ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Mettere i bambini al centro delle decisioni utilizzando le norme che già prevedono la necessità di iscrivere alla nascita i due genitori che hanno messo al mondo il bambino. È questo il senso di un documento sottoscritto da 276 giuristi - docenti universitari, giudici, avvocati - mobilitati nel giro di poche ore per chiedere che il dibattito esca dalle pastoie della polemica politica e del pregiudizio e torni a basarsi su una attenta analisi dei dati giuridici.
Il monito al legislatore espresso dalla Corte Costituzionale nel 2021 perché intervenisse senza indugio a colmare il vuoto di tutela dei bambini nati da coppie omosessuali è caduto nel vuoto e, anzi, il mancato intervento della Consulta viene utilizzato oggi in modo strumentale per sottoporre questi bambini e le persone lgtbi+ ad un duro attacco, ricacciando questi bambini e una intera comunità indietro nel tempo.
Il documento sottoscritto da alcuni dei più insigni cultori della materia della famiglia e della filiazione propone un’attenta riflessione condotta sulle norme vigenti, con una stringente critica dei principali argomenti giuridici spesi, anche in alcune sentenze, al fine di negare protezione sin dalla nascita ai bambini e alle bambine nati da due mamme. L’istituto dell’adozione in casi particolari si muove in una prospettiva squisitamente adultocentrica, perché consente all’adulto di decidere se adottare o meno (peraltro con i noti problemi in termini di tempi ed effetti), ma non assicura la piena protezione del bambino alla nascita, come accade a chi viene al mondo con identica PMA eterologa da genitori eterosessuali. La circostanza che secondo la prima sezione Cedu non vi sia violazione della Convenzione non esime dalla ricerca della soluzione più giusta secondo il diritto nazionale vigente. L’analisi del quadro normativo attuale conduce dunque ad un invito all'esercizio della giurisdizione al fine di prevenire una pesante discriminazione dei bambini nati da due mamme.
Il documento vede fra i firmatari alcuni degli studiosi più noti del diritto di famiglia e della filiazione, come Vincenzo Barba, Gilda Ferrando, Leonardo Lenti, Maria Rosaria Marella, Pina Palmeri (che è anche una delle promotrici del documento), Salvatore Patti, Ugo Salanitro, Marica Venuti, Paolo Zatti, oltre che giudici di cassazione, tanti giudici di merito e notissimi giuristi di vari campi del diritto del calibro di Marzia Barbera, Thomas Casadei, Giovanni Comandè, Emilio Dolcini, Elena Malfatti, Marco Pellissero, Francesca Poggi, Paolo Ridola, Paolo Veronesi.
Pina Palmeri (ordinaria di diritto privato, Università di Palermo), Marco Gattuso (giudice Tribunale Bologna)
Il diritto stia dalla parte dei bambini e delle bambine
Le persone lgbti+ e le loro famiglie sono oggetto di un duro attacco che non può che suscitare allarme e malessere in quanti hanno a cuore i valori dell’uguaglianza e della non discriminazione. È un attacco rivolto, in nome di una presunta volontà della maggioranza, contro persone inermi, discriminate per le loro qualità e identità personali. L’offensiva in questi mesi si rovescia con particolare violenza sui soggetti più deboli fra tutti: i bambini e le bambine con genitori dello stesso sesso.
Anche in ambito giuridico visioni affette da un malcelato pregiudizio nei confronti delle persone omosessuali e delle loro famiglie conducono a letture poco condivisibili dei dati tecnico-giuridici, entro cui sarebbe invece necessario confinare il dibattito.
Quali studiosi e operatori, studiose e operatrici del diritto siamo convinti che sia compito della cultura giuridica ricomporre al più presto il quadro delle tutele alla luce di una attenta e severa ricostruzione sistematica e tecnica. Mentre la questione della protezione di chi nasce da gestazione per altre e altri (da coppie eterosessuali e, in minor misura, omosessuali) ha avuto maggiore attenzione seppure con esiti ancora incerti e insoddisfacenti, siamo convinti che sia tuttora poco approfondito il dibattito sulla protezione dei bambini e delle bambine nate da due mamme, le quali intraprendono normalmente un percorso di procreazione medicalmente assistita (PMA) con donazione di seme maschile, in tutto identico a quello delle coppie eterosessuali.
A tale riguardo, dobbiamo evidenziare come la discussione sia minata da una lettura spesso imprecisa delle disposizioni della legge 40 che regolano la protezione alla nascita di tutti i nati e le nate con tecniche di PMA.
In particolare rileviamo che:
- Non è corretto assumere che la condizione di chi viene messo al mondo da due mamme sia regolata dalla norma della legge 40 che impedisce alle coppie di donne di accedere alla PMA, poiché la regola sullo status dei bambini e delle bambine è stabilita in una differente disposizione della medesima legge (Disposizioni concernenti la tutela del Nascituro) che prevede che i bambini nati da PMA sono figli “della coppia” che ha deciso di accedere a tale tecnica. Mentre il divieto concerne le condotte degli adulti, le norme sulla tutela del nascituro si pongono nella prospettiva della protezione del minore, non riguardando il divieto le vicende successive al compimento degli atti di PMA.
– I divieti contenuti nella legge 40, infatti, non si estendono – né potrebbero estendersi – alla fase che segue il compimento della condotta sanzionata, non potendo i figli subire conseguenze negative per gli atti posti in essere dai genitori, e ciò in base ad un principio divenuto cardine nel nostro ordinamento.
– Non è vero che la disposizione per cui i nati sono figli della “coppia” che ha voluto la loro nascita non possa applicarsi a chi ha due madri, posto che la legge parla di “coppia” senza ulteriori specificazioni e che la parola “coppia” denota comunemente, nel diritto italiano e in quello europeo, sia le coppie eterosessuali che quelle omosessuali.
– Non è vero che questa disposizione possa essere applicata solo a chi esegue la PMA secondo le regole di accesso vigenti in Italia, poiché il complesso delle norme “a tutela del nascituro” è stato previsto proprio per chi ricorreva all’estero a tecniche, come la PMA eterologa, che la stessa legge 40 vietava (e la Cassazione difatti l’ha ritenuta regola generale applicabile anche in caso di violazione dei presupposti per l’accesso alla PMA, ad es. in caso di PMA post mortem).
– Non è vero che nonostante l’univoco dato letterale della disposizione, i giudici dovrebbero darne una interpretazione restrittiva perché una interpretazione letterale sarebbe eccentrica rispetto al sistema e perché contrasterebbe con il “modello” di famiglia tradizionale, atteso che compito dei giudici non è la difesa ideologica dei “modelli”, ma l’applicazione delle disposizioni vigenti che prevedono la protezione in concreto dei bambini e delle bambine sin dalla loro nascita.
– Non è vero, in particolare, che la tutela dei bambini e delle bambine secondo le disposizioni previste dalla legge 40 introdurrebbe un diverso, incompatibile, “modello” di procreazione, atteso che la legge 40, seppure fondata in origine sul dogma del necessario rapporto genetico fra genitori e figli, sicché vietava la PMA eterologa, si preoccupava comunque di proteggere i nati anche in assenza di tale rapporto senza che ciò, nell’intenzione del legislatore, desse luogo ad un insanabile conflitto con il “modello” tradizionale.
– Non è vero che il compito di provvedere alla tutela dei nati spetta al legislatore, sicché interpretando la norma i giudici non ne rispetterebbero le prerogative, perché lo Stato di diritto impone che in ogni caso di inerzia del legislatore sia comunque affidata alla giurisdizione la salvaguardia dei diritti fondamentali dei minori, dei soggetti deboli, degli appartenenti a minoranze.
– Non è comunque vero che sia ragionevole considerare preferibile per i minori la famiglia tradizionale composta da uomo e donna, in quanto assicurerebbe al minore “migliori condizioni di partenza”, poiché tali affermazioni sono in aperto contrasto con quanto accertato da decenni dalla scienza ufficiale.
– Non è vero, in particolare, che i giudici debbano muoversi in questa materia sulla base di un principio di precauzione, posto che da diversi decenni gli statements ufficiali rilasciati dalle associazioni di psicologi, pediatri, psichiatri e psicanalisti del mondo occidentale continuano ad affermare che la crescita sana dei bambini e delle bambine non è legata all’orientamento sessuale dei genitori ma alle loro capacità di accudimento ed è provato che tali capacità si rinvengono in pari modo fra le coppie eterosessuali e omosessuali. Ne consegue che è precluso ai giudici di non dare conto nelle loro decisioni di tale quadro scientifico, poiché in caso contrario la decisione, come affermato dalla Cassazione sin dal 2013, finirebbe per essere fondata su un “pregiudizio”.
– È dunque da escludere che il benessere del minore possa essere valutato tenendo conto delle opinioni maggioritarie nel paese e non del contributo della scienza.
– Non è peraltro neppure vero, in ogni caso, che la decisione dipende da una diversa valutazione dell’interesse del minore, posto che comunque la si pensi il bambino e la bambina resteranno nella loro famiglia, sicché non è qui in gioco un giudizio sulle coppie omosessuali, ma il manifesto e indiscusso interesse del bambino ad essere pienamente protetto nell’ambito delle sue relazioni familiari, come già sottolineato dalla Corte costituzionale.
– È giuridicamente errato sostenere che la legge Cirinnà avrebbe escluso l’applicabilità della disposizione sulla protezione dei nati da PMA alle coppie dello stesso sesso, perché l’unica esclusione contenuta in tale legge riguarda le norme del codice civile e la legge sulle adozioni: fuori da tali eccezioni la legge Cirinnà, invece, impone senz’altro l’equiparazione.
– Non è giuridicamente corretto affermare che si possa negare ai bambini e alle bambine addirittura il riconoscimento alla nascita del rapporto con la loro mamma genetica, atteso che appare priva di fondamento e piuttosto sorprendente l’affermazione per cui il legame genetico non avrebbe alcuna rilevanza nel nostro ordinamento nel rapporto fra madre e figlio, sicché, in buona sostanza, il dna avrebbe rilevanza giuridica solo per gli uomini ma sarebbe del tutto irrilevante per le donne. A tale riguardo l’affermazione della totale irrilevanza del dato genetico per la genitorialità femminile (erroneamente desunta dalla rilevanza che certamente assume il legame gestazionale) è affermazione del tutto nuova e inusitata nel mondo del diritto (non si conoscono né precedenti giurisprudenziali né indirizzi dottrinari, in Italia e nel mondo in tal senso) che tradisce, ancora una volta, l’intento di rendere invisibile la specificità femminile in ambito procreativo ed insieme la volontà di continuare ad esercitare sul corpo delle donne un forte potere di “disciplinamento”.
– Non è vero che la lettura che nega l’efficacia dei certificati che riconoscono la responsabilità genitoriale alla nascita del genitore d’intenzione sia compatibile con il diritto europeo, perché i figli di due genitori dello stesso sesso una volta varcato il confine italiano rischiano d’essere privati di un genitore, in evidente violazione, tra gli altri, del loro diritto alla libertà di circolazione in ambito Ue.
– Non è vero che l’adozione in casi particolari è rimedio sufficiente, perché l’adozione è subordinata alla volontà dell’adulto, mentre la legge 40 impone la protezione dei nati anche quando non vi sia tale volontà. L’adozione, difatti, presuppone necessariamente una istanza dell’adottante, mentre il dispositivo di cui alla legge 40 è diretto a inchiodare il genitore intenzionale alla sua responsabilità genitoriale in ragione del consenso prestato alla PMA.
Siamo convinti che il continuo richiamo ai “modelli” di famiglia e al “diritto dell’adulto” di adottare (peraltro assicurato con i noti limiti rispetto ai tempi e agli effetti), tradisca una logica che permane schiettamente adultocentrica e che sostanzialmente ignora o comunque sottovaluta le esigenze e la stessa identità personale dei bambini e delle bambine.
Non assume al riguardo rilievo dirimente la recente decisione della prima sezione della Corte di Strasburgo che in composizione ristretta ha ritenuto che l’Italia non abbia superato l’ampia discrezionalità di cui disponeva rispetto all’attuazione dei mezzi per stabilire o riconoscere la filiazione. La Corte si è limitata a rilevare la mancata violazione della Convenzione in questi casi concreti (che non riguardavano ipotesi di rifiuto del genitore intenzionale di riconoscere o adottare il bambino), ma non ha affrontato la diversa questione della interpretazione del diritto interno, che non le compete. Un Paese che, come il nostro, gode di una forte e solida tradizione giuridica e costituzionale, non deve attestarsi al livello più basso di protezione dei diritti fondamentali consentito dall’ampio margine di apprezzamento riconosciuto in questa materia, dovendo l’Italia ambire ad una esegesi delle proprie norme interne che non l’allontani dal novero di quegli ordinamenti con cui condivide una affine civiltà giuridica.
Il nostro quadro legislativo consente ed anzi impone di porre il bambino al centro della decisione e di dargli piena tutela sin dalla nascita. In mancanza di una riforma, è dunque indispensabile che la giurisprudenza assicuri la corretta applicazione delle norme esistenti a tutti i bambini senza pregiudizi e condizionamenti dovuti ai modi in cui si può nascere e/o all’orientamento sessuale dei genitori.
Non è superfluo segnalare come anche nell’opinione pubblica si manifesti una sempre maggiore consapevolezza e solidarietà nei confronti delle coppie lgbti+ e dei loro bambini. In ogni caso, anche se così non fosse va sottolineato con forza che quando i dubbi espressi da una parte dell’opinione pubblica appaiono privi di razionale base giuridica e scientifica, e quando ci si inizia a mobilitare contro i diritti dei soggetti più deboli, in uno Stato di diritto è più che mai compito della giurisdizione assicurare che ogni persona, specie se è particolarmente vulnerabile e indifesa come un bambino o una bambina, non subisca alcuna discriminazione.
Sommario: 1. Premessa - 2. I lavori della prima sessione (Discrezionalità e giurisdizione) - 3. Sui lavori della seconda sessione (Discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità) - 4. Sui lavori della terza sessione (Giudizio di cognizione e giudizio di ottemperanza) - 5. Sui lavori della sessione finale (gli interventi) - 6. Breve notazione conclusiva (con rinvio al saggio Brevi considerazioni sulla discrezionalità amministrativa, nell’ultima edizione di Principi e regole dell’azione amministrativa.
1. Premessa.
Desidero innanzitutto richiamare l’attenzione sulla valorizzazione del dialogo tra accademia e giurisprudenza, che è lo spirito e la ragione di questi nostri incontri. Ricordo ancora la cena organizzata prima della ripresa delle Giornate sulla Giustizia amministrativa, nate per celebrare la memoria di Eugenio Cannada Bartoli, l’illustre studioso Maestro di Fabio Francario, di cui avevo seguito le splendide lezioni di Giustizia amministrativa alla Sapienza (quando le teneva a pochissimi studenti alle 8 del sabato mattina) e con il quale avevo avuto l’onore di lavorare a stretto contatto quando era subentrato a Mario Nigro, a sua volta succeduto a mio padre, nella Direzione della Sezione di diritto amministrativo della rivista Giurisprudenza italiana.
Lo spirito di questi incontri, dicevo, nati in un momento un po’ critico per la Giustizia amministrativa (in cui la stampa quotidiana e alcune forze politiche accusavano il giudice amministrativo di ostacolare improvvidamente il rilancio dell’economia), era anche quello di una critica costruttiva, per riflettere, in un ambito ristretto e “amico”, “insieme”, sulle questioni più complesse e “delicate” della “nostra” Giustizia, lavorando, “insieme”, per realizzare una tutela giurisdizionale nei confronti delle pp.AA. sempre migliore.
Come ha osservato poco fa Antonio Barone, queste Giornate sono una “Ineguagliabile occasione di confronto franco e serrato tra accademia e magistratura” e dobbiamo fare di tutto per tenerlo vivo.
Il nostro rispetto per l’istituzione Giustizia Amministrativa è noto, come lo è il mio autentico amore per l’istituzione Giudice amministrativo: non siamo professori e avvocati da una parte e giudici amministrativi dall’altra: siamo giuristi che “credono” in questa istituzione e vogliono, anche attraverso critiche costruttive all’interno di questo simposio, sentirla sempre più apprezzata e rispettata anche dall’esterno.
Vari giudici ci chiedono: che si dice di noi, che si dice del Consiglio di Stato e dei TAR dall’esterno? Il nostro auspicio e la nostra ambizione sono poter rispondere: “benissimo”. Da qui anche la scelta degli argomenti, sempre condivisi con i Presidenti del Consiglio di Stato, trattati in queste Giornate, tendenzialmente un po’ scomodi e apparentemente provocatori, come quello della “sentenza ingiusta”, affrontato nel 2017, e quello di questo incontro, del sindacato sulla discrezionalità.
Ma siamo “NOI”, insieme, contro la difficoltà che, come ben ricordato da Fabio nella sua Introduzione, i giudici amministrativi incontrano, oggi più che mai, a svolgere il loro ruolo: siamo solidali e dalla stessa parte, a tutela dell’effettività della giustizia nei confronti del potere amministrativo; e questo è fondamentale, perché, riprendendo il richiamo alla bella citazione tratta da Andrea Panzarola che ho apprezzato ieri, “la storia della libertà è stata anche la storia del rispetto delle garanzie procedurali”.
Ma veniamo al nostro tema: la discrezionalità e il suo sindacato.
Inizio anche io dalla citazione del saggio di Mario Nigro (di cui ho avuto l’onore di essere allieva) su Silvio Spaventa, richiamato da Beppe Morbidelli: “La discrezionalità amministrativa, sempre in crisi e sempre criticata, si ripropone d’altronde nuovamente ogni giorno come lo strumento più adatto a commisurare elasticamente l’azione statale agli scopi che essa prefigge, scopi che, nella loro molteplicità e imperiosità, sembrano essere il centro di gravità del nuovo stato”.
2. Sui lavori della prima sessione (Discrezionalità e giurisdizione).
Francesco Manganaro ha sottolineato la centralità del tema, oggetto di vari convegni, perché sempre più attuale e arricchito: lo ha affrontato da ultimo in modo assai interessante il volume di Fabio Saitta che rappresenta il giudice amministrativo come un “interprete senza spartito” di cui abbiamo discusso in uno degli incontri del lunedì di Giustizia insieme avviati quest’anno con il fondamentale apporto organizzativo di Enrico Zampetti.
Non è un caso, del resto, che negli ultimi anni ho aperto con questo tema il ciclo di lezioni sulla giustizia amministrativa della SSPPLL di Roma Tre, proprio con Fabio Francario, Marco Lipari e Paolo Carpentieri.
Oggi, per di più, si aggiungono i nuovi ambiti di discrezionalità offerti dal PNRR (di cui ci hanno parlato Antonio Barone e Paolo Gentili), dal Codice dei contratti pubblici (su cui abbiamo ascoltato Claudio Contessa, e, sotto diversi tagli, gli interventi di Francesco Cardarelli, Aristide Police, e Giuseppe Severini) e, tutt’altro che in ultimo, dalle decisioni robotiche (trattate da Anna Corrado e Vittorio Domenichelli)
L’interesse e la complessità del tema sono emersi al massimo livello nelle Relazioni introduttive di Beppe Morbidelli e di Fabio Francario.
