La presunzione di onestà e la fondatezza del credito impositivo “oltre ogni ragionevole dubbio”
di Alessandro Giovannini
Non è un bel diritto quello che si legge nel comma 5-bis dell’art. 7, d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto dalla legge n. 130 del 2022. Eppure, ciò nonostante, qualcosa di importante la norma riesce a dirlo. La prima indicazione è una conferma della regola sulla ripartizione dell’onere della prova per cui i fatti costitutivi del credito impositivo devono essere provati dall’amministrazione. L’altra attiene al grado di robustezza che l’apparato probatorio deve possedere affinché il giudice possa ritenere fondata la pretesa dell’amministrazione medesima. Infine, la nuova norma introduce il divieto di prove incoerenti con il diritto sostanziale, che fondano il credito su elementi da questo non qualificati come costitutivi della fattispecie impositiva o come condizioni oggettive di imponibilità. Ancor prima la norma pare volere dare un’altra indicazione, di portata generale. È possibile che in essa si annidi l’intento di portare allo scoperto, fra i semi dello stato costituzionale, quello sulla presunzione d’onestà del contribuente accertato. Il lavoro si sofferma su tutti questi aspetti nel tentativo di offrirne un inquadramento sistematicamente coerente.
It’s not a nice right what is read in the paragraph 5-bis of art. 7, legislative decree n. 546 of 1992, introduced by law no. 130 of 2022. Yet, nevertheless, the law manages to say something important. The first indication is a confirmation of the rule on the distribution of the burden of proof according to which the facts constituting the credit right must be proved by the administration. The other concerns the degree of robustness that the evidentiary apparatus must possess in order for the judge to consider the claim of the administration itself founded. Finally, the new regulation introduces the prohibition of evidence inconsistent with the substantive law, which bases the credit on elements which it does not qualify as constituting the tax situation or as objective conditions of taxability. Even before that, the provision seems to want to give another indication, of general scope. It is possible that in it lurks the intention of bringing into the open, among the seeds of the constitutional state, the one on the presumption of honesty of the taxpayer ascertained. The work dwells on all these aspects in an attempt to offer a systematically coherent framework.
Parole chiave: presunzione onestà contribuente - principio personalistico - processo tributario - prove - onere della prova - ripartizione soggettiva - vicinanza alla prova - libero convincimento giudice - fondatezza prove - presunzioni semplici - presunzioni semplicissime - conformità prove diritto sostanziale
Keywords: taxpayer honesty presumption - personalistic principle - tax process - proofs - burden of proof - subjective division - proximity to the proof - judge's free conviction - evidence foundation - simple presumptions - very simple presumptions - conformity of evidence substantive law
Sommario: 1. La riforma della legge n. 130 del 2022 sull’onere della prova, sulle prove e sul giudizio: “eppur si muove”. - 2. L’onestà presunta del contribuente: un seme costituzionale portato allo scoperto. - 3. La presunzione d’onestà e l’architrave costituzionale del principio personalistico. - 4. La ripartizione dell’onere della prova. - 5. La fondatezza del credito “al di là di ogni ragionevole dubbio”. - 6. La questione della presunzione semplice. - 7. La presunzione semplice nelle leggi sull’accertamento: un ritorno all’auspicato rigore del passato? - 8. La questione della presunzione “semplicissima”. - 9. La coerenza della prova con il diritto sostanziale. - 10. Conclusione: l’impervio cammino della “giustizia nell’imposizione”.
1. La riforma della legge n. 130 del 2022 sull’onere della prova, sulle prove e sul giudizio: “eppur si muove”
Per il comma 5-bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto dalla legge n. 130 del 2022, l’amministrazione «prova in giudizio le violazioni contestate con l'atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l'atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l'irrogazione delle sanzioni»[1].
Non è un bel diritto quello che si legge in questa disposizione: una mistura di parole prive di sorveglianza anche stilistica, un concentrato di concetti mal posti e forse mal conosciuti[2]. Anche per questo è probabile che essa, contrariamente agli intendimenti, alimenterà ulteriore contenzioso perfino sul significato fatto palese dalle parole in essa stessa contenute.
Eppure, ciò nonostante, qualcosa di importante riesce a dirlo ed anzi di molto importante, che va al di là della reazione di “forza” che con il profluvio di aggettivi e sostantivi il legislatore ha forse voluto manifestare nell’intento di riportare al rigore probatorio l’azione amministrativa.
Le cose principali che dice sono queste. La prima è una conferma della regola sulla ripartizione dell’onere della prova: i fatti costitutivi del diritto di credito impositivo devono essere provati dall’amministrazione[3].
L’altra attiene al grado di robustezza che l’apparato probatorio deve possedere affinché il giudice possa ritenere fondata la pretesa dell’amministrazione medesima.
Infine, la nuova norma introduce il divieto di utilizzare prove incoerenti con il diritto sostanziale, ovvero prove che fondano il credito su elementi da questo non qualificati come costitutivi della fattispecie impositiva o alla stregua di condizioni oggettive di imponibilità.
2. L’onestà presunta del contribuente: un seme costituzionale portato allo scoperto
Ancor prima di queste pur fondamentali indicazioni, sulle quali tornerò nei prossimi paragrafi, la norma, se letta unitariamente, pare volerne dare una di portata generale. E’ possibile che in essa si annidi l’intento di piantare nel sistema un seme o forse è più corretto dire di portare allo scoperto, fra i semi dello stato costituzionale, quello sulla presunzione d’onestà del contribuente accertato.
Un seme, come cercherò di dimostrare in positivo, che io considero già presente in Costituzione ma che finora, per la sua immanenza, è rimasto sepolto. Il comma 5-bis contribuisce, forse, a dissotterrarlo.
Ponendosi attentamente all’ascolto della norma è possibile percepire un’eco proveniente dalla tradizione garantista d’origine penale formatasi intorno alla presunzione di non colpevolezza dell’imputato[4]. Il risuono è quello dell’art. 27, comma 2, della Costituzione, interpretato alla luce dell’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dell’art. 6, comma 2, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che parlano di “innocenza” dell’imputato “fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata”.
