventualità dello svolgimento effettivo dell’udienza pubblica è stata disposta prevedendo che, con riferimento alle udienze fissande e da tenersi fino al 30 giugno 2023, continui ad applicarsi la disposizione del comma 8-bis dell’art. 23 del d.l n. 137 del 2020, convertito, con modificazioni, nella l. n. 176 del 2020, la quale così dispone: <<Per la decisione sui ricorsi proposti per la trattazione in udienza pubblica a norma degli articoli 374, 375, ultimo comma, e 379 del codice di procedura civile, la Corte di cassazione procede in camera di consiglio senza l'intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, salvo che una delle parti o il procuratore generale faccia richiesta di discussione orale. Entro il quindicesimo giorno precedente l'udienza, il procuratore generale formula le sue conclusioni motivate con atto spedito alla cancelleria della Corte a mezzo di posta elettronica certificata. La cancelleria provvede immediatamente a inviare, con lo stesso mezzo, l'atto contenente le conclusioni ai difensori delle parti che, entro il quinto giorno antecedente l'udienza, possono depositare memorie ai sensi dell'articolo 378 del codice di procedura civile con atto inviato alla cancelleria a mezzo di posta elettronica certificata. La richiesta di discussione orale è formulata per iscritto dal procuratore generale o dal difensore di una delle parti entro il termine perentorio di venticinque giorni liberi prima dell'udienza e presentata, a mezzo di posta elettronica certificata, alla cancelleria. [omissis]>>.
La proroga dell’applicabilità della norma alle udienze fissate fino al 30 giugno 2023, ha avuto per un verso il significato di disporre che le modalità di tenuta dell’udienza pubblica fino a quella data siano quelle stabilite dall’art. 23-comma 8-bis e, per altro verso, di prevedere che anche per i poteri del Pubblico Ministero e delle parti in ordine ad esse le modalità di interlocuzione siano quelle eventualmente fissate da quel comma.
In ordine a tali modalità, si deve rilevare che il comma 8-bis è – come, del resto era fino alla sua “proroga” – per così dire autosufficiente, così creando una sorta di microsistema diverso da quello del Codice, per la sola ipotesi che, in forza della mancanza di formulazione ad istanza del P.G. o di alcuna delle parti non fosse stata formulata per iscritto la richiesta di discussione orale, cioè per l’ipotesi che non si fosse verificata la fattispecie disciplinata – in termini di onere – in positivo dal quarto inciso del comma 8-bis.
Qualora fosse mancata l’istanza nel termine dei venticinque giorni liberi prima dell’udienza, il comma 8-bis dettava, come detta nella sua attuale vigenza, una disciplina dei poteri delle parti che, come ho detto, è autosufficiente e derogatoria rispetto a quella del Codice.
Tale disciplina prevedeva come prevede:
a) quanto ai poteri di interlocuzione del P.G., che, avviatasi la trattazione alla forma della c.d. udienza pubblica cameralizzata per mancanza di istanza di svolgimento effettivo dell’udienza, il P.G. debba depositare a mezzo PEC le sue conclusioni scritte quindici giorni prima dell’udienza e che esse debbano comunicarsi alle parti immediatamente dalla Cancelleria ai difensori sempre a mezzo PEC;
b) quanto ai poteri di interlocuzione dei difensori delle parti, che essi, entro il quinto giorno antecedente l'udienza, possono depositare memorie “ai sensi dell'articolo 378 del codice di procedura civile” con atto inviato alla cancelleria a mezzo di posta elettronica certificata.
In relazione alle udienze fissate dal 1° gennaio 2023, cioè con decreti ai sensi del novellato artt. 377 c.p.c. da tale data, dette previsioni integrano, come integravano antecedentemente al 31 dicembre 2023, un microsistema autonomo, salvo per il rinvio alle memorie “ai sensi dell'articolo 378 del codice di procedura civile”, che contiene, come conteneva il richiamo ed appunto un rinvio ad una disposizione del Codice di Procedura Civile.
Tale rinvio era come è tuttora non un rinvio integrale a tutto l’art. 378 c.p.c., ma un rinvio esclusivamente riferibile alla facoltà di deposito dell’atto dalla norma contemplato e dunque, di un atto della stessa natura.
Era ed è invece palese che il rinvio non era relativo come non è alla disposizione dell’art. 378 quoad termine di deposito.
Prima del 1° gennaio 2023 vigeva il vecchio art. 378, il quale prevedeva per le memorie come termine quello di cinque giorni prima dell’udienza, ma è palese che, dettando espressamente il comma 8-bis il termine ancorché nella stessa misura, non si poteva parlare di estensione del rinvio alla disposizione dell’art. 378 anche quanto al termine. Vi era solo un’identità dei termini, ma la disposizione del comma 8-bis era autonoma e non rinviava sul punto all’art. 378 c.p.c.
Dal 1° gennaio 2023 il comma 8-bis detta sul punto una disciplina distonica rispetto a quella dell’art. 378 c.p.c. nuovo testo, il quale prevede un termine di dieci giorni prima dell’udienza per le parti (e uno di venti giorni per il P.G. del tutto innovativamente).
Trattasi di disciplina speciale e peraltro non contraddetta dalla permanenza dell’inciso “ai sensi dell'articolo 378 del codice di procedura civile”, perché, come ho rilevato tale rinvio era alla tipologia dell’atto e non ai termini.
Il comma 8-bis, qualora vi fosse stata istanza di discussione orale del P.G. o della parte, come ho detto, non conteneva alcuna disposizione sulle modalità di esercizio dei poteri delle parti in vista dell’udienza, ormai “effettiva”.
Ne seguiva che i poteri delle parti, o meglio dei loro difensori, erano regolati dal testo dell’art. 378 c.p.c. rimasto in vigore fino al 31 dicembre 2023, il quale, com’è noto, prevedeva che essi potessero presentare memoria <<non oltre cinque giorni prima dell’udienza>>.
Quel testo non prevedeva un analogo potere del P.G.
Quid iuris dal 1°gennaio 2023?
Non mi par dubbio che, proprio per l’assenza nella disposizione del comma 8-bis redivivo di una disciplina dei poteri delle parti e del P.G. e, quindi, per il fatto che, nel silenzio del legislatore, debba valere, come valeva prima, la disciplina del Codice, si debba ritenere che detti poteri siano disciplinati dal nuovo testo dell’art. 378 c.p.c.
Ne consegue che, in relazione alle udienze fissate o fissande con decreto ex art. 377 nuovo testo dal 1° gennaio 2023, ai sensi del nuovo art. 378 c.p.c. (applicabile, ai sensi dell’art. 34, comma 7, del d.lgs. n. 149 del 2022) il P.G. può depositare memoria non oltre venti giorni prima dell’udienza e le parti non oltre dieci giorni prima.
Non è sostenibile, perché non era e non è un contenuto della norma del comma 8-bis, l’idea che la sua reviviscenza abbia comportato una sorta di ultrattività dell’art. 378 vecchio testo.
La ragione è ovvia.
Il comma 8-bis non aveva un contenuto disciplinatorio dei poteri di P.G. e parti, una volta formulata istanza di discussione effettiva nella pubblica udienza, ma quella disciplina emergeva solo dal Codice ed oggi deve emergere da esso nel suo nuovo testo.
Mette conto di rilevare che l’applicazione dell’art. 378 nuovo testo al P.G. non comporta alcun problema di esercizio dei suoi poteri di interlocuzione e ciò sia se egli ha proposto l’istanza di discussione orale, sia se l’abbia proposta alcuna delle parti.
Nel primo caso, venendo l’iniziativa volta ad assicurare l’effettività dell’udienza pubblica dallo stesso P.G., il quale – tenuto conto che il decreto di fissazione deve comunicarsi sessanta giorni prima a norma del nuovo secondo comma dell’art. 377 – ha avuto venticinque giorni per esercitare il potere di richiedere la discussione e, dunque, ha studiato il fascicolo per prendere tale decisione e beneficia di altri cinque giorni per depositare le conclusioni. Il deposito delle conclusioni, peraltro, è solo una facoltà.
Nel secondo caso c’è sempre il detto beneficio dei cinque giorni e assume rilievo l’indicata facoltatività. E, peraltro, si suppone che il P.G. abbia comunque studiato il fascicolo, sebbene abbia ricavato il convincimento di astenersi dal chiedere l’effettività dell’udienza.
Raggiunte tali conclusioni, mi pare auspicabile che nei decreti di fissazione dell’udienza si indichi al P.G. e alle parti che i loro poteri sono regolati dal comma 8-bis e che, hanno l’onere di chiedere la discussione effettiva con istanza entro il termine da esso previsto e che, in caso di formulazione dell’istanza, troverà applicazione l’art. 378 c.p.c. nuovo testo, mentre, ove l’istanza non venga formulata e l’udienza debba tenersi in modo cameralizzato i loro poteri sono disciplinati dal secondo e dal terzo inciso del comma 8-bis, di modo che il P.G. entro il quindicesimo giorno precedente l'udienza, il procuratore generale dovrà formulare le sue conclusioni motivate con atto spedito alla cancelleria della Corte a mezzo di posta elettronica certificata, che la cancelleria comunicherà a mezzo PEC ai difensori, i quali avranno un termine di cinque giorni prima dell’udienza per depositare memoria ex art. 378 c.p.c.
Le preannunciate riforme ordinamentali e la riforma Cartabia sono l’occasione per fare il punto sull'attività e sul ruolo, anche costituzionale del Pubblico ministero. Ci sono funzioni del Pubblico ministero poco conosciute delle quali è essenziale tener conto per comprendere appieno il ruolo che l’ordinamento repubblicano gli riconosce quale "organo pubblico che agisce a tutela di interessi collettivi".
Il discorso del Procuratore generale della Corte di Cassazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario è il miglior modo per dare l'avvio al nostro approfondimento.
Il Procuratore generale ci ha offerto indicazioni essenziali per comprendere le funzioni del pubblico ministero di legittimità.
Il suo monito è che "oggi è più che mai forte il bisogno di nomofilachia, finalità a cui coopera il pubblico ministero di legittimità" poi, sul ruolo in generale del pubblico ministero, ci ricorda che "Il pubblico ministero costituisce un «organo di giustizia» che nella dialettica del processo riveste il ruolo formale di parte, ma con il compito di cooperare con il giudice in vista dell’attuazione del diritto, a garanzia dei valori di legalità".
Alla luce delle richiamate osservazioni è quanto mai evidente che il pubblico ministero può adeguatamente cooperare con la funzione nomofilattica e per l'attuazione del diritto a garanzia della legalità solo se gli sono garantite, al pari del giudice, autonomia e indipendenza.