Morbidelli ha messo l’accento sull’importanza dell’attività di indirizzo politico come “funzione di guida” degli atti amministrativi di gestione affidati alla discrezionalità (pura) delle pubbliche Amministrazioni diverse dalle Autorità indipendenti -una funzione costituzionalmente necessaria perché il Governo deve assumere la responsabilità di tale indirizzo- e ne ha poi rimarcato la differenza dalla predeterminazione e autolimitazione delle modalità di esercizio della gestione (di cui pure segnala la fondamentale importanza a garanzia dell’imparzialità amministrativa), che è anticipato esercizio della discrezionalità, ferma restando la discrezionalità dei dirigenti e dei funzionari nella gestione (discrezionalità concreta sul fatto, da determinarsi progressivamente attraverso l’istruttoria), che deve in ogni caso esplicarsi nel rispetto delle prescritte garanzie procedimentali.
Morbidelli ha parlato a questo riguardo di “diverse discrezionalità (o “discrezionalità divisa”), rilevando che l’atto di indirizzo, che quando non ha forma di legge, ha forma di direttiva (nozione molto dibattuta) è, sì, da un lato, espressione della separazione tra politica e amministrazione, ma costituisce, dall’altro, un indice rilevatore del peso politico che comunque incombe sull’amministrazione e aiuta a scrutinare con maggiore evidenza l’uso distorto (ovvero per ragioni politiche “non nobili”) di tale potere.
Sicché la presenza di un atto di indirizzo, che intermedia tra legge e provvedimento (o atto amministrativo generale), costituisce, per più ragioni, un elemento di rafforzamento e delle garanzie giurisdizionali e di ogni forma di controllo sia politico che amministrativo.
Fabio Francario ha rimarcato la difficoltà, aumentata in via esponenziale nel tempo, del lavoro dei giudici, stretti oggi tra un sistema normativo complesso e multilivello, che aumenta la confusione e l’incertezza nella individuazione della soluzione giusta (tema cui non a caso stiamo dedicando da anni costante attenzione), e l’esigenza di concludere rapidamente il giudizio. Difficoltà aggravata per il GA a causa della “dissoluzione”, ovvero della tendenziale scomparsa, della decisione amministrativa.
Sicché, come ben osservato da Fabio, la cura in concreto dell’interesse pubblico, sempre più spesso, non passa più per l’attività amministrativa. O perché l’Amministrazione non è in grado di decidere; o perché evita di decidere per evitare le responsabilità conseguenti alla decisione; o perché magari la decisione è stata già interamente consumata al livello legislativo.
In questo scenario, il nostro Relatore osserva che il GA è costretto a reinventarsi e tende a sostituirsi all’Amministrazione, con il rischio di polverizzare il confine -che è invece necessario e ben tracciato dal cpa- tra giudizio di legittimità (che è la regola generale) e giudizio di merito (che è l’eccezione e che delimita il potere di sostituzione del Giudice all’A).
Il tema è estremamente delicato, perché, a fronte di questo rischio, c’è la tendenza, non meno criticabile, a un “arretramento” del sindacato, non soltanto a fronte della discrezionalità pura (che non può comunque sfuggire al controllo di legittimità), ma anche a fronte della cd discrezionalità tecnica: la distinzione è importante, e persiste, come hanno ben rimarcato quasi tutti i relatori, e lo riconosce, in linea teorica, anche la giurisprudenza, che però, al momento di censurarne l’esercizio, richiede la stessa “evidente e macroscopica illogicità/irragionevolezza, contraddittorietà o abnormità del giudizio”, lo stesso “manifesto” errore nei presupposti, che si richiede per censurare le decisioni caratterizzate da “amplissima discrezionalità” (tanto da fare talvolta riferimento a una “amplissima discrezionalità tecnica”) e mostra una ingiusta ritrosia a disporre CTU o verificazioni nei giudizi sugli atti delle AAII. A tale ultimo proposito ho del resto più volte evidenziato e criticato l’arretramento della giurisprudenza nel negare la sindacabilità nel merito delle decisioni delle AAII sull’an delle sanzioni, quando invece l’art 134 cpa fa generico riferimento ai provvedimenti sanzionatori, senza quindi legittimare alcuna distinzione tra an e quantum.
Il tema della completezza dell’istruttoria, che il cpa ha vanamente cercato di anticipare alla fase cautelare (esigenza che abbiamo ribadito anche nel nuovissimo codice dei contratti pubblici) avrebbe bisogno di un incontro a parte, come del resto ci segnalava prima della “bolla Covid” Luigi Carbone, anche per affrontare e auspicabilmente aiutare a risolvere le numerose questioni create dall’assenza di un albo dei CTU e, soprattutto, di regole sulle verificazioni (profilo su cui credo si sarebbe concentrato l’intervento di Flavia Risso).
Anche Fabio Francario ha opportunamente sottolineato l’assoluta necessità che, nei casi -eccezionali- in cui il Giudice può sostituirsi all’Amministrazione, lo faccia attraverso una attenta istruttoria, non solo sugli atti di causa, ma anche, ovviamente, sui fatti che ne sono alla base. Non basta, invero, che il Giudice “possa” accedere al fatto, ma “deve” in concreto accedervi e svolgere, in luogo dell’Amministrazione di cui ha censurato l’operato e che sta sostituendo, quella “adeguata istruttoria” che è necessaria per una “decisione giusta”.
Un concreto accesso al fatto e una reale cognizione dello stesso sono del resto, in termini generali, condizione fondamentale per un sindacato effettivo sull’eccesso di potere. Gli esempi delle pronunce cautelari sugli atti ablatori portati da Fabio sono emblematici: al di là dei casi in cui può parlarsi di formale sostituzione dell’Amministrazione, soprattutto quando ha a che fare con decisioni discrezionali che incidono su rilevanti interessi pubblici, prima di annullarle o di sospenderle il Giudice deve fare una istruttoria particolarmente attenta sui fatti.
3. Sui lavori della seconda sessione (Discrezionalità amministrativa e sindacato di legittimità).
Andreina Scognamiglio, nell’introdurre i relatori del pomeriggio, ha sottolineato l’importanza di capire esattamente cosa è fatto e cosa è valutazione. La questione è centrale in quanto la linea di confine è evidentemente sottilissima, dal momento che anche la qualificazione del fatto si risolve in un giudizio di diritto.
Paolo Carpentieri ci ha ancora una volta offerto una raffinata lezione storico-filosofico-giuridica sulla discrezionalità, anzi sulle discrezionalità, rimarcando la variabilità dei relativi confini, richiamando le origini della categoria e ricercandone la ratio nella scuola dei neo francofortesi e dei neo pragmatisti.
Sottolinea che la questione dell’ambito della discrezionalità sia annosa e irrisolta: la discrezionalità è l’essenza della funzione amministrativa e, di conseguenza, sconta le sue diverse epistemologie; inoltre si è forgiata nelle aule di giustizia e risente della “coperta troppo corta o troppo lunga” sul tipo di sindacato.
Osserva poi che ci sono comunque varie tipologie di discrezionalità in base ai vari tipi di funzione e che la distinzione non è solo tra discrezionalità pura, che si riscontra nel raffronto tra i diversi interessi (ravvisabile a suo avviso anche nei pareri espressi dalle Sovrintendenze in sede di conferenza di servizi) e di discrezionalità tecnica, in cui questo raffronto manca, ma anche tra i diversi tipi di discrezionalità tecnica, a seconda che investa le scienze tecniche e quelle sociali: e questo si riflette sul sindacato, inevitabilmente differenziato.
Sono considerazioni che trovano riscontro nell’indubbia incertezza giurisprudenziale sulla categoria, che porta in molti casi al già criticato arretramento e che conseguentemente non mancano di destare preoccupazione sul fronte dell’effettività della tutela.
Opportunamente Andreina Scognamiglio ha commentato la Relazione sottolineando l’importanza del controllo giurisdizionale e della partecipazione procedimentale.
Bruno Tonoletti ha sottolineato l’opportunità di un approccio descrittivo: la giurisprudenza deve essere prima conosciuta e compresa per poter effettuare considerazioni di ordine prescrittivo.
Ha peraltro preliminarmente rilevato che la problematicità risiede nella contiguità con l’applicazione delle norme che regolano queste ipotesi, ma non dettano un criterio esaustivo della valutazione dei fatti e sembrano quindi affidare la valutazione all’Amministrazione in sede di cura del pubblico interesse e questo determina la posizione del Giudice sull’insindacabilità, ma l’esigenza di conformità alla norma spinge in senso opposto verso la sindacabilità.
Per rispettare entrambe le specificità -valutazione del p.i. riservata all’Amministrazione- e controllo del rispetto della norma -riservato al Giudice- è quindi importante la considerazione dell’effettivo sindacato sul caso singolo, ponendo attenzione al rigore del controllo sulla adeguatezza o meno della motivazione del provvedimento impugnato, compiuto dal Giudice sulla base dei fatti di causa, all’esito di apposita istruttoria.
Il nostro Relatore rimarca quindi l’importanza delle cd “interpretazioni definenti”, che, specificando i concetti indeterminati utilizzati dalla legge per definire i presupposti del provvedimento, consentono al Giudice di effettuare un test di coerenza della decisione del caso concreto con la norma attributiva del potere. Per quanto riguarda l’autonomo accesso del Giudice al fatto di fronte a valutazioni amministrative opinabili, ferma poi l’accento sulla verificazione, sottolineando il ruolo fondamentale della dialettica tra le parti per fare emergere la verità processuale.
In conclusione, con riferimento al sindacato sull’attendibilità della valutazione tecnica, sottolinea che la nota sentenza 601/99 non ha affermato un sindacato forte, di carattere sostitutivo, ma solo un sindacato sulla resistenza della decisione al vaglio del criterio tecnico-scientifico pertienente, osservando come a volte, invece, il Giudice affermi che basta un “basso livello di plausibilità” della decisione (es. caso in tema di misure di emergenza ambientale), seguendo il criterio del “più probabile che non”, e libera così l’Amministrazione dall’onere probatorio, mentre altra giurisprudenza, a fronte della prova di inattendibilità data da una perizia di parte, afferma la necessità di disporre una verificazione (es. caso in materia di compatibilità paesaggistica).
Riprendendo lo spunto iniziale, chiude il ragionamento nel senso che i giudici devono conservare margini di manovra per adattare il sindacato alle particolarità dei singoli casi concreti, ma proprio per questo la dottrina deve esercitare un’attenta vigilanza sulla coerenza delle pronunce giurisdizionali su casi simili e sulla loro rispondenza ai requisiti costituzionali della tutela del cittadino nei confronti del potere amministrativo.
Antonio Barone ha inizialmente sottolineato l’importanza della pianificazione e la tradizionale posizione di self restraintdel GA sulle scelte di piano, modificata nel tempo.
Ha quindi rilevato come ormai, peraltro, ci sia un nuovo modello pianificatorio orientato al risultato (“ortodossia finanziaria”), di cui il PNRR è l’emblema, con i forti condizionamenti che ha posto, a causa del “cigno nero” costituito dalla pandemia. E la fortissima limitazione che ne è derivata: alla discrezionalità amministrativa, ma anche ai poteri del GA, fortemente erosi dal nuovo rito speciale per le controversie sugli atti attuativi del PNRR introdotto, in sede di conversione in legge, dall’art. 12-bis d.l. n. 68 del 2022.
In termini più generali, Barone ha nettamente criticato, come molti di noi, l’art 125 cpa -nato come norma eccezionale e divenuto la regola- e l’ingiusta trasformazione della tutela ripristinatoria in quella risarcitoria: e il suo contrasto con il diritto dell’Unione Europea. Suggestiva l’affermazione: “ecco il nuovo cigno nero: nel campo dei diritti presi sul serio, un ambito di ineffettività della tutela giurisdizionale”.
Tornando alla pianificazione, Barone conclude nel senso che il GA deve sindacare il rispetto del piano (anche per condotte omissive).
Sergio Perongini, nel ricordare in apertura due importanti elementi caratterizzanti della nostra tradizione accademica (la sottoposizione, attraverso i nostri lavori, al giudizio complessivo dell’Accademia, di cui siamo interpreti e il senso di umiltà nel dialogo con i ns maestri, anche scomparsi), ha affrontato, anche in forza della sua duplice esperienza di giudice e di avvocato, il delicatissimo tema delle interdittive antimafia e dei limiti del sistema di tutela, soprattutto per la mancanza di adeguate garanzie procedimentali e di adeguata istruttoria da parte del Prefetto, rimarcando che essa dovrebbe essere profonda, concreta e specifica, mentre manca un vero confronto con la realtà.
Riprendendo il tema affrontato da Tonoletti, Perongini osserva che la valutazione è una attività di sussunzione e trattandosi di attività di interpretazione delle norme, il sindacato deve essere pieno, ma rileva, con apprezzamento, che il GA ha recuperato nel corso del tempo e sta svolgendo un sindacato vero, chiede contezza all’Amministrazione della sussistenza del fatto e della sua rilevanza probatoria.
Il sindacato sulle misure amministrative di prevenzione antimafia è un tema di massima importanza, sul quale con Sergio, Marco Lipari e altri colleghi e magistrati abbiamo aperto un osservatorio di giurisprudenza sul Portale di Diritto amministrativo della Giuffrè: un sindacato che potrebbe e dovrebbe essere vieppiù incisivo in ragione dell’introduzione, con la riforma del 2021, del nuovo modello di controllo alternativo all’interdittiva, che però crea indubbi problemi di rapporto con il controllo giudiziario, di cui condivide i presupposti.
Claudio Contessa ha affrontato il tema dei rapporti tra i due principi introduttivi del nuovo codice dei contratti pubblici (i noti e discussi principi del risultato e della fiducia) e la loro applicazione concreta, con specifico riferimento all’effettivo tasso di innovatività di questi principi sul piano della discrezionalità delle Amministrazioni pubbliche.
Contessa osserva preliminarmente che i suddetti principi (strettamente legati dall’art 1, co 4, sembrano andare nettamente nel senso di una maggiore discrezionalità, allontanandosi dalla tendenza ad amministrare con legge; il che inciderà evidentemente sul sindacato.
Osserva peraltro che il ccp utilizza solo due volte il riferimento alla discrezionalità: quindi è importante il fatto che la colleghi al risultato.
Richiama in particolare la discrezionalità negli affidamenti semplificati e diretti nel sottosoglia (a tale proposito l’Allegato 1 fa per la seconda e ultima volta riferimento alla discrezionalità e non indica i criteri), e quella sui gravi illeciti professionali: nell’individuazione del grave illecito, nella valutazione della sua idoneità a compromettere definitivamente l’affidabilità e l’integrità dell’operatore, e nell’individuazione e ammissione delle prove. Mi preme sottolineare che il sindacato in questo settore è particolarmente importante, per gli effetti devastanti che a volte possono conseguire dall’esclusione, anche per gli effetti che possono derivarne sulle altre gare (soprattutto se disposta da una grande SA per operatori specializzati in determinati settori).
Contessa rimarca poi un aumento della discrezionalità sulla valutazione delle anomalie e si chiede se il principio del risultato possa valere anche come criterio per il GA nella decisione sulla sorte del contratto.
Guido Greco, nell’ultima relazione della sessione pomeridiana, ha affrontato la vexata quaestio dell’eccesso di potere giurisdizionale sindacabile dalla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 111, co. 8, Cost.
Dopo aver premesso che non bisogna essere vittima degli schieramenti tra accezione dualistica e monistica della giustizia amministrativa, dichiara di essere dualista, ma contesta il fatto che l’istituto si ritiene esistente, ma non applicabile
Ricorda, in particolare, i paletti posti dalla sentenza n. 6 del 2018 della Corte costituzionale, preoccupata da alcune tendenze delle SSUU ad allargare l’ambito del co 8 alle interpretazioni contra legem, che però testualmente riconosce che vi sarebbe eccesso di potere giurisdizionale “quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore”.
Ricorda poi la vicenda Randstad e la prevedibilità della sentenza resa dalla CGUE per il tipo di quesiti posti dall’ordinanza di rimessione (la specialità della violazione del diritto UE rispetto al regime della violazione delle norme nazionali: tesi che la CGUE decisamente esclude).
Si chiede, allora, quando c’ è l’invasione della sfera riservata al legislatore? La Cassazione la rinviene, in astratto, quando il Giudice “crea” una nuova norma, ma poi dice che tale situazione non ricorre quando il Giudice, nonostante il tenore letterale, l’ha desunta dalla ratio. Ma allora, quando si versa nell’ipotesi astrattamente configurata?
Sta di fatto che la Cassazione non ha mai riconosciuto un caso concreto di “creazione di una norma nuova”.
Greco si sforza allora, da par suo, di chiarire quando tale ipotesi ricorra, e osserva che il Giudice invade la sfera del legislatore nei casi in cui dà conto della norma che intende applicare (enunciandola), ma questa non è rinvenibile nel dir positivo.
Aggiunge, quindi, come -evidente- “secondo limite” dell’inquadrabilità nella fattispecie dell’art. 111, co. 8, che la costruzione giurisprudenziale non deve essere frutto dell’iter interpretativo che istituzionalmente compete al Giudice; e che, per comprendere se lo sia o meno, occorre guardare alla motivazione, che, per giustificare la portata interpretativa, deve effettivamente dimostrarla e non può essere apparente o contraddittoria, né tanto meno assente.
Passando all’eccesso di potere giurisdizionale nei confronti dell’Amministrazione, Greco cita la sentenza delle Sezioni Unite n. 12339/2023, che cassa la pronuncia con cui la Corte dei conti aveva rinvenuto un’ipotesi di danno erariale nei confronti di un magistrato in ritardo con i depositi.
A mio parere, il caso è però piuttosto riconducibile all’eccesso di potere nei confronti del legislatore, come lo è la sentenza 1321 del Consiglio di Stato sulla nota vicenda La Macchia di cui aveva parlato Fabio Francario in apertura: in entrambi i casi, la sentenza aveva costruito una regola giuridica non rinvenibile nell’ordinamento positivo. E, dunque, nel primo, potremmo riconoscere la prima sentenza delle SSUU che riconosce un’ipotesi di “creazione” normativa.
Tra le ipotesi di eccesso di potere nei confronti del legislatore -in termini di diniego di giustizia- possono peraltro, a mio avviso, farsi rientrare anche l’arretramento del sindacato sulla discrezionalità tecnica e il rifiuto di sindacare nel merito l’an delle sanzioni pecuniarie.
