ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
1. Il tema della restrizione della libertà personale prima della condanna è da sempre oggetto di approfondimenti e riflessioni tra gli studiosi del processo. L’approccio è fortemente condizionato da molti elementi non ultimo dei quali quello del modello processuale.
Non senza alcune – rozze – semplificazioni si potrebbe essere tentati di dire che il modello processuale inquisitorio tendenzialmente sia orientato a prevedere la carcerazione preventiva, come peraltro emerge anche dalla nostra Carta costituzionale, che senza previsione della finalità (c.d. vuoto dei fini, riempito dalla giurisprudenza costituzionale e da quella ordinaria) è orientata – fermi solo i limiti massimi – a concepirla come funzionale al sistema (v. anche il riferimento all’autorità giudiziaria). Ciononostante naturalmente, nella evoluzione del modello non sono mancati recuperi di garanzia (controlli nel merito, pluralità di misure, gradualità, proporzionalità e tutto il coacervo di norme che ne accompagnano ora l’applicazione). Cose note, frutto di una lenta ma evidente evoluzione, contrassegnata da moltissime modifiche sia nei presupposti (sufficienti indizi versus gravi indizi), esigenze cautelari (variamente individuate) sia nelle soglie di pena, sia nelle esclusioni applicative, sia nelle presunzioni di pericolosità, sia con riferimenti soggettivi (soggetti deboli), sia a tutela delle vittime.
Si afferma, all’opposto – anche in questo caso con una nettezza facilmente confutabile – che un sistema accusatorio, impostato sulla presunzione di innocenza o di non colpevolezza, non ammetterebbe (forse si teoricamente) una carcerazione preventiva (al di là della presenza della concessione onerosa della cauzione), dato peraltro di cui è agevole sostenere la fallacia, come emerge dai sistemi anglosassoni impostati sul modello accusatorio.
Invero, al di là dei semplicisti schematismi così delineati, che non sono in grado di reggere di fronte ad una tematica complessa, va considerato che anche questo tema – come tutto il processo – risente di molti elementi quali storia, cultura, ordinamento giudiziario, contesti criminali, e l’evoluzione sociale e politica e il contesto sovranazionale, così da non poter essere meramente ricondotto entro schemi rigidi.
Del resto, il provvedimento restrittivo, a differenza delle decisioni di merito, è caratterizzato da tre elementi molto peculiari: è emesso (quasi sempre) senza contraddittorio (a sorpresa); è immediatamente esecutivo; l’impugnazione (quasi sempre: art. 310 c.p.p.) non ne sospende l’esecuzione.
Tutto questo trova conferma nella attuale disciplina del libro IV del Codice di rito penale. Com’è noto, superando la fase del c.d. rito ambrosiano, la riforma del 1988, autentico sistema, dentro il codice del 1988 (non casualmente fatto proprio addirittura dalla c.d. legge anticipatrice) è stato interessato, oltre a varie modifiche puntuali e specifiche (si pensi alle misure a tutela della vittima: art. 282 bis, 282 quater, c.p.p.), da due grandi passaggi riformatori che hanno rimodulato la materia nel senso di assicurare al soggetto da sottoporre a misura, maggiori garanzie (l. n. 332 del 1995; l. 47 del 2015).
Questa premessa, del tutto insufficiente a delineare un quadro complesso, molto articolato, a volte casistico, intessuto di modifiche normative e di apporti giurisprudenziali (con moltissime decisioni a sezioni unite) costituisce una solo abbozzata e ovviamente incompleta premessa per affrontare i profili sulla materia contenuti nel d.d.l. Nordio.
2. Il tema è affrontato nell’art. 2 del citato d.d.l., attraverso l’interpolazione di molteplici emendamenti agli artt. 291, 292, 294, 299, 309, 313 e 328 c.p.p.
Due sono gli assi portanti della riforma: il contraddittorio anticipato e la collegialità nell’applicazione della misura della custodia in carcere e della provvisoria applicazione della misura di sicurezza detentiva.
Anche se quest’ultimo aspetto viene differito (di due anni) all’assunzione in ruolo dei 250 magistrati di cui al reclutamento straordinario, per assicurare la funzionalità dei piccoli tribunali (stante la possibilità di situazioni di incompatibilità), sarà necessario tener conto comunque di questo elemento, per valutare la prospettiva riformatrice nella sua complessità e completezza.
Incrociando i due elementi, pare possibile affermare che, fermo quanto previsto dall’art. 284, comma 2, c.p.p., e quanto regolato in tema di responsabilità degli enti, sulla richiesta del pubblico ministero il giudice procederà all’interrogatorio anticipato ove la misura custodiale e non custodiale sia richiesta al di fuori dei pericula di cui alla lett. a e b dell’art. 274 c.p.p., nonché con esclusione dei gravi reati di cui alla lett. c sempre dell’art. 274 c.p.p., di cui all’art. 407, comma 2, lett. a c.p.p. e all’art. 362, comma 1 ter, c.p.p., ovvero dei gravi delitti commessi con uso delle armi o con altri mezzi di violenza personale.
Pertanto, difettando le altre esigenze (lett. a e b), si procederà all’interrogatorio anticipato solo in presenza delle situazioni di cui al secondo periodo della lett. c dell’art. 274 c.p.p.: a ben vedere si tratta delle situazioni che erano state oggetto del referendum, che, peraltro, non aveva raggiunto il quorum richiesto.
Come anticipato, la misura cautelare sarà disposta dal collegio solo nel caso in cui si debba applicare la custodia cautelare in carcere.
Nel valutare la misura da applicare e pertanto le modalità procedurali in relazione alla gravità del reato, sarà necessario considerare le situazioni per le quali le esigenze cautelari sono presunte, in termini assoluti o relativi dell’art. 275 c.p.p., con la conseguenza nel primo caso o di non applicare nessuna misura per la mancanza di esigenze ovvero di procedere alla decisione collegiale senza previo interrogatorio; ovvero nel secondo caso, relativamente alle diverse situazioni prospettabili, di procedere alla decisione collegiale, di non procedere alla decisione collegiale e di non procedere all’interrogatorio anticipato (ferma sempre la possibilità di non applicare nessuna misura).
3. I possibili percorsi procedurali, seppur così sommariamente tracciati, consentono di introdurre alcune prime riflessioni problematiche sottese alla riforma.
Così, esclusa la necessità della collegialità nel caso in cui il p.m. non chieda la misura della custodia cautelare in carcere, potrà il giudice, prima di determinarsi, valutare la richiesta del pubblico ministero o sarà vincolato dalla richiesta del suo contenuto?
In altri termini, richiesto della misura del carcere, dovrà procedere ad investire il collegio oppure, valutando di non applicare la misura inframuraria, procedere al contraddittorio anticipato, escludendo anche quelle esigenze cautelari che come visto la precludono?
Come dovrà essere valutata una richiesta di arresti domiciliari con braccialetto ovvero sarà necessario procedere collegialmente nel caso in cui alla richiesta del carcere il giudice ritenga di dare una misura meno afflittiva?
Le questioni emergono dalla formulazione dell’art. 291, 1 quater, c.p.p., ove si afferma che il giudice procede all’interrogatorio “prima di disporre la misura” facendo intendere che ci debba (o possa) essere una valutazione preliminare (del giudice singolo).
Del resto, sarebbe assurdo pensare che ritenendo infondata la richiesta del p.m. il giudice debba procedere comunque all’interrogatorio, con possibilità, forse, di dare in tal modo risposta agli interrogativi precedenti.
Ancora. Dovrebbe ritenersi, alla luce di quanto disposto indirettamente in materia di aggravamento delle esigenze ex art. 299 c.p.p., che una volta disposta collegialmente la misura del carcere spetti al collegio valutare la successiva concedibilità, a richiesta della difesa, delle misure meno afflittive, soprattutto nel caso in cui sia stata disposta, in caso di mancato accoglimento della richiesta del carcere, la misura degli arresti domiciliari (con o senza braccialetto) (con o senza contraddittorio anticipato, in relazione alle prospettate situazioni).
Sembrerebbe necessario considerare che se nel caso dell’eventuale rigetto de plano della richiesta del p.m. il materiale probatorio trasmesso sarà restituito senza che l’imputato ne abbia conoscenza, nel caso del rigetto successivo all’interrogatorio il segreto sugli atti verrebbe meno.
È evidente che se nel periodo che precede la decisione, mancando ogni ipotesi di arresto provvisorio, maturassero le esigenze cautelari preclusive del contraddittorio, il giudice potrebbe (rectius, dovrebbe) pronunciarsi senza attendere la presentazione dell’indagato.
Mancano precisi riferimenti procedurali conseguenti alle attività successive allo svolgimento dell’interrogatorio.
Resterebbe anche da considerare se, alla luce di quanto previsto dal novellato art. 292 c.p.p., a mente del quale l’ordinanza cautelare dovrà contenere una specifica valutazione degli elementi esposti nel corso dell’interrogatorio e del riformato 309, ove si prevede che sia trasmesso al tribunale della libertà (“in ogni caso”) il verbale dell’interrogatorio anticipato, il giudizio di riesame conservi la sua natura, ovvero se in questo caso non si accentui la natura di impugnazione, con la conseguente esigenza per la difesa di prospettare motivi di gravame.
Qualche interrogatorio potrebbe prospettarsi, pur in presenza del contraddittorio anticipato, sotto il profilo della collegialità, nel caso dell’applicazione del carcere nell’udienza di convalida.
Forti perplessità suscitano i profili delle garanzie difensive a tutela del soggetto che rende l’interrogatorio: manca, invero, a differenza di quanto previsto dall’art. 294 c.p.p., ogni riferimento – con le logiche conseguenze in punto di natura dell’invalidità ex art. 179, comma 1, c.p.p. – alla obbligatoria presenza del difensore, anche senza tener conto che manca ogni riferimento alla nomina di un difensore d’ufficio o di uno di turno.
Esistono, poi, perplessità sullo strumento per il timore di condizionamenti confessori, di chiamate in correità, di collaborazioni tese ad evitare le misure, soprattutto per quei soggetti non difficilmente identificabili sottoposti alla verifica anticipata.
Non possono, infine, negarsi le ricadute (negative) legate alla c.d. doppia collegialità sugli sviluppi processuali.
4. Ricollegandosi alle considerazioni iniziali si può sottolineare che nell’intento di rafforzare la tutela dell’indagato si assiste ad un ulteriore tentativo di anticipazione attraverso il contraddittorio del momento applicativo della misura, peraltro, in una misura che resta marginale e coinvolgente solo situazioni connesse al pericolo di reiterazione di reati, in una dimensione ipotizzata di non elevata criminalità.
Quanto alla collegialità, a parte il differimento della sua operatività, resta problematico il profilo della incidenza della pronuncia nei casi di contraddittorio anticipato sugli sviluppi processuali, aggravati da una eventuale decisione in sede di riesame, che forse le difese eviteranno (accentuando quanto già oggi succede) di richiedere.
Forti perplessità suscitano le segnalate carenze difensive, decisamente incomprensibili per una riforma che vorrebbe tutelare la libertà personale.
Sommario: 1. Il volume di Bruno Capponi su Legittimità, interpretazione, merito, Saggi sulla Cassazione civile. - 2. Alcune puntualizzazioni su: funzione, compiti, procedimento. - 3. La nomofilachia e la funzione della Corte. - 4. I nuovi compiti della Corte di Cassazione. - 5. Il procedimento ex art. 380 bis c.p.c. e la logica del respingimento.
1. Il volume di Bruno Capponi su Legittimità, interpretazione, merito, Saggi sulla Cassazione civile.
Bruno Capponi ha raccolto in un volume Legittimità, interpretazione, merito, Saggi sulla Cassazione civile, ESI, 2023, i suoi più recenti scritti in argomento.
Sono molti, e alcuni sono stati pubblicati in questa rivista; io li ho seguiti (direi) uno ad uno, nel momento in cui uscivano, interessato all’argomento e a prendere atto del pensiero di un processualista che stimo e che conosco da quando eravamo ragazzi.
È un piacere quindi per me presentare il volume appena uscito ai lettori di Giustiziainsieme.
Il volume, in terza di copertina, spiega in estrema sintesi la posizione di Bruno Capponi in ordine alla Cassazione civile.
La tesi di fondo è che la Corte sta progressivamente perdendo la sua funzione di garanzia per le parti e di controllo di legalità delle decisioni dei giudici di merito per acquisire una funzione di interprete sganciata dalla decisione del caso singolo e, a volte, per acquisire una funzione di vera e propria creatrice di nuovo diritto: “Non più giudice dei casi concreti, ma giudice delle questioni astratte, che somministra principi di diritto cui dovrebbero adeguarsi i giudici di merito secondo una concezione della giurisdizione più autoritaria che in passato”; e quindi: “alla ricerca di una funzione in purezza, con i rischi di una operazione destinata a snaturare ruolo e funzione della Corte” (pag. 78/79).