Inaugurazione dell’Anno giudiziario 2023: l’intervento del Procuratore generale Luigi Salvato
Signor Presidente, anche a nome dei colleghi della Procura generale mi consenta di esprimerLe la più viva gratitudine per la sensibilità e l’attenzione che Ella riserva ai temi della giustizia.
Rivolgo il mio saluto ai rappresentanti delle Istituzioni, agli ospiti, ai magistrati, al personale. Un saluto particolare va all’Avvocatura, nell’esercizio della funzione difensiva chiamata a contribuire dialetticamente con la Magistratura al conseguimento della verità processuale, istituzione essenziale dell’ordinamento politico e sociale, non solo del nostro Paese: il pensiero va all’avvocata Nasrin Sotoudeh, che ha dedicato la vita, con sacrificio personale, alla difesa dei diritti umani.
Dopo la gravissima crisi provocata dalla pandemia, il 2022 ha segnato l’avvio della ripresa, anche per la giustizia. Di ciò, dell’attività svolta e delle riforme in atto dà contezza la relazione scritta, muovendo dalla premessa che le molteplici funzioni assegnate alla Procura generale sono ispirate all’obiettivo di assicurare la corretta e uniforme applicazione della legge, garanzia del principio di uguaglianza. Nel breve tempo a disposizione mi soffermo su alcuni temi di carattere generale, esaminati da tale prospettiva.
Con riguardo alla giustizia civile, va ricordato che noti fattori tendono a spingerla verso l’area della mediazione e della regolazione del conflitto sociale, colorano di nuovi contenuti l’antica questione del rapporto tra il giudice e la legge e rafforzano l’esigenza di prevedibilità e tempestività delle decisioni.
La magistratura, nell’osservanza dell’alto insegnamento del Presidente della Repubblica, è chiamata a «elaborare soluzioni nuove e concrete, che devono trovare comunque, necessariamente, nel tessuto normativo il loro fondamento e, al tempo stesso, il loro limite», evitando decisioni arbitrarie o imprevedibili. Oggi è dunque più che mai forte il bisogno di nomofilachia, finalità a cui coopera il pubblico ministero di legittimità.
Le riforme rafforzano tale finalità, grazie alla razionalizzazione e differenziazione dei riti e al rinvio pregiudiziale, che esaltano il compito del pubblico ministero in funzione nomofilattica, e a interventi di carattere strutturale. Tra questi: l’istituzione dell’Ufficio per il Processo, anche presso la Procura generale, la cui operatività richiede però una rapida assunzione del personale allo stesso destinato; il processo civile telematico, che esige di coglierne le grandi opportunità, ma, in disparte i rischi della futuribile giustizia predittiva, di garantire il rispetto dei diritti fondamentali e i principi del processo equo. La “macchina giudiziaria” produce un servizio istituzionale: il fattore tempo è essenziale, ma l’efficienza va misurata con riguardo all’osservanza dei principi fondamentali che governano la giurisdizione. Pressante resta l’esigenza di attuare, già a normazione invariata, la doppia dirigenza, per permettere ai capi degli uffici di concentrarsi sull’attività giudiziaria.
Volgendo l’attenzione al diritto penale, va ribadito che è questo il luogo eccezionale della violazione di un precetto tipico, dovendo la relativa sanzione essere riservata ai casi di grave lesione di interessi costituzionalmente rilevanti. Compito della giustizia penale è giudicare fatti, non processare la storia, né influire sull’assetto politico, finalità mai perseguite, al di là di fisiologiche ricadute dell’esercizio dell’azione penale non imputabili alla magistratura, ovvero di errori insiti nella fisiologia del processo, emendabili al suo interno. La magistratura requirente è consapevole, in primo luogo, che nello Stato costituzionale e di diritto le regole dell’etica rilevano sul piano giuridico soltanto se tradotte in espressi precetti di legge. In secondo luogo, che il pubblico ministero costituisce un «organo di giustizia» che nella dialettica del processo riveste il ruolo formale di parte, ma con il compito di cooperare con il giudice in vista dell’attuazione del diritto, a garanzia dei valori di legalità. Tanto dà ragione della sua collocazione ordinamentale, perché deve alimentarsi della cultura della giurisdizione, che vuol dire altresì saper misurare l’esito dell’azione penale, come rimarcato dalla recente riforma. Anche per il grande impegno di tutte le Forze dell’ordine, alle quali va il nostro ringraziamento, sono stati conseguiti risultati di rilievo, tra l’altro, nel contrasto: alla violenza di genere, ma restano preoccupanti i dati statistici e dobbiamo comprendere che l’uguaglianza di genere è questione di rilevanza strategica per la realizzazione dello Stato di diritto e che occorrono azioni positive non limitate alla repressione dei fenomeni marcatamente devianti; alla criminalità organizzata, da ultimo con l’arresto del latitante Matteo Messina Denaro, grazie all’opera instancabile della Procura di Palermo e delle Forze dell’ordine e tuttavia le ‘mafie’ non sono sparite e sono sempre pericolose. La rigorosa tutela dei diritti fondamentali non esclude poi l’esigenza di interrogarsi sul contenuto dei doveri verso la società e sulle condotte esigibili, in quanto espressive della consapevolezza degli stessi.
Anche nella materia penale emerge la peculiarità ordinamentale della Procura generale: è posta al vertice (requirente) del sistema processuale, ma non in senso gerarchico; non svolge funzioni di avvio e di impulso del processo; non è mera sostenitrice della pubblica accusa e contribuisce all’uniforme e corretta interpretazione della legge; è “motore di cambiamento”, portatrice delle istanze e delle difficoltà del “merito”, ma è altresì “custode del cambiamento”, costituendo la prevedibilità garanzia fondamentale per le persone.
Tali caratteri connotano le funzioni riconducibili a detto ambito: la risoluzione dei contrasti tra pubblici ministeri, volta a custodire e applicare gli orientamenti della Corte di cassazione; l’attività ex art. 6 del d.lgs. n. 106 del 2006, che realizza la nomofilachia delle prassi, presidio del principio di uguaglianza e prevedibilità dell’azione penale. Rinviando alla relazione per l’attività svolta, anche in ordine alle questioni poste dalle riforme, è opportuno far cenno degli orientamenti concernenti la comunicazione relativa ai procedimenti penali, oggetto del d.lgs. n. 188 del 2021. Tema controverso, che implica un complesso bilanciamento del diritto all’informazione, cardine di democrazia nell’ordinamento generale e del diritto fondamentale alla presunzione di non colpevolezza, il quale richiede che tutti, non solo i magistrati, siano consapevoli della necessità di distinguere verità storica, giornalistica e giudiziaria e di ricordare che quest’ultima è solo quella raggiunta nell’osservanza del giusto processo di legge. Pretendere di sostituirla con le prime due significa, come è stato scritto, distruggere la base delle nostre libertà e quella «secolare conquista della civiltà giuridica secondo cui solamente all’esito di un giusto processo» si può essere definiti colpevoli.
Di rilievo è stata l’attività in ambito internazionale e sovranazionale, specie con riguardo all’Unione europea, “Comunità di diritto”, in cui è centrale il rispetto della Rule of Law, rafforzata dall’istituzione della Procura europea, in relazione alla quale la Procura generale svolge importanti compiti. Per rilevanza e risultati, va ricordata la Conferenza dei Procuratori generali del Consiglio d’Europa, tenutasi a Palermo il 5 e il 6 maggio 2022, voluta e organizzata dal Procuratore generale dr. Giovanni Salvi, con la collaborazione di numerose Istituzioni.
La Procura generale considera, infine, fondamentali le attribuzioni in materia disciplinare. La responsabilità disciplinare costituisce l’interfaccia dell’indipendenza e dell’autonomia, costituzionalmente stabilite, ma che non pongono la magistratura «al di là dello Stato, quasi legibus soluta» ed è responsabilità verso l’ordinamento generale, minando i comportamenti devianti la fiducia dei cittadini, precondizione essenziale della funzione giudiziaria. I dati statistici dimostrano che la giustizia disciplinare, caratterizzata da una duplice iniziativa, garanzia del raccordo tra potere giudiziario e sovranità popolare, è rigorosa, specie se si considerano le conseguenze delle sanzioni più lievi, non riduttivamente apprezzabili, come talora accade. La materia sconta tuttavia equivoci, alimentati anche da un’erronea confusione tra responsabilità disciplinare, civile e violazione delle regole della professionalità. La responsabilità disciplinare è volta, infatti, a sanzionare la violazione dei doveri funzionali del magistrato e a irrogare una sanzione che incide esclusivamente sul rapporto di impiego. Non è, non può essere, strumento di garanzia della esattezza delle decisioni dei diritti lesi da provvedimenti e condotte non corretti, adeguatamente presidiati da rimedi giuridici diversi, neppure influenzati o condizionati da quello disciplinare.
Per detta ragione, e in virtù dei principi di tipicità degli illeciti e di legalità, compito della giurisdizione disciplinare è solo quello di perseguire le condotte contemplate dalla legge come tali.
È dunque necessario che la violazione dei doveri non costituenti illecito disciplinare, ma rilevante in altri ambiti (nelle valutazioni di professionalità, ai fini della progressione nelle funzioni), venga adeguatamente sanzionata dagli organi del circuito di governo autonomo. Nondimeno, anche dopo le recenti riforme rimangono profili di criticità. Il catalogo degli illeciti disciplinari e i principi di tipicità e legalità rendono concreto il rischio di impunità di condotte non riconducibili ad alcuna fattispecie, ma lesive del bene giuridico tutelato dalla responsabilità disciplinare. La relazione si sofferma su detti profili, restando riservata alla discrezionalità del Legislatore la scelta del se e come porvi rimedio, nel rispetto dei principi costituzionali.
Concludo questo intervento con la speranza, alimentata dall’ottimismo della ragione, che il Paese conservi la fiducia nella giustizia e che questa recuperi l’efficienza sulla quale i cittadini possono e devono fare affidamento, grazie all’impegno di tanti servitori dello Stato, i quali quotidianamente operano con discrezione, la cui attività non può essere appannata dai comportamenti devianti di alcuni, che vanno perseguiti e sanzionati. L’incremento di fiducia e l’efficienza esigono tuttavia un’azione riformatrice attenta alla tutela di tutti gli interessi in gioco, chiara e ordinata, imprescindibile per la razionalità dell’ordinamento, condizione dell’efficace funzionamento della giustizia.
Giustizia Insieme e il valore dell’accoglienza - 4. Approccio Hotspot in Italia ed “habeas corpus” delle persone migranti
di Fulvio Vassallo Paleologo
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Approccio Hotspot e violazioni del principio di legalità e della riserva di giurisdizione. - 3. L’approccio Hotspot ai tempi della pandemia da Covid 19: le navi quarantena. - 4. Nuovi sviluppi dell’approccio Hotspot dopo la fine dell’emergenza Covid e la dismissione delle navi quarantena.