Sono seguiti gli interventi di Paola Chirulli, che, prendendo le mosse dalla posizione di Eugenio Cannada Bartoli -che negava una separazione netta tra vizi di legittimità e vizi di merito, perché chi agisce deduce la violazione dei principi di buon andamento e di imparzialità di cui all’art 97 Cost.- ha poi osservato che ci sono varie discrezionalità, perché la discrezionalità è dinamica, è “il farsi della scelta” e questo incide sul sindacato, ma questo non significa che non ci siano questioni non decidibili: in sintesi, il Giudice non deve fare una scelta tra più soluzioni attendibili; non deve scegliere l’opinabile, ma (richiamando ancora una volta il Maestro) non perché è merito, ma perché è potere amministrativo; di Paolo Gentili, che ha messo in guardia contro i rischi di un’Amministrazione co-gestita dai Giudici con riferimento agli atti di attuazione del PNRR: se si dà troppa tutela, si ricade nell’ambito del controllo dell’Unione europea, dove la Commissione europea gode di ampia discrezionalità sul rispetto del Piano ed è sufficiente che porti argomenti plausibili per dire che l’attuazione datane sia negativamente incidente sul bilancio UE, senza possibilità di sindacato da parte della Corte di Giustizia; e di Marco Lipari, che ha, dapprima, rappresentato che, con riferimento alla discrezionalità, si possono individuare due tesi estreme e una di mezzo e il magistrato si muove nell’area intermedia, rimarcando poi che nelle decisioni cautelari, il Giudice fa normalmente il bilanciamento tra i diversi interessi e usa spesso l’espressione “è opportuno”, e, poi, sollevato la questione se sia giusto che, in caso di annullamento dell’atto per difetto di motivazione, il procedimento torni al medesimo funzionario (problema che a mio avviso ricorre altresì con riferimento alle valutazioni discrezionali sul possesso dei requisiti del concorrente a seguito dell’apertura delle offerte (anche economiche) e, in termini più generali, sulla possibilità di una motivazione della sentenza più mirata sull’esito della rivalutazione.
4. Sui lavori della terza sessione (Giudizio di cognizione e giudizio di ottemperanza).
Pino Caia, in apertura della presidenza dell’ultima sessione, ha sottolineato che il fattore orientante del momento odierno è la coesione, anche istituzionale e che occorre guardare non solo alle norme, ma anche all’organizzazione, in funzione della società civile.
Piera Vipiana, chiamata ad affrontare il tema della portata dell’art. 34, c. 1 lett. e, cpa, ha sottolineato che la novella costituisce un’importante risorsa contro il malcostume della p.a. di disattendere le pronunce dei giudici amministrativi, rimarcando peraltro l’importanza della precisazione “nei limiti della domanda”, sicché, quando la giurisprudenza va oltre tali limiti, opera contra legem e incorre in un vizio di ultrapetizione. Ha osservato peraltro che la disposizione non ha conseguenze sulla natura giuridica del giudizio di cognizione, perché non implica una giurisdizione estesa al merito, ma aggiunge solo un potere accessivo e dipendente rispetto ai poteri cognitori del caso concreto.
Marco Magri ha chiuso il nutrito gruppo delle relazioni, occupandosi del divieto di pronunciarsi con riferimento a poteri «non ancora esercitati», quale espressione del divieto di sostituzione generalizzata del giudice all’amministrazione e del principio di separazione dei poteri.
Magri muove dal rilievo che, a differenza del giudizio su poteri mai esercitati, quello su poteri già esercitati attraverso l’atto illegittimo, ma non ancora ri-esercitati, non solo non è precluso dall’art. 34, co. 3 (né dal principio di separazione dei poteri), ma è consentito in forma sostitutiva dall’art. 34, co. 1 lett. e c.p.a.; norma che andrebbe collocata entro una più ampia tendenza giurisprudenziale a valorizzare gli effetti costitutivi “puri” della sentenza di annullamento, riconoscendone l’operatività anche sul terreno propriamente conformativo (si citano ad esempio gli orientamenti sostanzialistici in tema di individuazione della domanda in caso di ricorso con pluralità di censure; di applicazione del principio iura novit curia; di rilevanza delle sopravvenienze fattuali in corso di giudizio, di modificazione della domanda, di conversione delle azioni).
Conclude poi osservando che la Costituzione, nel demandare alla legge la disciplina dei «casi» e degli «effetti» della sentenza di annullamento (art. 113, co. 3), tollera diversi sviluppi e non sarebbe impensabile configurare la sentenza di annullamento come pronuncia costitutiva che “esaurisce” il potere, quanto meno nel senso di attribuire immediatamente al potere giudiziario, per effetto della sentenza di annullamento, la responsabilità della sua cd. riedizione, purché sia garantita la legalità, l’imparzialità e la completezza decisionale dell’organo attuatore.
La scelta, secondo Magri, non arrecherebbe alcun vulnus alla separazione dei poteri, ben potendo il canone di effettività della tutela superare le vecchie teorie formalistiche della assoluta e categorica incapacità della funzione giurisdizionale di svolgersi nelle forme del procedimento.
5. Sui lavori della sessione finale (gli interventi).
Sono seguiti gli interventi di Chiara Cacciavillani (che, con voce in controcanto, ha ampiamente apprezzato la sentenza sul caso La Macchia, osservando che giustamente il Consiglio di Stato aveva “sanzionato” l’Amministrazione (nella specie le commissioni ASN) perché, esprimendo tre giudizi illegittimi, aveva rotto il rapporto di fiducia (e meritava quindi una sanzione esemplare, ancorché non prevista dall’ordinamento), di Vincenzo Caputi Iambrenghi, che ha rimarcato che il GA deve assicurare la giustizia nell’Amministrazione (tema, come noto, a me particolarmente caro), di Francesco Cardarelli, che ha ripreso il tema dei principi introdotti nei primi due articoli del nuovo ccp, sollevando il problema dei rapporti con la legge delega (che non parla di risultato e di fiducia, ma solo dell’accesso al mercato, che è l’obiettivo per il diritto dell’Unione europea, cui gli Stati membri si devono conformare) e osservando che, quanto al riflesso sul sindacato giurisdizionale, i margini di discrezionalità sulla sorte del contratto sono già nell’art 122 cpa: è una valutazione di complessiva efficienza economica nella proposta di transazione; di Michele Comporti, che, esprimendosi in termini critici sulle tecniche di tutela come il one shot temperato o l’estensione del giudicato al dedotto e al deducibile, aporia del riconoscimento di un bene della vita di cui non sia stato accertata l’effettiva spettanza nel procedimento o nel processo, a danno dell’interesse pubblico e della collettività, ha affermato che nel giudizio amministrativo dovrebbero meglio emergere anche gli elementi di fatto, valorizzando l’azione di accertamento della spettanza, per dare direttive più nette al prosieguo dell’azione amministrativo, perché si può esercitare un sindacato forte sulla discrezionalità con maggiore contenuto conformativo senza invadere il campo dell’amministrativo effettuando un’istruttoria più completa, con difese più complete e verificazioni, ma il problema sono i tempi, che costringono a una tutela formale e non effettiva; di Anna Corrado, che ha richiamato la nostra attenzione sulla posizione del GA di fronte alle procedure automatizzate e sull’ambito della cd “riserva di umanità”, ponendoci domande come “Quanto serve davvero accedere al cd codice sorgente? Cosa deve garantire il GA quando gli viene chiesto l’accesso ai dati e alle procedure digitali? Si può fare un’istruttoria riservata?” e sottolineando che il Giudice deve essere pronto a fare un sindacato diverso, che tenga conto di questa nuova realtà (temi su cui Pino Caia ha opportunamente richiamato la Berlin Declaration sulla società digitale, ma fondata sui valori); di Paola Di Cesare, che, con riferimento al sindacato sugli atti del GSE, ha, per un verso, confermato come il GA eserciti un sindacato a diversa intensità a seconda della funzione espletata dall’Amministrazione e, per l’altro, ripreso il tema primario del vuoto legislativo, che, lasciando ampi margini di amplissima discrezionalità amministrativa, lascia interamente al Giudice la funzione di delimitarla; di Vittorio Domenichelli, che ha sottolinea l’importanza della fiducia e ha affrontato il problema della discrezionalità della macchina e, correlatamente, dell’attribuzione della responsabilità per i suoi errori; di Giancarlo Montedoro, che ha posto l’accento sull’atto politico e sul conseguente confine del sindacato giurisdizionale, perché “un buon mondo è un mondo dove non tutto è giustiziabile” e “La politica è ciò che ci fa soggetti”; di Aristide Police, che ha ripreso il tema dei principi del ccp, a difesa della legalità di risultato, sostenendo la discrezionalità del Giudice nelle modalità di tutela, che può non essere di annullamento, a vantaggio dell’Amministrazione, che potrà comunque eseguire i servizi messi a gara (si tratta di un posizione che ho già più vote criticato e che mi sembra oltremodo pericolosa, come dimostrano tragici esempi di cattiva manutenzione di opere o di inadeguato espletamento di servizi di trasporto, per non parlare dei rischi derivanti, anche in campo medico, dall’inadeguatezza delle forniture); di Giuseppe Severini, che ha invece rilevato che il principio del risultato è un principio non totalizzante e ha richiamato l’attenzione sul principio di ripristino dell’equilibrio contrattuale sancito dagli artt 9 e 120 del nuovo ccp; di Raffaele Sestini, che ha osservato che il GA può estendere il proprio giudizio al sindacato estrinseco sul rapporto tra interesse pubblico e interesse privato nel rispetto della legge (interna e UE) alla stregua dei principi costituzionali ed eurounitari e, se resta in questi parametri, non entra nella sfera della pA, dal momento che il potere del Giudice che attiva una valutazione di ragionevolezza estrinseca del provvedimento si giustifica in base agli artt 1, 2 e 3 Cost e al principio di effettività della tutela: entra nel merito della decisione, ma non la sostituisce; di Dario Simeoli, il quale, con riferimento ai diversi livelli di intensità del sindacato, ha affermato che tutte le valutazioni complesse che riguardano le sanzioni amministrative non rientrano nella discrezionalità, mentre nelle valutazioni complesse sulla regolazione si configura una situazione di immunità che il Giudice non può superare, incontrando il limite dell’attendibilità, che la parte può tuttavia contestare, offrendo così al Giudice elementi per negarla, e, con riferimento ai poteri esercitabili in forza dell’art. 34, lett. e, cpa, ha osservato che il GA può proseguire il giudizio fino al raggiungimento del risultato pratico, senza che occorra un’azione specifica (fermi comunque i limiti della domanda) e che, diversamente dal Giudice civile, può accertare anche il diritto all’ottenimento di beni strumentali, non solo finali; e, infine, di Francesco Volpe, che si è espresso in termini nettamente critici sul cpa, ritenendo che esso abbia alterato gli equilibri della giurisdizione senza averne la delega, trasformando il GA in una super amministrazione e cambiando il fondamento dello Stato di diritto.
6. Breve notazione conclusiva (con rinvio al saggio Brevi considerazioni sulla discrezionalità amministrativa, nell’ultima edizione di Principi e regole dell’azione amministrativa)
Aggiungo solo poche brevissime parole di conclusione personale, rinviando per alcune ulteriori riflessioni al capitolo Brevi considerazioni sulla discrezionalità amministrativa (che aggiorna e sviluppa il testo di una lezione distribuito ai presenti alle Giornate) aggiunto nella IV edizione del volume “Principi e regole dell’azione amministrativa”, in corso di stampa per i tipi della GiuffrèFL.
Ancora una volta, mi sembra che il confronto sia stato estremamente utile: in termini di estrema sintesi, possiamo dire che il legislatore sta forse riallargando l’ambito della discrezionalità amministrativa e che l’effettività del suo sindacato è essenziale alla tenuta dello Stato di diritto e alla tutela dei nostri diritti e interessi civili, sociali ed economici.
I problemi principali emersi dal dibattito possono così riassumersi:
-esigenza di rispettare i confini della giurisdizione, nei confronti dell’Amministrazione, ma anche -e, direi, soprattutto, nei confronti del Legislatore: il GA, pur bravissimo nel redigere norme, non è costituzionalmente e democraticamente legittimato a farlo;
-si riscontra invece un eccessivo arretramento nel sindacato sulla discrezionalità, soprattitto tecnica, per la quale la giurisprudenza utilizza sintomaticamente le stesse formule riduttive “macroscopica irragionevolezza, manifesto travisamento dei fatti, macroscopico errore nei presupposti” coiate per limitare il sindacato sulla discrezionalità pura e troppe volte nelle sentenze si rinviene l’espressione “amplissima discrezionalità tecnica”, che è chiaramente un ossimoro;
-si rileva la necessità di un’istruttoria più attenta sui fatti e fare un maggiore -e migliore- utilizzo delle verificazioni e delle CTU;
-occorre, comunque, una istruttoria particolarmente attenta e profonda sui fatti, quando il Giudice si sostituisce alla pA o, sospendendo o annullando i provvedimenti che intervengono su situazioni di pericolo, le lascia “senza rete” (come negli esempi fatti nella relazione introduttiva di Fabio Francario);
-esigenza di rispettare il principio (e i limiti) della domanda.
Chiudo, ricordando le importanti -e, mi sia consentito dire, coraggiose- considerazioni espresse dalla III Sezione del Consiglio di Stato sotto la Presidenza dell’illustre e compianto Franco Frattini -che fu poi insigne Presidente del Consiglio di Stato e alla cui memoria mi permetto di dedicare queste Conclusioni- nell’ampia e argomentata ordinanza n. 7097/20 (su cui si v. il commento di G. Strazza, in Giustiziainsieme, 13 gennaio 2021) di sospensione del provvedimento con il quale l’AIFA aveva limitato la prescrittibilità dell’idrossiclorochina.
In particolare, invocando un potere di sindacato “intrinseco” sulla discrezionalità tecnica, anche nei confronti delle Autorità indipendenti, il Collegio (pres. Frattini est Noccelli) ha espressamente osservato che “la c.d. riserva di scienza che compete ad AIFA non si sottrae al sindacato del giudice amministrativo, nemmeno in sede cautelare e meno che mai nell’attuale fase di emergenza epidemiologica, per l’indefettibile esigenza, connaturata all’esistenza stessa della giurisdizione amministrativa e consacrata dalla Costituzione, di tutelare le situazioni giuridiche soggettive, a cominciare da quelle che hanno un radicamento costituzionale come il fondamentale diritto alla salute, a fronte dell’esercizio del potere pubblico e, dunque, anche della discrezionalità c.d. tecnica da parte dell’autorità competente in materia sanitaria”. E, in termini più generali, ha sottolineato che “Il controllo giurisdizionale, teso a garantire una tutela delle situazioni giuridiche effettiva, anche quando si verta in tema di esercizio della discrezionalità tecnica di una autorità indipendente, non può essere perciò limitato ad un sindacato meramente estrinseco, estendendosi al controllo intrinseco, anche mediante il ricorso a conoscenze tecniche appartenenti alla medesima scienza specialistica applicata dall’amministrazione indipendente, sulla attendibilità, coerenza e correttezza degli esiti, in specie rispetto ai fatti accertati ed alle norme di riferimento attributive del potere. 9.3. In tale contesto, per quanto attiene all’esercizio della discrezionalità tecnica dell’autorità indipendente, il giudice amministrativo non può sostituirsi ad un potere già esercitato, ma deve solo stabilire se la valutazione complessa operata nell’esercizio del potere debba essere ritenuta corretta, sia sotto il profilo delle regole tecniche applicate, sia nella fase di contestualizzazione della norma posta a tutela della salute che nella fase di raffronto tra i fatti accertati ed il parametro contestualizzato. 9.4. Sul versante tecnico, in relazione alle modalità del sindacato giurisdizionale, quest’ultimo è volto a verificare se l’autorità abbia violato il principio di ragionevolezza tecnica, senza che sia consentito al giudice amministrativo, in coerenza con il principio costituzionale di separazione dei poteri, sostituire le valutazioni, anche opinabili, dell’amministrazione con quelle giudiziali.
9.5. In particolare, è ammessa una piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’amministrazione nelle sue determinazioni (cfr. ad es. Cons. St., sez. VI, 5 agosto 2019, n. 5559).
029.6. Per usare altri termini il giudice amministrativo deve poter verificare che l’amministrazione abbia applicato in modo corretto alla vicenda concreta, in conformità ai principî proprî del metodo scientifico prescelto (iuxta propria principia), le regole del sapere specialistico applicabili al settore dell’attività amministrativa sottoposta all’esercizio del potere regolatorio, ad evitare che la discrezionalità tecnica del decisore pubblico trasmodi in un incontrollabile, e dunque insindacabile, arbitrio (v. Cons. St., sez. III, 17 dicembre 2015, n. 5707 e Cons. St., sez. III, 2 aprile 2013, n. 1856)”.
Si tratta, come è agevole rilevare, di affermazioni estremamente importanti, che possono e devono costituire una guida per affrontare al meglio le questioni emerse in questo incontro.
Sommario: 1. Introduzione: la ratio della L. 533/1973. - 2. Gli attuali costi della giustizia del lavoro. - 2.1. Art. 92 c.p.c. Regolazione delle spese processuali. - 2.2.1. La sentenza della C. Cost. n. 77/2018. – 2.2.2. La questione fiscale. – 3. Il contributo unificato – 4. Costi del processo esecutivo ed effetto moltiplicatore. – 4.2. Le recenti riforme in materia di procedura esecutiva. - 5. Art. 614bis c.p.c. – Una tutela negata. - 6. Patrocinio a spese dello Stato.
1. Introduzione: la ratio della L. 533/1973.
Il tema dei costi dell’accesso alla giustizia è divenuto di preminente e crescente interesse per avvocati ed avvocate del lavoro e, in particolare, per le difese pro labour. Non possiamo nasconderci, infatti, che esso impatta in modo più significativo sul lavoratore, rispetto al datore di lavoro. E ciò per diverse ragioni su qui si cercherà di scrutinare.
Nel 50° anniversario del processo del lavoro, parlare di costi della giustizia giuslavoristica significa domandarsi cosa è rimasto dell’impianto voluto dal Legislatore del 1973.
Questa relazione ha offerto la preziosa occasione di rileggere testi e commenti di quegli anni e ricordare le istanze e i valori che avevano portato a concepire – solo per il diritto del lavoro - un processo ad hoc, speciale, caratterizzato da peculiari principi (concentrazione, oralità, identità del giudice, specializzazione del giudice, accertamento della verità fattuale, interesse pubblico all’applicazione del diritto del lavoro, gratuità) e quale era (ed è) la ratio della L. 533/1973. Richiamando questi principi, la migliore Dottrina ha parlato di “coraggiosa concezione chiovendiana del processo” (TARZIA).
Un processo, sia detto sin da subito, oggi se non radicalmente snaturato, che di certo si è “inceppato”, per usare le efficaci parole di FONTANA.
Il processo del lavoro, infatti, era stato concepito come strumento “tutelare” in un rapporto giuridico davvero peculiare, qual è quello di lavoro (subordinato e parasubordinato), e come sede di accertamento e riconoscimento di diritti che non hanno una dimensione soltanto individuale (rigorosamente legata alle singole parti in causa), ma anche sociale. Le istanze portate all’attenzione del giudice del lavoro, in altre parole, erano (e sono) istanze di gruppi sociali o che, comunque, riverberano su gruppi e rapporti sociali.
Attribuire una funzione “tutelare” al processo vuol dire, inoltre, approntare strumenti in grado di consentire alla parte debole del rapporto processuale (la parte, appunto, bisognosa di tutela) di sentirsi garantita dall’ordinamento (ancora FONTANA) e di potersi muovere nel riconoscimento di tale inferiorità e debolezza, anche contrattuale, rispetto all’altra parte.