Non si tratta, dev’esser chiaro, di invocare in ambito fiscale l’applicazione delle previsioni penalistiche. Non solo sarebbe sbagliato, ma neppure è necessario, come verificheremo nelle prossime pagine. Quella eco garantista, tuttavia, è ugualmente fondamentale perché può farsi viatico per verificare se l’ipotizzata presunzione di onestà possa trarre anch’essa forza dalla trama costituzionale. Solo così, infatti, potrebbe essere elevata a principio e qualificata alla stregua di “parametro su cui modellare le regole probatorie e di giudizio”, proprio com’è pacificamente qualificata, per una delle sue funzioni, la norma dell’art. 27 Cost.[5].
Epperò, se il terreno non è quello penalistico, in quale altro la nostra presunzione potrebbe affondare la sua radice? È mia convinzione che esso coincida con il principio personalistico, principio che informa tutta la Carta e “sovrasta assiologicamente tutti gli altri”[6].
Per dirsi costituzionalmente conforme, infatti, l’accertamento deve rispettare non solo il corredo delle garanzie “esterne” di natura sostanziale riconducibili agli artt. 53, 3, 41 e 42, e il corredo di quelle “interne” di natura procedimentale, ascrivibili all’art. 97, agli artt. 24 e 111 e alle norme sovranazionali sul giusto procedimento, ma anche ed anzitutto i diritti della persona, non in quanto o soltanto contribuente, ma in quanto persona, appunto, che si trova esposta agli effetti dell’esercizio del potere degli organi statali.
Qui sta il cuore del discorso: è nella sfera delle garanzie della persona umana che entra in gioco, primeggiando, la presunzione di onestà. Il principio di personalità, inserito in questo contesto, diviene allora il punto di saldatura fra presunzione di non colpevolezza e presunzione di onestà poiché fonte, anche per quest’ultima, delle garanzie del soggetto sottoposto al potere esecutivo d’accertamento e coercitivo[7].
3. La presunzione d’onestà e l’architrave costituzionale del principio personalistico
Per non esporre il discorso alla critica dell’incompletezza, mi soffermo ulteriormente sulla relazione fra stato costituzionale, principio personalistico e presunzione di onestà. In questa relazione, infatti, sta il bandolo della matassa per giungere a qualificare la presunzione stessa alla stregua di principio, seppure immanente, di fonte costituzionale.
Non si scopre una nuova America affermando che è la persona il centro dell’ordine assiologico disegnato dalla Costituzione. Non è la legge ad assegnarle il palco d’onore, piuttosto è la legge a derivare e dipendere dalle libertà e dai diritti di quella[8]. Questo discorso si può ripetere, nella sostanza, anche per i poteri dello stato e in particolare per quelli da ultimo richiamati, ossia esecutivo d’accertamento e coercitivo.
Il principio personalistico, nella sua essenza più profonda e densa di conseguenze, ha questo contenuto. Ed è per questo, come ho ricordato, che possiede un’eccedenza assiologia su tutti gli altri[9].
A scomparire dal tavolo d’analisi, intendiamoci, non è il potere e non è neppure la legge, ma per un verso è la loro supremazia sulla persona e sui suoi diritti e, per un altro, sono la “volontà generale”, la “ragion fiscale”, l’”interesse fiscale” e tutte le ulteriori escrescenze del potere stesso. Escrescenze e supremazia collocate, in ragione della storia, sui gradini superiori di un’illusoria scala alla cui base stavano - e forse tuttora si prova ingannevolmente a collocare - gli scalpiccii dei consociati con i loro diritti. In forza del principio personalistico tutto questo non ha più spazio: la scala si è capovolta e i diritti della persona, ora, ne costituiscono l’apice[10].
I poteri dello stato, compreso quelli esecutivo d’accertamento e coercitivo, non sono scomparsi, ma traggono legittimazione soltanto dal loro essere portatori di forze orientate a dare sbocco alla dimensione politica dei diritti appartenenti ab origine ai loro titolari[11].
In questo consiste lo stato costituzionale e la “sovranità della Costituzione”: essere al tempo stesso tavole assiologiche, deontologiche e normative al cui interno il potere si pone al servizio dei diritti e, direttamente o per il tramite di questi, al servizio della persona[12].
Certo, sarebbe eccessivo predicare l’integrale “sostituzione del fondamento di valore al fondamento di autorità”[13] che sorregge e sostanzia il potere nella sua concezione tradizionale. Una sostituzione di tal fatta sarebbe eccessiva giacché pure nelle costituzioni moderne residuano spazi autoritativi di singoli apparati dello stato per l’esercizio di specifiche funzioni, specie quando legate ai doveri di osservanza della Costituzione e delle leggi (art. 54, primo comma, Cost.)[14]. Ma, anche in questi casi, nello stato costituzionale, a differenza che nello stato legislativo, ai diritti fondamentali si contrappone non il potere che li domina, ma il potere che li rispetta e in questo modo li serve, ossia il potere volto unicamente all’esercizio della funzione per la quale è composto[15].
In questa chiave, dunque, l’accertamento fiscale qualificato come funzione non può che trovare la sua piattaforma relazionale, comprensiva dei suoi limiti, nel principio personalistico. E il corrispondente potere vi entra non più con i fregi della supremazia, ma “nudo” giacché strumentale, puramente e semplicemente, all’esercizio della funzione.
La presunzione di onestà intesa alla stregua di diritto della persona discende da questa trama. Il comma 5-bis dell’art 7 aiuta la percezione di un simile diritto, ma non lo crea. E non solo perché la nuova norma è legge ordinaria e dunque dalla struttura “fragile”, vorrei dire inadatta a sorreggere un così importante cardine, ma perché la Costituzione già lo esprime.