Questa idea di fondo emerge un po’ in tutti gli scritti di Bruno Capponi: v’è negli scritti dedicati alla nomofilachia, La Corte di Cassazione e la nomofilachia, pag. 47 e ss; La nomofilachia tra equivoci e autoritarismi, pag. 209 e ss.; v’è, ancora, dinanzi ai dubbi che possono nutrirsi nell’affidare alla Corte nuovi compiti quando questa è già oberata di lavoro e sommersa di ricorsi, E’ opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?, pag. 111 e ss.; è una idea che si trova altresì negli scritti dedicati più propriamente al procedimento, Una novità assoluta per il giudizio di legittimità: il giudice monocratico nel procedimento, pag. 261 e ss., Un piccolo dubbio sul rinvio civile, pag. 229 e ss., Notarella sull’art. 372 c.p.c. e sul rispetto del contraddittorio in Cassazione, pag. 235 e ss.; e soprattutto dedicati a quelle pronunce che hanno costituito creazione di diritto più che interpretazione dello stesso, Gli orientamenti nomopoietici, l’esempio di Cass., sez. III, n. 26285/2019, pag. 243 e ss., A proposito di Cass. SS.UU. 6 aprile 2023 n. 9479; e infine è presente nei molti scritti dedicati alla motivazione, pag. 121 e ss., nonché dedicati ai formalismi che regnano (purtroppo) sovrani dinanzi alla Suprema Corte, Il formalismo in Cassazione, pag. 81 e ss., Brevità, concentrazione, non ripetizione, pag. 91 e ss.
Accanto a ciò v’è poi la trattazione di un ulteriore tema, che è quello secondo il quale la giurisdizione costituisce una risorsa limitata, con la conseguenza quindi, in una certa misura, che non è scorretto cercare di contenere il numero dei ricorsi, e soprattutto tendere a dichiararli sovente inammissibili e/o manifestamente infondati, in una logica che Bruno Capponi definisce del respingimento.
Così, non solo una nuova nomofilachia che si astrae dai casi concreti e si trasforma, in taluni casi, in nomopoiesi, ma anche formalismi e respingimenti, oggi regolati dal nuovo art. 380 bis c.p.c. di cui alla recente riforma c.d. Cartabia, d. lgs. 149/2022. A tutto ciò è dedicato il volume.
Si legge infatti nella premessa: “A questa Corte magmatica, che sembra alla ricerca perenne di una sua propria identità, sono dedicati gli scritti qui raccolti. In attesa di un possibile annus mirabilis”. (pag. 10).
2. Alcune puntualizzazioni su: funzione, compiti, procedimento.
Ora, i temi sono molti e non possono essere tutti oggetto di commento.
Si tratta allora di fare una cernita, e soprattutto di sintetizzare le varie tematiche; e io credo che le questioni di fondo siano tre:
a) si tratta in primo luogo di indagare sulla funzione della Corte di Cassazione, ovvero sul ruolo c.d. nomofilattico che le è stato assegnato dall’art. 65 del regio decreto 30 gennaio 1941 n. 112;
b) si tratta poi di esaminare i compiti che specificamente le sono attribuiti, e che secondo Bruno Capponi sono aumentati in questi anni, alcuni addirittura in via di autoattribuzione in assenza di specifica previsione normativa;
c) e si tratta infine di valutare il procedimento con il quale questi compiti sono svolti, e quindi la funzione esercitata.
A questi tre momenti dedico le brevi osservazioni che seguono.
3. La nomofilachia e la funzione della Corte.
Per affrontare il tema della nomofilachia, mi sembra preliminarmente utile riportare alcuni passi del volume: “La Corte ha due anime: una deriva dall’art. 65 ord. giud. quale frutto di una concezione statalista e accentratrice anche della giurisdizione; l’altra deriva dall’art. 111, comma 7 (originariamente, comma 2) Cost., ed è frutto di una concezione garantistica per le parti, che sanno di poter sempre contare sul controllo di legalità delle decisioni dei giudici di merito”. (pag. 279).
“Queste due anime per lungo tempo hanno camminato insieme perché la Corte, decidendo il ricorso (art. 384, comma 1, c.p.c.), affermava il principio di diritto a valere per i casi futuri. La garanzia per le parti (art. 111, comma 7, Cost.) era dunque l’occasione per far emergere la funzione nomofilattica di orientamento della giurisprudenza (art. 65 ord. giud.) che peraltro si esprimeva in pronunciamenti non costituenti un vero e proprio vincolo per gli interpreti, poiché, secondo l’opinione più accreditata, il giudice di merito, soggetto soltanto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.) e superiorem non recognoscens (art. 107, comma 3, Cost.), ha il dovere di conoscere gli orientamenti della S.C. e di eventualmente motivare le decisioni in dissenso, ma non ha anche il dovere di uniformarsi acriticamente ai princìpi affermati dalla Corte” (pag. 280).
E tuttavia, sottolinea Bruno Capponi: “Le due anime della Corte sono destinate a entrare in conflitto qualora si voglia distaccare la funzione nomofilattica dalla funzione di garanzia……. allora la funzione della Corte rischia di scivolare fuori dal circuito francamente giurisdizionale per approdare in un contesto nuovo, dove si presuppone che il dialogo sia con la norma e non con il caso, e si presuppone anche che il frutto di un simile dialogo sia vincolante per ogni interprete (e non soltanto per le parti in lite)” (pag. 281).
In altri termini: “la Cassazione non è più o non più soltanto un giudice bensì un organo di coordinazione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria” (pag. 78).
Il concetto è ripreso anche nelle conclusioni: “La tendenza che sta prendendo piede all’interno della Corte è così quella di fare della Cassazione non più o non soltanto un giudice bensì – come è stato scritto – un organo di coordinazione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria, interessato assai più alla interpretazione del diritto che non alla sua applicazione in quei casi pratici che, per i tramiti delle impugnazioni, ascendono verso l’Organo di legittimità” (pag. 289).
Dunque, sulla contrapposizione di queste due anime, qualche parola deve essere spesa, anche perché, sempre con le parole di Bruno Capponi “Individuati in apicibus questi due compiti, il legislatore si è disinteressato dei dettagli” (pag. 279).
3.1. Io direi, in primo luogo, che nessuno mette oggi in discussione la funzione di nomofilachia della Corte di Cassazione, nessuno mette in discussione l’esigenza del trattamento paritario delle parti in giudizio nel rispetto dell’art. 3 Cost., e nessuno mette in discussione che una certa uniformità delle decisioni giurisdizionali sia un valore della nostra Repubblica.
Onestà intellettuale vorrebbe, però, dopo ciò, si ricordasse che mentre l’anima c.d. garantista fu voluta dai nostri costituenti e costituzionalizzata con l’art. 111 Cost, l’anima c.d. uniformista, se mi si passa questo termine, fu discussa ed espressamente bocciata in Assemblea.
Sono circa trenta anni che ricordo (senza alcun riscontro) che Piero Calamandrei, in sottocommissione, cercò di far approvare una norma di analogo contenuto all’art. 65 ord giud, ma che tale progetto trovò l’opposizione della stragrande maggioranza dei componenti, tra i quali Targetti, Bozzi, Ambrosini, Di Giovanni e Castiglia (v. La costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, Camera dei Deputati, 1976, VIII, 1958-9).
Calamandrei veniva così messo in minoranza, ed il progetto di costituzionalizzare il principio di unicità della Corte di Cassazione e di nomofilachia non aveva seguito, tanto che lo stesso Calamandrei, nella seduta pomeridiana del 20 dicembre 1946: “dichiarava di aderire alla proposta di Targetti e di ritirare il capoverso in esame”.
Piero Calamandrei, però, successivamente, con dubbio comportamento, riproponeva il medesimo testo bocciato in sottocommissione nel plenum dell’Assemblea.
Avverso ciò prendeva la parola di nuovo Targetti, ricordando la vicenda in sottocommissione e il ritiro di quel testo da parte dello stesso Piero Calamandrei, e rimprovera il collega: “L’onorevole Calamandrei si contraddice”.
La proposta di Piero Calamandrei non aveva quindi seguito, e in Assemblea, tutto al contrario, si discuteva del solo progetto di Giovanni Leone, volto a riconoscere a tutti il diritto di accedere alla Corte di cassazione per il controllo di legalità dei provvedimenti che incidono su diritti.
Sarà quello il nuovo art. 111 Cost.
Ripeto: nessuno mette in discussione l’odierno valore della nomofilachia, però è deprimente, a mio parere, che nessuno ricordi mai questo fatto storico, e tralasci il diverso peso delle due anime della Cassazione, per dirla con le parole di Bruno Capponi.
Si riesce addirittura a leggere monografie in argomento che non trattano di questa vicenda e affermano brevemente che il principio di nomofilachia è un principio costituzionale perché vi è l’art. 3 Cost.
3.2. Ciò premesso, si tratta di ribadire che il principio di nomofilachia, seppur non messo in discussione, necessita tuttavia di talune precisazioni, ed io direi, con Bruno Capponi, quanto segue.
a) La nomofilachia, in primo luogo, non deve concepirsi quale rispetto tassativo del precedente per i giudici di merito, non può assimilarsi alla tecnica dello stare decisis, poiché ciò, oltre a comportare un evidente immiserimento della funzione giurisdizionale, ci condurrebbe a metodi che non appartengono alla nostra tradizione giuridica di civil law.
Scrive Bruno Capponi che: ”nel nostro ordinamento non esiste la cultura del precedente, ed anzi da noi si riscontra una cultura che vede il singolo giudice come l’esponente superiorem non ricognoscens di un potere orizzontalmente diffuso” (pag. 50).
Sotto questo profilo dobbiamo infatti tutti ricordarci che la magistratura, nel nostro sistema, è, e deve rimanere, un potere diffuso, così come stabilito negli artt. 106 e 107 Costituzione.
E la magistratura non sarebbe più un potere diffuso ove questa dovesse solo riprodurre l’esistente.
b) In secondo luogo l’esigenza di trattare in modo paritario tutti i cittadini non può far venir meno il principio secondo il quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge e rispondono del loro operato secondo scienza e coscienza.
Un tempo si chiamava questo senso della giurisdizione, che, ritengo, non debba smarrirsi.
In questo quadro, è necessario che la nomofilachia non si renda nemica della pluralità e che non venga interpretata in senso rigorosamente verticale.
Possiamo e dobbiamo immaginare invece una nomofilachia che sia capace di rispettare l’indipendenza, anche interna, del giudice, e si muova e si formi in senso anche orizzontale, ovvero che riesca a trovare conferma, aggiustamento e integrazione con le motivazioni e le ragioni dei giudici del merito, che la condividono e la integrano, e alle volte, perché no?, la disattendono, se non ne sono, in scienza e coscienza, convinti.
Bruno Capponi: “Il giudice di merito ha il dovere di conoscere gli orientamenti della Suprema Corte e di eventualmente motivare le decisioni in dissenso, ma non ha anche il dovere di uniformarsi acriticamente ai princìpi affermati dalla Corte” (pag. 280).
c) In terzo luogo la nomofilachia non può trasformarsi nel potere di libera creazione del diritto, ed è altresì necessario che la Corte di Cassazione non si trasformi in un organo di coordinazione tra funzione legislativa e funzione giudiziaria, non essendo ciò contemplato da nessuna norma costituzionale e/o ordinaria.
È discutibile, infatti, che in ipotesi sempre più frequenti la Cassazione "non assicuri più l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge bensì integri la disciplina positiva con previsioni generali e astratte in alcun modo collegate con le norme che ha scrutinato” (pag. 258); e questo perché “La Cassazione è un giudice, non un legislatore di complemento ne’ un consulente giuridico ne’ un libero dispensatore di regole di comportamento indirizzate ai pratici” (pag. 259).
Con espressioni un po’ forti, il concetto è comunque chiaro: la nomofilachia non fa della Cassazione una fonte del diritto, ed è imbarazzante, al contrario, trovarsi sempre più spesso dinanzi “a decisioni che non interpretano bensì creano nuovo diritto” (pag. 299).
3.3. Dunque, in estrema sintesi, sempre per Bruno Capponi: “Le due anime della Corte debbono tornare a camminare insieme, e questa è forse la sfida più importante che attende la Cassazione nel prossimo futuro” (pag. 291).
4. I nuovi compiti della Corte di Cassazione.
V’è, poi, il tema dei compiti affidati alla Corte di Cassazione, e su ciò a me pare sia vero che, negli anni, essi siano sensibilmente aumentati.