Nell’ambito del diritto antidiscriminatorio, con una felicissima espressione, si parla di “diritto diseguale” perché, come noto, l’art. 3 della Cost. disegna l’eguaglianza non soltanto come parità di trattamento di situazioni simili, ma anche e soprattutto come dovere di non trattare in modo analogo situazioni tra loro differenti: principio di eguaglianza sostanziale.
Il processo del lavoro del 1973, in quest’ottica, è stato concepito proprio come “tutela differenziata” in attuazione del principio di effettività della stessa. Il processo, infatti, è un mezzo e non un fine e un diritto non effettivo - perché non adeguatamente tutelato - è un non diritto.
I principi fondanti la riforma del 1973 e su richiamati, tuttavia, risultano frustrati dalle più recenti riforme, che rispondono ad esigenze di deflazione, efficienza e asettica celerità del processo, più che a quelle di effettività della tutela dei diritti; esigenze che, peraltro, da un lato, mal si conciliano con la ratio della norma degli anni Settanta del secolo scorso, e, dall’altro – ad eccezione della prima - non sono stati ad oggi neppure raggiunti.
Sta di fatto che l’attenzione del Legislatore si è spostata dalla funzione tutelare (e di eguaglianza sostanziale) al formalismo e all’imperio delle norme di rito, che spesso si risolvono in meri ostacoli all’esercizio del diritto apparendo, sovente, fini a sé stessi. Il processo da sede di mediazione di conflitti sociali, si è trasformato in arena per confronti sempre più tecnici e, appunto, formali, dove la verità sostanziale e la materia del contendere non sempre giunge ad esame e, quando vi giunge, sconta ulteriori formalismi tipici del processo civile ordinario. In altre parole, il processo del lavoro è sempre più concepito, alla prova dei fatti, come un processo civile tra parti assolutamente eguali, cieco rispetto a quella strutturale e ontologica disparità sociale, economica, giuridica e anche processuale che caratterizza, viceversa, le parti del rapporto di lavoro subordinato e che si cercherà di esaminare nei suoi diversi aspetti.
In questa scia si colloca uno degli effetti più dirompenti dello snaturamento del processo del lavoro: la sua onerosità, tutta nuova, con azzeramento e tradimento del carattere cardine della gratuità, che consentiva l’accesso alla giustizia a tutti, anche alle categorie di lavoratori più soli e poveri e, dunque, rispondeva appieno all’esigenza di effettività più volte richiamata.
L’onerosità del processo è stata variamente e pervicacemente perseguita con le riforme degli ultimi 12-15 anni, in materia di: i) contributo unificato (d.l. 98/2011 art. 37 c. 6 lett. b), che modifica l’art. 9 DPR 115/2002), ii) condanna al pagamento del doppio del C.U. in caso di soccombenza (L. 228/2012), iii) svariate e successive modifiche all’art. 92 cpc, in tema di regolamento delle spese processuali (da ultimo, D.L. 132/2014), iv) riforme del processo esecutivo del 2014 e del 2021 (nuovo art. 26bis cpc e nuovo n. V dell’art. 543 cpc), v) contributo unificato anche per procedure esecutive e concorsuali (Circ. Min. 9/1/2023).
Ma non solo. Prima di esaminare distintamente i costi sopra elencati, è utile ricordare che hanno – per quanto indirettamente – reso più oneroso il processo del lavoro, sempre con particolare riferimento alla parte debole del rapporto, anche:
- l’introduzione del c.d. rito Fornero (art. 1 c. 48 e ss. L. 92/2012), che ha di fatto introdotto un grado di giudizio in più, con evidenti maggiori oneri e rischi per la parte ricorrente. Oggi, con sollievo degli operatori, abrogato;
- le riforme del giudizio in Cassazione: dal 2006 ad oggi. Da ultimo il d.lgs. 149/2022, per quanto rileva ai nostri fini, ha introdotto il nuovo art. 380bis cpc, che disciplina l’istituto della ‘proposta di definizione del giudizio’ e prevede la condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 cc. 3 e 4 cpc a carico della parte che non aderisce alla proposta e (semplicemente) chiede la decisione della causa. Con evidente intento punitivo il Legislatore sembra aver voluto sanzionare il mero esercizio di un diritto. Di tale istituto si è già avuta una prima applicazione con la recentissima ordinanza Cass. n. 18351 del 27/6/2023.
2. Gli attuali costi della giustizia del lavoro.
Ma esaminiamo singolarmente le norme che hanno reso (particolarmente) oneroso il processo del lavoro e ne hanno sensibilmente compromesso l’effettività di tutela, sopra elencate.
2.1. Art. 92 c.p.c. Regolazione delle spese processuali.
Tradizionalmente la gratuità del processo del lavoro è stata intesa come applicazione ponderata del principio della soccombenza ed utilizzo dell’istituto della compensazione parziale o, più spesso, totale delle spese in favore del lavoratore-soccombente, mediante il richiamo ai “giusti motivi” di cui al comma 2 dell’art. 92 cpc.
Tale compensazione era intesa come espressione di quell’equità sostanziale e valorizzazione delle particolari condizioni personali delle parti.
Nel 2005, un primo intervento normativo ha imposto che i detti “giusti motivi” di compensazione fossero adeguatamente motivati del giudice. Mentre nel 2009 con la L. n. 69 la compensazione delle spese di lite è stata subordinata alla verifica (motivata) dell’esistenza di “gravi ed eccezionali ragioni”.
Di fatto, tuttavia, nelle prassi dei Tribunali non era cambiato molto si continuava a valorizzare la particolare condizione della parte più debole del processo e la sua posizione di inferiorità economica, sociale e processuale.
É con la riforma del 2014 (L. 162/2014) che, viceversa, si è avuto un netto cambio di passo, con l’azzeramento di ogni discrezionalità del giudice e la previsione della compensazione delle spese processuali in due soli tassativi casi: “assoluta novità della questione” e “mutamento giurisprudenziale rispetto ad una questione dirimente” (oltre all’ipotesi di soccombenza reciproca, passato indenne alle varie novelle).
La nuova disciplina è stata giustificata con la necessità di porre un freno alla sistematica compensazione delle spese di lite, diffusa nei Tribunali del lavoro. In verità, lo scopo ultimo era quello di deflazionare il contenzioso civile che aveva raggiunto, nel suo complesso, numeri francamente abnormi. Con la riforma indiscriminata e indifferenziata dell’art. 92 cpc, tuttavia, si sono equiparate le cause di lavoro a certo bagatellare contenzioso civile, ove la litigiosità non è di certo affermazione di conflitti sociali, né ha un rilievo pubblico equiparabile a quello proprio del diritto del lavoro.
L’effetto deflattivo si è senz’altro prodotto ed è stato anche importante: la Banca d’Italia stima nel 50% la riduzione del contenzioso tra il 2010 e il 2016 e il Ministero della Giustizia valuta come dimezzato anche il contenzioso del lavoro tra il 2012 e il 2021, con punte dell’80 - 90% in materie quali i contratti a termine e i licenziamenti. Nel nostro settore, però, ciò ha di fatto determinato un accesso differenziale alla giustizia: la deflazione, infatti, non ha avuto le stesse conseguenze su tutte le parti processuali, essendo - per svariate ragioni - significativamente più contenuto per la parte datoriale (che, peraltro, molto raramente avvia il giudizio e, dunque, trae ulteriore e indiretto vantaggio dall’inerzia del lavoratore).
L’intervento della C. Cost. del 2018 (con la nota sentenza n. 77/2018), oltre che tardivo, perché ormai nei Tribunali si erano instaurate prassi consolidate di automatica e, in alcuni casi, severa condanna al pagamento delle spese processuali, è stato solo parzialmente efficace, per quanto si dirà.
Ai sensi del nuovo art. 92 cpc, dunque, la regolazione delle spese, era svincolata da qualunque ponderazione discrezionale del magistrato, e legata esclusivamente al criterio fattuale della soccombenza. Mentre la compensazione era vincolata all’accertamento della sussistenza delle due tassative ipotesi sopra richiamate. Nessun rilievo veniva dato ad altre dirimenti circostanze di giustizia sostanziale quali, ad esempio:
- la diversa vicinanza alla prova e la indisponibilità della stessa in capo alla parte che spesso è gravata del maggior onere probatorio
- le diverse condizioni economiche delle parti
- il comportamento pre-processuale e processuale delle parti
- il differente regime fiscale dei contendenti.
All’indomani dell’entrata in vigore della riforma, alcuni Autori, confermando il carattere tassativo dell’elencazione di cui al comma 2 dell’art. 92, ne avevano evidenziato i profili di illegittimità costituzionale (tra i molti, SCARSELLI, SCARPELLI); per altri e per una parte della giurisprudenza, viceversa, la norma non escludeva il potere del giudice di compensare le spese in tutte le ipotesi di c.d. soccombenza “incolpevole”: mancando nella norma avverbi quali “solo”, “esclusivamente”, “soltanto” l’elencazione non poteva considerarsi tassativa ammettendo una interpretazione costituzionalmente orientata (così, Trib. Torino n. 2259 del 13/2/2017 – est. Mollo).
Altra parte della giurisprudenza, aderendo al primo indirizzo, aveva viceversa ritenuto la nuova disciplina costituzionalmente illegittima, sollevando pertanto le relative questioni anzi al giudice delle leggi: così il Tribunale di Torino, ord. 30/1/2016, est. Ciocchetti (secondo cui la norma che non lascia discrezionalità al giudice “scoraggia in modo indebito l’esercizio dei diritti in sede giudiziaria (…) divenendo così uno strumento deflattivo incongruo”) e il Tribunale di Reggio Emilia, ord. 28/2/2017, est. Vezzosi (secondo cui la decisione sulle spese è sì la parte finale della pronuncia, “ma non di minor giustizia” e, pertanto, al giudice deve essere lasciata “la possibilità di valutare discrezionalmente le vicende oggettive e soggettive portate alla sua attenzione nel corso della causa ed a causa del processo”. Il Tribunale emiliano ha altresì lamentato la violazione dell’art. 3 c. 2 Cost. e delle norme sovranazionali in materia di parità di trattamento, sottolineando la disuguaglianza determinata dal mancato rilievo dato alle condizioni personali delle parti processuali nel processo del lavoro (e, in specie, del lavoratore).
Se, infatti, in genere il processo è strumento di esercizio e affermazione del diritto, il processo del lavoro è ‘più strumentale’ degli altri, proprio nell’ottica dell’affermazione di quella giustizia sostanziale, ampiamente sopra richiamata. Ne consegue che anche la pronuncia in materia di spese processuali risponde all’esigenza di effettività della tutela; esigenza particolarmente avvertita nel processo del lavoro, in cui l’attore è (quasi) sempre il lavoratore, cioè la parte che ha già subito gli effetti del provvedimento e/o comportamento datoriale oggetto di giudizio.
2.2.1. La sentenza della C. Cost. n. 77/2018.
La C. Cost. con la sentenza n. 77/2018 ha ribadito l’ampio potere discrezionale del Legislatore in materia di norme processuali e, dunque, anche in tema di regolazione delle spese di lite, ma ha ritenuto che la – evidente – tassatività delle ipotesi di compensazione (totale o parziale) delle stesse sia irragionevole nella misura in cui lascia fuori altre analoghe fattispecie di incertezza processuale. Fattispecie che, dunque - a parere della Corte - potranno essere valorizzate dal giudice benché soltanto con un procedimento di raffronto con quelle tipizzate dal Legislatore, che fungono da paradigma normativo.
La tassatività e il rigore della formulazione originaria dell’art. 92 cpc, viceversa, traducendosi in un indebito strumento deflattivo, per la Corte “può costituire una remora ingiustificata a far valere i propri diritti”.
Con riferimento alla specifica condizione processuale della parte debole, pur rimarcata dal Tribunale di Reggio Emilia, la Corte è stata, viceversa, tranchant nell’escludere che possa di per sé rilevare e che non tenerne conto possa considerarsi una violazione dell’art. 3 Cost.
La sentenza 77/2018, infatti, richiama più volte il principio della par condicio processuale di cui all’art. 111 Cost., e l’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte interamente soccombente (secondo il principio del ‘chi perde paga’), seguendo una logica squisitamente formale; e nel rapporto tra l’art. 111 Cost. (eguaglianza formale) e l’art. 3 c.2 Cost. (eguaglianza sostanziale) sembra decisamente il primo a prevalere.
Tale pronuncia, dunque - che pur è stata accolta con favore per le aperture all’interpretazione analogica dei parametri di cui al comma 2 dell’art. 92 cit. - non dirime, tuttavia, la questione nevralgica della diseguaglianza sostanziale tra le parti nel processo del lavoro.
La Corte, infatti, sembra arrestarsi a valutazioni puramente astratte e del tutto disancorate dalla realtà socio-economica e giuridica in cui si muovono le parti del rapporto e del processo del lavoro e dalla disuguaglianza strutturale e normativa delle stesse.
Per convincersi di ciò, infatti, è sufficiente – ma necessario – ricordare che, nel rapporto di lavoro:
- una sola parte (il datore di lavoro) può unilateralmente modificare le condizioni esecutive del rapporto;
- i provvedimenti unilateralmente assunti dalla parte datoriale sono immediatamente efficaci ed immediatamente esecutivi ai danni dell’altra, senza necessità di ricorso al giudice, siano essi atti legittimi o illegittimi;
- le valutazioni delle esigenze aziendali, fatte - come ovvio - esclusivamente dal datore non devono essere comunicate o condivise con il lavoratore;
- la parte datoriale ha il potere di sanzionare l’altra e, financo, di soddisfare autonomamente le proprie pretese creditorie (ad esempio, trattenendo direttamente dalla retribuzione somme che assume dovutegli dal lavoratore);
- il lavoratore è costretto a munirsi di un titolo giudiziale per soddisfare qualsivoglia credito;
- il lavoratore non può sollevare l’eccezione di inadempimento, se non in casi ridottissimi (e a tutela di diritti fondamentali: v. art. 44 d.lgs. 81/2008);
- nel processo, il lavoratore è la parte onerata della prova nella maggior parte delle controversie e spesso non ha la disponibilità della stessa;
- già a monte, nell’attuale contesto economico, la sola parte datoriale ha la forza di decidere an, il quando e il quomodo nella stipula del contratto di lavoro e delle clausole più rilevanti.
Di tutto ciò la Corte non ha tenuto né dato conto, risolvendo la pur sollevata questione della debolezza economica del lavoratore con il richiamo agli strumenti di accesso alla giustizia per i non abbienti, approntati dall’ordinamento (gratuito patrocinio e – parziale - esenzione dal pagamento del contributo unificato per i percettori di redditi sotto una certa soglia).
La prova che tali strumenti non sono affatto idonei a calmierare l’effetto marcatamente deflattivo della condanna al pagamento delle spese processuali è dato dalla circostanza fattuale (dirompente) del crollo reale del contenzioso civile, e del contenzioso del lavoro in particolare, negli ultimi anni.
2.2.2. La questione fiscale.
Nella sentenza in commento, del tutto obliterata risulta, infine, la pur rilevante questione fiscale.
Il datore di lavoro–imprenditore, infatti, ha un regime fiscale significativamente diverso da quello del lavoratore-persona fisica, potendo dedurre dal reddito imponibile d’impresa il costo delle spese processuali (e addirittura detrarre per intero l’IVA così versata da quella dovuta al Fisco): si è valutato che, mentre l’importo delle spese grava sul lavoratore per il 100% (non essendo in alcuna misura deducibile dal reddito da lavoro dipendente o equiparato), per l’imprenditore la percentuale di costo effettivo si riduce sino ad arrivare anche al 50% di quanto effettivamente pagato, ed anche meno per le aziende medio-grandi, per effetto del sistema moltiplicatore del beneficio: più è alto il reddito e, quindi, l’aliquota fiscale, maggiore sarà il risparmio.
D’altra parte, anche in termini assoluti, il medesimo importo liquidato a titolo di spese processuali, incide in misura sensibilmente diversa, sulla capacità economica delle parti, essendo spesso per il lavoratore, e nella stragrande maggioranza dei casi, di molto superiore alla retribuzione mensile. L’incidenza effettiva sulla capacità economica della condanna al pagamento delle spese processuali, infatti, aumenta con il diminuire della retribuzione. Una rappresentazione grafica, può meglio chiarire il punto
REDDITO | INCIDENZA SULLA CAPACITA’ ECONOMICA |
€ 100.000,00 | 5,8% |
€ 10.000,00 | 58,36% |
€ 5.000,00 | 116,72% |
€ 1.000,00 | 583,64% |
3. Il contributo unificato
Ulteriore costo solo recentemente introdotto nel nostro ordinamento, con il D.L. 98/2011 (che ha modificato l’art. 9 del DPR 115/2002), è rappresentato dall’obbligo di pagamento del contributo unificato all’atto dell’iscrizione a ruolo della causa o di qualsiasi altro procedimento giudiziario. Tale contributo rappresenta un costo certo, immediato e, almeno in primo grado, quasi sempre ad esclusivo carico del lavoratore–ricorrente.
Essendo pagato con il meccanismo dell’anticipazione, esso prescinde dalla fondatezza o infondatezza della pretesa ed è l’esempio più diretto del superamento del principio di gratuità della tutela giuslavoristica. Prima ancora di ottenere il riconoscimento del proprio diritto, infatti, il ricorrente deve sostenere un costo.
É ben vero che il Legislatore del 2011 ha previsto la riduzione alla metà dei valori fissati per l’iscrizione a ruolo del processo civile ordinario, nonché un’esenzione dal relativo pagamento per i percettori di redditi non superiori al triplo dell’importo previsto per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (attualmente € 12.838,01 x 3 = € 38.514,03). Tuttavia, occorre considerare che:
a) nel reddito complessivo di riferimento sono considerati non soltanto i redditi del ricorrente, ma anche quelli di tutti i componenti il nucleo familiare (art. 76 c. 2 D.P.R. 115/2002);
b) sino al 2019 non vi era alcuna esenzione per i giudizi innanzi alla Corte di Cassazione: solo la sentenza n. 3298 del 22.5.2019, il Cons. Stato, annullando in parte qua la Circolare Min. Giustizia n. 65934 dell’11/5/2012, ha reso applicabile l’esenzione legata al reddito anche per i giudizi di legittimità;
c) diversamente che per il primo e secondo grado, per i giudizi anzi alla Corte di Cassazione il contributo unificato è particolarmente gravoso, essendo dovuto in misura piena e non ridotta alla metà, (art. 9 c. 1bis ultima parte DPR 115/2002);
d) in caso di soccombenza, tanto in grado di appello quanto all’esito del giudizio di legittimità, è prevista la condanna accessoria fissa, al pagamento di un importo pari al doppio del contributo unificato versato.