4. La ripartizione dell’onere della prova
Le osservazioni finora svolte, pur scheletriche e come tali senz’altro incomplete, facilitano l’analisi delle tre indicazioni illustrate all’inizio provenienti dal comma 5-bis.
La prima attiene alla ripartizione dell’onere della prova: l’amministrazione è onerata di provare le violazioni contestate, ossia, più esattamente, i fatti sui quali pretende di radicare il credito o il maggior credito accertato[16].
La regola è pacifica da molto tempo, sostenuta dai fautori vuoi della teoria costitutiva dell’obbligazione d’imposta, vuoi della teoria dichiarativa[17]. Il comma 5-bis si limita a confermarla[18].
La regola di ripartizione, per come appena tratteggiata, riprende nella sostanza quella stabilita dall’art. 2697 cod. civ., per il quale chi vanta un diritto deve provare i fatti che lo costituiscono, mentre chi eccepisce la loro inefficacia, oppure che il diritto si è modificato o estinto, deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.
Di qui un dubbio, che introduco con questa domanda: la regola della “vicinanza” alla prova, quando determina l’addossamento del relativo onere sul contribuente[19], deve essere d’ora in poi espunta dalla ripartizione soggettiva dell’onere stesso[20]?
Non sarebbe corretto, io credo, rispondere affermativamente. La nuova disposizione reagisce sulla regola della “vicinanza” bensì limitandone l’ampia - e spesso improvvida - applicazione compiuta dalla giurisprudenza più recente[21], ma non ne legittima l’espunzione. Conformemente alla sua ratio, ossia quella di salvaguardare il diritto sostanziale della parte processuale che non è oggettivamente in grado di raggiungere la pienezza dimostrativa dei fatti, potrà continuare ad essere utilizzata. Ma potrà nei limiti in cui le fonti di prova non siano producibili perché non apprendibili dalla stessa amministrazione nella fase dell’istruttoria primaria[22].
È la non apprendibilità della prova intesa come fonte a dover essere dimostrata in giudizio perché in questo modo il fatto sul quale l’attore sostanziale pretende di radicare il diritto entra nel processo pur sempre in maniera “puntuale e circostanziata”, come richiede, proprio, il comma 5-bis[23], e vi entra anche rispettando in qualche modo le regole soggettive di ripartizione dello stesso onere probatorio.
5. La fondatezza del credito “al di là di ogni ragionevole dubbio”
L’altra indicazione del comma 5-bis si riferisce al livello minimo di robustezza che la prova deve raggiungere per essere considerata decisiva - vien da dire, se non si cadesse in un gioco di parole, per essere considerata “probante” - e quindi idonea a consentire al giudice di adottare una sentenza d’accertamento sulla fondatezza del diritto di credito[24]. Questo, infatti, deve essere accertato e dichiarato come esistente se le prove su cui lo stesso si radica sono in grado di dimostrarne la fondatezza in modo “circostanziato e puntuale”.
Queste parole, se non si vogliono considerare come scritte sull’acqua o ridurle ad un’esangue esercizio di retorica legislativa, possono assumere un solo significato: quello di legittimare sentenze d’accertamento positive quando il corredo degli elementi di prova consente al giudice di formarsi il convincimento della fondatezza del credito “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Sicché il giudice dovrà dichiararne l’infondatezza quando manca, è insufficiente o contraddittoria la prova che il fatto costitutivo sussiste.
Non si tratta qui di riprendere l’art. 533, comma 1, e l’art. 530, comma 2, c.p.p., per calarli di peso nel processo tributario, se non per mutuarne l’espressione del “ragionevole dubbio” per la sua efficacia evocativa. E non si tratta neppure di ridurre o mettere in discussione il principio del libero convincimento del giudice[25]. Si tratta, invece, di valorizzare adeguatamente il significato delle espressioni accolte nella nuova disposizione in coerenza con l’intero ordito nel quale è calata.
Ed è per questo che a me sembra ragionevole sostenere che la prova del fatto posto a fondamento del diritto si può considerare decisiva solo se supera una soglia molto alta di attendibilità ricostruttiva, che non deve lasciare margini apprezzabili di dubbio: la prova deve essere “circostanziata” e quindi riferibile, soggettivamente, al contribuente accertato e, oggettivamente, corredata di tutti i particolari necessari per determinare la fattispecie alla quale la stessa prova si riferisce. E deve essere “puntuale”, ossia esatta, precisa, univoca, in modo da fugare ogni significativa incertezza sull’esistenza del fatto.
6. La questione della presunzione semplice
Che dire, allora, della presunzione semplice? La nuova norma quali conseguenze produce su questa prova[26]?
Per andare dritti al nocciolo delle questioni, credo che la dimostrazione “circostanziata e puntuale” esiga che il fatto ignorato sia ricostruito alla stregua di conseguenza univoca del fatto noto; che il fatto noto sia certo, reale, specifico, determinato oggettivamente e soggettivamente, e adeguato a sorreggere l’inferenza; che gli elementi indiziari non si contraddicano o si elidano vicendevolmente, dovendo tutti concorrere a favore di una sola ricostruzione possibile; che la presunzione di “secondo grado”, ove utilizzata, muova da un fatto noto connotato da certezza, ovvero da univocità del nesso causale tra i fatti noto e ignoto costitutivi dell’inferenza di “primo grado”.
Non è in dubbio che la presunzione semplice possa continuare a fondare la verità giuridica del processo anche alla luce della nuova disciplina, ma affinché ciò accada è necessario che possieda in sé il tratto della più alta approssimazione possibile del fatto ricostruito alla storicità degli accadimenti. Una così elevata approssimazione o un così elevato avvicinamento del fatto ignorato alla realtà si ha solo se tra questo e il fatto noto corre una relazione di necessità. E ciò non si potrebbe predicare se s’intendesse continuare a digradare il livello di verosimiglianza dell’ignoto alla molteplicità dei probabili o addirittura dei possibili[27].