1. Introduzione
A maggio del 2015, dopo la fine dell’operazione italiana Mare Nostrum e la strage del 18 aprile di quell’anno, con oltre 1000 vittime [1], la Commissione europea [2] proponeva di sviluppare un sistema di prima accoglienza nei cd. Centri Hotspot, nei paesi che in quel periodo erano più esposti all’arrivo di migranti, dunque in Italia e in Grecia, per identificare con il prelievo delle impronte digitali le persone subito dopo il loro arrivo per ragioni di soccorso o attraverso sbarchi autonomi, prima che proseguissero nella loro fuga in Europa. Si voleva perseguire, in questo modo, il fine di dare attuazione ai programmi di ricollocamento all’interno di altri Stati dell’Unione Europea con il sistema delle quote, ed evitare “movimenti secondari” in un contesto di illegalità. Ma solo una minima parte dei richiedenti asilo, presenti in questi due paesi, veniva poi effettivamente trasferita in un secondo paese di accoglienza. Il Regolamento europeo Dublino III n.604 del 2013 [3], tuttora vigente, consentiva infatti soltanto trasferimenti su base volontaria, quindi nessun governo poteva essere costretto ad accettare il ricollocamento di un determinato numero di richiedenti asilo. Di fatto, dopo la prima identificazione, molti potenziali richiedenti asilo non si fermavano in Italia, ma proseguivano verso altri paesi europei.
Nell’ambito dell’ Agenda europea sulla migrazione del 2015 venivano quindi adottate la Decisione (UE) 2015/1523 del Consiglio del 14 settembre 2015 (GU L 239 del 15.9.2015, pag. 146) e la Decisione (UE) 2015/1601 del Consiglio del 22 settembre 2015 (GU L 248 del 24.9.2015, pag. 80) [4] che istituivano misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia basate sul cd. Approccio Hotspot (Hotspot Approach) [5]. In origine, le due decisioni avevano previsto che 160 000 persone avrebbero dovuto essere ricollocate dall’Italia, dalla Grecia e dall’Ungheria; in seguito la cifra veniva ridotta a 106 000 persone, unicamente dall’Italia e dalla Grecia, che poi però solo in parte e dopo molti mesi, venivano ricollocate in altri paesi europei. In base a queste decisioni, la ricollocazione avrebbe dovuto essere applicata unicamente ai migranti cittadini di paesi per i quali il “tasso di riconoscimento”, in termini di decisioni di concessione della protezione internazionale, fosse [almeno] pari al 75 %, in base agli ultimi dati Eurostat. Era dunque evidente la originaria funzione degli Hotspot, che dovevano servire alla identificazione ed al ricollocamento dei richiedenti asilo in diversi paesi dell’Unione Europea.
Il 23 settembre 2015, al termine del Consiglio europeo, il presidente della Commissione Juncker dava notizia dell’avvio delle operazioni per attivare gli hotspot, nei quali era prevista la presenza di rappresentanti di Frontex, Easo, Europol, ed Eurojust, agenzie che avrebbero dovuto operare non solo per controllare le operazioni di identificazione e le manifestazioni di volontà dei richiedenti asilo, ma anche in funzione anti-crimine ed anti-terrorismo. Di fatto il personale di queste agenzie si avvicendava spesso negli stessi locali, senza che gli immigrati potessero percepire le diverse funzioni alle quali i diversi operatori erano preposti. Poco prima, veniva comunicato dal governo italiano che il centro di identificazione di Lampedusa, già esistente come Centro di identificazione ed espulsione (CIE) e poi come Centro di primo soccorso e accoglienza (CPSA), sarebbe stato attivato in modalità Hotspot. In realtà la situazione a Lampedusa non mutava sostanzialmente, in quanto già dal 2008 il centro di Contrada Imbriacola era stato utilizzato con prevalente funzione di transito e prima identificazione, in base al cd. “sistema Morcone”, che nel giro di qualche giorno, nell’ambito del progetto Praesidium, con la partecipazione di UNHCR, IOM, Croce Rossa e Save The Children, prevedeva una pre-identificazione ed il trasferimento verso altre strutture di accoglienza dislocate in territorio italiano. Dopo la fine di quella breve esperienza di transiti rapidi, per i quali si ricorreva a trasporti aerei, il centro tornava ad essere di fatto un luogo di detenzione a tempo indeterminato, e soprattutto dopo la cd. “emergenza nordafrica” del 2011, toccava livelli di sovraffollamento che determinavano una situazione di forte tensione in tutta l’isola e la parziale distruzione della struttura [6], con punte di presenze oltre il migliaio di persone, che si continuano a registrare ancora oggi [7]
Nella Roadmap italiana presentata il 28 settembre 2015, in attuazione dell'articolo 8.1 della Proposta della Commissione europea e delle correlate Decisioni del Consiglio (2015/1523 e 2015/1601), che istituivano le misure provvisorie in materia di protezione internazionale a beneficio di Italia e Grecia, il Governo italiano si impegnava a mettere in atto il nuovo Approccio «hotspot». La Roadmap individuava i primi quattro porti nei quali si sarebbero aperte o riconvertite strutture Hotspot, Lampedusa, Pozzallo, Porto Empedocle, Trapani, ai quali poi si sarebbe aggiunto Taranto, e e tracciavano le linee fondamentali dell’approccio hotspot (Hotspot Approach), che si sarebbe realizzato con “un piano volto a canalizzare gli arrivi in una serie di porti di sbarco selezionati dove vengono effettuate tutte le procedure previste come lo screening sanitario, la pre-identificazione, la registrazione, il foto-segnalamento e i rilievi dattiloscopici degli stranieri” .
Con la prima circolare del 6 ottobre 2015, dell’allora Capo del Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione del Ministero dell'interno, prefetto Mario Morcone, si precisava che «il meccanismo prevede – a regime – che tutti i migranti sbarchino in uno dei siti hotspot individuati, affinché possano essere garantite nell'arco di 24/48 ore le operazioni di screening sanitario, pre-identificazione (con accertamento di eventuali vulnerabilità), registrazione e fotosegnalamento per ingresso illegale (categoria Eurodac 2)». Successivamente, «sulla base dei relativi esiti, le persone che richiedono la protezione internazionale saranno trasferite nei vari regional hubs presenti sul territorio nazionale; le persone che rientrano nella procedura di ricollocazione saranno trasferite nei regional hubs dedicati; le persone in posizione irregolare e che non richiedono protezione internazionale saranno trasferite nei Centri di Identificazione ed Espulsione».
Il 17 maggio 2016, il Ministero dell’interno, Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione e Dipartimento della Pubblica Sicurezza, pubblicava le Procedure Operative Standard, (SOP) [8] secondo cui «la persona può uscire dall’hotspot solo dopo essere stata foto-segnalata concordemente con quanto previsto dalle norme vigenti, se sono stati completate tutte le verifiche di sicurezza nei database, nazionali ed internazionali, di polizia». Salvo il verificarsi di afflussi eccezionali che potevano imporre l’adozione di iniziative diverse come il trattenimento prolungato senza alcun accesso alla procedura di asilo, e senza una completa informazione sulla condizione giuridica nella quale venivano a trovarsi le persone dopo l’ingresso nel territorio italiano. Trattenimento che come verificato nel corso degli anni costringeva ad una situazione di promiscuità anche donne, vittime di abusi, minori, soggetti vulnerabili per le torture subite prima dell’arrivo in Italia o per malattie contratte durante il loro viaggio.
La distinzione tra “migranti economici” e richiedenti asilo [9], che di fatto diventava da allora la principale funzione dell’approccio Hotspot, non può competere esclusivamente alle autorità amministrative, sia pure con il concorso dell’UNHCR e dell’Agenzia europea EASO. Il decreto legislativo n. 142/2015 (attuativo della Direttiva 2013/33/UE sull’accoglienza dei richiedenti la protezione internazionale e della Direttiva 2013/32/UE sulle qualifiche della protezione internazionale) definisce come richiedente asilo/protezione internazionale colui che ha “manifestato la volontà di chiedere tale protezione”. Si diventa dunque “richiedenti asilo” per effetto della prima manifestazione di volontà di richiedere protezione, anche se questa verrà formalizzata in seguito.
Le Convenzioni internazionali escludono la detenzione amministrativa dei richiedenti asilo il cui ingresso non può essere qualificato come “illegale” o “clandestino”. Nessuna norma di fonte europea o vigente nell’ordinamento interno, attribuisce alle forze di polizia la facoltà di distinguere tra richiedenti asilo (inespellibili) e migranti economici irregolari (espellibili), semmai il decreto legislativo n.142 del 2015 conferma proprio il contrario, sicché le procedure indicate nelle circolari sopraindicate, ribadite nelle SOP, possono configurare prassi illegittime di trattenimento, contrarie alla normativa italiana ed europea e dunque possibile fonte d responsabilità civile, penale ed amministrativa. Altro punto molto critico riguarda ancora oggi i minori stranieri non accompagnati, e le procedure sommarie di valutazione dell’età, che si continuano ad utilizzare malgrado i diversi criteri imposti dalla legge Zampa n.47 del 2017 [10].
Nelle disposizioni ministeriali, si precisava che le persone condotte negli Hotspot o ristrette in altre strutture nelle quali si operava con il cd. Approccio Hotspot, sarebbero state sottoposte a limitazioni della loro libertà personale per una durata di tempo assolutamente indeterminata e sostanzialmente rimessa alla discrezionalità delle autorità di polizia. Ed infatti si prevedeva soltanto che “il periodo di permanenza nella struttura,dal momento dell’ingresso, deve essere il più breve possibile, compatibilmente con il quadro normativo vigente” . Sempre secondo le SOP, si prevedeva “per le persone che non abbiano manifestato la volontà di chiedere protezione internazionale e non abbiano diritto di rimanere sul territorio nazionale, compilazione del foglio notizie previsto nella direttiva rimpatri (cosiddetto“allegato 4”) e successiva emissione dei provvedimenti di respingimento del Questore o Espulsione del Prefetto. Tali provvedimenti, a seconda dei casi, potranno essere eseguiti, ove ne ricorrano le condizioni,i immediatamente, oppure mediante il trasferimento in un CIE o, nel caso di indisponibilità dei posti, mediante l’ordine del Questore a lasciare il territorio nazionale in 7 giorni”. Come si verificava nella maggior parte dei casi, atteso che la capienza complessiva dei CIE (oggi CPR) italiani non ha mai superato il numero di 700-1000 posti, a seconda dei diversi periodi, indipendentemente dai propositi dei governi che si avvicendavano.