Sempre in materia di contributo unificato occorre, poi, dare conto di una ulteriore distonia del sistema, scaturente da direttive ministeriali e relativa alle cause con pluralità di ricorrenti. Per tali ipotesi, infatti, con nota 27/3/2018, il Ministero della Giustizia ha ritenuto che “l’ammontare del contributo unificato si determina sulla base della dichiarazione di valore effettuata dalla parte (in senso processuale) in conformità alle disposizioni del codice di rito e, dunque, sommando tra di loro il valore di tutte le domande proposte, indipendentemente dall’esistenza o meno, in capo ad alcuni, di motivi di esenzione”. Ne consegue che l’unico co-ricorrente che vanti un credito (necessariamente) inferiore alla totalità della domanda, dovrà comunque versare un contributo unificato parametrato allo scaglione di riferimento dell’intero (nota Min. 27/3/2018, prot. DAG n.243209 del 29.12.2017).
3.2. Costi del processo esecutivo ed effetto moltiplicatore.
Ma non è ancora tutto.
Il sistema di anticipazione del costo qui in commento lo rende anche particolarmente iniquo, dal momento che potrebbe addirittura rimanere definitivamente a carico del lavoratore–ricorrente in tutti quei casi in cui, ottenuta una pronuncia favorevole, con condanna del datore di lavoro, egli si scontri con l’inadempimento o l’incapienza del debitore.
La tutela dei diritti, infatti, non finisce certo con la definizione del processo di cognizione, ma si estende alla fase successiva dell’esecuzione coattiva, che anzi è il momento di realizzazione concreta dell’utilità astrattamente riconosciuta dal giudice del merito.
In difetto di spontaneo adempimento alla pronuncia di condanna (o all’ingiunzione di pagamento), infatti, il lavoratore- creditore non ha altra strada che quella di avviare una procedura esecutiva, e ciò a) con lo scopo immediato di soddisfare il proprio diritto di credito, b) comunque, quale presupposto procedimentale necessario per accedere al Fondo di Garanzia presso l’INPS ed ottenere il pagamento di alcuni crediti (quali il TFR e, a determinate condizioni, i crediti c.d. diversi, cioè i riferiti alle ultime tre mensilità di retribuzione).
Ebbene, in tali casi, a quanto già anticipato a titolo di contributo unificato per il giudizio di merito (ordinario o monitorio) e magari a titolo di spese legali per la difesa tecnica, il lavoratore dovrà aggiungere ulteriori contributo unificato e spese per la procedura esecutive (IVG e ulteriori eventuali spese per custodia, se necessaria, trasporto del bene pignorato, rimozione, ecc.). Si tratta, in alcune ipotesi, di costi davvero ingenti, che – quando l’obiettivo è la procedura di accesso al Fondo di Garanzia presso l’INPS - rimarranno definitivamente a carico di chi le ha anticipate non rientrando nella garanzia, con evidente e definitiva erosione del credito azionato (credito, val la pena di ricordare, avente natura alimentare).
Mentre sino al 2022 si riteneva che con riferimento alle procedure esecutive (e concorsuali) il contributo unificato non fosse dovuto ed infatti no veniva richiesto dalle Cancellerie di tutti i Tribunali italiani, la prassi è radicalmente mutata dal gennaio 2023. Con Circolare del 9/1/2023, infatti, il Ministero della Giustizia, Direzione Generale per la Giustizia civile, ha superato il proprio precedente orientamento (espresso con la Circolare 11/5/2012), secondo il quale, i procedimenti esecutivi e concorsuali dovevano intendersi come esenti “da imposta di bollo, imposta di registro e da ogni spesa, tassa o diritto di qualsiasi specie e natura” ai sensi dell’articolo unico c. 2 della L. 319/1958. Oggi, viceversa, al dichiarato fine di “scongiurare un possibile danno erariale”, il secondo comma dell’art. unico citato, viene interpretato nel senso che - come per i procedimenti ordinari e monitori di cui al comma 1 – l’esenzione dalle spese fa salva l’applicazione dell’art. 9 c. 1bis del DPR 115/2002 che impone, appunto, il pagamento del contributo unificato.
Come per i giudizi di cognizione, dunque, anche per le procedure esecutive e concorsuali, l’esenzione dal pagamento del contributo unificato, rimane ancorata al mancato superamento della soglia di reddito del nucleo familiare del lavoratore più che al procedimento avviato.
4.2. Le recenti riforme in materia di procedure esecutive.
Nell’esame dell’onerosità delle procedure esecutive, non possono sottacersi, infine, le ricadute (non meno gravose) delle recenti riforme del 2014 e del 2021.
Con l’art. 19 della L. n. 162/2014, infatti, è stato introdotto nel nostro ordinamento l’art. 26bis cpc, che individua il giudice competente per l’esecuzione in quello del foro ove ha la sede il debitore. In tal modo, pur dopo aver ottenuto il riconoscimento giudiziale del proprio credito (spesso anzi al Tribunale nella cui circoscrizione si trovava la sede lavorativa, generalmente prossima alla residenza), il lavoratore-ricorrente sarà costretto a ‘rincorrere’ il debitore inadempiente magari in una città, provincia o addirittura regione diversa.
Con una norma, della cui logicità ed equità è lecito dubitare, infatti, il Legislatore ha di fatto premiato proprio la parte debitrice e addirittura inadempiente, rendendo, viceversa, ulteriormente oneroso per il creditore l’effettivo soddisfacimento del proprio credito.
Più di recente, poi, la L. 206/2021 ha stato modificato il numero V dell’art. 543 cpc, e sono stati introdotti nelle procedure di pignoramento presso terzi due nuovi adempimenti a carico del creditore: a) la notifica al debitore e al terzo pignorato dell’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento e b) il successivo deposito telematico dell’avviso.
Adempimenti che si sommano alla (ovvia) precedente notifica agli stessi soggetti dell’atto di pignoramento e alla regolare iscrizione a ruolo della procedura. La ratio di tali previsioni rimane ad oggi oscura, inserendosi in un procedimento di cui il debitore ha già avuto notizia, ma la rilevanza degli incombenti non può essere sottovalutata viste le serie conseguenze del mancato adempimento, che il Legislatore ha inteso punire con la sanzione massima dell’inefficacia del pignoramento.
Una vera corsa ad ostacoli, dunque, (particolarmente dispendiosa in termini di attività, tempi e costi) per il lavoratore-creditore.
Per tutto quanto sin qui esposto, c’è davvero da domandarsi cosa sia residuato del principio dell’effettività della tutela del processo del lavoro, se proprio le volte in cui – e nell’esperienza concreta sono tutt’altro che residuali – al riconoscimento giudiziale di un credito, non segua l’effettivo e pieno soddisfacimento dello stesso, per inadempimento, incapienza o addirittura decozione del debitore e il lavoratore-creditore sia costretto a tortuose e – come visto – quanto mai costose procedure coattive.
In questa riflessione, teniamo fuori l’analisi delle procedure esecutive immobiliari, nelle quali i costi sono spesso davvero proibitivi, essendo necessari in aggiunta a tutto quanto fin qui richiamato, anche accertamenti ed iscrizioni ipo-catastali a mezzo tecnici nominati dal creditore, spese di CTU, onorari per i professionisti delegati alla vendita.
5. Art. 614bis c.p.c. – Una tutela negata.
Infine, una breve riflessione merita anche la disciplina delle Astreintes.
Sull’effettività della tutela dei diritti dei lavoratori, incide, infatti, e sempre in senso negativo, anche l’incomprensibile e irragionevole esclusione delle controversie di lavoro dall’applicazione dell’art. 614bis c.p.c.
Come noto la norma, introdotta nel nostro ordinamento nel 2009, disciplina le misure coercitive indirette per i casi di inadempimento delle obbligazioni diverse da quelle pecuniarie, prevedendo la condanna del debitore inadempiente al pagamento di ulteriori somme di denaro per ogni violazione o inosservanza della pronuncia o per ogni ritardo nell’esecuzione.
Sull’incostituzionalità di tale esclusione si sono espressi in molti, evidenziando come essa appaia davvero priva di giustificazione e introduca una chiara disparità di trattamento tra creditori, basata esclusivamente sulla natura del credito (di lavoro o di altra natura). Addirittura, si può rilevare una disparità di trattamento anche tra gli stessi lavoratori e, in particolare, tra pubblici impiegati e lavoratori del settore privato, dal momento che l’art. 112 c. 3 del cod. proc. amm., prevede il potere del giudice dell’ottemperanza di riconoscere un “risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione” e, dunque, in una certa misura lascia spazio per una coercizione indiretta.
Nel diritto del lavoro privato, in particolare, si è sottolineata la necessità di una misura coercitiva dell’adempimento degli obblighi di fare o subire, non solo nel caso di scuola della reintegra nel posto di lavoro in seguito a declaratoria di illegittimità/nullità del licenziamento (caso, nel quale comunque, la maturazione delle retribuzione può rappresentare un parziale ristoro per il creditore-lavoratore), ma soprattutto nelle ipotesi di demansionamento o trasferimento dichiarati illegittimi, rispetto ai quali la mancata esecuzione spontanea della condanna da parte del datore non trova ad oggi nessuna possibile misura di coercizione. In tali casi, la tutela (esecutiva) del diritto è non solo resa complicata, ma è addirittura impossibile senza la collaborazione del debitore.
In tale quadro, è molto apprezzabile il tentativo operato da una parte della giurisprudenza di recuperare uno strumento coercitivo nelle maglie dell’art. 669duodecies c.p.c. che, nei soli procedimenti cautelari, consente al giudice di adottare “provvedimenti opportuni” per determinare le modalità di attuazione degli ordini pronunciati con riferimento agli “obblighi di consegna, rilascio, fare o non fare”.
6. Patrocinio a spese dello Stato.
In chiusura, è opportuno spendere qualche parola sulla disciplina del patrocinio legale a spese dello Stato, contenuta negli artt. 74 e ss. DPR 115/2002, strumento richiamato dalla C. Cost. nel 2018 per respingere l’eccezione di illegittimità costituzione dell’art. 92 c.p.c. con riferimento alla diversa condizione personale delle parti nel processo del lavoro, come sopra riportato.
Il c.d. gratuito patrocinio è, di certo, espressione di quel valore sociale dell’accesso egualitario alla giustizia, di cui si è dato conto in apertura di questa relazione e risponde agli artt. 24 e 3 c. 2 Cost., benché forse sia un rimedio solo parzialmente efficace.
Affinché l’affermazione secondo cui tutti hanno diritto all’accesso alla giustizia e ad una difesa tecnica non si riduca ad una mera petizione di principio, è infatti necessario che lo Stato elimini gli ostacoli (in questo caso, economici) alla realizzazione di pari opportunità nella tutela giudiziaria dei diritti.
Tradizionalmente i sistemi di assistenza legale per i non abbienti sono stati concepiti secondo due distinti modelli: il primo, prevede la semplice erogazione da parte dello Stato del compenso al professionista incaricato; il secondo istituisce, viceversa, veri e propri uffici pubblici di assistenza legale, spesso dislocati sul territorio, e più vicini ai soggetti fruitori (si tratta, dunque, in quest’ultima ipotesi di una misura di “prossimità”, senz’altro più efficace per le categorie economicamente più deboli spesso – ma non sempre – residenti in centri periferici, ma di certo più oneroso per lo Stato).
L’ordinamento italiano si è ispirato al primo modello, mentre il secondo si è diffuso per lo più nei Paesi anglosassoni.
Non è questa la sede per addentrarsi nell’esame delle luci e delle ombre della disciplina, basti qui ricordare che si tratta ancora una volta di istituto di altissimo valore sociale ma non sempre idoneo a garantire effettiva tutela ai non abbienti. Oggi, infatti, il patrocinio a spese dello Stato è garantito a chi ha prodotto – nell’anno in cui ne fa domanda e in quello precedente – un reddito annuo non superiore ad € 12.838,01 lordi (importo così modificato con il DM 10/5/2023).
Nei redditi presi in considerazione vengono calcolate tutte le utilità percepite (anche “in nero”), ivi compresi gli assegni di mantenimento dagli ex coniugi, il reddito di cittadinanza (oggi sostituito dall’Assegno di Inclusione e dal Supporto Formazione e lavoro), e gli assegni di invalidità; viene esclusa, invece, l’indennità di accompagnamento.
Ciò determina che restano esclusi dalla misura tutti i c.d. nuovi poveri: lavoratori dipendenti con retribuzioni significativamente basse o autonomi con forte dipendenza economica.
Va detto, poi, che il patrocinio pubblico copre i costi relativi al procedimento per il quale è stato riconosciuto (onorari e spese per il professionista nominato, per il consulente tecnico di parte e per il consulente tecnico d’ufficio), ma non quelli per le procedure stragiudiziali, pur ampiamente incentivate con le recenti riforme.
Esso, infine, non copre le spese processuali da pagarsi alla controparte in caso di soccombenza, così chiudendo il cerchio di questa riflessione. Vi è, dunque, legittimamente da chiedersi se possa definirsi effettiva una tutela giurisdizionale non solo onerosa, ma addirittura assai costosa, financo e paradossalmente per i non abbienti.
[1] Il presente contributo è tratto dalla relazione tenuta al corso “Il processo del Lavoro: un rito che funziona” organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura in Milano il 3/7/2023.
Il contributo analizza i principali metodi per la pesatura dei procedimenti giudiziari finora sperimentati e passa in rassegna le principali esperienze in materia di pesatura italiane ed estere.
Dopo aver evidenziato, attraverso quest’analisi, l’utilità della pesatura per il conseguimento di una pluralità di fini, l’indagine si focalizza sull’importanza della pesatura dei fascicoli per conseguire una più efficiente organizzazione dei tribunali.
Sommario: 1. Introduzione. – 2. La pesatura dei fascicoli per la riduzione dei tempi dei procedimenti: finalità e obiettivi. – 3. Come si pesano i fascicoli: le principali tecniche di pesatura. – 3.1. Il metodo Delphi. – 3.2. Il metodo “Studio dei tempi di lavoro”. – 3.2.1. Il Multi Moment Analysis: la species più moderna di raccolta dei dati nello Studio dei tempi. – 4. Alcune esperienze concrete di pesatura nel sistema giuridico italiano. – 4.1. La classificazione dei fascicoli per elementi di complessità processuali. – 5. Conclusioni.
1. Introduzione.
La rilevanza della questione organizzativa per garantire l’efficiente funzionamento degli uffici giudiziari costituisce da diversi anni un punto fermo nei dibattiti giuridici e politici in materia[1].
Si tratta di un tema quanto mai attuale in quanto strettamente correlato al problema atavico dell’eccessiva lentezza dei processi, che arreca, inevitabilmente, un vulnus alla tutela dei diritti dei cittadini[2]. Per lungo tempo, si è ritenuto che le ragioni delle inefficienze del processo civile andassero rintracciate all’interno dello stesso sistema processuale, intervenendo con massicce riforme processuali riguardanti, in specie, il processo a cognizione piena. Per converso, negli ultimi anni, è maturato sempre più il convincimento che il malfunzionamento del sistema giudiziario dipenda, prima ancora che da inadeguati meccanismi processuali, da una non funzionale e farraginosa organizzazione della giustizia, oltre che da una carenza di risorse[3].
L’interesse per la dimensione organizzativa ha spinto il legislatore ad introdurre, di recente, strumenti e tecniche astrattamente in grado di stabilizzare il sistema in una prospettiva di lunga durata[4].
Una smania eccessiva verso i problemi di smaltimento dell’arretrato, di riduzione dei tempi dei processi rischia di generare un produttivismo fine a sé stesso, a discapito della qualità del servizio reso, qualora non sia accompagnato da mirati interventi organizzativi. Ecco perché, al fine di conciliare quantità e qualità della giurisdizione, consentendo ai magistrati di costruire decisioni in modo accurato e nel più breve tempo possibile, risulta di fondamentale rilevanza “misurare il lavoro giudiziario”, individuano i procedimenti incardinati e non ancora definiti, studiando sia i diversi tipi di procedimento sia la situazione complessiva dell’ufficio in un determinato momento.
In questa cornice, s’inseriscono una serie di criteri appositamente strutturati per valutare il livello di complessità dei fascicoli giudiziari. I sistemi di pesatura nascono, invero, negli Stati Uniti, ma ben presto iniziano a diffondersi anche in numerosi paesi europei. Oggi si stima che ben 23 paesi europei siano dotati di un proprio sistema di pesatura[5]. Di questi, la maggior parte se ne serve per quantificare il numero dei giudici necessari per rispondere in tempi ragionevoli alla domanda di giustizia e per un’assegnazione bilanciata dei procedimenti all’interno dell’ufficio. Non mancano, però, paesi, come la Finlandia, la Danimarca o la Romania, dove la pesatura viene impiegata anche per distribuire i giudici di nuova nomina nei vari uffici giudiziari, per valutare la produttività dell’ufficio o addirittura, come nel caso dell’Olanda, per determinare il costo per singolo procedimento e provvedere allo stanziamento del relativo budget ai singoli enti[6].
Le prerogative della pesatura si possono apprezzare su almeno due dimensioni: a livello macro, ovvero dell’ufficio giudiziario globalmente considerato, laddove la pesatura si pone come uno strumento preventivo di ausilio per le amministrazioni giudiziarie nella distribuzione efficace delle risorse sul territorio[7], evitando che si verifichino situazioni di saturazione e che il numero di giudici in servizio non sia adeguato a rispondere in tempi ragionevoli alla domanda di giustizia[8]. Allo stesso tempo, la pesatura pare rivelarsi funzionale anche, a livello micro, per consentire ai singoli magistrati di programmare in maniera razionale il proprio complessivo carico di lavoro, decidendo a quali casi dedicare maggior tempo ed energie (poiché magari vertenti su questioni controverse, dove non vige un orientamento consolidato) e a quali, invece, dedicare minor spazio, facendosi assistere, ad esempio, dalla collaborazione di un addetto all’ufficio per il processo.
Alla luce degli indubbi vantaggi per gli uffici giudiziari della possibilità di disporre di dati certi e comparabili sui reali carichi di lavoro, appare opportuno offrire una disamina dettagliata di tutti gli aspetti correlati a questa moderna tecnica di misurazione dei fascicoli, nell’auspicio di una sua più viva diffusione anche nei nostri tribunali. Nelle pagine che seguono, si provvederà, pertanto, a fornire una rassegna ordinata dei principali metodi finora sperimentati per la pesatura. Questo ci consentirà, nella parte finale dello scritto, di trarre alcuni spunti e fornire qualche indicazione pratica per la creazione di un sistema di pesatura dei fascicoli che sia, al contempo, oggettivo ed efficiente.
2. La pesatura dei fascicoli per la riduzione dei tempi dei procedimenti: finalità ed obiettivi.
Come si è avuto modo di anticipare nel paragrafo introduttivo, la pesatura dei fascicoli costituisce una tecnica di misurazione del grado di difficoltà di varie categorie di procedimenti, che consente di comparare tra loro i fascicoli pendenti sul ruolo di un magistrato e, sulla base dei dati raccolti, operare delle scelte mirate nell’allocazione delle risorse.
Si tratta, tuttavia, di una tecnica ancora oggi molto poco conosciuta. Di fatti, il primo lavoro compiuto sulla pesatura dei fascicoli (tecnica anche nota come “case weighting” o “weighted caseload”) risale al Luglio 2020 ed è stato elaborato dal gruppo Saturn della Commissione per l’Efficienza della Giustizia (CEPEJ) del Consiglio d’Europa[9].