La verosimiglianza massima del ricostruito alla realtà storica dell’accaduto, come scriveva Virgilio Andrioli oltre cinquant’anni fa[28], è così tendenzialmente assicurata per volere della legge. S’impone perciò che il corredo probatorio indicato nell’avviso d’accertamento e comunque portato in giudizio dalla parte pubblica[29], non lasci margini significativi di dubbio, che non siano quelli “naturali” di tutte le prove indirette ad apprezzamento critico.
Ragionando in questo modo, l’interpretazione della nuova normazione si avvicina a quella corrente dell’art. 192, secondo comma, del codice di procedura penale dedicato alle presunzioni. In entrambe, infatti, l’accento cade sulla necessità che gli elementi indiziari determinino nel giudice “una elevata intensità persuasiva di ogni singolo strumento gnoseologico indiziario”[30]. Ancora una volta, tuttavia, non si tratta di trasportare armi e bagagli il fenomeno tributario sotto la bandiera processuale penale. Non è questo lo scopo della mia proposta interpretativa. L’intendimento, piuttosto, e quello di mettere in risalto lo spirito fortemente garantista che la riforma ha voluto iniettare con determinazione nelle vene delle istruttorie probatorie e delle decisioni giudiziali.
7. La presunzione semplice nelle leggi sull’accertamento: un ritorno all’auspicato rigore del passato?
È mia convinzione che nella nostra materia a questo risultato si dovesse giungere anche senza attendere la recente normazione sol che fosse stata adottata un’interpretazione rigorosa della disciplina dell’accertamento analitico-presuntivo per come dettata dalle leggi sull’accertamento delle imposte sui redditi e dell’imposta sul valore aggiunto.
In altra occasione[31] avevo cercato di dimostrare come il fatto noto non potesse consistere in mere asserzioni, in parametri quantitativi riferibili ad una generalità di soggetti e dunque privi di riscontri soggettivi, in congetture sguarnite di fattualità o basate su osservazioni non riscontrabili oggettivamente, in sospetti o mere probabilità di esistenza del fatto stesso. E men che meno il fatto noto poteva essere rivestito con gli abiti della certezza per rispondere a spinte moraleggianti o per dare corpo al supposto ma inesistente “interesse fiscale”[32]. Discorso simile, poi, si sarebbe dovuto fare per l’esito dell’inferenza[33]. La ricostruzione del fatto ignoto doveva mostrarsi come la necessaria conseguenza del fatto noto, sicché a petto di un ventaglio di ricostruzioni tutte probabili e tutte legittimate dal medesimo fatto iniziale, quello finale si doveva considerare sguarnito di prova[34].
Amministrazione e giurisprudenza, sostenuti da una parte della dottrina[35], hanno invece preferito adottare interpretazioni lasche a scapito della giustizia del processo e delle giustezza della decisione, ma anche a scapito della certezza del diritto e dei rapporti giuridici.
Ricorrendo ad una concezione gradualistica delle risultanze probatorie, dove si passa, senza soluzione di continuità, da ricostruzioni del tutto rigorose a ricostruzioni poco attendibili, solo probabili o perfino solo possibili, si è finito per cacciare il discorso sulle prove indirette in un cul-de-sac contrassegnato dalla sfuggevolezza, dall’impalpabilità del risultato inferenziale, come l’ha definito Cesare Glendi[36], incontrollabile dall’esterno con parametri oggettivi. Si è creato, per dirla in maniera molto semplice, una Babele delle lingue, contraddicendo così le connotazioni pubblicistiche di tutti i processi degli stati costituzionali.
Di qui, come già sottolineato, la reazione “muscolare” del Parlamento, che si è tradotta, proprio, nell’inserimento del comma 5-bis nell’art. 7 della nostra legge processuale.
8. La questione della presunzione “semplicissima”
La presunzione “semplicissima”, è perfino banale ricordarlo, è una fonte dimostrativa anomala, che si caratterizza per essere priva dei requisiti di gravità, precisione e concordanza[37]. È una semi-prova, piuttosto che una prova piena, come invece è la presunzione semplice.
In prima battuta la sua compatibilità con il comma 5-bis appare dubbia ed ancor di più lo sembra se la si pone in relazione con la presunzione di onestà della persona accertata per come qui ipotizzata. Ragionando concretamente, tuttavia, non sembra immaginabile un abbandono o una declaratoria di illegittimità della sua disciplina, tanto è diffuso l’uso che ne è fatto dall’amministrazione e tanto è importante il vantaggio istruttorio che alla fine la macchina statale ne ritrae.
La strada è così quella di verificare la possibilità di contemperare le diverse pulsioni del sistema e per questa via provare ad adottare un’interpretazione costituzionalmente conforme. Un tentativo in questa direzione può essere quello di recuperare, da un lato, la ratio originaria di questa forma di presunzione e, da un altro, la struttura del sistema normativo nella quale essa si cala[38].
Per fare questo è necessario innanzitutto tornare a distinguere la prova in senso proprio dei fatti rappresentanti il presupposto dell’accertamento dalla (semi) prova del quantum dell’imponibile rettificato o accertato. La presunzione “semplicissima”, per come disciplinata dalle disposizioni sull’accertamento e dando a queste un’interpretazione corrispondente alla loro ratio storica, può intervenire soltanto come ausilio nel procedimento di quantificazione dell’imponibile.
In secondo luogo occorre tornare a considerare la presunzione “semplicissima” come fonte indiziaria d’eccezione o straordinaria, traente giustificazione dalla speciale gravità delle violazioni riscontrate nella fase istruttoria. Il sistema, infatti, tollera sì che a petto di violazioni particolarmente gravi la quantificazione del maggiore imponibile si fondi su semi-prove, ma lo consente perché la gravità delle stesse è in sé indice dell’alta probabilità di evasione e perché non è dato conoscere strumenti storicamente più accreditati per risalirne all’entità. Fra rinunciare ad una sua quantificazione con le ordinarie fonti di prova e quantificarla con fonti dalla forza dimostrativa assai labile, il sistema ha preferito non abdicare alla ricostruzione, seppure a scapito del grado di attendibilità del risultato. E ha preferito, sempre in ragione di quella gravità, rimettere la verifica della congruità del risultato medesimo al vaglio, semplicemente, della ragionevolezza e non arbitrarietà.