La prima attivazione del centro Hotspot di Pozzallo registrava una fase fortemente conflittuale, perché mentre gli altri paesi europei lasciavano ancora aperte possibilità di ingresso ai potenziali richiedenti asilo, in quel tempo soprattutto siriani, le nuove più rigorose prassi di identificazione, con il prelievo forzato delle impronte digitali, creavano in Italia, in base al Regolamento Dublino III, ed al Regolamento EURODAC, le premesse per un respingimento immediato in frontiera o per un loro successivo ritorno nel nostro paese, primo Stato UE di ingresso. Nel corso degli anni la situazione peggiorava ancora per il periodico sovraffollamento della struttura nella quale venivano trattenuti per giorni in condizioni di totale promiscuità numerosi minori non accompagnati [11].
I principali porti di sbarco nei quali veniva introdotto l’approccio Hotspot, oltre Lampedusa e Pozzallo (Ragusa), erano Augusta (Siracusa), e Porto Empedocle (Agrigento), Trapani, Messina. In alcuni di questi porti, come a Catania e ad Augusta, si arrivava ad applicare le procedure Hotspot direttamente sulle banchine, con il prelievo immediato delle impronte digitali in aree attrezzate con tende, dove veniva anche effettuata la selezione tra i cd. migranti economici ed i richiedenti asilo. L’Hotspot di Porto Empedocle non veniva istituito stabilmente, anche se, al momento dell’arrivo in porto, una parte dei migranti, riconosciuta meritevole di accedere alla procedura per il riconoscimento di uno status di protezione, veniva trasferita verso l’HUB regionale per l’accoglienza di Siculiana (Agrigento). Negli anni di maggiori arrivi di migranti in Sicilia si è giunti a praticare l’Approccio Hotspot persino all’interno del Centro di accoglienza per richiedenti asilo (CARA) di Mineo, in una area delimitata nella quale venivano o isolate le persone appena sbarcate e trasferite nel centro, ma ancora in attesa di una compiuta identificazione attraverso il prelievo delle impronte digitali. Il centro di accoglienza straordinaria di Messina, ubicato in una vecchia caserma dismessa dall’esercito, in condizioni di estrema fatiscenza, ha funzionato a tratti secondo le modalità dell’approccio Hotspot, ed è stato recentemente riaperto. Nel centro rimanevano trattenuti per mesi numerosi richiedenti asilo già selezionati per la relocation, in attesa che i paesi di destinazione ne accettassero il trasferimento. L’approccio Hotspot è stato utilizzato da tempo anche nel centro di Crotone in Calabria, da dove si registrano frequenti casi di uscita con provvedimenti di respingimento differito, con l’intimazione a lasciare entro 7 giorni il territorio nazionale (foglio di via) [12].
Il centro adibito ad Hotspot, attivato in Puglia, a Taranto, a partire dal mese di marzo del 2106, è stato invece utilizzato anche per operazioni di respingimento differito e di espulsione con accompagnamento forzato di categorie assai eterogenee di migranti, alcuni appena sbarcati, altri rastrellati sul territorio in condizioni di irregolarità. La stessa struttura si rivela ancora oggi di importanza strategica in quanto il governo sta indirizzando proprio verso Taranto parte delle navi delle ONG che, malgrado tutti gli ostacoli frapposti ai soccorsi umanitari, continuano a salvare vite umane nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale. Anche in questo Hotspot, di recente, vengono denunciate, dai sindacati di polizia, situazioni di sovraffollamento e di degrado che si sono aggravate durante l’estate del 2022 [13]. Nonostante vari tentativi di trovare le basi legali per il funzionamento di queste strutture continuavano a mancare norme specifiche di legge che disciplinassero il funzionamento degli Hotspot e lo stato giuridico delle persone che vi venivano accolte. Secondo la Commissione di inchiesta sul sistema di accoglienza istituita alla Camera nella XVII legislatura, che nel 2017 ha approvato una Relazione sul sistema di identificazione e di prima accoglienza nell'ambito dei centri hotspot [14] l'applicazione dell'approccio hotspot in Italia presentava numerose criticità, che si possono riscontrare ancora oggi, per la insufficiente capacità di accoglienza dei centri rispetto al numero di persone che facevano ingresso per ragioni di soccorso o in modo autonomo nel territorio nazionale, e soprattutto a causa delle incerte basi legali che si potevano ricavare dalla normativa allora in vigore.
2. Approccio Hotspot e violazioni del principio di legalità e della riserva di giurisdizione
In assenza di una qualsiasi previsione normativa a livello europeo e nazionale, lacuna colmata solo in parte nel 2017. il regime dei centri hotspot, e la condizione giuridica delle persone che vi venivano trattenute [15], sono rimaste affidate alle decisioni dell’esecutivo, in particolare del ministero dell’interno, ed alla discrezionalità amministrativa degli organi periferici, le prefetture, che ne determinavano modalità di funzionamento e regolamenti convenzionali con gli enti gestori, e che pure avrebbero dovuto espletare attività di controllo sull’erogazione dei servizi da parte degli stessi enti [16]. Dopo il decreto legge n. 13 del febbraio 2017, convertito nella legge n. 46/17 (Minniti-Orlando) che per la prima volta faceva un parziale riferimento ai centri Hotspot [17], richiamati all’art. 10 ter [18], la legge n. 132/2018 (primo Decreto sicurezza Salvini) ha introdotto disposizioni ancora oggi in vigore, che fanno riferimento al trattenimento nei diversi centri adibiti all’approccio Hotspot, stabilendo che il richiedente protezione internazionale può essere altresì trattenuto, presso i punti di crisi, come il legislatore definisce gli hotspot, istituiti nei centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA) o nei Centri governativi di prima accoglienza (CPA) di cui all’art. 9 d. lgs. 142/2015, per la determinazione o la verifica dell’identità o della nazionalità. In questo modo si stabiliva una estensione generalizzata dell’approccio Hotspot a tutti i centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA), e di prima acoglienza (CPA), già disciplinati in precedenza soltanto dall’ articolo 23 del Regolamento di attuazione n.394 del 1999 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98. Non risultava però alcuna disposizione specifica riguardo alla convalida del trattenimento oltre le 48 ore, sulla comunicazione della misura limitativa della libertà personale all’autorità giudiziaria, e sullo status giuridico delle persone “ospiti” dei centri, come si cercava di dire con un eufemismo che tendeva a nascondere la condizione di vera e propria detenzione amministrativa che si realizzava all’interno di queste strutture.
Con il Decreto legge sicurezza n.113 del 2018, poi convertito nella legge n.132 del 2018 [19], si è verificato un ampliamento delle strutture che potevano essere utilizzate con approccio Hotspot, per realizzare una limitazione della libertà personale dei migranti in attesa che fossero completate le procedure di pre-identificazione e foto-segnalamento, che si potevano così realizzare fino al tempo limite di 30 giorni non solo nei centri qualificati come Hotspot, ma anche in “strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza” o “in locali idonei presso l’ufficio di frontiera”, se non all’interno dei CPR ( Centri per i rimpatri), fino al 2017 chiamati CIE ( centri di identificazione ed espulsione) [20]. Nulla si prevedeva invece per le persone internate in un Centro adibito ad Hotspot che non fossero (ancora) destinatarie di un provvedimento di espulsione con accompagnamento forzato, e restava del tutto discrezionale la scelta dell’accompagnamento forzato nei casi più numerosi di respingimento differito. Sul punto esprimeva ancora una volta perplessità il Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, nella Relazione presentata al Parlamento per l’anno 2019 [21].
Con il Decreto legge 130 del 2020 si sono previste procedure accelerate per le domande di protezione internazionale presentate da un richiedente direttamente alla frontiera o nelle zone di transito, dopo essere stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i relativi controlli. In tali casi la procedura può essere svolta direttamente alla frontiera o nelle zone di transito, aggiungendo che tali zone sono individuate con decreto del Ministro dell'interno. Lo stesso decreto prevedeva una ulteriore integrazione dell'articolo 10-ter, comma 3, del T.U. n. 286 del 1998, aggiungendo la previsione secondo cui “lo straniero è tempestivamente informato dei diritti e delle facolta' derivanti dal procedimento di convalida del decreto di trattenimento in una lingua da lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola”.
L’art. 10 ter del Testo Unico sull’immigrazione non indicava comunque criteri certi per stabilire se la permanenza nei punti di crisi, altrimenti definiti Centri di prima accoglienza/Hotspot, dovesse avvenire in strutture aperte, dalle quali lo straniero avrebbe potuto allontanarsi, oppure in luoghi chiusi, ove, quindi, si sarebbe attuata un’autentica ipotesi di privazione della libertà personale, come si verificava nella prassi più diffusa. Le prassi si orientavano in senso molto diverso, anche in relazione ai criteri di gestione dei centri ed alla loro ubicazione. A Lampedusa, come a Messina, si riscontrava una totale limitazione della libertà personale a tempo indeterminato, mentre in altre strutture, ad esempio a Pozzallo ed a Crotone, dopo la prima identificazione ed il rilascio delle impronte digitali, era consentita l’uscita giornaliera dal centro e molte persone potevano allontanarsi proseguendo il loro percorso verso il Nord-Europa.
Secondo il Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, che presentava una Relazione il 21 marzo 2017 [22], “la natura giuridica degli hotspot rimane poco chiara, mancando una previsione normativa specifica e la relativa disciplina, poiché tale non può essere considerato – quando trattasi di privazione della libertà – il documento Standard Operating Procedures (SOPs) redatto dal Ministero dell’interno con il contributo della Commissione europea né possono esserlo le circolari amministrative. Nel documento si legge che una persona può uscire dalla struttura solo dopo essere stata foto-segnalata, concordemente con quanto previsto dalle norme vigenti, se sono state completate tutte le verifiche di sicurezza nei database, nazionali ed internazionali, di polizia. Il tempo di permanenza è dunque indeterminato e rimesso di fatto allo svolgersi della procedura di foto-segnalamento e di rilevamento delle impronte”. Si verificava dunque una situazione potenzialmente in violazione dell’art.13 della Costituzione italiana, e dell’art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Anche perché nel corso del tempo la durata del trattenimento, prima finalizzato al prelievo delle impronte ed alla ricollocazione, risultava sempre più prolungata al fine di eseguire trasferimenti nei centri di detenzione amministrativa, notoriamente carenti di disponibilità di posti, o per dare tempo alle autorità di polizia per eseguire respingimenti differiti con accompagnamento forzato in frontiera.