I sistemi di pesatura nascono principalmente dallo sforzo, sicuramente crescente negli ultimi anni, degli Uffici giudiziari e della politica in generale, di rintracciare e sviluppare sempre nuovi e più accurati sistemi per determinare il numero di giudici, p.m., personale di cancelleria necessario per fronteggiare in tempi ragionevoli la domanda di giustizia e, conseguentemente, per allocare il personale giudiziario in maniera bilanciata. La ratio alla base di ogni sistema di pesatura risiede nella considerazione per cui le controversie giudiziarie non presentano tutte le stesse caratteristiche e non richiedono tutte lo stesso sforzo per essere trattate. Al contrario, è pacifico che vi siano procedimenti tendenzialmente più complessi ed altri più agevoli da definire o addirittura del tutto routinari.
Un termine di paragone chiaro e inconfutabile per mettere a confronto categorie di procedimenti anche molto distanti tra loro è sicuramente il tempo. Pesare i fascicoli vuol dire, pertanto, calcolare attraverso una procedura (più o meno strutturata, cfr. infra) il tempo medio che un giudice impiega per risolvere una determinata controversia. Tale valore medio viene utilizzato, in seconda battuta, per effettuare una serie di scelte di politica giudiziaria, anche dette di case management[10]. Tramite i dati raccolti è possibile stimare il numero di giudici necessari a definire i procedimenti in tempi tali da non compromettere il principio della ragionevole durata del processo e la qualità delle decisioni[11]. Analogamente, l’ufficio disporrà di un parametro chiaro, misurabile e affidabile per valutare se il numero di giudici in servizio è adeguato a rispondere in tempi ragionevoli al carico di lavoro. Se la disponibilità è inferiore, è evidente che si verificherà una dilatazione dei tempi di risoluzione delle controversie. Attraverso la pesatura è possibile, inoltre, accorpare procedimenti che in base alla materia trattata risultano completamente distanti, ma che si rivelano simili per quanto riguarda il “peso” loro attribuito. Ad esempio, procedimenti apparentemente molto distanti tra loro come quelli relativi alla “responsabilità contrattuale” e quelli relativi ai “diritti reali” potranno confluire in una medesima macrocategoria qualora a seguito della pesatura emerga che essi hanno tempi di trattazione simili e quindi uno stesso “peso”[12].
La pesatura dei procedimenti giudiziari costituisce, di conseguenza, un prezioso alleato per avere maggiore contezza dei reali carichi di lavoro degli uffici giudiziari, per valutare la loro capacità con le risorse disponibili di rispondere in tempi ragionevoli alla domanda di giustizia e per distribuire equamente ed efficacemente le risorse sul territorio.
3. Come si pesano i fascicoli: le principali tecniche di pesatura
Ad oggi sono conosciute prevalentemente due tecniche per effettuare un’operazione di pesatura dei fascicoli: il metodo Delphi (Delphi method) e il metodo cd. Studio dei tempi di lavoro (Time-study method)[13].
In questi sistemi, differenti sono le modalità per misurare il peso dei procedimenti; comuni sono, invece, le fasi in cui l’operazione di pesatura si snoda. In entrambi i metodi il primo step consiste nell’individuazione delle categorie di procedimenti la cui complessità si vuole misurare e comparare. Il livello di precisione e di accuratezza del risultato finale varia a seconda del numero di procedimenti considerati: quanti più procedimenti saranno coinvolti nello studio, tanto più lo studio risulterà preciso e dettagliato. Successivamente, vi è la fase centrale, vale a dire quella in cui si procede alla stima o misurazione dei tempi (che, come avremo modo di approfondire più avanti può avvenire con diverse modalità). In ultimo, si procede ad un nuovo raggruppamento “per peso”, ossia si formano classi di procedimenti omogenee sotto il profilo dei tempi di definizione[14].
Generalmente l’attività di pesatura viene effettuata prendendo come parametro di misurazione i procedimenti sopravvenuti. Tutti i sistemi finora sperimentati prendono come base di misurazione del tempo medio impiegato per ciascun procedimento i processi decisi ovvero quelli sopravvenuti, ma mai i pendenti.
Ma come si svolge in concreto un’operazione di pesatura? Ebbene, ciò che contraddistingue queste due principali metodologie sono proprio le modalità con cui si procede alla raccolta dei dati.
Come si avrà modo di osservare più nel dettaglio nei paragrafi che seguono, nel metodo Delphi il peso dei fascicoli viene determinato sulla base di autovalutazioni dei giudici fornite ex post, in risposta a questionari che vengono poi discussi in un ambiente di gruppo e si basano sulle nozioni soggettive e sulle percezioni degli intervistati. Viceversa, il metodo Studio dei tempi di lavoro si fonda su una documentazione fornita in tempo reale del flusso di lavoro dei partecipanti in un modo continuo, ininterrotto e meticoloso. Cambia, pertanto, il modo in cui vengono raccolte le informazioni. In alcuni casi viene effettuata una sorta di osservazione esterna sull’attività svolta dai magistrati nel corso della giornata lavorativa e le autovalutazioni dei giudici costituiscono la principale fonte di informazioni richiesta per determinare il peso dei processi; in altri, le autovalutazioni dei giudici sono utilizzate solo in un secondo momento, con il solo scopo di validare i pesi precedentemente determinati.
3.1. Il metodo Delphi.
Il primo dei due summenzionati metodi, il metodo Delphi (Delphi method), è un metodo di tipo euristico-induttivo che si avvale direttamente delle esperienze concrete dei giudici per stimare il tempo medio di trattazione di un fascicolo. Nasce come strumento per individuare i possibili obiettivi strategici di un eventuale attacco nucleare dell’Unione Sovietica, ma ben presto viene adattato per risolvere un problema tutte le volte in cui o non si hanno a disposizione dati, o quest’ultimi sono poco attendibili oppure quando essi siano particolarmente difficoltosi ed onerosi da reperire[15]. Nel metodo Delphi, l’attribuzione del “peso” a ciascun procedimento viene effettuata da un panel di esperti (quasi sempre giudici), i quali, attraverso una procedura più o meno strutturata, devono pervenire ad una stima condivisa del tempo necessario per l’esaurimento dei diversi procedimenti esaminati.
Esistono tre sottotipi del metodo Delphi (metodo Delphi con stima dei tempi e/o conversione dei tempi in punteggi; Delphi con solo punteggi di complessità; Delphi con iniziale stima dei tempi e integrazione con fattori di complessità), che si distinguono a seconda dell’unità di misura utilizzata per esprimere il peso del procedimento[16].
Uno dei vantaggi del metodo Delphi è senza dubbio l’efficacia in termini di costi e il tempo relativamente breve necessario per sviluppare le stime del personale. Un suo difetto, tuttavia, è che si basa sulle previsioni e sui punti di vista di un numero limitato di esperti, che raramente possono rappresentare l’universo di giurisdizioni e situazioni lavorative che devono essere prese in considerazione. Mentre i giudici, gli amministratori giudiziari e i pubblici ministeri con una larga esperienza professionale sono in grado di stimare in modo abbastanza accurato quanto tempo possono impiegare loro ed eventualmente il loro personale per trattare certi tipi di casi in relazione alle principali fasi del processo, analoghe considerazioni non possono essere effettuate, allo stesso modo, da quelli che possiedono una minore esperienza, o che lavorino in contesti organizzativi di piccole dimensioni e, pertanto, meno specializzati[17]. Per questo motivo, sarebbe preferibile che il gruppo Delphi abbia una composizione mista, formato cioè da giudici esperti che abbiano maturato esperienze professionali in vari uffici, su varie materie, e provenienti da diverse aree geografiche del Paese[18]. È fondamentale, inoltre, che si tratti di giuristi che operano sulle materie selezionate e che dispongano di buone capacità relazionali, indispensabili per confrontarsi in un gruppo Delphi[19].
Il metodo Delphi si presta ad essere valorizzato, per giunta, anche per un’ulteriore valida applicazione. Dal momento che gli studi sulla pesatura rilevano il tempo che i giudici, in sedi diverse, dedicano a ciascun tipo di caso, le informazioni risultanti mostreranno molto probabilmente delle differenze nel tempo impiegato. I dati ottenuti, pertanto, sono rilevanti anche per indagare il motivo di tali differenze tra i differenti uffici giudiziari esaminati (cioè, se sono dovute, ad esempio, al mix di casi, alle differenze di risorse, ecc.).
3.2. Il metodo “Studio dei tempi di lavoro”
L’altra tecnica utilizzata, il metodo “Studio dei tempi di lavoro” (Time-study method), consiste nella misurazione del tempo impiegato per esaurire il procedimento da parte di osservatori terzi (consulenti, esperti, ecc.) o degli stessi magistrati impegnati nel trattamento della controversia. Il punto di partenza è costituito dalla selezione di un campione di corti da esaminare e si decide quali e quante categorie di procedimenti valutare, soppesando i vantaggi in termini di dettaglio e precisione nel disporre di numerose categorie di procedimenti e gli svantaggi in termini di costi e di tempo che questo comporta[20]. A differenza del metodo Delphi, questo metodo si basa sull’osservazione empirica dei tempi medi effettivamente impiegati attraverso l’annotazione da parte dei singoli giudici dei tempi dedicati per l’esaurimento delle controversie. Annotazione che può essere effettuata, come si vedrà in seguito, con diverse modalità.
Come nel metodo Delphi, anche in questo caso, esistono diverse articolazioni dello studio dei tempi: studio dei tempi di lavoro per eventi; studio dei tempi di lavoro per procedimento (black box); studio dei tempi di lavoro e valutazione qualitativa.
Nello “studio dei tempi di lavoro per eventi” si individuano tutte le potenziali attività del giudice associate a ciascun tipo di procedimento e si classificano in una serie di “eventi principali” (ad esempio, l’udienza preliminare, il dibattimento dinanzi la giuria, l’udienza in cui è pronunciata la sentenza, ecc.). Per ciascun tipo di “evento” si misura dunque il tempo che richiede e la frequenza con cui ricorre nel procedimento (espressa con un valore compreso fra zero e uno) e se ne calcola il prodotto, che viene chiamato task weight. La somma dei task weights di tutti gli “eventi” associati ad un procedimento rappresenta l’ammontare di tempo richiesto per il suo trattamento[21]. Per questo tipo di studio, tuttavia è indispensabile che il sistema elettronico di gestione dei procedimenti (electronic case management system, ad esempio, in ambito civile in Italia SICID e SIECIC) sia in grado di estrarre automaticamente le frequenze dei singoli eventi[22]. Nel caso in cui ciò non fosse possibile, si dovrebbe optare per uno studio sui tempi che non somma i tempi dei singoli eventi ma calcola la durata media dedicata a quel procedimento dalla sua assegnazione alla sua definizione in maniera complessiva (si tratta dello studio dei tempi di lavoro per procedimento, c.d. black box)[23].
3.2.1. Il Multi Moment Analysis: la species più moderna di raccolta dei dati nello Studio dei tempi
Come anticipato, nel metodo cd. studio dei tempi di lavoro, la raccolta dei dati, relativi al tempo dedicato a ciascun evento processuale, può avvenire con diverse modalità.
La più tradizionale è quella cartacea, ovvero i singoli giudici devono annotare su un apposito foglio allegato ad ogni fascicolo le varie attività svolte ed i corrispondenti tempi impiegati per svolgerle (questo, ad esempio, è il sistema di raccolta dei dati utilizzato nell’ordinamento giuridico tedesco, c.d. Pebbsy[24]). Viceversa, la tecnica più moderna di raccolta dei dati, sviluppata dal sistema olandese, è il Multi-Moment-Analysis (MMA)[25]. In questo caso, l’elaborazione dei dati avviene automaticamente, ovvero tramite un apposito applicativo informatico installato sul telefono o tablet che, in vari momenti della giornata, domanda ad un campione di giudici cosa stanno facendo in quel preciso momento, proponendo una serie di opzioni a tendina per agevolare la risposta. Addentrandoci più nel vivo di questo sistema, emerge che non è necessario registrare la durata o gli orari di inizio/fine di ogni singola attività poiché i dati vengono elaborati statisticamente in forma aggregata, in una fase successiva, per determinare il tempo dedicato dal giudice al compimento degli svariati adempimenti in cui si snoda un procedimento. I dati vengono, poi, anonimizzati per non consentire la riconducibilità degli stessi ai singoli giudici. La raccolta dei dati tramite la time-app, nel caso olandese, è stata effettuata, segnatamente, da una società di consulenza esterna utilizzando un’applicazione installata sullo smartphone o tablet dei partecipanti. Essa ha coinvolto ciascun partecipante per una sola settimana di ricerca, per un totale complessivo di 61 settimane di ricerca per la conclusione dell’intera operazione, da gennaio a dicembre 2017. Infine, l’analisi condotta ha consentito di stimare non solo il tempo dedicato a specifiche attività giuridiche, ma anche di determinare i tempi spesi per lo svolgimento di attività extra, come la formazione, le riunioni organizzative ecc. Questo è stato possibile poiché l’app, nel momento in cui interrogava l’utente, gli consentiva di scegliere una tra le tre seguenti opzioni:
1. Non sto lavorando (non sto svolgendo un’attività giudiziaria in questo momento); 2. Sto svolgendo un’attività non strettamente correlata alla trattazione del procedimento ovvero … (selezionala da un elenco predefinito di attività, come ad esempio la partecipazione a riunioni di lavoro, formazione e istruzione professionale, attività di gestione e compiti amministrativi ecc.); 3. Sto svolgendo un’attività legata alla trattazione del caso … (selezionala da un elenco predefinito di casi che sono stati raggruppati in sette aree/categorie giuridiche per il primo grado di giudizio (ovvero penale, famiglia, immigrazione, tributario, commerciale, amministrativo e controversie di modico valore) e in quattro aree giuridiche per l’appello (penale, famiglia, tributario e commerciale)[26].
4. Alcune esperienze concrete di pesatura nel sistema giuridico italiano
L’utilizzo più significativo delle tecniche di pesatura nel nostro ordinamento giuridico si riscontra, ad oggi, prevalentemente nel settore penale. I sistemi informatici attualmente in uso, infatti, si avvalgono di un applicativo informatico, Giada-2[27], in grado di assegnare in maniera del tutto automatica i fascicoli della prima udienza dei dibattimenti (collegiali e monocratici) alle sezioni penali del Tribunale. La peculiarità del sistema è insita nei criteri di cui il sistema si avvale per garantire una distribuzione equa dei carichi di lavoro fra le diverse sezioni. In specie, Giada calcola in automatico, con parametri predeterminati, il “peso” di ciascun fascicolo di nuova introduzione, che rappresenta il carico di lavoro stimato per il procedimento. La determinazione del peso attribuito al singolo procedimento dipende da una serie di informazioni che vengono inserite dal Pubblico Ministero o dal gip/gup nel momento in cui effettuano la richiesta di fissazione udienza al Dibattimento. Spetta a ciascun Tribunale in autonomia e, segnatamente, al Presidente del Tribunale determinare, in sede di configurazione il numero e la consistenza delle classi di peso. Potrà così essere attribuito ad esempio il punteggio 1 per ciascun imputato libero e 2 per ciascun imputato detenuto; un parametro di 1 per ogni capo di imputazione; potrà assegnarsi un punteggio standard per ciascun reato del processo ed un altro maggiore per determinati reati (ad esempio reati associativi). Quindi, per esempio, un fascicolo con 2 imputati, di cui uno detenuto, e 1 capo di imputazione avrà un peso complessivo di 4. Tutti i punteggi configurati andranno a formare dei panieri che rappresentano appunto le classi di peso. Ad esempio: I classe di peso da 0 a 2 (1 imputato libero e 1 imputazione); II classe di peso da 3 a 6; etc. Infine, sulla base dei dati inseriti dal magistrato richiedente l’assegnazione, i processi sono associati ad una determinata classe di peso e, all’interno della stessa, sono assegnati a rotazione a un giudice/collegio.
Un ulteriore riscontro pratico dei sistemi di pesatura è alla base dei criteri di cui si avvale la Corte Suprema di Cassazione per l’assegnazione degli affari civili e penali ai collegi[28]. Nel procedere allo spoglio di tutti i ricorsi già pendenti o sopravvenienti in sezione, l’Ufficio Spoglio presso la Corte di Cassazione, si occupa di classificare i procedimenti attribuendo a ciascuno un determinato valore ponderale. Quest’ultimo varia a seconda delle caratteristiche specifiche e dal grado di maggiore o minore complessità che caratterizza ogni singolo procedimento. Ad esempio, il valore massimo, pari a 5, viene assegnato a tutti i ricorsi di eccezionale difficoltà per la complessità della materia e/o del quadro normativo di riferimento; viceversa, il valore più basso, pari a 1, si attribuisce a tutti i ricorsi aventi ad oggetto questioni di diritto già decise; vizi di motivazione; numero di motivi di ricorso non superiore a tre. La Cassazione si avvale di questo sistema anche per determinare il carico massimo di lavoro che, in occasione di ciascuna udienza, il singolo magistrato può sostenere[29].
Seppur le esperienze applicative concrete di utilizzo dei sistemi di pesatura nel nostro Paese siano ancora poche, non mancano numerosi studi e progetti, portati avanti da associazioni e gruppi di lavoro ministeriali, che hanno tentato di teorizzare e delineare dei veri e propri iter pratici da percorrere per procedere alla pesatura. Solo per citarne alcuni, si ricorda il progetto condotto nel 2019 dall’ANM[30]. Secondo tale proposta, occorrerebbe affidare alla stessa magistratura il compito di determinare in maniera empirica il peso da attribuire al singolo procedimento. I punteggi attribuiti ai singoli procedimenti potrebbero essere individuati attraverso il raffronto tra quest’ultimi e un provvedimento decisorio assunto come “base”. In questo modo a ciascun procedimento saranno attribuiti valori variabili a partire da una percentuale minima pari allo 0,05. Sommando i pesi di ciascuno dei provvedimenti emessi, adeguati con specifici “parametri correttivi”, è possibile individuare poi un “punteggio complessivo”, che rappresenta il carico massimo esigibile, inteso come soglia di impegno lavorativo oltre il quale si corre il rischio che l'attenzione cali e il lavoro perda di qualità. In questo modo è possibile determinare non solo il limite massimo, bensì una fascia di produttività racchiusa tra un minimo e un massimo pretendibile. Più di recente, l’ANM si è spinta ben oltre, andando a descrivere dettagliatamente le diverse fasi attraverso le quali procedere alla determinazione del carico massimo esigibile[31]. Si tratta di un procedimento che ricalca, in buona sostanza, un tradizionale metodo Delphi dal momento in cui si prevede che siano gli stessi magistrati a quantificare il tempo di lavoro necessario per espletare le diverse controversie attraverso la somministrazione di un questionario[32].
4.1. La classificazione dei fascicoli per elementi di complessità processuali
Nel dibattito sulle concrete modalità operative di pesatura, vi è chi propone di soppesare il livello di complessità dei singoli fascicoli in considerazione di elementi di complessità schiettamente processuali[33].