La compatibilità della disciplina sulle presunzioni “semplicissime" con il comma 5-bis passa, allora, da una doppia condizione: dalla dimostrazione, puntuale e circostanziata, mediante prove “piene”, della violazione che legittima l’accertamento induttivo; dall’uso rigoroso delle stesse presunzioni “semplicissime”, preordinato soltanto alla quantificazione, ragionevole e non arbitraria, dell’imponibile accertato o del maggiore imponibile rettificato.
9. La coerenza della prova con il diritto sostanziale
Rimane da indagare il requisito della “coerenza” della prova, qui da intendere come risultato del procedimento probatorio, con la “normativa tributaria sostanziale. È un requisito esterno alla prova ma che su questa reagisce rendendola inutilizzabile.
Sfrondando il ragionamento, ciò significa che il giudice - e prima l’amministrazione - non può radicare la decisione su prove che finiscono per modificare oppure ampliare gli elementi costitutivi della fattispecie impositiva o le condizioni di imponibilità per come diversamente determinate dal diritto positivo sostanziale.
Se il risultato al quale l’amministrazione perviene con l’uso, ad esempio, della presunzione semplice non si conforma ed anzi contrasta con le disposizioni del testo unico delle imposte sui redditi relative ai ricavi (art. 85) o alla percezione dei compensi (art. 54) e forse anche a quelle sulla percezione degli utili nelle società a ristretta base sociale (art. 45), la presunzione non può legittimare la pretesa creditoria. E non la può legittimare non già perché viziata in sé, ovvero costruita malamente nell’individuazione del fatto noto, nell’uso del ragionamento deduttivo o nell’esito ricostruttivo di quello ignoto, ma perché contrastante con il diritto sostanziale, modificabile o integrabile solo dal legislatore.
In altri termini, fintanto che questi non interviene, magari introducendo specifiche presunzioni legali, la pretesa creditoria non si può fondare su una prova preordinata, negli effetti concreti, ad allargare o modificare gli elementi costitutivi della fattispecie impositiva o le condizioni oggettive di imponibilità[39].
10. Conclusione: l’impervio cammino della “giustizia nell’imposizione”
Riprendo, per concludere, una riflessione contenuta in un recente libro di Raffaello Lupi[40]. L’autore mette acutamente in risalto il disagio del giudice, specie quello chiamato a trattare questioni amministrative, quando deve esaminare e comprendere le dinamiche dell’attività istruttoria che precede il suo intervento. E parallelamente mette in evidenza le difficoltà d’orientamento ed anche di ponderazione che inevitabilmente, al di là del formalismo leguleio, l’amministrazione si trova a dover compiere, specialmente in un sistema di “fiscalità di massa”.
Non v’è dubbio che le cose stiano in questo modo. Non v’è nemmeno dubbio, però, che anche per questi motivi il sistema di somministrazione della giustizia abbia talvolta perso di vista l’essenzialità del suo ruolo, ossia quello di garantire protezione ai beni della vita, privati o pubblici che siano, nel rigore della dialettica probatoria delle parti.
La riforma tenta di limitare i margini, per così dire, dinamici degli attori di questo complesso procedimento. E però lo fa non tanto per riaffermare una primazia del legislatore sugli altri poteri, compreso quello giudiziario, o per impedire la libera formazione del convincimento, ma per riportare al centro del palcoscenico i diritti della persona accertata. Un tentativo, insomma, per dare gambe ad un principio basilare dello stato costituzionale: la giustizia nell’imposizione. Principio che corre con quello, anch’esso fondamentale, della presunzione d’innocenza della persona accertata.
Come tutti gli idoli, anche quello della giustizia va trattato con cura, per non correre il rischio, come ammonisce Gustave Flaubert in Madame Bovary, che un po’ di oro rimanga sulle dita e alla fine, paradossalmente, l’idolo stesso si rivolti contro chi ha provato a toccarlo. L’auspicio è che questo non accada e che, anzi, la “scossa” del legislatore determini una riflessione a tutto campo, come sottolinea Lupi, sulla socialità del diritto e, aggiungo io, sui princìpi dello stato costituzionale letti alla luce del principio di realtà del diritto stesso.
[1] Per un primo commento all’intera legge n. 130, cfr. F. Gallo, Prime osservazioni sul nuovo giudice speciale tributario, in Rass. trib., 2022, 783 ss. ; G. Melis, La legge 130 del 2022: lineamenti generali, in giustiziainsieme.it, 19 dicembre 2022.
[2] È una critica diffusa, espressa ancor più severamente da C. Glendi, La nuovissima stagione della giustizia tributaria riformata, in Il quotidiano giuridico, 22 settembre 2022, ed anche da S. Muleo, Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove nel processo tributario rivisitato, in AA.VV., La riforma della giustizia e del processo tributario, a cura di A. Carinci e F. Pistolesi, Milano, 2023, 83 ss.
[3] Non affronto il tema del rimborso e dell’onere probatorio gravante sul contribuente. Seppure il comma 5-bis lo disciplini («Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso»), mi sembra che la norma in esso contenuta si limiti a confermare una regola assolutamente pacifica.
[4] Cfr. G. Illuminati, La presunzione di innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, passim, ma specie 69 ss.
[5] Per tutti, M. D’Amico, Sub art. 27 Cost., in Comm. Cost., vol. I, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Torino, 2006, 570.
[6] Cfr. J. Luther, Ragionevolezza (delle leggi), in Digesto, Disc. pubbl., XII, Torino, 1997, 341 ss., 358.