Come si osservava in un Parere del 25 novembre 2018 [23] dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM), “la norma non sembra prevedere il procedimento di convalida per il trattenimento negli Hotspot, ma esso deve ritenersi applicabile anche a tale fase del trattenimento, pena la manifesta illegittimità costituzionale per violazione dell’art 13 della Costituzione” [24]. L’originaria funzione di identificazione ai fini di un successivo trasferimento verso centri di accoglienza per richiedenti asilo in Italia, o addirittura verso altri paesi europei, è diventata così marginale rispetto alla funzione di limitazione della libertà personale dei migranti trattenuti che venivano sempre più spesso qualificati come “migranti economici”, anche attraverso formulari subdoli che dovevano essere compilati in prossimità dello sbarco. Tra le domande alle quali si doveva rispondere obbligatoriamente ne contenevano una relativa alla volontà di svolgere attività lavorativa, che traeva in inganno, perché anche i richiedenti asilo manifestavano volontà di lavorare, ma questo precludeva loro l’accesso alla procedura, quando la risposta non veniva fornita direttamente da parte di operatori del centro, con l’apposizione di una crocetta in un piccolo quadratino, alla fine del cd. “foglio notizie”. Per coloro che venivano qualificati come migranti economici scattavano i provvedimenti di respingimento differito, ex articolo 10 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998, come integrato dalla legge Bossi-Fini del 2002, e in assenza di posti nei Centri per il rimpatrio (allora chiamati CIE, centri di identificazione ed espulsione) restavano per settimane, talvolta addirittura mesi, chiusi all’interno degli Hotspot, se non venivano rimessi immediatamente in libertà con il cd. “foglio di via” contenente il provvedimento di respingimento differito con l’intimazione a lasciare entro sette giorni il territorio nazionale. Si realizzava così, e si può verificare ancora oggi, all’interno degli Hotspot , e delle altre strutture utilizzate con l’Approccio Hotspot, una limitazione della libertà personale al di fuori di una espressa previsione di legge, ben oltre i rigorosi limiti stabiliti dall’art. 13 della Costituzione [25] e dall’art. 5 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo [26], con violazione della riserva di legge e della riserva di giurisdizione. Già la Consulta nel 2001 aveva segnalato la necessità di interpretare la normativa in materia di trattenimento ed allontanamento forzato dei migranti irregolari allora vigente in senso conforme alla Costituzione. Secondo la sentenza della Corte Costituzionale del 2001 (n.105) che pure dichiarava infondata la questione di costituzionalità relativa alla norma che prevedeva il trattenimento (detenzione amministrativa) nei CPTA (centri di permanenza temporanea e assistenza), come allora venivano definiti gli attuali CPR (centri per il rimpatrio) “Il trattenimento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea e assistenza è misura incidente sulla libertà personale, che non può essere adottata al di fuori delle garanzie dell’articolo 13 della Costituzione” [27].
In molti casi persone destinatarie di provvedimenti di respingimento differito sono rimaste all’interno di centri Hotspot fino all’esecuzione dell’accompagnamento forzato in frontiera, ed il provvedimento adottato dal questore a loro carico è stato notificato poche ore prima dell’imbarco sull’aereo che li avrebbe riportati in patria sotto scorta della polizia italiana, con una evidente lesione del diritto di difesa, riconosciuto, oltre che dall’art. 24 della Costituzione e dall’art.13 della CEDU, anche dall’art. 14 del Regolamento frontiere Schengen, 2016/399/UE, che in tutti i casi di respingimento prevede espressamente la possibilità di fare ricorso. Anche se la norma stabilisce che il ricorso non ha effetto sospensivo, non sembra ammissibile che lo stesso ricorso risulti “ineffettivo”, svuotato di qualsiasi efficacia, perché l’esercizio effettivo del diritto di difesa è spesso impedito dalla natura dei luoghi e dalla condizione di trattenimento, mentre i tempi di esecuzione dell’accompagnamento forzato risultano più veloci dell’intervento dell’autorità giudiziaria. L’art. 13 della CEDU stabilisce al riguardo il diritto a un ricorso effettivo dinanzi ad un' istanza nazionale a ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti dalla Convenzione siano stati violati. Ma gli Hotspot italiani, sotto questo profilo, sembrano realizzare quasi una condizione di extraterritorialità, come se non fossero soggetti ad alcuna giurisdizione, come se le persone trattenute per settimane si trovassero sospese in un limbo nel quale la loro condizione giuridica ( e materiale) restava stabilita, luogo per luogo, giorno dopo giorno, esclusivamente in base a regolamenti amministrativi ed a provvedimenti di polizia.
3. L’approccio Hotspot ai tempi della pandemia da Covid 19: le navi quarantena
L’emergenza da Covid-19 ha inciso in modo sostanziale sulle prassi adottate dalle autorità italiane per garantire un porto sicuro di sbarco ai naufraghi soccorsi in mare, o arrivati autonomamente a Lampedusa e in altri luoghi delle coste italiane. Il 7 aprile 2020 il Ministro delle infrastrutture e trasporti, di concerto con quello degli esteri, della sanità e degli interni, adottava il Decreto interministeriale (n.150) con il quale si definivano i porti italiani “non sicuri” per le navi battenti bandiera estera e per tutta la durata dello stato di emergenza sanitaria deliberato il 31 gennaio 2020. Il provvedimento veniva giustificato nella parte motiva n relazione alla salvaguardia della “funzionalità delle strutture nazionali sanitarie, logistiche e di sicurezza dedicate al contenimento della diffusione del contagio e di assistenza e cura ai pazienti Covid-19”. E quindi, “in considerazione della situazione di emergenza connessa alla diffusione del coronavirus e dell’attuale situazione di criticità dei servizi sanitari regionali e all’impegno straordinario svolto dai medici e da tutto il personale sanitario per l’assistenza ai pazienti Codiv-19, non risulta allo stato possibile assicurare sul territorio italiano la disponibilità di [tali] luoghi sicuri”. Era dunque possibile “in virtù di quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo sulla ricerca e salvataggio marittimo”, impedire l’ingresso nei porti italiani “per i casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area SAR italiana» (art. 1). Un provvedimento in linea con il decreto sicurezza bis n.53 imposto da Salvini nel 2019 per limitare le attività di ricerca e salvataggio elle navi delle ONG impegnate nel Mediterraneo centrale. In base al decreto del Capo Dipartimento della Protezione Civile n.1287 del 12 aprile 2020, “con riferimento alle persone soccorse in mare e per le quali non è possibile indicare il “Place of Safety” (luogo sicuro)» si prevedeva che «il soggetto attuatore, nel rispetto dei protocolli condivisi con il Ministero della salute, può utilizzare navi per lo svolgimento del periodo di sorveglianza sanitaria” [28].Si verificavano anche casi nei quali venivano trattenuti indebitamente minori non accompagnati ed addirittura venivano imbarcate sulle navi quarantena persone già sbarcate a terra ed ospitate in un centro di accoglienza, ma poi risultate positive ad un successivo tampone per COVID 19. La morte di alcuni giovani, anche di minore età, trattenuti per giorni a bordo di queste navi, segnava tragicamente una esperienza che, soprattutto per il protrarsi dello stato di emergenza sanitaria, avrebbe dovuto essere chiusa nel più breve tempo possibile e sostituita da un sistema di prima accoglienza a terra. Le morti di Abou Diakite, di Bilal Ben Masoud e di Abdallah Said, dopo il loro trattenimento a bordo delle navi quarantena, sono rimaste senza giustizia e pesano come un macigno sull’esperienza della prima accoglienza a bordo di navi traghetto, utilizzate durante l’emergenza pandemia come parte integrante dell’approccio Hotspot [29]. Nel caso dell’isola di Lampedusa il ricorso alle navi quarantena colmava anche l’assenza di mazzi navali per i trasferimenti dal centro di Contrada Imbriacola ad altri centri di accoglienza ubicati nel territorio nazionale. Sempre nel 2020 ’si verificava l’ennesima “riconversione” del Centro di prima accoglienza(Hotspot di Trapani-Milo, chiuso formalmente dal mese di febbraio di quell'anno, in centro di detenzione (CPR). Un piccolo centro con funzioni Hotspot veniva allestito anche a Pantelleria, nella ex caserma Barone [30].
4. Nuovi sviluppi dell’approccio Hotspot dopo la fine dell’emergenza Covid e la dismissione delle navi quarantena
Dal primo giugno 2022 si è posto fine al noleggio delle navi traghetto utilizzate come hotspot per la prima accoglienza, al fine di garantire un periodo di sorveglianza sanitaria in quarantena. Tutti i naufraghi soccorsi dalle ONG, e quelli molto più numerosi, (oltre l’87 per cento) salvati dalla Guardia costiera o dalla Guardia di finanza, o arrivati in autonomia, sono stati accolti così, dopo lo sbarco, in centri di prima accoglienza/hotspot ubicati esclusivamente a terra. Ad oggi sono aperti in Italia sei centri con funzioni Hotspot, a Lampedusa, Trapani, Pozzallo, Messina, Crotone e Taranto. Si tratta di strutture molto diverse tra loro, comunque la diversificazione dei porti di destinazione e dei place of sadety, imposti dal ministero dell’interno, determina la possibilità di operare secondo l’approccio hotspot in numerose altre città italiane, da ultimo anche a Livorno, a Salerno ed a Ravenna. L’intensificarsi degli sbarchi autonomi nell’isola di Pantelleria ha determinato il ricorso ad un approccio Hotspot anche nella piccola isola al centro del Canale di Sicilia, in una struttura, una vecchia caserma, che da sempre si è rivelata del tutto inadatta, anche in vista del trasferimento dei migranti nell’’hotspot di Trapani (Milo), ubicato peraltro all’interno di un CPR (centro per i rimpatri). Ma anche dove non si verificano “sbarchi autonomi”, come a Taranto, la situazione degli Hotspot rimane sempre al limite del collasso [31]. Dal Viminale, con il nuovo governo Meloni, sono arrivate soltanto proposte di ripristino dei cd. Decreti sicurezza adottati nel 2018 e nel 2019, e fantomatici auspici rivolti alla istituzione di centri Hotspot al di fuori dell’Unione Europea, nei paesi di transito, che però non hanno mai dato la loro disponibilità ad accettare nel loro territorio questo tipo di strutture detentive, e che peraltro non sono firmatari della Convenzione di Ginevra sui rifugiati ( come la Libia) o non vi danno una effettiva attuazione, come l’ Egitto, la Tunisia e l’Algeria [32].