Quest’impostazione richiede di individuare tutti quei fattori (come ad es. il valore della causa, il numero di testimoni previsti, l’assunzione di prove particolarmente complesse, la necessità di un interprete, il numero di udienze previste ecc.) che incidono sulla complessità dell’iter processuale, aggravandolo. Esistono infatti alcuni fattori che possono rendere più o meno complesso un certo procedimento, tra cui, ad esempio[34]: l’alto numero di rapporti processuali coinvolti derivanti da un cumulo oggettivo di cause (creatosi ab origine o in corso di causa per effetto, ad esempio, della proposizione di domande riconvenzionali); la molteplicità di parti coinvolte; l’alto numero delle questioni controverse; l’elevato ammontare delle prove da assumere. Parallelamente, bisogna tener conto di ulteriori elementi come: la materia controversa; il valore economico della causa; la presenza di indici di mediabilità della lite; l’effettiva costituzione delle parti o l’eventuale loro contumacia; la necessità di applicare una legge straniera o sovranazionale e, in generale, la presenza di un collegamento con ordinamenti stranieri; la sopravvenienza di un accordo transattivo; la natura delle questioni di fatto o di diritto; la presenza di orientamenti giurisprudenziali consolidati o oscillanti; la chiarezza o l’oscurità della normativa o della riflessione dottrinale e giurisprudenziale; il maggiore o minore tecnicismo di un istituto.
È evidente che si tratta di elementi variabili, che potrebbero emergere anche in un momento successivo a quello dell’introduzione del giudizio. L’intervento di un eventuale terzo non è un elemento preventivabile, così come, ad esempio, il numero di testimoni da ascoltare e quindi l’effettiva entità dell’istruttoria. Ne consegue la necessità di aggiornare, al verificarsi di talune circostanze, i valori attribuiti in prima battuta alla causa.
5. Conclusioni
In un’epoca in cui si va affermando sempre più l’idea della giurisdizione quale struttura organizzativa complessa, fondata sull’azione concentrica di più attori[35](giudici, dirigenti, avvocati, personale amministrativo, processualisti, studiosi di statistica e management), assumono un ruolo decisamente centrale tutte quelle tecniche e procedimenti per programmare in maniera razionale il lavoro dei magistrati.
La funzione giudiziaria, infatti, non consiste soltanto nell’esercizio professionale della funzione giurisdizionale, ma questa è resa possibile e sostenuta dall’esistenza di una adeguata organizzazione delle varie fasi del lavoro di realizzazione ed attuazione del servizio giustizia[36].
Quantificare la complessità del lavoro giudiziario permetterebbe, pertanto, alle corti di effettuare delle scelte mirate per la suddivisione dei procedimenti tra i magistrati in servizio, bilanciando risorse disponibili e carico di lavoro[37].
Come si è avuto modo di osservare nel corso dell’indagine, attraverso la pesatura dei fascicoli si tenta di dotare l’ufficio giudiziario di uno strumento di rilevazione del “peso” delle controversie (cioè, della complessità del singolo fascicolo) che sia in grado di fornire dati sempre più analitici e dettagliati, onde consentire una migliore ripartizione dei ruoli e delle risorse. A queste finalità, che si collocano su una dimensione più ampia, correlata sostanzialmente alla corretta gestione dell’ufficio giudiziario[38], se ne affianca un’altra, insita nella pesatura, che si colloca su una dimensione più interna, vale a dire quella di consentire ai singoli magistrati di gestire in maniera ottimale il proprio specifico lavoro. In quest’ottica, la pesatura potrebbe, ad esempio, agevolare il giudice nell’esercizio dei propri poteri di direzione delle udienze ex art. 127 c.p.c. e, in generale, delle singole controversie, oltre che nella programmazione razionale delle proprie attività (si pensi, a quest’ultimo riguardo, al calendario del processo di cui all’art. 183, comma 4, c.p.c., che dovrebbe essere redatto in ragione della complessità della causa)[39].
Sotto quest’aspetto, la rilevazione qualitativa dell’effettivo grado di complessità della controversia si mostra di notevole aiuto per il magistrato lungo tutte le fasi del processo a cognizione piena. Si pensi, solo per fare un esempio, alla nuova fase decisoria come riformata dalla l. n. 206/2021 e dal d.lgs. n.149/2022, laddove conoscere il grado di complessità della controversia sarebbe fondamentale per il magistrato per valutare, ad esempio, la maturità o la rimessione anticipata della causa in decisione; per scegliere il modello di decisione da adottare tra quello più semplice della decisione a seguito di discussione orale e quello più complesso della decisione a seguito dello scambio di memorie; o ancora per fissare l’udienza di rimessione della causa in decisione, da cui decorrono i termini per la redazione e il deposito della sentenza[40]. Conoscere il peso delle singole controversie, potrebbe consentire, ancora, al magistrato di valutare se disporre o meno il mutamento dal rito ordinario a quello semplificato di cognizione ex art. 281-decies c.p.c. o viceversa.
Se questi sono gli obiettivi, certamente di non trascurabile rilievo, che caratterizzano la pesatura, del pari significative sono le concrete modalità applicative con cui procedere all’attribuzione del peso al singolo procedimento. L’indagine condotta ha mostrato l’esistenza di due principali tecniche per procedervi: il metodo Delphi e il metodo Studio dei tempi di lavoro[41]. Metodi che differiscono tra loro nelle concrete modalità applicative di raccolta delle informazioni. Mentre, come si è visto, con il primo dei seguenti metodi, il metodo Delphi, si procede ad una raccolta immediata dei dati, coinvolgendo direttamente i magistrati, i quali sono chiamati a raggiungere, a seguito di ripetuti e successivi confronti tra loro, una stima condivisa dei tempi medi di trattazione dei procedimenti. Con il secondo dei metodi sopradescritti, lo “Studio dei tempi”, si effettua, invece, un’osservazione esterna sull’attività dei magistrati. Attività che può essere monitorata in vario modo (o in forma cartacea o tramite un apposito applicativo informatico installato sul telefono o tablet dei partecipanti), al cui esito si procede ad un’elaborazione in forma aggregata dei dati raccolti e si stimano i valori ponderali delle controversie. Sicuramente, il costo di uno studio analitico dei tempi di lavoro è molto più elevato rispetto all’utilizzo di un metodo Delphi, che richiede un numero inferiore di partecipanti, un minor coinvolgimento dei giudici e dovrebbe raggiungere risultati in tempi più rapidi, in condizioni normali. Nel compiere la scelta sullo specifico metodo da seguire occorre, però, tenere presente che il risultato finale del metodo Delphi è una stima, lo “Studio dei tempi di lavoro” fornisce invece un calcolo empiricamente fondato dei tempi medi “reali” di trattazione dei procedimenti[42].
Vantaggiosa e probabilmente più rapida, parrebbe essere anche una misurazione dei fascicoli che si basi sull’individuazione degli elementi di complessità schiettamente processuali. In questo caso, ci si potrebbe avvalere, infatti, di un apposito applicativo informatico che associ in maniera del tutto automatica un certo peso al fascicolo ogni qual volta presenti determinate caratteristiche (come il valore della causa, il numero di testimoni previsti, l’assunzione di prove particolarmente complesse, la necessità di un interprete, il numero di udienze previste ecc.)[43].
La pesatura rappresenta certamente un’innovativa modalità di misurazione dell’attività giudiziaria, che si fonda sull’analisi delle caratteristiche intrinseche dei singoli fascicoli, finalizzata a rilevare ed affrontare le criticità ex ante, prima che diventino irreparabili[44].
L’emersione del grado di complessità della controversia potrebbe imprimere, come si è visto, un’accelerazione non indifferente ai processi decisionali, agevolando il giudice nella programmazione delle proprie attività.
Sarebbe auspicabile, pertanto, che, quanto prima, anche il nostro ordinamento giudiziario si avvalga di un sistema di pesatura, cui tutti gli uffici giudiziari possano ispirarsi seppur con le opportune diversificazioni. Si potrebbe pensare di mettere a punto alcune linee guida, a livello centrale, cui i tribunali possano adeguarsi per operare una pesatura a livello locale (eventualmente coinvolgendo dapprima singole sezioni e solo successivamente l’intero ufficio).
Gli studi in materia, ampiamente esaminati nei paragrafi precedenti, ci forniscono non pochi suggerimenti al riguardo. In primo luogo, occorre individuare i procedimenti “campione”, ovvero quelli da sottoporre alla misurazione. Successivamente, ponderando attentamente alcuni fattori (quali, le finalità per cui si vuole procedere alla misurazione; le risorse umane e materiali disponibili; il grado di coinvolgimento dei magistrati; le peculiarità di ciascun sistema giudiziario e in particolare del suo personale[45]), si effettua una scelta sul criterio da seguire (tra l’utilizzo di un classico metodo Delphi, di un dettagliato Studio dei tempi o se, infine, procedere ad una valutazione basata sugli elementi di complessità processuali). Una volta raccolta i dati, sarà possibile determinare l’ammontare di ore mediamente richieste per emettere ogni singolo provvedimento e, di conseguenza, il peso medio ponderato per tipologia di provvedimento. In ultimo, si tenga presente che, essendo la situazione di un ufficio giudiziario costantemente variabile e in divenire, occorrerà monitorare periodicamente il sistema adottato, apportando all’occorrenza delle rettifiche e/o integrazioni in base ai feedback dei magistrati e alle esigenze del sistema giudiziario.
[1] I protagonisti di questo mutamento culturale sono prevalentemente giuristi ma non solo. Ad oggi è sempre più diffusa la consapevolezza che il tema dell’efficienza del servizio giustizia debba essere studiato aprendosi al dialogo anche con discipline specialistiche diverse da quelle strettamente giuridiche, quali quelle economiche, organizzative e informatiche. Cfr. M. SCIACCA, Gli strumenti di efficienza del sistema giudiziario e l’incidenza della capacità organizzativa del giudice civile, in Riv. dir. proc., 2007, pp. 643-661; L. VERZELLONI, Qualità ed efficienza della giurisdizione, in Giustizia insieme, 2022; S. ZAN, Fascicoli e tribunali. Il processo civile in una prospettiva organizzativa, Bologna, 2003; F. AULETTA, Per una nuova educazione al diritto giudiziario, in Foro it., 2019.
[2] G. ESPOSITO, S. LANAU e S. POMPE, Judicial System Reform in Italy - A Key to Growth, 2014. Nello studio citato viene messa in evidenza la stretta correlazione tra efficienza di un sistema giudiziario e crescita economica di un Paese; A. COSENTINO, Misure organizzative e buone prassi nella gestione del contenzioso, in Questione Giustizia, 2017.
[3] Particolarmente pregnante risulta la considerazione di M. SCIACCA, Gli strumenti di efficienza del sistema giudiziario e l’incidenza della capacità organizzativa del giudice civile, in Riv. dir. proc., 3/2007, p. 159, in base a cui «Un’organizzazione che funzioni male vede moltiplicate le disfunzioni in modo progressivo e proporzionale all’aumento degli organici, di, pur pregnanti e rilevanti, modifiche alla legge processuale, di interventi di informatizzazione che si limitino a tecnologizzare e consacrare il disordine organizzativo, dando vita ad una paradossale burotelematica».
[4] Si pensi, da ultimo, all’introduzione dell’Ufficio per il processo, quale struttura stabile di affiancamento al giudice per sgravarlo dal compimento di attività routinarie, come: attività di studio dei fascicoli, compimento di attività di pratico/materiale o di facile esecuzione, verifica di completezza del fascicolo, predisposizione di bozze di provvedimenti etc. Cfr. d.l. n. 80/2021; l. n. 206/2021; d.d.l. n. 151/2022; V. anche, O. CIVITELLI, L’affanno della giustizia, in Md, Intervento al Consiglio nazionale di Md, 2021. S. ZAN, Fascicoli e tribunali. Il processo civile in una prospettiva organizzativa, Bologna, 2003, p. 10 ss; G. DI FEDERICO, Scienza dell’amministrazione e ordinamento giudiziario. Stato degli studi e metodo della ricerca sul campo, Roma, 1974, p. 9 ss; F. AULETTA, Una lezione di analisi economica del diritto processuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, p. 633 ss..
[5] Questi dati sono il risultato di uno studio che ha visto coinvolti 47 rappresentanti nazionali della CEPEJ, ai quali tra i mesi di marzo e maggio 2019 è stato somministrato un questionario sui sistemi di pesatura, a cui hanno fatto seguito interviste telefoniche e seminari di approfondimento. Cfr. M. FABRI, Metodi per la pesatura dei procedimenti giudiziari in Europa, 2020, in Questione Giustizia, p. 8 e ss.; CEPEJ, S. BENKIN and M. FABRI, Case weighting in European Judicial Systems, Strasburgo, 2020, p. 7 e ss.
[6] Sul punto, v. M. FABRI, op. cit., pp. 2 e 10; CEPEJ, S. BENKIN and M. FABRI, op. cit., p. 5, pp. 8-9, tabella n. 1, p. 11 ss. e pp. 21 e 31.
[7] Questa la definizione di “peso dei procedimenti” messa a punto dalla CEPEJ, in CEPEJ, S. BENKIN and M. FABRI, Case weighting in European Judicial Systems, Strasburgo, 2020: “Scoring system to assess the degree of complexity of case types based on the understanding that one case type may differ from another case type in the amount of judicial time required for processing”, ovvero “Sistema di punteggi per valutare il grado di complessità di varie categorie di procedimenti, basato sull’assunto che ogni categoria di procedimenti differisce da un’altra per l’ammontare di tempo necessario per la sua trattazione”.
[8] Tra i principali studi in materia di pesatura si ricordano: CEPEJ, S. BENKIN and M. FABRI, Case weighting in European Judicial Systems, Strasburgo, 2020; H. GRAMCKOW, Estimating Staffing Needs in the Justice Sector, World Bank, Washington DC; M. KLEIMAN, R.Y. SCHAUFFLER, B.J. OSTROM, C.G. LEE, Weighted caseload: a critical element of modern court administration, in International Journal of the Legal Profession, 2019, vol. 26, n. 1, p. 22.; M. FABRI, Metodi per la pesatura dei procedimenti giudiziari in Europa, 2020, in Questione Giustizia.
[9] Lo studio in questione rappresenta un prezioso contributo per tutti coloro che vogliono avvicinarsi al tema della pesatura ed approfondirne gli aspetti più salienti. È disponibile al sito: https://rm.coe.int/study-28-case-weighting-report-en/16809ede97.
[10] Cfr. A. COSENTINO, Misure organizzative e buone prassi nella gestione del contenzioso, in Questione Giustizia, 2017.
[11] La formula per il calcolo consiste nel sommare al numeratore i procedimenti sopravvenuti, suddivisi in macrocategorie, moltiplicati per i vari “pesi” attribuiti agli stessi, più le ore di attività extra non collegate alla trattazione dei procedimenti (es. corsi di formazione). Successivamente il numero ottenuto viene diviso per il prodotto delle ore standard lavorate in un anno e il numero dei giudici effettivamente in servizio. Tramite questa divisione si determina il numero di giudici che sarebbero necessari per rispondere in un arco temporale di un anno alla domanda di giustizia rispetto ai procedimenti iscritti.
[12] M. FABRI, Metodi per la pesatura dei procedimenti giudiziari in Europa, 2020, in Questione Giustizia, pp. 3 e ss.
[13] Nello studio più volte citato della CEPEJ viene menzionato un terzo metodo chiamato “Work-sampling method”, utilizzato nel sistema olandese, che si basa sulla combinazione di più metodi. Ciò che cambia è il modo in cui vengono raccolte le informazioni. In questo caso, i dati vengono raccolti interrogando i partecipanti, in vari momenti casuali, sulle attività che stanno compiendo in quel preciso momento. Si tratta del Multi-Moment-Analysis (MMA). I dati raccolti vengono poi affinati con il metodo Delphi.
[14] Cfr. E. BORSELLI – L. DANI, L’organizzazione del lavoro del giudice alla luce della riforma del processo civile. Pesatura dei fascicoli e gestione della complessità delle controversie, in Judicium, 2023. Gli autori propongono di creare un sistema di pesatura che si fondi sulla classificazione dei procedimenti non in ragione della materia oggetto della controversia, bensì proprio sugli “elementi di complessità” schiettamente processuali.
[15] M. FABRI, op. cit., pp. 4 e ss.
[16] Più specificatamente, nel primo metodo, il tempo stimato per la definizione di un procedimento costituisce il peso da assegnarvi; nel secondo, al procedimento viene attribuito un punteggio che classifica il procedimento in termini di complessità rispetto agli altri, ma non equivale direttamente al tempo; infine, l’ultimo sottotipo si basa sull’attribuzione di un peso “primario” che subisce delle modifiche nel corso del tempo al verificarsi di determinati “fattori di complessità”, quali, ad esempio, il numero di testimoni, la necessità di un interprete, il numero di udienze ecc.
[17] H. GRAMCKOW, op. cit., pp. 9 e ss.
[18] Cfr. M. FABRI, op. cit., pp. 4 e ss.
[19] Per arrivare ad un consenso fra gli esperti, è necessario individuare, inoltre, un coordinatore che sia dotato di specifiche competenze per la gestione di gruppi. Per raggiungere il consenso all’interno del gruppo è possibile anche sfruttare alcune piattaforme we-based come Welphi platform.
[20] M. FABRI, op. cit. pp. 7 e ss..
[21] Cfr. Gruppo di lavoro per la individuazione degli standard medi di definizione dei procedimenti, CSM, Quarta Commissione, Relazione finale – Settore civile, Catania – Roma, 2009, p. 37; P. SIGNIFREDI, Misurare la produttività dei giudici: il caso spagnolo, paper presentato alla Conferenza Annuale della Società Italiana di Scienza Politica, Bologna, 12-14 Settembre 2006.
[22] M. FABRI, op. cit., pp. 7 e ss.
[23] Infine, il terzo sottotipo, lo studio dei tempi e valutazione qualitativa, prevede che, una volta individuati i pesi attraverso i metodi sopradescritti, quest’ultimi vengano sottoposti ad una posteriore valutazione qualitativa (attraverso un gruppo Delphi o con altre modalità) per validarne l’affidabilità e l’attendibilità.
[24] Il sistema di pesatura tedesco Pebbsy è stato sviluppato da una società di consulenza estera nel 2002 ed è stato aggiornato nel 2004 coinvolgendo oltre 16.000 persone, tra cui giudici, unità di personale di cancelleria, p.m. appartenenti a ben 14 lander diversi. I soggetti coinvolti nello studio hanno trascritto per sei mesi su un apposito foglio allegato ad ogni fascicolo le varie attività ed i corrispondenti tempi impiegati per svolgerle. Successivamente, i dati sono stati elaborati in forma aggregata (garantendo l’anonimato dei giudici) e i procedimenti sono stati classificati in tre classi di peso “A-B-C”. Soltanto alle categorie di procedimenti delle classi A e B è stato poi effettivamente attribuito un peso.
[25] In un primo momento, è stata utilizzata la tecnica del cd. shadow research (osservatore ombra), ovvero i giudici selezionati sono stati “osservati” nello svolgimento delle loro attività da alcuni studenti di giurisprudenza che hanno annotato di volta in volta le attività svolte e i tempi necessari per svolgerli.