[7] Seppure, ça va sans dire, per fatti e in ambiti diversi. Per evitare equivoci preciso che, sebbene in passato vi siano stati tentativi di accostare alcuni profili delle leggi d’imposta alle norme di matrice penalistica - si pensi alle questioni sull’interpretazione e al divieto di analogia - tassazione e pena sono fenomeni radicalmente diversi e nessuna assimilazione è concepibile per le radici costituzionali che li diversificano. L’àmbito, invece, dove un qualche risuono può echeggiare è quello delle garanzie della persona rispetto al potere degli organi dello stato, come dirò meglio nel prossimo paragrafo.
[8] L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura E. Vitale, Roma-Bari, 2001, 90, per il quale i diritti costituzionali, ad iniziare da quelli fondamentali, “rappresentano non già un’autolimitazione sempre revocabile del potere sovrano, ma al contrario un sistema di limiti e di vincoli ad esso sopra ordinato; non dunque «diritti dello Stato» o «per lo Stato» o «nell'interesse dello Stato» [ … ] ma diritti verso e se necessario contro lo Stato, ossia contro i poteri pubblici sia pure democratici o di maggioranza”. Per N. Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo (1963), ora in N. Matteucci e N. Bobbio, Positivismo giuridico e costituzionalismo, con introduzione di T. Greco, Trento, 2021, 145 ss., nello stato legislativo era dalla legge ordinaria e dal potere dello stato-persona o stato-ordinamento che nascevano libertà e diritti. Come “illusione concettuale” - ha scritto Matteucci - questa ricostruzione era funzionale alle esigenze di quel tipo di stato, al quale faceva da pendant il positivismo formalista, ma ormai essa ha smarrito qualsiasi validità ricostruttiva alla luce del ribaltamento compiuto dalla Carta del 1948.
[9] Anche A. Ruggeri, Il principio personalista e le sue proiezioni, in Federalismi, 17, 2013, arriva a conclusione similare. Così, nella sostanza, anche E. Rossi, Principi fondamentali, sub art. 2 Cost., in Commentario Cost., a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, I, Torino, 2006, 42 ss.
[10] Cfr. N. Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo, cit., 149 e 150; F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano, 1970, 12 ss. Sullo stato costituzionale come evento dalle potenzialità rivoluzionarie anche dal punto di vista del rapporto fra persona e poteri degli organi dello stato, fra i tanti, cfr. N. Bobbio, Mutamento politico e rivoluzione, a cura di L. Caragliotto, L. Merlo Pich, E. Bellando, con prefazione di M. Bovero, Roma, 2021, 463 ss., 468; Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, già cit., 138; E. Cheli, I fondamenti dello “Stato costituzionale”, in Lo Stato costituzionale. I fondamenti e la tutela, a cura di L. Lanfranchi, I, Roma, 2006, 41 ss.; M. Fioravanti, Stato costituzionale in trasformazione, Modena, 2021, 7 ss.
[11] Per un’analisi cristallina, cfr. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, passim, ma già 4 ss.
[12] J. Habermas, Fatti e norme, trad. it. di L. Ceppa, Roma-Bari, 2013, 200 ss.; A. Baldassarre, Il costituzionalismo e lo stato costituzionale, Modena, 2020, 34 ss.; G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2017, 133 ss.
[13] Lo spiega ampiamente V. Omaggio, Saggi sullo Stato costituzionale, Torino, 2022, 134 (nel testo, enfasi di chi scrive).
[14] In altra occasione mi sono occupato di questi temi (se si vuole, A. Giovannini, Territorio invisibile e capacità contributiva nella digital economy, in Riv. dir. trib., 2022, I, 497 ss., specie 511 ss.). In quella circostanza ho precisato - e qui lo ribadisco - che la sovranità applicata ai tributi non è “altra” dalla sovranità che convenzionalmente si definisce generale. Anche se guardata dall’angolo prospettico dei tributi, la sovranità si articola sempre nell’esercizio di un triplice ordine di poteri: quello ordinamentale, funzionale alla normazione generale ed astratta, quello di governo e quello coercitivo. Il potere impositivo, perciò, è solo un elemento della sovranità, che deve essere esercitato nel rispetto e all’esclusivo fine di attuare l’ethos dei princìpi costituzionali. Cfr. G.A. Micheli, Profili critici in tema di potestà d’imposizione (1964), ora in Opere minori di diritto tributario, II, Milano, 1982, 30 ss.; E. De Mita, La legalità tributaria, Milano, 1993, 5 ss.; G. Marongiu, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria. Profili storici e giuridici, Torino, 1995, 10 ss.; F. Gallo, Le ragioni del fisco, Bologna, 2011, 79 ss.; A. Fedele, Diritto tributario (principi), in Enc. dir., Annali, II, t. 2, Milano, 2008, 447 ss., specie 453, 467 e 468; G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, 8 ss., 81 ss.; L. Antonini, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996, 21 ss., 123 ss.
[15] Cfr. N. Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo, cit., 149 e 150; F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano, 1970, 12 ss.
[16] Come ho già precisato nella nota 3, non affronto il tema del rimborso e dell’onere probatorio gravante sul contribuente poiché la regola che pure il comma 5-bis stabilisce («Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso») è meramente ripetitiva di un’impostazione assolutamente pacifica.