Rimane ancora operativa la previsione del Decreto sicurezza n.113, convertito nella legge n.132 del 2018, che introduceva la possibilità di trattenere i cittadini stranieri destinatari di un provvedimento di allontanamento in “strutture diverse e idonee nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza” previsione che non veniva abrogata né modificata dal successivo Decreto Legge n. 130/2020, convertito con modifiche nella Legge n. 173/2020. A seconda della nazionalità, basti pensare ai tunisini, si sono verificati numerosi casi di migranti appena sbarcati a Lampedusa e destinatari di un provvedimento di respingimento notificato dalla questura di Agrigento subito dopo il trasferimento a Porto Empedocle. La criticità più grave che purtroppo si continua a riprodurre, anche negli Hotspot e nei centri di prima accoglienza, riguarda la sostanziale privazione della libertà personale che comporta la detenzione amministrativa al di fuori delle strutture definite come Centri per il rimpatrio (CPR), riservati ai destinatari dei provvedimenti di respingimento o di espulsione. Le persone trattenute nei centri di prima accoglienza o negli Hotspot, in molti casi, vi rimangono ancora oggi più a lungo dei quattro giorni previsti dalla Costituzione (art.13) per la convalida giurisdizionale delle misure amministrative di limitazione della libertà personale, senza alcun diritto di difesa, e spesso senza alcuna possibilità di accedere alla procedura di asilo [33]. I Rapporti delle Organizzazioni non governative che hanno potuto visitare più recentemente i centri di detenzione amministrativa in frontiera e le strutture Hotspot descrivono una realtà ben lontana dalle previsioni di legge e dalle prescrizioni amministrative imposte ai gestori dei centri. Tutto sembra affidato alla discrezionalità amministrativa delle autorità di polizia e delle prefetture. Dopo il ritiro delle navi quarantena e la fine dello stato di emergenza derivante dalla pandemia la situazione sembra ancora peggiorata, e però viene occultata attraverso l’uso mediatico di veri e propri argomenti di distrazione di massa come gli attacchi contro le ONG che farebbero da “spola” con i trafficanti nel trasporto dei migranti da una sponda all’altra del Mediterraneo [34] . Una menzogna smentita in tutte le sedi giudiziarie nelle quali si sono archiviati i procedimenti penali contro rappresentanti delle ONG, ma utile a sviare l’attenzione dell’opinione pubblica, e l’impegno delle autorità politiche, dai gravissimi problemi, non solo gestionali, ma anche di rispetto dei più elementari diritti umani e del principio di legalità costituzionale, che caratterizzano ancora oggi i centri con funzioni Hotspot in Italia.
Il sovraffollamento dei centri nei quali si pratica l’approccio Hotspot, a fronte di un incremento consistente degli arrivi via mare, oltre 100.000 nel 2022, deriva soprattutto dalla cronica mancanza di posti nei diversi sistemi di accoglienza italiani. Rispetto a 160.000 posti offerti fino al 2017 da centri di diversa natura e denominazione, oggi si può stimare che siano rimasti attivi effettivamente non più di 90.000 posti, compresi quelli recentemente attivati per i profughi ucraini. Per chi arriva attraverso le frontiere marittime l’accoglienza, dopo la fase del trattenimento negli Hotspot o nei centri di transito, prosegue nei Centri di accoglienza straordinaria (CAS) gestiti dalle prefetture. Ma per molti l'Italia è solo un paese di transito. La “guerra” ai soccorsi umanitari ed ai migranti, la deriva populista del nostro paese, la pesante discriminazione subita anche dai richiedenti asilo, i tempi delle procedure, inducono a lasciare prima possibile il nostro paese, magari con un "foglio di via" in mano. Che poi non è un lasciapassare per l'Europa, ma un provvedimento di respingimento differito che, se registrato nelle banche dati Eurodac (Regolamento UE n,603/2013,) pregiudica la possibilità di ottenere asilo in altri paesi europei. Manca una corretta informazione allo sbarco, e le autorità di polizia pensano solo di "liberarsi" dei migranti che non possono accogliere nei centri hotspot e nel sistema nazionale di accoglienza ed integrazione SAI (ex SPRAR). Un disastro umanitario poco visibile, che va affrontato con una svolta decisa.
All’interno dei centri Hotspot, o nelle altre strutture nelle quali si proceda con questo approccio, occorrerebbe stabilire criteri certi per i casi di temporanea limitazione della libertà personale, un ritorno al principio di legalità ed al rispetto dell’habeas corpus di tutte le persone “comunque presenti nel territorio nazionale”, base del riconoscimento dei diritti fondamentali ai quali fa espresso richiamo l’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998. Tutti i migranti, come stabilito dalla legge, dovrebbero ricevere informazioni circa i loro diritti, compreso quello di poter richiedere protezione internazionale, in forma e lingua per loro effettivamente comprensibili. Le procedure di identificazione e registrazione vanno svolte nel pieno rispetto dei diritti umani, senza alcuna forma di costrizione fisica e senza un trattenimento amministrativo prolungato, quando si renda necessario, oltre i limiti delle 48 ore per la comunicazione all’autorità giudiziaria e le successive 48 ore per la convalida. Nessun migrante deve essere respinto o espulso senza che il suo caso sia stato valutato singolarmente, considerato che nessuna norma attribuisce alle forze dell’ordine la facoltà di distinguere un richiedente protezione internazionale da un migrante cosiddetto economico. Nessuna persona può essere trattenuto nei centri di accoglienza a tempo indeterminato al solo fine di essere identificato e vanno comunque garantiti specifici percorsi protetti destinati alle categorie più vulnerabili, come donne, minori e vittime di tortura. Occorre ripristinare i controlli giurisdizionali sul trattenimento all’interno di tutte le strutture destinate al cd. Approcio Hotspot, fino ad oggi disciplinate esclusivamente in base alla normativa adottata in via amministrativa. Perché l’umanità indistinta che viene ammassata nei centri Hotspot non corrisponde esclusivamente a numeri da smaltire, ma contiene la somma di migliaia di vite spezzate e di sofferenze personali che vanno considerate con maggiore rispetto fin dal primo ingresso nel territorio italiano, non solo per quello che riguarda la loro attuale condizione giuridica e di fatto, ma anche nella prospettiva di un futuro dignitoso e nella legalità che non può essere negato.
[1] Vedi in https://www.open.online/2018/12/20/le-vittime-del-naufragio-del-18-aprile-2015-nel-canale-di-sicilia-erano-1100/
[2] Consultabile in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52015DC0240&from=es
[3] Vedi in https://eur-lex.europa.eu/IT/legal-content/summary/eu-asylum-policy-eu-country-responsible-for-examining-applications.html
[4] Consultabile in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32015D1601&from=IT
[5] G. Campesi, L’approccio Hotspot e il prezzo della coercizione, in https://www.rivistailmulino.it/a/l-approccio-hotspot-e-il-prezzo-della-coercizione
[6] Vedi la cronaca di quei giorni in https://stranieriinitalia.it/attualita/lampedusa-immigrati-in-rivolta-incendiato-il-centro-daccoglienza/
[7] R. Bottazzo, L’emergenza creata a Lampedusa aiuta a legittimare rimpatri e accordi dalla dubbia legittimità, in https://www.meltingpot.org/2022/07/lemergenza-creata-a-lampedusa-aiuta-a-legittimare-rimpatri-e-accordi-dalla-dubbia-legittimita/
[8] Vedi le Procedure operative standard (SOP) in http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/hotspot
[9] F. Vassallo Paleologo, Migranti economici e richiedenti asilo : una distinzione per escludere. Quali tutele per i veri migranti economici ? in https://www.a-dif.org/2017/06/04/migranti-economici-e-richiedenti-asilo-una-distinzione-per-escludere-quali-tutele-per-i-veri-migranti-economici/
[10] Vedi in https://www.avvisopubblico.it/home/home/cosa-facciamo/informare/osservatorio-parlamentare/attivita-legislativa/leggi-approvate/legge-n-47-del-2017-misure-di-protezione-dei-minori-stranieri-non-accompagnati/
[11] D. Aliprandi, Hotspot, strutture al collasso. A Pozzallo rinchiusi 180 minori, in https://www.ildubbio.news/carcere/hotspot-strutture-al-collasso-a-pozzallo-rinchiusi-180-minori-elr0vezd
[12] Vedi al riguardo, con riferimento alla situazione di sovraffollamento che si verifica ancora alla fine del 2022, https://www.lanuovacalabria.it/hotspot-di-crotone-al-collasso-quasi-mille-migranti-in-24-ore-e-casi-di-scabbia
[13] ASGI, Minori stranieri trattenuti illegalmente nel’hotspot di Taranto,:la CEDU chiede chiarimenti al governo italiano, in https://www.meltingpot.org/2018/02/minori-stranieri-trattenuti-illegalmente-nellhotspot-di-taranto-la-cedu-chiede-chiarimenti-al-governo-italiano/
[14] Vedi la Relazione della Commissione di inchiesta in https://www.camera.it/leg17/491?idLegislatura=17&categoria=022bis&tipologiaDoc=documento&numero=008&doc=intero ed anche la Relazione di minoranza Palazzotto, in ADIF, https://www.a-dif.org/2016/11/04/una-relazione-scomoda-sullapproccio-hotspot/
[15] C. Ruggiero, Le linee di tendenza della crimmigration nel sistema penale italiano dal “decreto Minniti” al “decreto sicurezza-bis”, in https://archiviopenale.it/le-linee-di-tendenza-della-crimmigration-nel-sistema-penale-italiano-dal-decreto-minniti-al-decreto-sicurezza-bis/articoli/25922
[16] Con particolare riferimento al centro Hotspot di Taranto si rinvia al rapporto dell’Autorità anti-corruzione (ANAC), reperibile in https://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/AttivitaAutorita/AttiDellAutorita/_Atto?id=28d2eda50a7780423adfc664d78c8915 con riferimento al centro Hotspot di Contrada Imbriacola a Lampedusa si rinvia a http://www.prefettura.it/agrigento/contenuti/Procedura_aperta_affidamento_gestione_e_funzionamento_centro_accoglienza_hotspot_lampedusa_ag_2020-9458799.htm
[17] Vedi C. Leone, La disciplina degli hotspot nel nuovo art.10 ter del d.lgs.286/98: un occasione mancata, in https://www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it/archivio-saggi-commenti/saggi/fascicolo-2017-n-2/73-la-disciplina-degli-hotspot-nel-nuovo-art-10-ter-del-d-lgs-286-98-un-occasione-mancata
[18] L’art. 10 ter del T.U. n.286/98, introdotto nel 2017, è l’unica norma del Testo Unico sull’immigrazione che fa espressamente riferimento all’approccio Hotspot. Si stabilisce che “Lo straniero rintracciato in occasione dell'attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell'ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all'articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l'informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell'Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito. In base alla stessa norma “Il rifiuto reiterato dello straniero di sottoporsi ai rilievi di cui ai commi 1 e 2 configura rischio di fuga ai fini del trattenimento nei centri di cui all'articolo 14. Il trattenimento è disposto caso per caso, con provvedimento del questore, e conserva la sua efficacia per una durata massima di trenta giorni dalla sua adozione, salvo che non cessino prima le esigenze per le quali è stato disposto. Si applicano le disposizioni di cui al medesimo articolo 14, commi 2, 3 e 4. Se il trattenimento è disposto nei confronti di un richiedente protezione internazionale, come definita dall'articolo 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, è competente alla convalida il Tribunale sede della sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell'Unione europea. Lo straniero è tempestivamente informato dei diritti e delle facoltà derivanti dal procedimento di convalida del decreto di trattenimento in una lingua da lui conosciuta, ovvero, ove non sia possibile, in lingua francese, inglese o spagnola.