Scrive Bruno Capponi che: “Ogni volta che il legislatore si occupa della Cassazione, finisce per attribuirle compiti nuovi” (pag. 28).
Forse non è inutile ricordarli.
4.1. Alcuni sono quelli assegnati dall’ultima riforma del processo civile.
Bruno Capponi scrive: “nel caso ultimo del d.lgs. n. 149/2022, oltre a quelli assegnati al giudice monocratico (si fa riferimento all’art. 380 bis c.p.c. di seguito trattato), nuovi compiti derivano dal rinvio pregiudiziale interpretativo (art. 363-bis c.p.c.) e dalla speciale ipotesi di revocazione introdotta all’art. 362 c.p.c., al quale è stato aggiunto un ulteriore comma in forza del quale le decisioni dei giudici ordinari passate in giudicato possono essere impugnate per revocazione, ai sensi del nuovo art. 391-quater c.p.c., quando il loro contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contrario alla Convenzione ovvero a uno dei suoi Protocolli. Si tratta, a tutti gli effetti, di un’impugnazione di merito, che tuttavia il legislatore – confermando il continuo passaggio della Cassazione verso orizzonti nuovi – ha inteso attribuire al giudice di legittimità”. (pag. 28).
Dunque, nuovi compiti sono disciplinati degli artt. 362, 363 bis 380 bis e 391 quater c.p.c., e su questi, in questa sede, non aggiungerei altro, vista l’ampia letteratura della quale godono.
Sul rinvio pregiudiziale Bruno Capponi ha specificamente scritto il saggio che si trova nel volume a pagg. 111 e ss., e mi limito a tale richiamo.
4.2. Tra i nuovi compiti, inoltre, può essere annoverato anche quello disciplinato dall’art. 363 c.p.c., al quale, di nuovo, Bruno Capponi dedica un saggio (pag. 47 e ss.).
Si tratta, come è noto, della possibilità riconosciuta alla Corte di Cassazione di emanare un principio di diritto anche in assenza di domande di parte per esigenze di “interesse della legge”.
Questa possibilità, che in una certa misura allontana la Cassazione dalle parti e la trasforma, così come indica Bruno Capponi, in un giudice delle questioni non litigiose, è sempre più utilizzata dalla Corte di Cassazione, e v’è stato un caso eclatante con la recente sentenza Cass. sez. un. 6 aprile 2023 n. 9479, pronunciata infatti in un processo rinunciato (v. pag. 293 e ss.).
L’istituto può dirsi nuovo perché l’art. 363 c.p.c. subì una importante novellazione nel 2006, che ne estese l’ambito di applicazione: la norma, da quel momento, è rubricata “principio di diritto nell’interesse della legge” e non più “ricorso nell’interesse della legge”; il PG, nell’interesse della legge, può impugnare anche i provvedimenti non ricorribili in cassazione; e la Corte può pronunciare il principio di diritto anche d’ufficio quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile.
L’istituto era già considerato da Mortara al suo sorgere di “poca simpatia” e di “ripugnanza logica” (v. Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, 1923, 21-2); in origine infatti il ricorso nell’interesse della legge aveva finalità politiche, poiché le procure, fino alla nostra Repubblica, dipendevano dall’esecutivo.
Con detto istituto il potere politico, così, del quale il procuratore dipendeva, aveva la possibilità di chiedere l’annullamento delle sentenze non gradite anche se non impugnate dalle parti.
Oggi, al contrario, con l’indipendenza degli uffici delle procure dal governo, l’istituto non sembra più rispondere ad alcuna logica, se si considera che il PM è già presente nel processo ai sensi degli artt. 69 e 70 c.p.c. e può impugnare la sentenza.
La riforma del 2006, invece di sopprimere un istituto storicamente superato, decideva di rafforzarlo, così attribuendo alla Cassazione una funzione nuova che fino a quel momento non aveva avuto, e che Bruno Capponi indica asserendo che la Cassazione ha oggi perso la sua funzione di garanzia per le parti e di controllo di legalità delle decisioni dei giudici di merito per acquisire una funzione di mera interprete del diritto, anche d’ufficio, e fuori da una dimensione più strettamente contenziosa.
Scrive inoltre Bruno Capponi: “Non più decisione della controversia, bensì affermazione di un’astratta regola rivolta alla generalità degli interpreti” (pag. 59); dal che: “Va ripensata la disciplina complessiva della pronuncia nell’interesse della legge………..Un dialogo esclusivo tra Procura e Corte non appare infatti adeguato a istruire una questione……..È bene riaffermare la regola di base, secondo la quale la Cassazione enuncia principi di diritto quando decide i ricorsi, quando cioè afferma la regola del caso e, incidentalmente e conseguentemente, quella a valere per i casi futuri” (pag. 70/71).
4.3. Da segnalare, infine, il nuovo compito che si è assegnato l’Ufficio del Massimario, il quale, oramai da anni, provvede con periodiche relazioni ad esporre ed interpretare le novità legislative.
Su ciò scrive Bruno Capponi: “Del resto, non può non notarsi – ed è stato infatti notato – che le relazioni dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo, liberamente consultabili sul sito della Corte, sono sempre più orientate verso l’analisi dei nuovi testi legislativi (numerose quelle dedicate ai vari aspetti del d.lgs. n. 149/2022), piuttosto che verso la giurisprudenza della stessa Corte, come in verità dovrebbe essere secondo le istruzioni impartite dal primo presidente, che parlano di «analisi sistematica della giurisprudenza di legittimità, condotta allo scopo di creare un’utile e diffusa informazione (interna ed esterna alla Corte di Cassazione) necessaria per il miglior esercizio della funzione nomofilattica della stessa Corte» Con ciò, anche l’ufficio del Massimario e del Ruolo tende a proporsi come primo interprete delle nuove norme, a fini non soltanto interni alla Corte, quasi integrando, da corpo burocratico, quell’attività interpretativa dei testi legislativi mediante la quale la Corte vorrebbe esercitare la “nomofilachia” svincolandosi dalle sue funzioni di giudice”. (pag. 290).
4.4. Che dire di tutto questo?
Mi limito, ancora, a riportare il pensiero di Bruno Capponi: “La Corte, dal canto suo, sembra alla costante ricerca di compiti nuovi, che esaltino le sue funzioni più nobili”. (pag. 280); mentre dovrebbe essere: “di elementare evidenza che una Corte Suprema schiacciata dalla mole dei ricorsi dovrebbe pensare a limitare e selezionare i propri interventi, non certo ad acquisire compiti nuovi che si affastellano su quelli già esistenti” (pag. 280).
Si tratta di temi sui quali una riflessione è forse necessaria.
5. Il procedimento ex art. 380 bis c.p.c. e la logica del respingimento.
Quanto al procedimento, esso è oggi in gran parte regolato dal nuovo art. 380 bis c.p.c.
Si tratta di una novità dirompente, poiché, nella sostanza, la decisione in Cassazione, dopo esser passata dalla sentenza all’ordinanza, oggi passa dall’ordinanza alla proposta del singolo consigliere.
Come è noto il nuovo testo prevede che dopo la comunicazione di detta proposta, la parte debba presentare una precisa istanza per ottenere il provvedimento decisionale collegiale, e l’istanza deve essere sottoscritta dal difensore munito di nuova procura; e se poi la decisione è conforme al parere, la parte sarà automaticamente (o almeno così sembra) condannata ad ogni sanzione di cui al terzo e quarto comma dell’art. 96 c.p.c., visto che la Corte, se: “definisce il giudizio in conformità alla proposta applica il terzo e il quarto comma dell’art. 96 c.p.c.”.
Bruno Capponi evidenzia come incongruente questa nuova procedura, e rileva come: “Il provvedimento del giudice singolo è dunque una decisione vera e propria, una anticipazione di giudizio in forma sommaria (perfettamente idonea a definirlo) che dovrebbe produrre una vera e propria incompatibilità del consigliere proponente a far parte del collegio giudicante, qualora la parte, nonostante tutto, intenda richiedere una decisione nel merito del ricorso. E invece, par di capire che quello stesso consigliere che ha tentato di sbarrare la strada al ricorrente, facilmente farà da relatore nella camera di consiglio” (pag. 270).
Effettivamente, credo anch’io che il nuovo art. 380 bis c.p.c. possa dare qualche problema di conformità ai nostri principi costituzionali e comunitari, e a tal fine desidero portare l’attenzione sui suoi stessi precedenti storici.
5.1. C’era una volta, come si diceva nelle favole, l’opinamento ottocentesco.
Nicola Picardi in uno scritto relativo al periodo della prima formulazione del art. 380 bis c.p.c. (Picardi, L’ordinanza opinata nel rito camerale in Cassazione, Giusto proc. civ., 2008, 321 e ss.), osservava non a caso che: “A ben vedere non si tratta di una novità (faceva riferimento al nuovo art. 380 bis c.p.c.), ma di un meccanismo processuale che ha una lunga storia ed ha avuto applicazione significative in altre epoche”.
L’opinamento, infatti, era un antico istituto che autorizzava il giudice ad anticipare ai difensori la propria decisione (o ad esternare preventivamente i dubbi che su essa egli aveva), e ciò al fine di raccogliere la loro opinione, rinviando il deposito del provvedimento definitivo a momento successivo.
L’opinamento, in questo modo, garantiva una decisione più retta, poiché estendeva il contraddittorio, che normalmente si esercita tra le parti, anche tra le parti e il giudice; e questa estensione del contraddittorio, o se si vuole questa anticipazione del giudizio da parte del giudice, era finalizzata a contenere possibili errori della decisione, con un meccanismo analogo a quello che oggi abbiamo solo per il deposito della CTU, visto che il CTU può depositare la sua relazione finale solo dopo che ne abbia inviato alle parti una bozza, e solo dopo che abbia recepito da esse le relative osservazioni (art. 195 c.p.c.).
L’opinamento era disciplinato in alcuni nostri Stati preunitari, e Nicola Picardi ricordava le regole dello Stato pontificio, e io quelle del Granducato di Toscana (Scarselli, La Corte di Cassazione a Firenze, 1838 – 1923, Giusto proc. civ., 2012, 623 e ss.).
Scriveva Nicola Picardi che: “nella procedura rotale, prima di emanare la sentenza irretrattabile, veniva comunicata alle parti la decisio, cioè sostanzialmente un progetto di motivazione, perché queste potessero controdedurre e la Rota potesse ritornare eventualmente sulle proprie decisioni: Nella prassi forense tale istituto veniva designato opinamento o sentenza opinata”; e sottolineava ancora Nicola Picardi: “l’opinamento è appunto risposta ad un dubbio; all’atto di volontà (sentenza) si arriva più tardi, quando risulti che le parti non chinano il capo al ragionamento del giudice”.
Io invece ricordavo l’art. 779 del Motu proprio del 2 agosto 1838 di Leopoldo II di Toscana, relativo al Regolamento di procedura civile, il quale prevedeva che il relatore potesse esternare alle parti i “dubbi” emersi nel corso della Camera di consiglio, invitando le parti a fornire per iscritto “schiarimenti” nel termine di otto giorni; ricevuta la comunicazione dei dubbi, le parti potevano anche produrre nuovi documenti, sempre a chiarimento dei punti controversi, e solo al termine di questi scambi di “opinioni” tra parti e giudici veniva pronunciata la sentenza.
5.2. Orbene, come detto, l’art. 380 bis c.p.c. nel suo testo originario, ricordava detta antica disciplina, prevedendo infatti che il relatore depositasse “in cancelleria una relazione con la coincisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e diritto in base ai quali ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio”; la relazione veniva notificata alle parti e queste avevano la possibilità di depositare memorie “non oltre cinque giorni prima” e addirittura potevano “chiedere di essere sentiti”.
Poi, però, la norma veniva considerata da alcuni troppo garantista, e quindi veniva modificata.
A seguito di una prima modificazione il relatore depositava in cancelleria solo “una coincisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia”.
Poi l’art. 380 bis c.p.c. si modificava ancora: le parti ricevevano a questo punto semplicemente una comunicazione della fissazione della camera di consiglio e la memoria da depositare, sempre cinque giorni prima, non poteva più avere una funzione di effettiva replica alla posizione del relatore; inoltre le parti perdevano il diritto di “chiedere di essere sentiti”.
E si arrivava così al testo odierno ove un consigliere formula “una sintetica proposta di definizione del giudizio” alla quale non segue una decisione, è essa stessa la decisione, se la parte non ha il coraggio di avventurarsi nei rischi dell’art. 96 c.p.c.