[17] Per chi aderisce alla teoria costitutiva dell’obbligazione d’imposta la ripartizione dell’onere non si salda alla norma codicistica, ma discende dal principio di precostituzione della prova: “a nessun atto la pubblica amministrazione può (possa) accingersi senza aver procurato a se stessa la prova dei fatti che determinano la sua potestà di dar vita a quell’atto”. Così E. Allorio, Diritto processuale tributario,Torino, 1962, 377-378). Sviluppa la teoria del Maestro, F. Tesauro, L’onere della prova nel processo tributario (1986), ora in Scritti scelti, II, a cura di F. Fichera, M. C. Fregni, N. Sartori, 2022, 268 ss., e la riprende più recentemente N. Sartori, I limiti probatori nel processo tributario, Torino, 2023, 79-80. Danno dimostrazione della linearità e semplicità ricostruttiva dell’impostazione dichiarativa, alla quale aderisco, che riferisce la ripartizione direttamente all’art. 2697 c.c., fra gli altri, P. Russo, Il nuovo processo tributario, Milano, 1974, e Id., Manuale di diritto tributario. Il processo tributario, Milano, 2013, 195 ss.; F. Batistoni Ferrara, Appunti sul processo tributario, Padova 1995, 67 ss. La questione, va detto, ha ormai perduto rilievo fors’anche teorico giacché la Corte costituzionale, oltre alla Cassazione, ha affermato espressamente l’applicazione dell’art. 2697, cod. civ., al processo tributario. Si veda Corte Cost., n. 109 del 2007.
[18] È senz’altro condivisibile la ricostruzione di P. Russo, Problemi in tema di prova nel processo tributario dopo la riforma della giustizia tributaria, in Riv. dir. trib. online, 7 dicembre 2022. In termini opposti, ma con argomentazioni che a me sembrano non convincenti, C. Glendi, L’istruttoria del processo tributario riformato. Una rivoluzione copernicana!, in Quotidiano IPSOA, editoriale 24 settembre 2022.
[19] La Cassazione ha fatto applicazione della “vicinanza”, fra l’altro, in materia di transfer pricing, così addossando al contribuente l’onere di provare la normalità o la correttezza dei prezzi praticati. Fra le molte, Cass. n. 13571/2021, n. 17512/2019. Molto criticamente, in termini condivisibili per quanto riguarda l’approdo giurisprudenziale, cfr. G. Vanz, Criticità nell’applicazione delle regole giurisprudenziale della “vicinanza della prova”, in Dir. prat. trib., 2021, I, 2584 ss. La Cassazione ha fatto inoltre uso della regola anche in materia di inerenza dei costi, qualificandoli come “fatti impeditivi” del diritto di credito dell’amministrazione e addossando così al contribuente la prova della loro inerenza all'attività. L’interpretazione giurisprudenziale è assai discutibile, non foss’altro perché tratta l’inerenza come fosse un fatto, quando invece è regola d’interpretazione. Si veda, per la tesi qui criticata, Cass. n. 11942/2016, n. 12127/2022, 33568/2022.
[20] Su questo tema cfr. puntualmente S. Muleo, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2021, 603 ss.
[21] Condivisibile la critica di S. Muleo, Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove, già cit.
[22] È senz’altro condivisibile la tesi di Tesauro che riporta l’onere della prova, almeno in prima battuta, al procedimento amministrativo e dunque alla fase sostanziale di ricerca della capacità contributiva. La distribuzione dell’onere, afferma l’autore, “dipende dal diritto sostanziale”. Cfr. F. Tesauro, Prova (diritto tributario), in Enc. dir., Agg. III, Milano, 1999, 884 ss., 886 e 893.
[23] Questo requisito della prova sarà esaminato nel prossimo paragrafo.
[24] Non mi sfugge che la disposizione parla di “annullamento” dell’atto impugnato se manca la prova o questa difetta nella sua compiutezza. Si deve però dire che l’espressione è scarsamente significativa dal punto di vista ricostruttivo generale, sia perché, com’è noto, le teorie scientifiche hanno basamenti diversi da quelli nominalistici; sia perché la stessa mal si lega con il sostantivo “fondatezza” di cui parla la stessa disposizione nello stesso alinea, requisito che all’evidenza si può riferire anche al diritto di credito; sia perché l’annullamento non si concilia con la locuzione “pretesa tributaria” utilizzata nel comma 4 dello stesso art. 7, anch’esso riformato della legge n. 130 del 2022. E’ quanto basta, io credo, per dimostrare l’approssimazione concettuale con la quale la riforma è stata scritta e dunque per non assegnare alle singole espressioni un’importanza eccessiva e decisiva, specialmente se tramite di esse si pretende o si pretendesse di consacrare una teoria piuttosto che un’altra sulla natura dell’obbligazione d’imposta e del processo tributario. Mi sembra, insomma e in altre parole, di poter sostenere che, per chi come me ha da sempre sposato l’impostazione dichiarativista, la ricostruzione del processo come di impugnazione-merito - per usare un’espressione celeberrima ampiamente sviluppata da Pasquale Russo e ripresa dalla giurisprudenza assolutamente maggioritaria - mantenga inalterata la sua validità.
[25] Il principio del libero convincimento, tuttavia, “non può favorire una sorta di anarchia delle operazioni del giudice e, negli ordinamenti moderni, che hanno acquisito consapevolezza delle necessità che il sistema probatorio sia fondato su basi razionali, non può servire da cortina per mascherare operazioni autoritarie”. Così G. Verde, Prova, cit., 591.
[26] Per come disciplinata dagli artt. 2727 e 2729 c.c., e dall’art. 39, comma 1, lettera d), d.P.R. n. 600 del 1973, e dall’art. 54, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972.
[27] L’approccio teorico che probabilmente si coglie in questa esposizione si rifà, da un lato, agli insegnamenti chiovendiani sulla tutela dei beni della vita dei consociati come scopo principale della giustizia; per un altro al costituzionalismo principialista, così da superare la rigidità avaloriale del positivismo formalistico, da quello di Karl von Gerber fino a quello di Hans Kelsen; per un altro verso ancora alle teorie realistiche del diritto d’origine nord-europee e nord-americane. In questa sede mi limito soltanto, per chi vuole, a rinviare a A. Giovannini, Sull’azione processuale e sulla tutela dei beni della vita, ora in Per principi, Torino, 2022, 127 ss.; Id., Sul diritto, sul metodo e sui principi, ivi, 3 ss.; Id., Note controvento su interesse fiscale e “giustizia” nell’imposizione come diritto fondamentale, in Riv. dir. trib., 2023, I
[28] V. Andrioli, Presunzioni (diritto civile e diritto processuale civile), in Noviss. dig. it., XIII, Torino, 1966, 767 ss.