[19] Vedi in https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/10/04/18G00140/sg
[20] Per gli stranieri destinatari di un provvedimento di espulsione, con accompagnamento forzato, secondo il nuovo articolo 13 comma 5 bis del T.U. immigrazione 286/98,“il questore comunica immediatamente e, comunque, entro quarantotto ore dalla sua adozione, al giudice di pace territorialmente competente il provvedimento con il quale è disposto l'accompagnamento alla frontiera. L'esecuzione del provvedimento del questore di allontanamento dal territorio nazionale è sospesa fino alla decisione sulla convalida. L'udienza per la convalida si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria di un difensore tempestivamente avvertito”
[21] La relazione del Garante Nazionale delle persone private della libertà personale presentata al Parlamento per l’anno 2019 è consultabile in https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/resources/cms/documents/00059ffe970d21856c9d52871fb31fe7.pdf
[22] Vedi in in https://www.penalecontemporaneo.it/upload/PALMA_Relazione_2017.pdf
[23] https://www.associazionemagistrati.it/allegati/parere-commissioni-civile-e-penale-su-dl-sicurezza-25nov18.pdf
[24] Nel parere dell’ANM si osservava anche che “Desta perplessità la previsione di un trattenimento che può arrivare anche fino a 7 mesi per i soli fini identificativi. Se è vero che l’art 8 della direttiva UE 2013/33 (c.d. “direttiva accoglienza”) stabilisce che tale forma di trattenimento può essere adottata nei confronti dei richiedenti asilo”, la stessa norma dispone, però, che “gli Stati membri non trattengono una persona per il solo fatto di essere un richiedente” e stabilisce, altresì, che il trattenimento deve essere disposto caso per caso in circostanze eccezionali e solo ove non sia possibile applicare misure meno afflittive. Si aggiunge, poi, che la possibilità che il trattenimento possa avvenire in “strutture idonee nella disponibilità dell’Autorità di Pubblica Sicurezza”, sembra costituire violazione dell’art. 10 della direttiva accoglienza (2013/33/UE) che prevede che il trattenimento possa di regola avvenire in appositi centri di trattenimento, ove, sempre in forza del medesimo art. 10, possano accedere, senza limitazioni, rappresentanti dell’UNHCR, familiari del richiedente, avvocati, consulenti e rappresentati delle ONG, accessi questi ultimi che paiono non compatibili con le attività che ordinariamente si svolgono nei locali nella disponibilità dell’autorità di pubblica sicurezza. Le esigenze sopra descritte, derivanti da obblighi di legge, non vengono soddisfatte dall’aggiunta – contenuta nella parte finale del comma 1 dell’art 4, nel testo licenziato al Senato della legge di conversione – del periodo “Le strutture ed i locali di cui ai periodi precedenti, garantiscono condizioni di trattenimento che assicurino il rispetto della dignità della persona”, integrando queste ultime la pre -condizione minima di qualsiasi restrizione della libertà personale che, però, non garantisce il rispetto degli ulteriori diritti fondamentali, come sopra richiamati”.
[25] In base all’art. 13 della Costituzione italiana, “non è ammessa alcuna forma di detenzione, di ispezione o di perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria, e se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.
[26] A. Mangiaracina, Hotspots e diritti: un binomio possibile?, in https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/5098-hotspots-e-diritti-un-binomio-possibile
[27] Si deve ricordare, dopo anni di interpretazioni assai contrastanti da parte degli uffici di polizia, la fondamentale sentenza a Sezioni unite della Corte di Cassazione, n. 15115 del 17 giugno 2013, secondo cui “il provvedimento del questore diretto al respingimento incide su situazioni soggettive aventi consistenza di diritto soggettivo: l’atto è infatti correlato all’accertamento positivo di circostanze - preupposti di fatto esaustivamente individuate dalla legge (art. 10, co. 1 e 2, T.U.) ed all’accertamento negativo della insussistenza dei presupposti per l’applicazione delle disposizioni vigenti che disciplinano la protezione internazionale...pertanto, in mancanza di norma derogatrice che assegni al giudice amministrativo la cognizione dell’impugnazione dei respingimenti, deve trovare applicazione il criterio generale secondo cui la giurisdizione sulle controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi, proprio in ragione dell’inesistenza di margini di ponderazione di interessi in gioco da parte dell’amministrazione, spetta al giudice ordinario”
[28] Secondo l’art. 1, comma primo, del decreto “Per assicurare il rispetto delle misure di isolamento fiduciario e di quarantena adottate per contrastare la diffusione epidemiologica da COVID-19, anche nei riguardi delle persone soccorse in mare, ovvero giunte sul territorio nazionale a seguito di sbarchi autonomi, è nominato Soggetto attuatore, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, dell’ordinanza del Capo del Dipartimento della protezione civile n. 630 del 3 febbraio 2020, il Capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno, che si avvale della Croce Rossa Italiana quale struttura operativa del Servizio nazionale ai sensi dell’articolo 13 del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1. Il Soggetto attuatore, previo assenso del Capo del Dipartimento della protezione civile, provvede all’assistenza alloggiativa e alla sorveglianza sanitaria delle persone soccorse in mare e per le quali non è possibile indicare il “Place of Safety” (luogo sicuro) ai sensi del decreto interministeriale citato in premessa e di quelle giunte sul territorio nazionale in modo autonomo. Con riferimento alle persone soccorse in mare e per le quali non è possibile indicare il “Place of Safety” (luogo sicuro) il Soggetto attuatore, nel rispetto dei protocolli condivisi con il Ministero della salute, può utilizzare navi per lo svolgimento del periodo di sorveglianza sanitaria. Per le attività finalizzate all’individuazione delle suddette navi e dell’attività istruttoria di natura tecnico-amministrativa ai fini delle procedure di affidamento dei contratti pubblici il Soggetto attuatore provvede per il tramite delle strutture del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti anche in house. Relativamente ai migranti che giungono sul territorio nazionale in modo autonomo il Soggetto attuatore individua, sentite le Regioni competenti e le autorità sanitarie locali, per il tramite delle prefetture competenti, altre aree o strutture da adibire ad alloggi per il periodo di sorveglianza sanitaria previsto dalle vigenti disposizioni, avvalendosi delle prefetture medesime che procedono alla stipula di contratti per il trattamento di vitto, alloggio e dei servizi eventualmente necessari, per le persone soccorse ovvero, in caso di mancanza di accordo, ad attivare le procedure di cui all’articolo 6, comma 7 del decreto legge n. 18 del 2020. Nel caso in cui non sia possibile individuare le predette strutture sul territorio, il soggetto attuatore provvede alla sistemazione dei migranti ai fini dell’isolamento fiduciario e di quarantena anche sulle predette navi.
[29] Y. Accardo, Così si muore sulle navi quarantena. La storia del diciassettenne Abdallah Said, in https://www.lasciatecientrare.it/cosi-si-muore-sulle-navi-quarantena-la-storia-del-diciassettenne-abdallah-said/
[30] ASGI, Pantelleria e Lampedusa: le criticità dell’approccio Hotspot, in https://www.meltingpot.org/2022/10/pantelleria-e-lampedusa-le-criticita-dellapproccio-hotspot/
[31] Si rinvia al Comunicato stampa del SAP (Sindacato autonomo di polizia) nei primi giorni di agosto del 2022, in https://www.corriereditaranto.it/2022/08/05/taranto-hotspot-e-criticita/
[32] Si vedano al riguardo le dichiarazioni dell’on. Molteni, sottosegretario al Ministero dell’interno, nella passata legislatura, in https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/taranto/1357311/migranti-molteni-situazione-in-hotspot-taranto-complessa.html
[33] Secondo la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale, “Né potrebbe dirsi che le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione subiscano attenuazioni rispetto agli stranieri, in vista della tutela di altri beni costituzionalmente rilevanti. Per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia della immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza e di ordine pubblico connessi a flussi migratori incontrollati, non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale, che, al pari degli altri diritti che la Costituzione proclama inviolabili, spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani. Che un tale ordine di idee abbia ispirato la disciplina dell’istituto emerge del resto dallo stesso articolo 14 censurato, là dove, con evidente riecheggiamento della disciplina dell’articolo 13, terzo comma, della Costituzione, e della riserva di giurisdizione in esso contenuta, si prevede che il provvedimento di trattenimento dell’autorità di pubblica sicurezza deve essere comunicato entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e che, se questa non lo convalida nelle successive quarantotto ore, esso cessa di avere ogni effetto.”
[34] Come è stato sostenuto in diverse occasioni dal ministro dell’interno Piantedosi, anche attraverso i social, vedi al riguardo, https://twitter.com/i/web/status/1609006568930148352
Interrogando ChatGPT sulla nuova disciplina del 425 cod. proc. pen.
di Giuseppe Sepe
Ho provato, con un po’ di curiosità e divertimento, a interrogare ChatGpt (un prototipo di chatbot basato su intelligenza artificiale e machine learning sviluppato da OpenAI) su questioni di diritto processuale penale. Lo scopo era verificare se l’agente artificiale fosse informato sulla nuova regola di giudizio del 425 cpp introdotta dalla riforma Cartabia. Le risposte dell’agente sono state all’inizio deludenti. In particolare, al di là di una infarinatura generale sulle novità introdotte dal Dlgs. 150/2022, il Chatbot non mi è parso in grado di cogliere appieno la novità delle modifiche del 425 cpp né di avere chiari i concetti fondamentali. Tanto che, inizialmente, nel paragonare la sentenza di non luogo a procedere all’archiviazione ha sostenuto che questa viene disposta dal P.M. autonomamente. Incalzato da altre domande, però, ha fornito una risposta interessante alla domanda sul nuovo parametro di giudizio previsto dal 425 cpp, come novellato (in calce, il testo dell’intervista).
È evidente che gli errori commessi (da bocciatura all’esame) dipendono da una non adeguata formazione del chatbot in campo giuridico e, specificatamente, in materia di diritto italiano. Si tratta di una lacuna tutto sommato non grave, considerata la vastità del sapere e la settorialità del dato specialistico oggetto della intervista. La cosa più notevole, però, è che il chatbot è in grado di imparare dal dialogo con gli utenti e ciò, pur considerato il rischio di apprendere informazioni erronee, gli consente di ampliare le conoscenze in maniera esponenziale. Se pensiamo ai milioni di utenti che entrano in contatto con l’applicazione e agli investimenti (pari a 10 miliardi di dollari che, in questi giorni, Microsoft ha annunciato di voler impiegare in questa specifica app), possiamo renderci conto della potenzialità futura di un simile strumento. Peraltro non l’unico (va citato qui, per par condicio, Sparrow, l’intelligenza artificiale di Google).