Il mutamento è evidente: nell’opinamento il giudice era interessato alla posizione dei difensori, oggi questo interesse è scomparso; nell’opinamento la posizione del difensore era considerata un contributo ai fini della decisione, oggi la posizione del difensore è considerata un atto di abuso del processo; nell’opinamento la prima decisione in forma breve era solo un mezzo per farne una migliore in via definitiva, oggi è essa stessa la decisione finale, visto che la legge non prevede l’incompatibilità tra il giudice del parere e quello della decisione, e visto che la conformità dell’uno con l’altra fa scattare automaticamente le sanzioni di cui all’art. 96 c.p.c.
5.3. Io credo, allora, conformemente a quanto Bruno Capponi ha scritto, che l’art. 380 bis c.p.c. necessiti di una lettura costituzionalmente orientata, la quale non possa non rispettare (almeno) questi criteri:
a) si tratta di evitare che il consigliere che ha depositato la proposta possa comporre il collegio decidente nel caso di istanza di cui al 2° comma dell’art. 380 bis c.p.c.;
b) e si tratta di immaginare che la decisione conforme alla proposta non comporti automaticamente l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 96 c.p.c., come una interpretazione meramente letterale della norma indurrebbe a fare “applica il terzo e il quarto comma dell’art. 96 c.p.c.”, ma la comporti nei soli casi nei quali, effettivamente, vi sia stato un atteggiamento difensivo da considerare abusivo.
Una esegesi costituzionalmente orientata deve infatti esclude che la richiesta di una decisione collegiale, a fronte di un parere reso da un giudice singolo, possa di per sé costituire abuso del processo; e parimenti deve escludersi che la decisione conforme al parere, di per sé, sia sempre la dimostrazione dell’esistenza di tale abuso.
La richiesta della decisione può dipendere dalle ragioni più varie: il parere del consigliere potrebbe aver trascurato fatti rilevanti, oppure orientamenti giurisprudenziali contrari esistenti, oppure contenere una motivazione del tutto insufficiente e/o incoerente, e tutto questo senza che ciò debba necessariamente comportare una differente decisione.
Quindi credo che sia necessario che la Corte di Cassazione, a fronte di ogni richiesta di decisione ai sensi del 2° comma dell’art. 380 bis c.p.c., non si limiti alla mera constatazione della conformità della decisione alla proposta, ma valuti in concreto se detta richiesta abbia i caratteri dell’abuso del processo e non sia invece giustificata da effettive esigenze di giustizia o da obiettive carenze della proposta stessa, e dia corso alle misure sanzionatorie di cui al 3° comma dell’art. 380 bis c.p.c. nelle sole ipotesi in cui la richiesta di decisione sia del tutto ingiustificata, ricordando sempre che una decisione completa e collegiale del ricorso presentato è un diritto costituzionalmente garantito ai cittadini ai sensi degli artt. 24 e 111 Cost.
5.4. Ovviamente a questo tema è infine strettamente collegato quello che Bruno Capponi definisce logica del respingimento.
Credo che niente di meglio vi sia al riguardo se non richiamare i dati statistici.
Scrive Bruno Capponi: “Secondo l’Annuario statistico 2022 (periodo 1° gennaio 2022/31 dicembre 2022 e serie storiche dal 2012 al 2022), pubblicato dall’Ufficio di statistica presso la Corte di cassazione nel gennaio 2023, le declaratorie di inammissibilità, dal 2012 al 2022, sono cresciute più di tre volte. Se nel 2012 venivano definiti con declaratoria di inammissibilità l’11,9% dei ricorsi, nel 2022 tale esito ha riguardato il 27,3% dei ricorsi. E giacché le statistiche riguardano la definizione del giudizio, e non anche le inammissibilità di singoli motivi che non precludono l’esame nel merito di altri motivi ammissibili, può affermarsi con sicurezza che l’esito dell’inammissibilità riguarda certamente più di un terzo dei motivi di ricorso per cassazione proposti, e quasi un terzo dei ricorsi. Si tratta di un numero importante, che rende chiara la variazione del rapporto tra regola ed eccezione: se, fino a poco prima del 2012, l’inammissibilità era un esito eccezionale, attualmente è un esito che si attinge almeno nel 30% dei casi. È un dato che fa riflettere di per sé, e che vieppiù colpisce se posto in relazione col potere che alla Corte compete a norma del comma 3 dell’art. 363 c.p.c.” (pag. 284).
Questa logica del respingimento non può giustificarsi sul presupposto del carico di lavoro della Corte oppure su quello dell’ignoranza degli avvocati.
Vi sono infatti ricorsi che vanno senz’altro respinti, ma il respingimento non può essere considerato un obiettivo.
Bruno Capponi, osserva al riguardo che “Ciò ha comportato l’emersione, nel tempo, di una esigenza organizzativa che ben presto si è trasformata in un ostacolo frapposto tra il cittadino e la tutela che lo Stato deve garantirgli attraverso il processo civile: la degiurisdizionalizzazione (pag. 13), e ciò, in sostanza, ha fatto sì che: “nelle impugnazioni prevale, quindi, la logica del respingimento, che abbiamo già visto propria della degiurisdizionalizzazione. È una logica perversa, che classifica come normale la possibilità che un’impugnazione non sia decisa nel merito, ma dichiarata inammissibile per difetto di prescrizioni formali” (pag. 23).
Credo che le perplessità sul punto di Bruno Capponi siano condivisibili, e non a caso questa sua posizione, sia consentito, ricorda un po’ un mio scritto di anni fa, con il quale, tra il serio e il faceto, indicavo L’Arte di respingere le domande (in Questionegiustizia), ovvero le tecniche con le quali questa logica del respingimento si concretizza, avvantaggiando il resistente sul ricorrente, e quindi infrangendo quello che dovrebbe essere il trattamento paritario delle parti nel processo.
Ancora Bruno Capponi: “Altro è il formalismo, insomma, altra la concezione del processo come trappola o labirinto: un campo minato in cui non è dato sapere con quale salvifico percorso ti salvi la pelle” (pag. 87).
Neppure il nuovo Vangelo della sinteticità e specificità degli atti sembra al riguardo salvifica.
Ricordo un ultimo passo di Bruno Capponi: “La lettera del Primo Presidente sembra dare per scontato che gli atti di parte siano lunghi e le sentenze brevi. Nonostante l’art. 132 c.p.c., opportunamente richiamato dal Primo Presidente, non sempre così è. Si tratta di argomento noto…….capita anche di leggere monografie di 600 pagine che potrebbero essere sintetizzate egregiamente in un quarto della loro estensione”. (pag. 100/102).
“La morte è terribile non per il non esserci più ma, al contrario, per l'esserci ancora e in balìa dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, dei mutevoli pensieri di coloro che restavano.”
Il monito che, col suo Candido, lancia Leonardo Sciascia è un invito a ricordare con discrezione e delicatezza chi non è più tra i vivi ma è stato conosciuto attraverso i suoi scritti o le sue opere.
Ciò vale soprattutto in occasione del ricordo del magistrato Rocco Chinnici, autentico e nobile servitore dello Stato, la cui morte è stata decisa, ed eseguita con modalità efferate, dagli esponenti mafiosi di vertice di “cosa nostra”, come accertato dalle sentenze passate in giudicato emesse dall'autorità giudiziaria di Caltanissetta.
Il 29 luglio 1983 si disse “Palermo come Beirut”.
Il Capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo, Rocco Chinnici, fu ucciso alle 8 del mattino di quel 29 luglio a seguito dell’esplosione di una Fiat 126 parcheggiata dinanzi la sua abitazione in via Pipitone Federico imbottita con 75 kg di esplosivo; in quell'esplosione insieme a lui persero la vita il Maresciallo dei Carabinieri Mario Trapassi e l'Appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della sua scorta, ed il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi, che come ogni mattina, li aveva appena salutati. Unico superstite della strage fu l'autista giudiziario Giovanni Paparcuri.
Un evento tragico che faceva seguito ad altri atti di guerra compiuti in quegli anni in danno dello Stato dalla mafia siciliana.
Dunque, né il primo né l’ultimo. Fu però il primo a “ferire” la città con l'uso dell’esplosivo. Le terribili immagini di via Pipitone Federico fecero il giro del mondo e Palermo apparve come un luogo di battaglia appena bombardato, proprio come Beirut.
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Ho avuto il privilegio di imbattermi nel testamento morale lasciatoci dal Consigliere Istruttore Rocco Chinnici quando, a metà degli anni ’90, all'inizio della mia attività professionale, sostenni l'accusa in giudizio davanti al Tribunale di Caltanissetta, in un processo nei confronti di un magistrato - oggi deceduto - che aveva svolto le funzioni di giudice istruttore presso il Tribunale di Termini Imerese e successivamente, presso il Tribunale di Palermo, imputato per gravi reati commessi nell'esercizio delle sue funzioni e per il periodo successivo al settembre 1982, anche per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Nell'ambito di tale dibattimento il Tribunale esaminò come testimoni tre magistrati, all’epoca in servizio presso l’ufficio istruzione diretto da Rocco Chinnici al quale avevano riferito di richieste di notizie e informazioni formulate dal magistrato predetto, successivamente destituito, in relazione a procedimenti pendenti presso l’Ufficio Istruzione di Palermo riguardanti indagini delicate e riservate su noti esponenti mafiosi volte a perorare la causa degli indagati.
Si trattava di raccomandazioni fatte dal loro collega nei riguardi di esponenti di rilievo di “cosa nostra”, in ragione della circostanza che a sua volta all’imputato del processo erano stati segnalati dal portiere dello stabile ove abitava o dalla persona di servizio o dal suo pescivendolo.
I magistrati esaminati in dibattimento fecero riferimento al rigore morale e alla adamantina correttezza del loro dirigente Rocco Chinnici il quale li mise in guardia da tali raccomandazioni invitandoli a predisporre una relazione di servizio su quanto accaduto.
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A distanza di quarant’anni dalla strage di via Pipitone Federico, il suo ricordo attualizza e rende viva l’eredità morale del magistrato Rocco Chinnici che, in un contesto torbido e irto di difficoltà -come testimoniato anche dai riferimenti presenti nei suoi Diari oltreché dai numerosi interventi pubblici riportati nel profilo che il CSM gli dedica - ha invertito il modo di essere magistrato in grado di svolgere il proprio servizio in favore unicamente dello Stato, esercitando la propria attività - anche di dirigente - con disciplina e onore, senza alcun interesse personale o di gruppo, nel pieno rispetto della deontologia professionale.
Si tratta di un modo di essere magistrato - lontano dal fare il magistrato - cui tutti noi oggi (che non abbiamo avuto il privilegio di conoscere il magistrato e l’uomo Chinnici) abbiamo il dovere di ispirarci per vivere quotidianamente l’autonomia e l’indipendenza del magistrato così come proclamata nella nostra Costituzione.
Grazie all’esempio di Rocco Chinnici, ed in forza dello stesso, abbiamo il dovere di acquisire e rafforzare gli anticorpi contro ogni forma di pressione, segnalazione o sollecitazione, di qualunque natura e provenienza, diretta ad influire indebitamente sui tempi e sui modi in cui amministrare la giustizia rifiutando il quieto vivere e modi comodi, burocratici e confortevoli.
In quegli anni difficili, ora lontani, il magistrato Rocco Chinnici invitava - ed ancora oggi la sua memoria lo fa - a dimostrare con forza e con dignità l'importanza ed il privilegio di indossare la toga, di rispettare il principio di autonomia e di indipendenza da ogni centro di potere, di avere il coraggio delle scelte anche difficili, di avere la capacità di innovare l’essere magistrato anche in contesti non limpidi, densi di tranelli e agevoli scorciatoie.
Nell’ambito della sua attività professionale, come emerge nitidamente dalle relazioni dei suoi dirigenti in occasione delle valutazioni che lo riguardavano, il magistrato Chinnici non è stato indifferente rispetto all’impegno quotidiano, ha allontanato il quietismo burocratico tipico di un certo “modo di fare” il magistrato.
Rocco Chinnici si è impegnato in prima persona istruendo e portando a compimento processi “nuovi” per quell’epoca, gravidi di conseguenze pericolose per la sua vita soprattutto in quel periodo, esponendosi in prima persona con il Diritto in mano e la toga nel cuore.
Dal profilo del sito del CSM sopra citato si legge: “Quello per l'omicidio di Francesco Mazzara e soprattutto quello per la strage di Viale Lazio, saranno i primi processi di mafia istruiti dal giudice Chinnici. A partire dal 1970, si occuperà del fenomeno mafioso arrivando a comprendere l’esistenza dei legami internazionali e di quelli con ambienti politico-istituzionali dell'associazione criminale. Di questi intrecci, dell'importanza degli appalti e della commistione fra "uomini d'onore" e politici ed imprenditori, nonché di quella escalation mafiosa che, secondo Rocco Chinnici, aveva posto le basi nell'omicidio del boss locale Francesco Mazzara e nella strage di viale Lazio, nonchè dei rapporti e delle differenze fra la mafia siciliana e le 'ndrine calabresi, può trovarsi testimonianza in una relazione tenuta per il Consiglio Superiore della magistratura nei primi giorni di giugno del 1982 dal titolo "La mafia oggi e sua collocazione nel più vasto fenomeno della criminalità organizzata".