[29] L’indicazione degli elementi di prova nell’avviso di accertamento è prescritto dall’art. 56, secondo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 e, per l’atto di contestazione della violazione, dall’art. 16, secondo comma, del d.lgs n. 472 del 1997, non anche dall’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973. L’indicazione, tuttavia, in un’interpretazione costituzionalmente orientata e per coerenza sistematica, si deve ritenere obbligatoria anche per le imposte sui redditi non solo perché fra questi tributi corre quasi sempre identità di rettifica e unicità del provvedimento d’accertamento, ma anche perché quella indicazione è essenziale per l’esercizio del diritto alla difesa nella sua pienezza ed effettività, ed anche per consentire al contribuente di controllare fin dalla fase preprocessuale l’uso non arbitrario del potere d’accertamento. Il che non significa che l’amministrazione non possa integrare in corso di causa il ventaglio delle prove, purché, ovviamente, entro i fatti già indicati nell’avviso di accertamento e al ricorrente-contribuente sia riconosciuto un termine di replica, peraltro previsto espressamente dall’art. 24, secondo comma, del d.lgs. n. 546 del 1992. Cfr. F. Batistoni Ferrara, La prova nel processo tributario: riflessioni alla luce delle più recenti manifestazioni giurisprudenziali, in Giur. trib., 2007, 745 ss.
[30] Così G. Ubertis, Prova penale (teoria della), in Diz. dir. pubbl., diretto da S. Cassese, V, Milano, 2006, 4719 ss., 4726. Più ampiamente M. Nobili, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974, passim, ma specie 255 ss., nonché F. Cordero, Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, fin da 7 ss.
[31] Sia consentito rinviare ad A. Giovannini, Ipotesi normative di reddito e accertamento nel sistema d’impresa, Milano, 1992, passim, e più recentemente Id., L’onore della prova nell’accertamento analitico-presuntivo, in Trattato sull’onore della prova, diretto da L. Tosi, Milano, 2023.
[32] Lo sostiene P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002. Diversamente, in termini netti, mi sono espresso in Note controvento su interesse fiscale e “giustizia nell’imposizione” come diritto fondamentale, in Riv. dir. trib., 2023, I,
[33] G. A. Micheli, Le presunzioni e la frode alla legge nel diritto tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1976, I, 396 ss.; F. Moschetti, Avviso d’accertamento tributario e garanzie del cittadino, in Dir. prat. trib., 1983, I, 1930 ss.
[34] E ciò come conseguenza della distinzione fra gradazione probabilistica della prova indiretta e pluralità dei risultati inferenziali. Nella prova indiretta, come fonte e quale che essa sia, la gradazione probabilistica è sua caratteristica naturale. Ciò nondimeno, questa caratteristica non impedisce di qualificare il fatto ricostruito come processualmente certo. La pluralità dei risultati dedotti in via presuntiva e quindi non sorretti da un nesso necessario tra fatto noto e quello ignoto, invece, incidono sull’attendibilità della fonte ed è per questo che non possono essere qualificati come dimostrativi del fatto ignorato, che infatti lasciano nell’incertezza della pluralità degli esiti. Questo accennato, ne sono consapevole, è uno degli aspetti fra i più controversi del dibattito sulle presunzioni, ma ho sempre ritenuto che l’impostazione sommariamente richiamata sia quella da preferire per evitare continue e perniciose slabbrature del sistema probatorio e dei princìpi costituzionali. Esattamente quello che è accaduto negli ultimi lustri.
[35] Per quella tributaria, ex pluris, G. Gentili, Le presunzioni nel diritto tributario, Padova, 1984, 158 ss.; Tesauro F., Le presunzioni nel processo tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, I, 188 ss.; R. Lupi, Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario, Milano, 1988, 210 ss.; M. Trimeloni, Le presunzioni tributarie, in Trattato dir. trib., diretto da Amatucci A., II, Padova, 1994, 81 ss.; A. Marcheselli, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, Torino, 2008; G.M. Cipolla, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, 445 ss. Per la letteratura processuale civile, cfr. L.P. Comoglio, Le prove civili, in Trattato dir. priv., diretto da Rescigno U., XXXI, rist., Torino, 1999, 322 ss.; M. Taruffo, Studi sulla rilevanza della prova, Padova, 1970, 192 ss., 233 ss.
[36] Cfr. C. Glendi, Il giudice tributario e la prova per presunzioni, in Le presunzioni in materia tributaria, a cura di A.E. Granelli, Rimini, 1987, 157.
[37] È disciplinata dall’art. 39, secondo comma, d.P.R. n. 600 del 1973 e dall’art. 54, terzo comma, d.P.R. n. 633 del 1972. Cfr. ampiamente F. Tesauro, Le presunzioni nel processo tributario, loc. cit.
[38] Sia consentito rinviare, anche per riferimenti bibliografici, al mio Ipotesi normative di reddito e accertamento, cit., 93 ss.
[39] Riprendo l’orientamento giurisprudenziale che finisce per permettere alle presunzioni semplici di surrogare presunzioni legali o, di fatto, per allargare o modificare fattispecie impositive disciplinate dal diritto sostanziale. E’ il caso, ad esempio, dell’equiparazione della conclusione delle prestazioni professionali alla percezione dei compensi (art. 54 T.U.I.R.), oppure della presunzione che tende a riqualificare come ricavi gli apporti finanziari dei soci in società di capitali (art. 85 T.U.I.R.). Cfr., per asciutte e puntuali osservazioni, M. Basilavecchia, Corso di diritto tributario, Torino, 2022, 415 ss.
[40] R. Lupi, Studi sociali e diritto, Roma, 2022, 83 ss., 92 ss.