Ma davvero tutto ciò potrà servire a qualcosa in campo giuridico?
Per il momento mi paiono decisamente premature, e probabilmente nemmeno auspicabili, le previsioni di Richard Susskind (nel libro: l’avvocato di domani, 2019, Guerini Next) secondo cui ben presto la “macchina” ci offrirà il “ragionamento” attraverso il quale arrivare a una decisione. E noi dovremo solo “scegliere” la tesi che più ci soddisfa. Se davvero si arrivasse a questo, infatti, si aprirebbe immediatamente dopo la questione relativa “a che cosa servono più i giudici…”.
Tuttavia, l’idea di avvalersi dell’AI per le ricerche in campo giuridico, -cioè come una sorta di assistente virtuale in grado di identificare, all’istante, le normative che disciplinano un determinato istituto, di scandagliare la dottrina e la giurisprudenza per trovare i precedenti – è certamente più interessante e “alla portata”. Quando noi giudici svolgiamo una ricerca di giurisprudenza, ricorriamo a un sistema un pochino rudimentale immettendo nel Ced della Cassazione (o altro datawarehouse) alcune parole chiave per ottenere risultati le cui massime contengano quei termini. Siamo in grado di affinare la ricerca e riuscire, con un po’ di fortuna e di fatica, a trovare ciò che ci interessa leggere e studiare.
Un sistema di intelligenza artificiale potrebbe, tuttavia, assisterci in questo compito con più efficacia, abbreviando i tempi di ricerca e interpretando la nostra richiesta in maniera più specifica e fruttuosa. Per esempio un assistente potrebbe trovare i precedenti e classificarli in ordine di tempo e di significato offrendosi una risposta del genere: “ho trovato 10 sentenze della corte di legittimità che si occupano dell’argomento specifico, dal 2008 al 2022. Vi era stato un contrasto di opinioni tra la prima e la terza sezione della Suprema Corte, poi composto, nel 2020, dalle Sezioni Unite. Le successive sentenze risultano conformi al principio di diritto fissato dalle Sezioni Unite…”. Sembra chiaro che una risposta del genere (ammesso che sia affidabile, v. infra) consentirebbe al giudice di partire immediatamente dall’esame del principio di diritto, già sapendo che le successive decisioni non lo hanno ulteriormente messo in discussione.
Potrà obiettarsi che una “sintesi” del genere la si potrebbe cercare, e trovare, su un qualsiasi testo o manuale giuridico. E’ facile replicare che un qualsiasi testo “invecchia” in fretta se non è aggiornato. Mentre un assistente virtuale si aggiorna in tempo reale.
L’obiezione più rilevante, in realtà, è di tipo teorico e concerne quella che Amedeo Santosuosso (nel libro: “intelligenza artificiale e diritto”, 2020, Mondadori) chiama la metafora della “scatola nera” (black box) secondo cui i sistemi di deep learning sarebbero dei contenitori all’interno dei quali non si può guardare e non sarebbe quindi possibile “controllare come l’algoritmo raggiunga il risultato che raggiunge”. Questo implicherebbe una “difficoltà di conoscenza e ricostruzione delle decisioni” che potrebbe ostacolare (mia considerazione) il formarsi di un sentimento di “fiducia” verso le risposte fornite dalle macchine e quindi comprometterne l’impiego. Una simile obiezione, quale che ne sia il fondamento, non sembra irresistibile. E’infatti possibile immaginare un batteria di “test” di validazione dei risultati conseguiti dal sistema di intelligenza artificiale al fine di verificarne, in concreto, l’affidabilità. Sarà cioè necessario sottoporre l’agente di intelligenza artificiale a un test di “competenza” in grado di validare i risultati e renderli utilizzabili a fini di supporto, conoscitivo, del lavoro giudiziario.
Si aprono dunque scenari affascinanti o al contrario preoccupanti.
È prevedibile che i sistemi di intelligenza artificiale, alimentati da enormi quantitativi di dati e documenti, diventeranno sempre migliori dei precedenti. I confini etici, giuridici, e di opportunità del ricorso, nel mondo giudiziario, alla intelligenza artificiale dovranno essere normati nel dettaglio.
Di seguito l’“intervista” al Bot.
Parla del 425 cpp e non luogo a procedere
Il 425 cpp è un articolo del Codice di procedura penale italiano che riguarda il non luogo a procedere. Il non luogo a procedere è una decisione presa dal giudice che significa che non vi sono sufficienti prove per procedere con un processo penale. Ciò può accadere per diverse ragioni, ad esempio perché le prove sono state raccolte illegalmente o perché non c'è abbastanza evidenza per dimostrare la colpevolezza dell'imputato. L'articolo 425 cpp stabilisce che il giudice può dichiarare un non luogo a procedere in qualsiasi momento del procedimento penale, anche prima dell'inizio del processo, se ritiene che non vi siano sufficienti prove per continuare.
Differenza con l’archiviazione
L'archiviazione è una decisione presa dal Pubblico Ministero o dalla polizia giudiziaria che significa che non ci sono abbastanza prove per procedere con un'indagine penale. In altre parole, non ci sono ragioni sufficienti per continuare a indagare su un determinato caso. La decisione di archiviare un caso può essere presa a varie fasi dell'indagine, prima che venga formalmente aperto un procedimento penale.
Il non luogo a procedere, invece, è una decisione presa dal giudice, che significa che non vi sono sufficienti prove per procedere con un processo penale. La decisione di dichiarare un non luogo a procedere può essere presa solo dopo che un procedimento penale è stato formalmente aperto.
In sintesi l'archiviazione è una decisione del PM o della Polizia Giudiziaria, mentre il non luogo a procedere è una decisione del giudice.
In realtà non è così, perché l’archiviazione è decisa dal giudice su richiesta del Pm
Mi scuso per l'errore nelle informazioni fornite in precedenza. L'archiviazione può essere effettivamente decisa dal giudice su richiesta del Pubblico Ministero o della Polizia giudiziaria, o anche d'ufficio. In ogni caso, l'archiviazione è una decisione che mette fine all'indagine penale, poiché non ci sono ragioni sufficienti per continuare ad indagare su un determinato caso. In generale, si può dire che l'archiviazione rappresenta una sorta di "chiusura anticipata" del caso, mentre il non luogo a procedere è una decisione che può essere presa solo dopo che un procedimento penale è stato formalmente aperto.
Cosa è cambiato dopo la riforma Cartabia relativamente alla sentenza di non luogo a procedere?
La riforma del processo penale, varata nel 2018, ha apportato alcune modifiche alla disciplina del non luogo a procedere.
In particolare, è stato introdotto l'obbligo per il giudice di motivare in modo dettagliato la decisione di dichiarare un non luogo a procedere. Ciò significa che il giudice deve spiegare chiaramente le ragioni per cui ha ritenuto che non vi siano prove sufficienti per procedere con il processo.
Inoltre, è stato previsto che, in caso di dichiarazione di non luogo a procedere, il Pubblico Ministero possa presentare un appello contro la decisione, al fine di ottenere una revisione della valutazione delle prove da parte di una corte d'appello.
Inoltre, è stata introdotta la possibilità di utilizzare il non luogo a procedere come mezzo per evitare la prescrizione dei reati, solo se il giudice ha accertato l'esistenza di una penale responsabilità, l'esistenza del dolo o colpa e l'esistenza di un nesso causale tra condotta e evento, nel caso in cui non ci sono le condizioni per procedere con il processo.
In generale, la riforma ha inteso garantire maggiore trasparenza e prevedibilità nella decisione di dichiarare un non luogo a procedere, e ha rafforzato la possibilità di ricorso contro tale decisione.
In realtà la riforma Cartabia è del 2022. Cosa è cambiato nel 425 c.p.p.?
Mi scuso per l'errore nella data di riforma fornita in precedenza. La riforma del processo penale, varata nel 2022, ha apportato alcune modifiche alla disciplina del non luogo a procedere.
In particolare, è stato introdotto l'obbligo per il giudice di motivare in modo dettagliato la decisione di dichiarare un non luogo a procedere. Ciò significa che il giudice deve spiegare chiaramente le ragioni per cui ha ritenuto che non vi siano prove sufficienti per procedere con il processo.
Inoltre, è stato previsto che, in caso di dichiarazione di non luogo a procedere, il Pubblico Ministero possa presentare un appello contro la decisione, al fine di ottenere una revisione della valutazione delle prove da parte di una corte d'appello.
Inoltre, è stata introdotta la possibilità di utilizzare il non luogo a procedere come mezzo per evitare la prescrizione dei reati, solo se il giudice ha accertato l'esistenza di una penale responsabilità, l'esistenza del dolo o colpa e l'esistenza di un nesso causale tra condotta e evento, nel caso in cui non ci sono le condizioni per procedere con il processo.
In generale, la riforma ha inteso garantire maggiore trasparenza e prevedibilità nella decisione di dichiarare un non luogo a procedere, e ha rafforzato la possibilità di ricorso contro tale decisione.
Sì, ma qual è il parametro di giudizio che il giudice deve rispettare per prosciogliere l’imputato?
Il parametro di giudizio che il giudice deve rispettare per dichiarare un non luogo a procedere è l'esistenza di prove sufficienti per procedere con il processo penale. Ciò significa che il giudice deve valutare se ci sono ragioni sufficienti per ritenere che l'imputato sia colpevole del reato che gli viene contestato.
Per valutare l'esistenza di prove sufficienti, il giudice deve tener conto di tutte le prove raccolte nel corso dell'indagine, compresi gli elementi a favore e contro l'imputato.
Il giudice deve valutare se le prove raccolte sono attendibili e pertinenti, se sono state raccolte in modo legale, e se consentono di stabilire con certezza la colpevolezza dell'imputato. In caso contrario, il giudice dovrà dichiarare il non luogo a procedere.
Inoltre, per evitare la prescrizione del reato, il giudice deve accertare l'esistenza di una penale responsabilità, l'esistenza del dolo o colpa e l'esistenza di un nesso causale tra condotta e evento.
Sei quindi d’accordo sul fatto che il giudice svolge una prognosi di colpevolezza?
La valutazione dell'esistenza di prove sufficienti per procedere con un processo penale può essere vista come una sorta di prognosi di colpevolezza, poiché il giudice deve valutare se ci sono ragioni sufficienti per ritenere che l'imputato sia colpevole del reato contestato. Tuttavia, è importante precisare che la valutazione del giudice non è una sentenza di colpevolezza, ma una decisione che riguarda la procedibilità del caso.
Inoltre, la valutazione del giudice deve essere basata esclusivamente sulle prove raccolte e sulle circostanze del caso, e non deve essere influenzata da pregiudizi o considerazioni personali. In ogni caso, l'imputato non è considerato colpevole fino a quando non viene condannato in un processo penale regolare e che abbia rispettato i diritti di difesa.
Ok grazie
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