Rocco Chinnici innovatore nel suo lavoro, anche nell’attività di coordinamento dell’Ufficio Istruzione per avere adottato una nuova metodologia investigativa.
La circostanza che ciascun magistrato seguisse i propri processi, pur attribuendo grande autonomia, comportava al tempo stesso l'estrema parcellizzazione delle conoscenze. Inoltre, spesso, i processi venivano celebrati per singoli episodi, per singoli reati.
Egli intuì – la sua grande intuizione - che un fenomeno radicato, globale, come quello della criminalità mafiosa richiedesse invece di essere affrontato nel suo complesso, non combattendo reato per reato, processo per processo. Decise così di costituire un gruppo di lavoro: chiamò all’Ufficio Istruzione Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e, dopo, Giuseppe Di Lello, e con loro istituì a livello informale quello che sotto la guida di Antonino Caponnetto prenderà il nome di pool antimafia.
Paolo Borsellino nella prefazione ad uno scritto di Rocco Chinnici dal titolo “L’illegalità protetta” così scrisse: “Credeva fermamente nella necessità del lavoro di equipe e ne tentò i primi difficili esperimenti, sempre comunque curando che si instaurasse un clima di piena e reciproca collaborazione e di circolazione delle informazioni tra «i suoi»”.
In una intervista Chinnici disse: «Un mio orgoglio particolare è una dichiarazione degli americani secondo cui l'Ufficio Istruzione di Palermo è un centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre Magistrature d'Italia. I Magistrati dell'Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo e battagliero»
Il metodo Chinnici è quello che tutti noi, soprattutto negli uffici di Procura della Repubblica, dobbiamo convintamente perseguire divenendo il caposaldo di ogni Progetto Organizzativo delle Procure per rispettare la memoria di Rocco Chinnici e perché la sua intuizione è stata vincente.
Il cittadino e magistrato Rocco Chinnici ebbe la piena consapevolezza che la risposta giudiziaria non è l’unica soluzione del problema della criminalità organizzata: occorre una crescita culturale della società civile e delle Istituzioni che va perseguita e costruita quotidianamente, partecipando con entusiasmo e professionalità a iniziative e lezioni di legalità nelle scuole, per invitare i giovani a vivere da persone libere ed aumentando sempre più gli spazi di legalità nel sociale così da assicurare la libertà e la democrazia.
«Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi [...] fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai»
Gli insegnamenti e l’eredità morale del giudice Chinnici sono più che mai attuali anche nella sua definizione di mafia come “un’associazione per delinquere con finalità d’arricchimento illecito…la mafia ha sempre una finalità ben precisa: arricchirsi in qualsiasi modo con qualunque mezzo ma cambia i sistemi ed i metodi” (intervista pubblicata in “Segno” n. 10 – 11 ottobre-novembre 1981, “Palermo, una città dominata dalla mafia”).
Oggi abbiamo il privilegio di percorrere l'autostrada della legalità nata da una piccola “trazzera” di campagna, irta, buia e tortuosa, trasformatasi con l'impegno di chi - come Rocco Chinnici, Mario Trapassi, Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi – ha per questo sacrificato la propria vita.
Una grande eredità che abbiamo il dovere di ravvivare e rafforzare.
Sommario: 1. La disapplicazione della legge di conversione del Milleproroghe, a pochi giorni dalla promulgazione dissenziente del Presidente della Repubblica. - 2. Nomofilachia balneare e processo amministrativo d’impugnazione. - 3. Tre argomenti non considerati. - 4. Proroghe giurisprudenziali, proroghe legislative e diritto nazionale vigente (sull’applicabilità dell’art. 16 D.lgs. n. 59/2010).
1. La disapplicazione della legge di conversione del Milleproroghe, a pochi giorni dalla promulgazione dissenziente del Presidente della Repubblica.
La stagione estiva 2023, oramai entrata nella sua fase culminante, vede ancora irrisolto l’interrogativo sulla scadenza delle concessioni demaniali marittime per uso turistico-ricreativo. Nelle osservazioni che seguono non si vorrà rivisitare, se non nei limiti dello stretto indispensabile, la problematica, lungamente e vivacemente dibattuta, del modo in cui l’adunanza plenaria ha assolto alla propria funzione di nomofilachia[1]. Ci si accontenterà di riflettere su uno degli ultimi sviluppi della vicenda, attorno al quale gli studiosi non hanno mancato di fornire un resoconto – anche perché si è imposto per qualche giorno all’attenzione della cronaca – ma che non è stato molto approfondito in sede dottrinale[2], quasi si trattasse di un episodio meritevole soltanto di essere menzionato come evoluzione lineare di una questione già ben definita.
Lo scorso mese di marzo il Consiglio di Stato[3] ha avuto occasione di applicare a sezioni semplici i princìpi stabiliti dall’adunanza plenaria nelle sentenze n. 17 e n. 18 del 2021, con una pronuncia che non rileva tanto per l’ennesima declaratoria di “anticomunitarietà” delle norme che prorogavano al 2033 le concessioni demaniali marittime – esito di per sé scontato (anche i termini del ricorso erano identici) – quanto per la chiosa che compare nell’ultima frase della motivazione: in cui si giudica incompatibile con il diritto U.E. e si dispone che dovrà essere ritenuto inefficace da parte di «qualsiasi organo dello Stato» l’art. 10-quater, comma 3, del decreto-legge 29 dicembre 2022, n. 198 (cd. Milleproroghe), interpretato dal giudice come una nuova ipotesi di «proroga automatica delle concessioni demaniali marittime», anch’essa «in frontale contrasto» con l’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE.
Nel giudizio di primo grado, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, appellante al Consiglio di Stato, si era vista respingere dal TAR Puglia sezione di Lecce il ricorso proposto contro una delibera comunale di proroga delle concessioni demaniali marittime adottata nel 2020, ovviamente in applicazione delle uniche norme nazionali di proroga allora vigenti (art. 1 commi 682 e 683 legge n. 145/2018).
Il Consiglio di Stato, sulla base di un riepilogo dei «princìpi enunciati in sede di nomofilachia», ha capovolto l’esito del giudizio di primo grado, disapplicando l’art. 1 commi 682 e 683 della legge n. 145/2018 e annullando il provvedimento impugnato, ma si è fatto carico di «soggiungere», un attimo prima della formulazione del dispositivo di accoglimento, «che, sulla base di quanto affermato dall’Adunanza Plenaria, con le ricordate sentenze nn. 17 e 18 del 2021, non solo i commi 682 e 683 dell’art. 1 della L. n. 145/2018, ma anche la nuova norma contenuta nell’art. 10-quater, comma 3, del D.L. 29/12/2022, n. 198, conv. in L. 24/2/2023, n. 14, che prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere, si pone in frontale contrasto con la sopra richiamata disciplina di cui all’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, e va, conseguentemente, disapplicata da qualunque organo dello Stato».
Come molti ricorderanno, il 23 febbraio 2023, sette giorni prima del deposito della sentenza, l’opinione pubblica aveva dato ampio risalto alla notizia che la legge di conversione del decreto n. 198/2022 era stata promulgata dal Presidente della Repubblica con lettera di motivazione contraria[4].
Ciò che il Quirinale aveva segnalato al Parlamento erano «molteplici profili critici» del decreto, tra i quali il «più evidente» erano le norme di proroga delle concessioni demaniali marittime, ritenute «contrastanti» con le sentenze del Consiglio di Stato e «difformi» dal diritto dell’Unione europea.
Il dissenso del Presidente della Repubblica nasceva da alcune disposizioni della legge 24 febbraio 2023 n. 14, di conversione del decreto-legge n. 198/2022, che hanno di nuovo allungato il periodo di efficacia delle concessioni demaniali marittime per uso turistico-ricreativo e sportivo rispetto al termine che il Parlamento aveva previsto, sul finire della XVIII^ legislatura, con la legge n. 118/2022, nel quadro di un intervento che intendeva adeguare la legislazione italiana agli obblighi comunitari sanciti dall’adunanza plenaria (e dalla sentenza Promoimpresa e Melis della Corte di Giustizia dell’Unione europea, V Sez., 14 luglio 2026, C-458/14 e C-67/15), mentre pendeva la procedura d’infrazione avviata dalla Commissione europea con lettera C(2020)7826 del 3 dicembre 2020.
Più precisamente, con la legge 5 agosto 2022, n. 118 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021), le Camere – già sciolte dal 21 luglio 2022[5] in vista delle elezioni politiche – avevano riconosciuto i princìpi affermati dalla plenaria e operato alcune importanti modifiche; in rapida sintesi:
a) abrogazione delle disposizioni (art. 1 commi 675-683 della legge 30 dicembre 2018 n. 145) che prevedevano la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime al 31 dicembre 2033, dichiarate dall’adunanza plenaria incompatibili con il diritto dell’Unione europea (art. 3 comma 5);
b) delega al Governo ad adottare, nel termine di sei mesi (inutilmente scaduto il 27 febbraio 2023), uno o più decreti legislativi in materia di affidamento delle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali per finalità turistico-ricreative e sportive (art. 4);
c) delega al Governo ad adottare, nel termine di sei mesi, portati a undici dal decreto Milleproroghe (dal 27 febbraio 2023 al 27 luglio 2023), un decreto legislativo per la mappatura e la trasparenza dei regimi concessori di beni pubblici (art. 2);
d) fissazione una proroga “tecnica” di durata identica a quella individuata dall’adunanza plenaria (31 dicembre 2023), per consentire alle amministrazioni locali di espletare i nuovi affidamenti delle concessioni, una volta entrato in vigore il nuovo regime legislativo delegato (art. 3 comma 2).
Mette solo conto di aggiungere che il governo italiano ha fatto leva proprio sull’emanazione della legge n. 118/2022 e sull’abrogazione delle norme di proroga delle concessioni al 31 dicembre 2033 per sostenere, in un altro processo pendente davanti alla Corte di giustizia (C-348/22), la perdita di rilevanza della questione pregiudiziale sollevata dal TAR Puglia sezione di Lecce – l’unico giudice italiano di primo grado che notoriamente non condivide la tesi della plenaria[6] – in merito alla efficacia self-executing dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE. L’eccezione è stata respinta e la questione è stata decisa dalla Corte di giustizia nei termini che sappiamo, con la sentenza del 20 aprile 2023[7]. Non può tuttavia passare inosservato che, accreditando alla legge “concorrenza” il merito di aver cambiato la situazione giuridica nazionale, l’Italia abbia rappresentato ai Giudici dell’Unione europea un quadro normativo interno non più difforme dagli obblighi sanciti della sentenza Promoimpresa e Melis.
Nel frattempo, fuori dal contesto appena ricordato, la maggioranza parlamentare insediatasi con la XIX^ legislatura aveva confermato di non volersi attenere alle scelte operate dalla legge n. 118/2022[8]. Nel “punto stampa” tenutosi in occasione di una visita ad Algeri, sul finire del mese di gennaio 2023, la Presidente del Consiglio aveva dichiarato, a nome del Governo, che gli «imprenditori balneari» sarebbero stati «difesi» e messi «in sicurezza» da una direttiva europea (n. 2006/123/CE) che ad essi «non andava applicata»; e che tale intento politico sarebbe stato realizzato attraverso una soluzione «non temporanea», bensì di tipo «strutturale». Non era ancora certo che il disegno, com’è poi accaduto, si materializzasse negli «emendamenti» confluiti nella legge di conversione del decreto-legge n. 198/2022, dalla quale emerge un uso gravemente inappropriato del potere di conversione. Basti ricordare che il Governo stesso, con il decreto-legge n. 198/2022, si era disinteressato delle concessioni demaniali marittime per uso turistico-ricreativo. Anzi, per queste ultime aveva ribadito i termini previsti dalla legge “concorrenza”, disponendo un’unica ipotesi di proroga, giustificata da finalità di sostegno alla «società» e alle «associazioni sportive dilettantistiche senza scopo di lucro». Per il resto, doveva restare «fermo (…) in ogni caso quanto previsto per le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali» dalla legge n. 118/2022.
La legge n. 14/2023 è intervenuta su quanto previsto per le concessioni dalla legge n. 118/2022, manifestando, appunto, quell’intento di riforma «strutturale» estraneo e scientemente accantonato dal decreto-legge convertito. Un simile modo di esercizio del potere di conversione meriterebbe un attento scrutinio di omogeneità rispetto al provvedimento governativo e, naturalmente, a questo punto il discorso dovrebbe ampliarsi in una direzione che qui non pare consentita. Una cosa però si può dire: tanto più si sottolinea il “divorzio politico” tra la legge n. 14/2023 e la legge n. 118/2022, e tanto più si pone l’accento sull’originalità della soluzione organizzativa che la nuova maggioranza parlamentare ha voluto tradurre in emendamenti creativi di nuovi articoli del testo del D.L. n. 198/2022, quanto più forte è il sospetto che la legge di conversione incorra nella violazione dell’art. 77 comma 2 Cost. per aver soggiunto disposizioni “intruse”, prive d’interrelazione con l’atto soggetto a conversione; vizio più volte acclarato dalla Corte costituzionale anche e proprio in merito ai decreti “Milleproroghe”[1].
La sentenza n. 2192/2023 non ha colto, e forse non poteva cogliere questo profilo, non foss’altro perché una questione di costituzionalità sarebbe risultata del tutto irrilevante, essendo la disapplicazione del Milleproroghe un mero obiter (come vedremo più avanti).
Resta da valutare se la Sezione VI^ abbia fatto bene a cogliere l’altro aspetto, il medesimo che ha formato oggetto delle già menzionate preoccupazioni del Presidente della Repubblica: l’inversione di rotta verso l’adempimento degli obblighi comunitari in materia di concessioni “balneari”, che con la legge n. 118/2022 sembrava aver finalmente raggiunto un punto di approdo.
2. Nomofilachia “balneare” e processo amministrativo d’impugnazione.
Ora non è dato sapere se il messaggio del Presidente della Repubblica abbia avuto un peso sulla decisione del giudice. Esiste tuttavia un motivo per cui la sentenza della Sezione VI^ n. 2192/2023 non può restare senza un commento. Si tratta di una pronuncia che fa riferimento a una singola disposizione del decreto Milleproroghe (art. 10-quater del D.L. n. 198/2022, convertito), non per “disapplicarla”, ma per compiere un’operazione interpretativa di più ampio rilievo sistematico: dichiarare che i princìpi enunciati in sede nomofilattica sono assimilabili a fonti di una vera e propria disciplina normativa transitoria delle concessioni, la cui derivazione sopranazionale non lascia al legislatore altro che un’attività di pura e semplice esecuzione.
Il principio sottinteso alla disapplicazione del Milleproroghe è che non può, il Parlamento, neppure variare il giorno di scadenza della proroga tecnica (31 dicembre 2023) autorizzata dalla plenaria per dar tempo alle amministrazioni di procedere ai nuovi affidamenti (e, al legislatore, di riformare la disciplina dell’affidamento delle concessioni demaniali marittime): o le Camere accettano tutto il pacchetto preconfezionato in sede di nomofilachia, oppure ogni legge sulla durata delle concessioni è contraria al diritto dell’Unione.
Sembra piuttosto evidente che in questo modo si innalzi ulteriormente il livello della “pretesa” del Consiglio di Stato, nonché la sua propensione – in parte manifestata anche dall’adunanza plenaria[9] – a far proprie le logiche di funzioni extragiudiziarie. Può darsi che l’idea di stringere le maglie del sindacato incidentale sulla compatibilità euro-unitaria della legge sia consequenziale alle pronunce di nomofilachia. Sta di fatto che la sentenza n. 2192/2023 non può essere intesa come una mera “propaggine” di queste ultime: l’impressione è di una sentenza con la quale la Sezione VI^ è stata probabilmente (si permetta l’espressione) «più realista del Re».
Il riferimento è anzitutto alla qualificazione del termine del 31 dicembre 2023, che per la Sezione VI^ è tanto inderogabile quanto lo è quello di recepimento di una direttiva; mentre nella realtà è solo una data equitativamente stabilita dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato nell’esercizio del suo potere di graduare nel tempo gli effetti di una sentenza di annullamento. La messa in mora con la quale la Commissione europea contesta a uno Stato membro di essere in ritardo nell’attuazione di una direttiva, ad esempio, ben può essere fondata su un anno di ritardo, a maggior ragione ove ciò derivi dalla volontaria posticipazione delle procedure di adattamento. Nel caso che ci occupa, il 31 dicembre 2023 non è fissato da un atto-fonte comunitario, ma è il risultato della valutazione prognostica di un giudice nazionale, che lo ha «congruamente» stabilito. E non si può dire, rispetto al diritto dell’Unione, che la data del 31 dicembre 2024 sia meno congrua del 31 dicembre 2023, solo perché il Milleproroghe, a differenza della legge n. 118/2002, nasce senza l’avallo del giudice amministrativo.
Gli elementi di frizione, peraltro, oltre che con il decreto Milleproroghe, sono anche con il Codice del processo amministrativo e, paradossalmente, con alcuni princìpi affermati dalla stessa plenaria.
Nessun dubbio che lo slancio della Sezione VI^ sia generosamente diretto ad anticipare la soglia d’intervento contro le leggi elusive di ciò che la plenaria ha stabilito. Ma, anche a sorvolare sul fatto che non siamo ancora al 31 dicembre 2023 – e che non si può dare per scontato che al 1 gennaio 2024 il Milleproroghe sia ancora in vigore – la Sezione VI^ allarga il suo potere di disapplicazione fino a ricomprendervi una norma della quale non aveva alcun obbligo di applicazione, trattandosi di norma sopravvenuta, non disciplinante il provvedimento del Comune di Manduria, il quale aveva prorogato le concessioni al 31 dicembre 2033 unicamente sulla base dell’art. 1 commi 682 e 683 della legge n. 145/2018, a carico dei quali la Sezione VI^ (questa volta correttamente) accerta, nella prima parte della sentenza, lo stesso regime d’inefficacia già acclarato in sede di nomofilachia.
Difficile sfuggire all’impressione che la “chiosa” sul Milleproroghe concretizzi un giudizio su poteri non ancora esercitati, non consentito dal Codice del processo amministrativo (art. 34 comma 2) e non richiesto, a me pare, neanche dalla plenaria. Quest’ultima, com’è noto, aveva soggiunto che una «eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire (…) andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’U.E.». Perciò aveva concluso che l’obbligo di disapplicazione fosse da intendersi esteso ad eventuali disposizioni legislative che «in futuro dovessero ancora disporre» la «proroga automatica» delle concessioni.
Tuttavia, a parte ogni considerazione sulla fondatezza di simili assunti, non c’è motivo di ritenere che quest’obbligo di disapplicare leggi «ulteriori» non sottintendesse la pendenza di controversie concrete, nate da ricorsi contro provvedimenti amministrativi o, comunque, dalla censura di specifici atti o fatti di esercizio di potere conformi a nuove leggi di proroga delle concessioni; non vi è ragione di pensare che l’allusione della plenaria a proroghe future volesse derogare allo schema del processo amministrativo d’impugnazione.
La Sezione VI^ sembra invece essersi accontentata di due cose: il fatto che una legge del Parlamento avesse prorogato le concessioni demaniali marittime e, nel contempo, l’intuizione del pericolo che la nuova legge, ove non fosse stata dichiarata inapplicabile già in sede di cognizione, potesse in qualche misura interferire con l’attuazione del giudicato, frustrando l’effetto della sentenza che la stessa Sezione stava pronunciando.
3. Tre argomenti non considerati.
In margine a questo convincimento, giova puntualizzare tre aspetti.
In primo luogo, il decreto Milleproroghe, anche dopo la conversione nella legge n. 14/2023, sposta solo (o quasi) termini legislativi: mantiene inalterato l’intento della legge “concorrenza” e non rappresenta un ritorno al modello accolto dalla legge di bilancio 2019. È vero che i poteri del Tavolo tecnico istituito dall’art. 10-quater del decreto Milleproroghe, per la definizione dei criteri ricognitivi della scarsità della risorsa, ricordano (con qualche variazione di compagine) le funzioni di mappatura del litorale che i ministri avrebbero dovuto esercitare per l’emanazione del DPCM previsto dall’art. 1, commi 675, 676 e 677 della legge n. 145/2018. Così come è fuori di dubbio che il Milleproroghe voglia superare entrambe le deleghe legislative previste dalla legge concorrenza, non solo quella per la riforma delle procedure di affidamento (scaduta il 27 febbraio 2023), ma anche quella sulla mappatura della risorsa, prorogata di undici mesi, ma sostanzialmente svuotata e destinata anch’essa a cadere nel vuoto il 27 luglio 2023. Insomma è probabile che il reale obiettivo del decreto-legge n. 198/2022, dopo le modifiche apportate in sede di conversione, sia solo quello di restituire all’amministrazione, sottraendoli alla legislazione, i poteri di “regìa” (determinazione della scarsità della risorsa) che condizionano l’inizio delle nuove procedure.
Ciononostante resta in piedi, nel Milleproroghe, il fine ultimo della legge concorrenza: cambiare le regole in tempi brevi per avviare le procedure di affidamento. La proroga di un anno, dal 31 dicembre 2023 al 31 dicembre 2024, non può avere – non presuntivamente – lo stesso disvalore della proroga quindicinale che era stata stabilita dall’art. 1 comi 675 e seguenti della legge di bilancio 2019. Se non altro, al decreto-legge Milleproroghe non si può addebitare la restituzione di quel “diritto d’insistenza” sul bene demaniale marittimo, lacuale o fluviale, da cui ha avuto origine il contenzioso comunitario in merito alla durata delle concessioni.
In secondo luogo, sussiste il problema dell’individuazione dell’articolo del Milleproroghe da disapplicare. Nella sentenza n. 2192/2023 questo importante passaggio – la “focalizzazione” della norma responsabile della proroga anti-comunitaria – non sembra portato correttamente a compimento.
Sul punto occorre soffermarsi un attimo di più, non per semplice gusto di disquisizione logico formale o solo per sottolineare un errore del giudice d’appello; del resto è comprensibile che un convincimento maturato nello spazio di qualche giorno, come quello del Consiglio di Stato, origini da una valutazione sommaria e possa di conseguenza incontrare qualche inesattezza. Non può tuttavia sfuggire – ed è quello che interessa – l’origine dell’errore, a mio avviso da ricercare nella formulazione per più versi difettosa, nell’estrema disorganicità della legge di conversone del Milleproroghe, che suggeriva – e suggerisce obbiettivamente – molta prudenza prima di formulare un giudizio incidentale di inapplicabilità “astratta” di una o più disposizioni.
L’art. 10-quater comma 3, individuato dalla Sezione VI^, non prevede una proroga automatica e generalizzata delle concessioni. La norma è stata scritta «ai fini dell’espletamento dei compiti del tavolo tecnico di cui comma 1», che dovrà definire i «criteri tecnici per la determinazione della sussistenza della scarsità della risorsa disponibile». Se non che letteralmente la norma posticipa al 31 dicembre 2025 il solo termine previsto dai «commi 3 e 4» dell’art. 3 della legge n. 118/2022, i quali autorizzano la proroga delle concessioni durante l’iter dei nuovi affidamenti, a causa di sopravvenute «ragioni oggettive che impediscono la conclusione della procedura selettiva» (pendenza di un contenzioso, difficoltà oggettive, ecc.). La fattispecie su cui interviene l’art. 10-quater è dunque quella di una procedura già avviata, posticipabile in conseguenza del verificarsi di situazioni obbiettive. La data non può eccedere il 31 dicembre 2025, che continua però a rappresentare, nell’art. 3 comma 3 della legge concorrenza, solo un termine massimo, all’interno del quale il differimento dev’essere disposto «con atto motivato» e per il «tempo strettamente necessario alla conclusione della procedura». La normalità di un differimento a data posteriore al 21 dicembre 2023, ma anteriore al 31 dicembre 2025, individuata volta per volta, emerge, d’altronde, anche dalla clausola con la quale la stessa disposizione (art. 3 della legge n. 118/2022) tollera, fino al 31 dicembre 2025, l’«occupazione dell’area demaniale da parte del concessionario uscente», che «è comunque legittima anche in relazione all’articolo 1161 del codice della navigazione».
La vera e propria proroga «automatica e generalizzata» delle concessioni – che nella legge concorrenza è disciplinata al comma 1 dell’art. 3 – è stabilita dal nuovo art. 12 comma 6-sexies, lettere a) e b) del D.L. n. 198/2022, che fissa la scadenza di tutte le concessioni alla data del 31 dicembre 2024.
Ora, non è chiaro cosa voglia stabilire, l’art. 10-quater comma 3, nella parte in cui prevede che «ai fini della conclusione del tavolo tecnico» le parole «31 dicembre 2024» sono sostituite dalle seguenti: «31 dicembre 2025». Forse la norma vorrebbe dire che il “tavolo tecnico” può operare fino al 31 dicembre 2025.
Non, di certo, che le concessioni sono prorogate al 31 dicembre 2025.
Di nuovo sorge qualche dubbio, però, leggendo l’ultimo inciso dell’art. 10-quater comma 3, per cui le concessioni in essere continuano «in ogni caso» ad avere efficacia sino alla data di rilascio dei nuovi provvedimenti concessori. I dubbi nascono dalla circostanza che la norma – la quale, di per sé, non denoterebbe difficoltà interpretative – può apparire anch’essa come una regola che trae significato dalla combinazione con la finalità espressa all’art. 10-quater comma 1, ovverosia l’affidamento al Tavolo tecnico, ivi costituito, dell’attività di definizione dei criteri tecnici per la determinazione della sussistenza della scarsità della risorsa. Ove se ne dovesse ricavare che fino alla conclusione dei lavori del tavolo tecnico le concessioni sono prorogate[10], il termine della proroga diverrebbe più incerto e dovrebbe essere rimesso in discussione. Se non altro, ammesso che il tavolo possa operare fino al 31 dicembre 2025, la proroga al 31 dicembre 2024 assumerebbe un significato puramente “nominalistico”.
Ma le incongruità del decreto Milleproroghe non si fermano qui.
Si dovrebbe citare, per completezza, una terza disposizione, che in astratto concorre con quella disapplicata dalla Sezione VI^. Si tratta del nuovo art. 12 comma 6-sexies, lettera c), il quale, al pari dell’art. 10-quater comma 3, interviene sull’art. 3 comma 3 della legge n. 118/2022, dedicata al prolungamento per «ragioni oggettive che impediscono la conclusione della procedura selettiva». La norma in parola lascia tuttavia invariato il termine al «31 dicembre 2024»: lo stesso previsto, dalla legge “concorrenza”, nella disposizione sostituita. Tutto lascia dunque supporre, di conseguenza, che si tratti di una svista, di un refuso legislativo.
Singolare è anche una quarta disposizione, che introduce una sorta di “proroga indiretta”, aggiungendo un nuovo comma 4-bisall’art. 4 della legge n. 118/2022, il quale vieta di procedere all’emanazione dei bandi di assegnazione fino all’adozione dei decreti legislativi di riforma dell’affidamento delle concessioni demaniali marittime per uso turistico-ricreativo e sportivo. Decreti legislativi che, come si è già avuto modo di precisare, dovevano essere adottati entro il 27 marzo 2023, in forza dell’art. 4 della legge n. 118/2022.
Sorge dunque immediatamente il dubbio che anche questa norma sia tamquam non esset, poiché il termine per l’esercizio del potere delegato, spirato proprio al momento dell’entrata in vigore della legge di conversione del Milleproroghe, avrebbe necessitato anch’esso di una proroga, che la legge di conversone non ha previsto, trasferendo i relativi compiti al Tavolo tecnico di cui all’art. 10-quater comma 1.
Anche qui però non v’è certezza, giacché, ora che il potere delegato si è estinto, resta in qualche modo consacrato l’intento del Parlamento di lasciare in essere le concessioni fino a nuova disciplina. Sarebbe probabilmente eccessivo dedurne una proroga sia sine die, ma qualche dubbio sulla durata della proroga rimane: fino al 31 dicembre 2024 o, in ogni caso di ritardo governativo, fino al 31 dicembre 2025, o anche oltre?
O si taglia alla radice il nodo interpretativo e si assume che l’unica norma di proroga, al 31 dicembre 2024, sia l’art. 12 comma 6-sexies, lettere a) e b) del decreto Milleproroghe – ed allora si dirà che la sentenza n. 2192/2023 è incorsa in un mero errore materiale – oppure permangono, anche solo in parte, i dubbi prospettati: nel qual caso occorrerà ammettere che la sentenza n. 2192/2023 è il prodotto di una difficoltà insita nel provvedimento legislativo interpretato, che una disapplicazione “astratta” non è forse possibile, perché soltanto un concreto atto di amministrazione, ritualmente impugnato, potrà permettere al giudice di focalizzare la norma alla quale risalire e, ove del caso, imporre la sua “disapplicazione” con effetti limitati al caso deciso.
Il terzo ed ultimo aspetto da precisare concerne l’accertamento incidentale del dovere di disapplicazione del decreto Milleproroghe, che, com’è stato scritto[11], si sostanzia un semplice obiter dictum. Notazione esattissima, in quanto il decreto-legge n. 198/2022, rispetto all’oggetto del processo amministrativo, era da considerare ius superveniens: irrilevante ai fini dell’effetto demolitorio dell’annullamento dell’atto impugnato, per cui bastava ed anzi s’imponeva la sola disapplicazione dell’art. 1 commi 682 e 683 della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (in forza dei quali era stato adottato). Ma irrilevante anche ai fini dell’effetto conformativo del giudicato. Tocchiamo qui l’elemento che ha più verosimilmente persuaso la Sezione VI^: la necessità di neutralizzare l’effetto retroattivo dello ius superveniens anticipando in sede di cognizione la dichiarazione della sua inefficacia.
Tuttavia, a ben vedere, neppure questa tesi convincerebbe del tutto.
Mentre infatti fino al 31 dicembre 2023 è consentita la riedizione del potere (essendo operativa la proroga disposta dalla plenaria e dalla legge n. 118/2022, nessun obbligo di attuazione è “esigibile”), dal 1 gennaio 2024 un atto del Comune di Manduria potrebbe prorogare le concessioni solo fino al 31 dicembre 2024 e, per quanto invalido, sarebbe comunque il risultato di un autonomo esercizio del potere, non potendosi ritenere che gli effetti della sentenza n. 2192/203 siano tecnicamente “differiti” al 1 gennaio 2024, in difetto di una esplicita graduazione temporale che la Sezione VI^ avrebbe dovuto stabilire, se avesse voluto coinvolgere nell’effetto di giudicato eventuali atti di proroga successivi al 31 dicembre 2023. V’è da chiedersi allora se si possa persino astrattamente o ipoteticamente prospettare un qualche profilo di violazione o di elusione del giudicato formatosi con la sentenza n. 2192/2023. È indubbio che, per effetto della sentenza che stiamo commentando, al 31 dicembre 2023 le concessioni prorogate dal Comune di Manduria scadranno. Ma resta egualmente difficile supporre un’utilità pratica della sentenza, anche qualora si volesse ammettere, superando l’ostacolo sopra accennato, un effetto di giudicato “implicitamente” posticipato a una data successiva al 1 gennaio 2024. Ferma restando ovviamente, da quest’ultima data, l’illegittimità dell’occupazione del demanio, tutto ciò che si potrebbe immaginare è che le amministrazioni locali possano essere convenute nel giudizio di ottemperanza per vedere attuato il loro obbligo di avviare le attività amministrative tese all’affidamento delle concessioni, le quali occuperebbero approssimativamente il periodo che va dal 31 dicembre 2023 al 31 dicembre 2024, concretandosi così, nei fatti, una situazione non troppo diversa da quella prevista dal decreto Milleproroghe (disapplicato). Ciò che si vuol dire insomma è che la “disapplicazione” di una legge di proroga annuale rischia di sfuggire, nel concreto dell’esperienza giuridica, alle maglie del processo amministrativo di legittimità. Né si può dare per certo, come si accennava, che alla data del 1 gennaio 2024 il Milleproroghe sia ancora in vigore.
Ci si ritrova quindi, con qualche chiarimento in più, al punto di partenza: la natura meramente ipotetica della disapplicazione prescritta dalla sentenza n. 2192/2023, che incide sui rapporti concessori in modo tale da rendere imprevedibile il loro destino e conferma, in conclusione, i dubbi che la Sezione VI^ abbia fatto buon governo dell’art. 34 del Codice del processo amministrativo (rispetto ai princìpi enunciati dalla plenaria).
4. Proroghe giurisprudenziali, proroghe legislative e diritto nazionale vigente (sull’applicabilità dell’art. 16 D.lgs n. 59/2010).
Le critiche sviluppate fino a questo momento non devono far perdere di vista la sostanziale esattezza della sentenza n. 2192/2023, che si sarebbe tuttavia apprezzata maggiormente se il Consiglio di Stato avesse soprasseduto, nella parte conclusiva, al giudizio incidentale sul decreto Milleproroghe.
Così come formulato, il coinvolgimento del D.L. n. 198/2022 è solo apparentemente consequenziale alle pronunce dell’adunanza plenaria: in realtà non risponde alla questione sottoposta all’esame della Sezione VI^; non ha nemmeno più le caratteristiche di una decisone esecutiva dei princìpi enunciati in sede nomofilattica, costituendone piuttosto un’integrazione, dettata dalla medesima ratio di uniformità dell’interpretazione della legge e di unità del diritto oggettivo, motivata da una norma sopravvenuta il cui ambito applicativo è completamente estraneo al caso da decidere. Nel far giustizia, come doveva, di un atto amministrativo non conforme al diritto dell’Unione europea, la sentenza n. 2192/2023 finisce dunque per sbilanciare nuovamente il rapporto tra giustizia e politica, su un terreno già segnato da numerose contraddizioni: tra nomofilachia ed esercizio ordinario della giurisdizione, tra compiti della giurisdizione e compiti dell’amministrazione, tra sfera dell’interpretazione e sfera della produzione normativa[12].
Si permetta un ultimo cenno. L’art. 16 del D.lgs n. 59/2010 traspone nell’ordinamento nazionale l’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, sulle modalità di rilascio dei titoli autorizzativi in caso di scarsità della risorsa. La norma è ordinariamente applicata dalla giurisprudenza nei vari settori di attività “contingentate”, quali ad esempio servizi di noleggio[13], di trasporto[14], di affissione pubblicitaria[15], talvolta attraverso il richiamo del giudice al proprio potere di ricercare autonomamente le norme giuridiche applicabili alla fattispecie e di porre a fondamento della decisione principi di diritto e ricostruzioni anche diversi da quelli richiamati dalle parti» (iura novit curia)[16].
Ogni riferimento all’art. 16 viene invece evitato dalla giurisprudenza amministrativa quando si tratta di concessioni demaniali marittime, per le quali si preferisce l’applicazione diretta dell’art. 12 della direttiva. Eppure l’art. 16 è una norma prodotta da un atto avente forza di legge: non è più generica, più vaga, più indeterminata, meno tassativa, di altre disposizioni di legge dedicate a procedure selettive. Esattamente al pari dell’art. 12 della direttiva 2006/123/CE, fornisce «tutti gli elementi necessari per consentire alle Amministrazioni di bandire gare per il rilascio delle concessioni demaniali» (sono parole della plenaria).
Moratorie generalizzate e proroghe “tecniche”, come quelle a cui abbiano assistito negli ultimi anni, possono essere ritenute incompatibili con il diritto dell’Unione europea. Ma nel dichiararle tali il giudice non ha motivo di avvertire il senso del vuoto legislativo, della lacuna, che obbiettivamente non esiste. E non ha motivo di graduare o differire nel tempo gli effetti delle proprie decisioni, onde «soccorrere» il legislatore. Non solo perché così facendo in realtà il giudice invade la sfera del potere legislativo, ma perché prima ancora travisa la consistenza dell’ordinamento giuridico, laddove la norma da applicare per l’affidamento delle concessioni demaniali marittime esiste già: non è quella comunitaria, è quella nazionale.
Non si sottovaluta in questo modo il delicato problema della definizione uniforme delle regole della procedura. Si ha tuttavia l’impressione che questo sia un problema diverso: di rispetto del principio costituzionale di riserva di legge da parte di norme già in vigore; non di violazione degli obblighi comunitari per via dell’inerzia nell’introdurre un riordino generale della materia delle concessioni demaniali marittime. Può darsi che le amministrazioni locali non sappiano cosa fare per riassegnare le concessioni. Ma non si comprende perché lo stesso problema non si sia aperto, almeno non con la stessa enfasi, per i servizi “contingentati” di cui si accennava. E del resto, considerazioni simili dovrebbero valere, ove ve ne fosse ragione, per tutte le leggi amministrative che recepiscono disposizioni di direttive europee senza aggiungere, né togliere alcunché alla loro formulazione originaria.
Si converrà allora che la proroga giudiziaria delle concessioni demaniali marittime sia basata non solo, com’è stato esattamente notato, su un «ennesimo, indebito slancio “paranormativo”»[17] della plenaria, ma anche sul discutibile presupposto che non esista in Italia una legge nazionale immediatamente applicabile. E non è tutto. Ove si ritenesse che l’obbligo di affidamento selettivo delle concessioni sia in qualche modo risalente alla sentenza Promoimprea e Melis della Corte di giustizia, un altro principio consolidato si imporrebbe. Non si può infatti non ricordare che spetta solo alla Corte di giustizia, «alla luce dell’esigenza fondamentale dell’applicazione uniforme e generale del diritto dell’Unione, decidere sulle limitazioni nel tempo da apportare all’interpretazione che essa fornisce». In altri termini, «la modulazione degli effetti temporali di una sentenza che decide su un rinvio pregiudiziale può essere disposta esclusivamente dalla medesima Corte e solo nell’ambito della stessa pronuncia». Questo principio è stato ribadito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 263/2022, riguardo al caso della sentenza Lexitor della Corte di giustizia[18], i cui effetti erano stati “graduati” dal legislatore italiano in difformità dagli artt. 3, 11 e 117, primo comma, Cost. Ora non si vede perché il rilievo riguardo alla sentenza Lexitor non possa valere anche per la sentenza Promoimpresa e Melis: l’obbligo delle amministrazioni di procedere immediatamente con procedura selettiva, donde il divieto di modulazione degli effetti temporali, non viene meno solo perché è infranto, anziché dal legislatore, dal giudice amministrativo[19].
Ragione in più per notare che la sentenza n. 2192/2023, ove la Sezione VI^ indica la necessità di disapplicare una legge di proroga per permettere la riviviscenza di un’altra, a sua volta originata dalla volontà del Parlamento di conformarsi alle proroghe discrezionalmente individuate dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, è in ultima analisi essa stessa poco in linea con il diritto dell’Unione europea.
[1] Tra le più recenti, Corte cost., 9 dicembre 2022, n. 145.
[1] Senza pretesa di completezza, vista l’enorme quantità di contributi sul tema, si rimanda anzitutto al fascicolo monotematico dalla Rivista Diritto e Società n. 3/2021, La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, con saggi di M.A Sandulli, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria (anche in questa Rivista, 16 febbraio 2022); F. Ferraro, Diritto dell’Unione europea e concessioni demaniali: più luci o più ombre nelle sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria?; G. Morbidelli, Stesse spiagge, stessi concessionari?; M. Gola, Il Consiglio di Stato, l’Europa e le “concessioni balneari”: si chiude una – annosa – vicenda o resta ancora aperta?; R. Dipace, L’incerta natura giuridica delle concessioni demaniali marittime: verso l’erosione della categoria; M. Calabrò, Concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo e acquisizione al patrimonio dello Stato delle opere non amovibili: una riforma necessaria; E. Lamarque, Le due sentenze dell’Adunanza plenaria… le gemelle di Shining?; R. Rolli, D. Sammarro, L’obbligo di “disapplicazione” alla luce delle sentenze n. 17 e n. 18 del 2021 del Consiglio di Stato (Adunanza Plenaria); E. Zampetti, La proroga delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa tra libertà d’iniziativa economica e concorrenza. Osservazioni a margine delle recenti decisioni dell’Adunanza Plenaria; G. Iacovone, Concessioni demaniali marittime tra concorrenza e valorizzazione; M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione: quali novità dalle pronunce del novembre 2021?; P. Otranto, Proroga ex lege delle concessioni balneari e autotutela; B. Caravita di Toritto e G. Carlomagno, La proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime, e recensione di F. Francario, Se questa è nomofilachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in questa Rivista, 28 gennaio 2022; Tra tutela della concorrenza ed economia sociale di mercato. Una prospettiva di riforma. Si veda inoltre A. Police, A.M. Chiariello, Le concessioni demaniali marittime: dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria al percorso di riforma. Punti critici e spunti di riflessione, in amministrativ@mente, n. 2 (2022), 47 ss.; R. Caranta, Concessioni demaniali – Es gibt noch Richter in Berlin! Stop alle proroghe delle concessioni balneari, in Giur. it., 2022, 1204 ss.; E. Cannizzaro, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee?, in questa Rivista, 30 dicembre 2021; A. Cossiri, L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si pronuncia sulle concessioni demaniali a scopo turistico-ricreativo. Note a prima lettura, in Dir. pubbl. eur. rassegna online, n. 2, 2021, 234 ss.; P.G. Novaro, Spiagge: casus belli per una riflessione sulla concessione di bene pubblico, in Ist. Fed., 2022, 231 ss.; E. Zampetti, Le concessioni balneari dopo le pronunce Ad. Plen. 17 e 18 2021. Definito il giudizio di rinvio innanzi al C.G.A.R.S., in questa Rivista, 27 gennaio 2022; M.C. Girardi, Nel “mare magnum” delle proroghe. Riflessioni a partire dalle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza plenaria, in Osservatorio AIC, fasc. 2/2022, 5 aprile 2022; M. Crisci, Risorse scarse e interesse transfrontaliero nelle concessioni demaniali marittime. Il giudice che si sostituisce all’amministrazione?, in Dir. dell’econ., n. 3/2022. In prospettiva comparata, A. Persico, Le concessioni demaniali marittime nell’impatto con il diritto dell’Unione. Spunti comparatistici per una gestione sostenibile “a tuttotondo” del patrimonio costiero nazionale, in federalismi.it, 10 agosto 2022.
[2] Alcune considerazioni in G. Parodi, La proroga delle concessioni demaniali marittime tra disapplicazione e incidente di costituzionalità. Questioni aperte, opacità della giurisprudenza, in DPCE online, n. 2/2023, 1607 ss.; nel senso indicato nel testo, L. Pasanisi, Le concessioni balneari: una questione politica di particolare importanza, in www.giustizia-amministrativa.it, 4 luglio 2023, 7; N. Durante, Concessioni balneari: avviso ai naviganti, ivi, 30 giugno 2023, 4. Questi ultimi due contributi riproducono le relazioni svolte dai Presidenti di Sezione del TAR Campania – Salerno al Convegno ASD e Concessioni demaniali marittime – Lo scoglio della Bolkestein e le opportune correzioni di rotta, organizzato ad Ischia il 14 giugno 2023 su iniziativa dell’Associazione Circoli Nautici della Campania.
[3] Sez. VI, 1 marzo 2023, n. 2192; per qualche richiamo a questa sentenza, nella giurisprudenza di primo grado, TAR Puglia, Bari, 11 maggio 2023, n. 755; TAR Campania, Salerno, 24 aprile 2023, n. 935.
[4] D. Casanova, Una nuova promulgazione dissenziente: la lettera del Presidente della Repubblica in relazione alla legge di conversione del c.d. decreto milleproroghe (l. n. 14/2023), in Osservatorio AIC, fasc. 3/2023, 6 giugno 2023; S. Curreri, Sull’auto-attribuzione da parte del Presidente della Repubblica del potere di promulgazione parziale dei testi legislativi, in laCostituzione.info, 8 marzo 2023.
[5] D.P.R. 21 luglio 2022, n. 96, in GU Serie Generale n. 169 del 21 luglio 2022.
[6] R. Dipace, Concessioni “balneari” e la persistente necessità della pronuncia della Corte di Giustizia, in questa Rivista, 14 ottobre 2022; E. Chiti, False piste: Il Tar Lecce e le concessioni demaniali marittime, in Giorn. dir. amm., 2021, 801.
[7] R. Tumbiolo, Il Demanio Costiero come risorsa naturale e ambientale, in RGA online, 2 giugno 2023;
[8] C. Curti Gialdino, Il Governo Meloni e l’Unione europea: gli esordi del nuovo Esecutivo, in federalismi.it., 7 dicembre 2022, 18.
[9] F. Francario, Se questa è nomofilachia, cit.
[10] Come sembra ritenere, sia pure con riferimento alla pendenza del termine per l’emanazione dei decreti legislativi prevista dalla legge n. 118/2022, TAR Puglia, Lecce, 21 aprile 2023, n. 523.
[11] G. Tropea, Concessioni balneari: stessa spiaggia stesso mare?, in laCostituzione.info, 15 aprile 2023.
[12] F. Francario, Se questa è nomofilachia, cit.
[13] Cons. Stato, sez. V, 15 marzo 2022 n. 1811.
[14] TAR Sicilia, Catania, 21 aprile 2023 n. 1142.
[15] TAR Puglia Lecce 4.1.2023 n. 25.
[16] TAR Sicilia, Catania, n. 1142/2022, cit.; Cons. Stato, sez. V, 14 marzo 2019, n. 1684.
[17] M.A. Sandulli, Sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria, cit.
[18] CGUE, Prima Sezione, 11 settembre 2019, C-383/18.
[19] M.A. Sandulli, op. cit.; R. Mastroianni, L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e le concessioni balneari: due passi avanti e uno indietro?, in Eurojus, n. 1/2022, pp. 105 ss., spec. 115 ss.
La sabbia che Pape - un venditore ambulante senegalese in Italia per pagare gli studi alla facoltà di medicina alla sorella Binette - fa scivolare con abilità dalla ciabatta. La sabbia che lo trattiene e lo sorregge a ogni passo. La sabbia sulla quale si stende Binette con il suo segreto, nella solitudine del suo tradimento.
La sabbia che si scrolla di dosso Lu, Enrica Lucia - studentessa italiana di origine Vietnamita - consumata tra il disperato desiderio di conoscere la sue origini e il disperato desiderio di non conoscerle.
La sabbia umida sulla quale si siede la coppia vietnamita dopo l’abbandono della bambina neonata, che non può permettersi di veder crescere. La sabbia dove la mamma adottiva di Lu si siede a riflettere nella percezione del bilico della figlia tra la realtà e la finzione.
La sabbia è la simbolica scenografia nella quale Giovanni Caria inserisce sapientemente i protagonisti del suo terzo romanzo, ciascuno confinato nel proprio mondo esclusivo, come il “dente di una ruota in moto perpetuo”, ciascuno unico ma, al tempo stesso, simile a tanti altri incastonati nella ruota della vita.
Giovanni Caria descrive con abilità i protagonisti, i comprimari e le comparse del suo romanzo che inizia in una giornata assolata davanti alla Torre spagnola di Punta Erice.
Con il sorgere del sole ha inizio la giornata di Pape, e con essa un intreccio incessante di pensieri e ricordi che riesce a portare il lettore in Senegal, al primo ricordo di Pape: Pape bambino stretto al seno della madre. Ma la felicità è effimera e il senso di protezione e appartenenza lascerà presto il posto all’individualità solipsitica.
Dalla spiaggia affollata di Erice Gianni Caria porta il lettore in Vietnam, dove il danno di una guerra insensata, il non senso comune a ogni guerra è entrato nel dna della popolazione per tramandare il suo segno, la mutazione genetica causata dall’agente arancio e dal napaln.
Veleni che penetrati nei terreni agricoli continuano a produrre frutti tossici. Da qui il dramma degli abbandoni e la ricerca delle origini di chi, strappato dal seno materno, è incapace di riconoscere come propria la nuova famiglia, come se l’originario strappo si perpetuasse nel racconto delle origini o meglio nell’intempestività o inesattezza del racconto.
Pape e Lu, i protagonisti del romanzo, due dei tanti denti della ruota, entrambi stranieri, soli e traditi sono destinati a incrociarsi senza incontrarsi, nell’affollata spiaggia sarda.
“Il tradimento è tante cose, che si verificano ogni volta che la moneta tirata in aria cade dalla parte sbagliata, coprendo la faccia buona e illuminata della fiducia. E’ violare le aspettative; sostituirsi all’altro nel prendere una decisione: pretendere di fare il bene dell’altro, pretendere di essere il bene dell’altro: far credere all’altro di essere un obiettivo o un desiderio; confondere i lineamenti del desiderio con quelli dell’interesse; affermare che esistono intenzioni buone a prescindere da ciò che lastricano”. E’ qui il senso del danno.
Pape è stato tradito dalla sorella, Lu è stata tradita dai genitori adottivi.
Giovanni Caria senza tanti preamboli riesce a far immedesimare il lettore nei personaggi del suo romanzo, a inserirlo nelle sue scelte, nelle sue recriminazioni, nella sua rassegnazione, nel suo autoassolversi e infine nel suo isolarsi pacato dal resto del mondo.
Con la nascita si entra nel meccanismo in moto perpetuo che procede inesorabile verso la fine, pur passando per tappe rituali. Bene lo percepisce Pape, tanto che, quando vede per la prima volta la piccola Binette, desidera per lei una vita diversa da quella delle due madri. Vuole cambiare i rituali e per questo sacrifica la sua vita. O forse segue solo il suo destino, come Binette seguirà il suo.
Aspettative, obiettivi, pretese. Ogni essere umano ha i suoi, più o meno “essenziali”, più o meno “vitali”.
Il vero male è l’incapacità di comunicare, l’assenza di empatia e questo Gianni Caria ben lo rappresenta nella scena finale quando tre mondi, con aspettative e pretese completamente diverse, si incrociano nell’ultima immagine.
In quest’ultima immagine la sabbia è il chiaro simbolo dello scorrere della clessidra, il segno della caducità.
E’ così, esattamente come nella poesia di Salvatore Quasimodo “Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”.
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