[26] Per un ulteriore approfondimento del Multi-Moment Analysis, cfr. CEPEJ, S. BENKIN and M. FABRI, Case weighting in European Judicial Systems, p. 31 e ss.
[27] Con l’acronimo G.I.A.D.A. si intende Gestione Informatica Automatizzata Assegnazioni Dibattimento.
[28] Cfr. tabelle di organizzazione Corte di Cassazione, triennio 2020-2022, pp. 27 e ss., https://www.cortedicassazione.it/cassazioneresources/resources/cms/documents/Tabelle_di_organizzazione_triennio_2020-2022.pdf; nonché tabelle di organizzazione Corte di Cassazione, triennio 2009-2011, https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Tabella_di_organizzazione.pdf.
[29] «A ciascun componente del collegio vengono assegnati ricorsi per un valore ponderale complessivo indicativamente non superiore ad 8 per ogni udienza, comunque superabile nel caso di ricorsi inammissibili o seriali, tali da richiedere una motivazione standard, ovvero per ragioni eccezionali», Tabelle di organizzazione Corte di Cassazione, triennio 2009-201, cfr. par. 31.5.
[30] Cfr. Dettaglio proposta ANM sui “Carichi di lavoro” dei magistrati italiani e Documento sui carichi esigibili, Progetto di lavoro approvato dal Cdc, 2023, in https://www.associazionemagistrati.it/. Studio citato anche da D. CARLINO, La possibile individuazione dei carichi sostenibili: un percorso di approfondimento tra standard di rendimento e carichi esigibili, in Il diritto vivente, 2021.
[31] Per un approfondimento, cfr. Documento sui carichi esigibili, in https://www.associazionemagistrati.it/doc/3968/il-cdc-su-i-carichi-esigibili.htm.
[32] Ulteriori studi interessanti in materia di pesatura sono il cd. Tempo Tecnico Minimo (TTM) in Commissione Flussi di Milano, 16 marzo 2007, Relazione sulle metodologie di analisi dei dati e dei flussi, p. 14; le analisi svolte per la determinazione delle piante organiche, lo studio del CSM sui cosiddetti “canestri”, lo “Studio sul peso del processo” a cura di Giorgia Telloli e Claudio Nunziata (Corte di Appello di Bologna, 2004), le implicite analisi condotte sulla complessità dei procedimenti per la redazione degli art. 37.
[33] Cfr. par. 3, E. BORSELLI – L. DANI, L’organizzazione del lavoro del giudice alla luce della riforma del processo civile. Pesatura dei fascicoli e gestione della complessità delle controversie, in Judicium, 2023.
[34] Cfr. la classificazione proposta da E. BORSELLI – L. DANI, L’organizzazione, cit. Particolarmente interessante, nel citato studio, è, inoltre, l’individuazione delle specifiche finalità che potrebbe assolvere la pesatura in relazione a ciascuna fase processuale post-riforma Cartabia.
[35] M.G. CIVININI, Il “nuovo ufficio per il processo” tra riforma della giustizia e PNRR. Che sia la volta buona!, in Questione Giustizia.
[36] M.ORLANDO – G. VECCHI, Il controllo di gestione negli uffici giudiziari: il “laboratorio” di Livorno, in Questione Giustizia, 2020.
[37] Cfr. M. FABRI, Metodi per la pesatura dei procedimenti giudiziari in Europa, 2020, in Questione Giustizia; CEPEJ, S. BENKIN and M. FABRI, Case weighting in European Judicial Systems, Strasburgo, 2020.
[38] A livello di organizzazione dell’ufficio giudiziario, i dati emergenti dalla pesatura possono essere sfruttati dai dirigenti nell’ambito dei loro poteri di riorganizzazione dell’ufficio e delle sezioni come, ad esempio: a) per elaborare un piano di rientro sostenibile, a fronte di un carico di lavoro del magistrato che si riveli eccessivo (art. 172, co. 2, Circolare CSM sulle tabelle triennio 2020/2022; b) per prevedere un esonero temporaneo dall’assegnazione di nuovi affari o di nuove attività, sempre qualora il magistrato si trovi in affanno (art. 173, comma 1 della Circolare CSM sulle tabelle triennio 2020/2022); c) per valutare il collocamento di nuovi giudici o il ricollocamento dei giudici all’interno delle articolazioni dell’ufficio; d) per sopperire all’assenza di un magistrato in caso di maternità o malattia. Cfr. nota 27, par. 3, E. BORSELLI – L. DANI, L’organizzazione del lavoro del giudice alla luce della riforma del processo civile. Pesatura dei fascicoli e gestione della complessità delle controversie, in Judicium, 2023.
[39] Sul punto, E. BORSELLI – L. DANI, op. cit., in Judicium, 2023.
[40] Cfr. par. 4, E. BORSELLI – L. DANI, op. cit, in cui gli autori forniscono una chiara indicazione di tutti i momenti processuali, dalla fase introduttiva alla fase decisoria del processo a cognizione piena (con un breve accenno anche al giudizio d’appello), in cui l’utilizzo della pesatura potrebbe rivelarsi di massima utilità per il giudice, consentendogli di arrivare preparato in coincidenza dei principali snodi processuali.
[41] Cfr, ivi, parr. 3.1 e 3.2.
[42] In merito, v. M. FABRI, op. cit., p. 16 e ss.
[43] In una maniera analoga, ad esempio, a quanto avviene con l’applicativo Giada, operativo nel settore penale. Per un approfondimento, ivi, par. 4.
[44] M. FABRI, op. cit., p. 15 e ss.
Chi era il Priore di Barbiana?
Don Lorenzo Milani (Firenze,27 maggio 1923-Firenze, 26 giugno 1967), all’anagrafe Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti, era figlio di Alice Weiss e Albano Milani Comparetti, ebrei, liberali conservatori, fortemente antifascisti. Nella formazione del giovane Lorenzo la famiglia aveva privilegiato la crescita culturale rispetto ad altri aspetti; come ha ricordato, in più occasioni, anche Mario Lancisi, colpisce l’importanza della chiarezza e della logica della parola, elementi importanti della sua esperienza pedagogica insieme alla conoscenza delle lingue.
Il 10 novembre 1943 entra in seminario. La sua è una vocazione da adulto; passa dall’ateismo alla conversione e alla vocazione, dopo un travaglio non breve né semplice. Ne segue una attività intensa, nello svolgersi di una stagione breve dal 1947, anno dell’ordinazione sacerdotale, all’anno della morte,1967, con tre tappe fondamentali, scandite dalle sue opere: Esperienze pastorali (1958), L’obbedienza non è più una virtù (1965), Lettera a una professoressa ( 1967) [1].
Con Esperienze pastorali, don Lorenzo Milani anticipa, in qualche modo, la riforma del Concilio Vaticano II, avviata da Giovanni XXXIII con il solenne discorso di apertura dell’11 ottobre 1962.
Ho qualche perplessità su questa affermazione. A me sembra che la grandezza del messaggio contenuto in quel libro, come poi anche in Lettera a una professoressa, non stia in una “riforma religiosa” o “ecclesiale” in qualche modo assimilabile a quella recata dal Concilio Vaticano II: lo stesso don Milani si definiva, sul piano ecclesiale, come un sacerdote “pre-conciliare” e diceva di essere stato “scavalcato a sinistra” dal Papa, Giovanni XXIII, e dalla Chiesa stessa con il Concilio. Penso invece che il contenuto rivoluzionario della sua predicazione si collochi su un piano assai diverso: non tanto su quello della riforma ecclesiale – questa sì recata dal Concilio –, quanto su quello della teologia morale. Su questo terreno la sua predicazione conserva tuttora una portata rivoluzionaria anche rispetto al contenuto – pur molto incisivo rispetto al recente passato pacelliano – della Gaudium et Spes: un significato di rottura rispetto a una tiepida morale cattolica diffusa che neppure il Concilio Vaticano II ha saputo scuotere altrettanto.
Fatto sta che il 15 dicembre 1958 Esperienze Pastorali fu disapprovato dal Sant’Uffizio, che chiese il suo ritiro dal commercio, vietandone ristampe e traduzioni. Questo vincolo fu rimosso soltanto nel 2014, dopo ripetute richieste, da ultimo da parte del Cardinale Giuseppe Betori.
Strana vicenda, questo ritardo, se si pensa che già Papa Montini aveva manifestato disagio per il “cordone sanitario” che era stato attivato per impedire la circolazione di quel libro. Che sia dovuto passare più di mezzo secolo è davvero un po’ scandaloso. E incomprensibile, anche mettendo nel conto tutte le vischiosità dell’apparato ecclesiastico.
Risale invece al 1965 la Lettera ai cappellani militari che costò un processo penale per incitamento alla diserzione e vilipendio delle Forze Armate: questa Lettera – che, dopo essere stata diffusa in varie forme il 23 febbraio 1965, fu pubblicata il 6 marzo dello stesso anno su Rinascita, settimanale comunista diretto da Luca Pavolini – fu inserita, insieme alla Lettera ai giudici, datata 18 ottobre 1965 e assai più lunga della prima, nel libro uscito in quello stesso anno con il titolo L’obbedienza non è più una virtù.
Ricordo che don Lorenzo inviò a mio padre una minuta della lettera ai giudici, chiedendo il suo parere e consiglio in proposito. Lui gli rispose approvandola, anche da un punto di vista tecnico-processuale.
In questi scritti venivano affrontati i temi della pace, della coscienza civile e dell’obiezione di coscienza, molto discussi in quegli anni.
Il 15 febbraio 1966 don Milani, insieme al coimputato Luca Pavolini, fu assolto con formula piena, “perché il fatto non costituisce reato”. Nel processo di appello il Pubblico Ministero all’udienza del 28 ottobre 1967 chiese per Don Milani, anche se morto, la condanna a 4 anni di reclusione, ma la Corte di Appello di Roma, correttamente, dichiarò di non doversi procedere nei suoi confronti perché il reato si era estinto per morte dell’imputato (fu invece condannato, e amnistiato solo in Cassazione, Luca Pavolini).
Fa impressione che cinquant’anni fa in Italia si potesse essere condannati per aver espresso le tesi contenute in quella lettera di don Milani: solo dieci anni dopo, non si sarebbe trovato più neanche un solo giudice disposto a firmare una sentenza di quel genere.
È infine del 1967, essendo uscita qualche mese prima della sua morte, la Lettera a una professoressa, che ci riguarda più da vicino e che affronta i temi della scuola. Scritta con i suoi allievi, secondo lo schema della scrittura collettiva, questa Lettera anticipa il ’68, contestando il carattere classista della scuola.
Per un aspetto è vero che Lettera a una professoressa anticipa il ’68; per altro verso questa affermazione può alimentare qualche equivoco, che invece va evitato: se don Milani fosse vissuto un anno di più, in modo da assistere all’esplosione della protesta studentesca, penso che ne avrebbe disapprovato una parte rilevante dei contenuti. Per dirne solo uno: un contenuto essenziale di quel movimento fu la contestazione dell’autorità del docente, della sua capacità di dirigere il percorso di acculturazione dei propri allievi; nulla di più distante dall’idea della funzione dell’insegnante che don Milani ha professato e incarnato.
A ben vedere, è anche quello che dice il Presidente Sergio Mattarella, nel discorso pronunciato a Barbiana in occasione delle celebrazioni del centenario della nascita: «Testimone coerente e scomodo per la comunità civile e per quella religiosa del suo tempo. Battistrada di una cultura che ha combattuto il privilegio e l’emarginazione, che ha inteso la conoscenza non soltanto come diritto di tutti ma anche come strumento per il pieno sviluppo della personalità umana. Essere stato un segno di contraddizione, anche urticante, significa che non è passato invano fra noi ma, al contrario, ha adempiuto alla funzione che più gli stava a cuore: fare crescere le persone, fare crescere il loro senso critico, dare davvero sbocco alle ansie che hanno accompagnato, dalla scelta repubblicana, la nuova Italia. Don Lorenzo avrebbe sorriso di una sua rappresentazione come antimoderno se non medievale. O, all’opposto, di una sua raffigurazione come antesignano di successive contestazioni dirette allo smantellamento di un modello scolastico ritenuto autoritario. Nella sua inimitabile azione di educatore – e lo possono testimoniare i suoi “ragazzi” – pensava, piuttosto, alla scuola come luogo di promozione e non di selezione sociale. Una concezione piena di modernità, di gran lunga più avanti di quanti si attardavano in modelli difformi dal dettato costituzionale».
Ecco: anche Mattarella mette in guardia contro la raffigurazione di don Milani “come antesignano di successive contestazioni dirette allo smantellamento di un modello scolastico ritenuto autoritario”.
Don Lorenzo Milani è stato un privilegiato o un predestinato? Anche il percorso che lo ha portato a scegliere l’abito talare sembra un segno del destino.
Mah… più che un percorso predeterminato dal destino, in questa vicenda vedrei semmai il trionfo della libertà etica della persona umana: la forza morale, la volontà che consente di superare tutti i condizionamenti derivanti dall’educazione ricevuta e dalle altre circostanze sociali. Tutta la vita e l’opera di don Milani è un monumento alla capacità dell’uomo di liberarsi dai condizionamenti esterni e di determinare il proprio destino, la propria sorte.
Certo, nulla nel primo ventennio di vita di Lorenzo Milani poteva far pensare a una scelta religiosa così fortemente caratterizzata: aveva ricevuto il battesimo cristiano per evitare le persecuzioni fasciste per la discriminazione razziale. Nelle sue biografie si legge che si fece prete per colpa del “latte pessimo” della sua balia, Carola Giuliani Galastri, di Poppi: anche lei aveva avuto un figlio che si era fatto frate. Nessuno della sua famiglia partecipò alla cerimonia per la sua ordinazione sacerdotale.
Non è il solo caso conosciuto di conversione, in quegli anni, di una persona di origine ebraica a un cristianesimo integrale. Vedo qualche analogia, per questo aspetto, tra la vicenda di don Lorenzo Milani e quella di Etty Hillesum: una chiesa che curasse di più l’essenza del messaggio evangelico dovrebbe assumerli entrambi come esempi straordinari di incarnazione di quel messaggio nel secolo XX. Ma vedo anche qualche analogia con la vicenda umana di Simone Weil.
Il centenario della nascita di Lorenzo Milani ha visto la pubblicazione di numerosi libri. Tra questi: Riccardo Cesari, Hai nascosto queste cose ai sapienti. Don Lorenzo Milani, vita e parole per spiriti liberi (Giunti Editori, Firenze, 2023); Adolfo Scotto di Luzio, L’equivoco don Milani (Einaudi, Torino, 2023); Mario Lancisi, Don Lorenzo Milani. Vita di un profeta disobbediente. A cento anni dalla nascita(TS Edizioni, Milano, 2023). Le Edizioni San Paolo hanno pubblicato, nel mese di febbraio 2023, in una versione aggiornata, con la prefazione del Cardinale Matteo Maria Zuppi, una raccolta di Lettere a cura di Michele Gesualdi.
Su quest’ultima pubblicazione, però, si registra una controversia circa la titolarità dei documenti contenuti nel volume, che la Fondazione Don Lorenzo Milani rivendica, a mio avviso con pieno fondamento, mentre il libro viene pubblicato sulla base di un atto di disposizione della moglie e della figlia di Michele Gesualdi. La raccolta di tutti questi documenti è stata compiuta dagli allievi di Barbiana uniti nella Fondazione; e lo stesso Michele Gesualdi, che è stato il primo presidente della Fondazione, in diverse pubblicazioni precedenti lo dichiara esplicitamente.
Merita anche segnalare: Lorenzo Milani, Duecento lettere. Nel centenario della nascita (a cura di Adele Corradi, Josè Luis Corzo e Federico Ruozzi) EDB, Bologna 2023. Tu che lo hai conosciuto e frequentato personalmente, che bilancio trai dal rinnovato fervore degli studi su questa figura di primo piano del Novecento italiano?
Il bilancio, pur tra alti e bassi, è complessivamente positivo: alcuni scritti, veramente importanti, fanno fare un passo avanti molto rilevante per una conoscenza più approfondita di quello che sono state la vita e la predicazione di don Milani nella storia recente della Chiesa e nella cultura europea. E anche di quello che ne è conseguito sul piano socio-politico a partire dagli anni Sessanta. Considero tra le pubblicazioni più importanti il libro di Riccardo Cesari – economista e statistico: di tutt’altro mestiere, quindi, rispetto agli altri studiosi della vita e dell’opera del Priore di Barbiana – che fornisce una chiave di lettura in gran parte nuova dell’intera sua eredità; mentre la biografia di Mario Lancisi riorganizza il frutto di diversi suoi studi precedenti, dando conto anche delle diverse fasi della formazione e dell’opera di don Milani. Per altro verso e in altro modo, è importante anche il saggio di Adolfo Scotto di Luzio – storico della pedagogia, delle istituzioni educative e scolastiche –, anche se questo contiene una critica molto corrosiva della predicazione del Priore di Barbiana.
Condivido quello che dici. Quella di Cesari è una «completa, lucida e appassionata ricostruzione della vita del priore», come ha scritto Eraldo Affinati (che ha dedicato, anche lui, studi significativi ai temi trattati in occasione del centenario: primo fra tutti, L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano, 2017). Molto attento ai particolari e ben documentato (fin troppo, direi), questo libro, trovando il suo autore un filo conduttore tra tutti gli scritti nella denuncia dello scandalo della povertà e della miseria che don Milani aveva scoperto negli occhi dei bambini che frequentavano la scuola di Barbiana.
Il libro di Cesari ha anche il merito di approfondire il confronto tra la predicazione di don Milani e la realtà sociologica ed economica dell’Italia degli anni ’50 e ’60.
Il libro di Scotto di Luzio (che è tornato sul suo pensiero, e su quanto ha scritto, nella video-intervista rilasciata il 9 giugno 2023 a Norberto Gallo per La Voce della scuola e in un’altra intervista rilasciata il 28 giugno 2023 a Tiziana Morgese, per Orizzontiscuola.it), però, contiene una critica molto corrosiva della predicazione di don Milani: a parte il titolo – L’equivoco don Milani –, che sembra giocare sulla possibilità di intendere la parola “equivoco” come sostantivo o come aggettivo, nella parte finale l’autore trae un bilancio pesantemente negativo dell’eredità politico-sociale riconducibile, in particolare, alla Lettera a una professoressa.
Al netto del titolo, questo libro è molto importante innanzitutto perché rispecchia una conoscenza approfondita di tutti gli scritti di e su don Milani, giungendo a mettere in luce anche alcuni aspetti della sua vicenda intellettuale che nessun altro – per quel che mi risulta – aveva rilevato; inoltre, perché propone un ragionamento originale e molto intelligente sul rapporto tra scuola e cultura (popolare e no). La critica che mi sento di muovere alla tesi svolta nella seconda metà del saggio è che essa, a ben vedere, ha per oggetto non tanto la predicazione del Priore di Barbiana, quanto semmai l’uso che ne è stato fatto sul piano politico e sul piano amministrativo, cioè su quello della concreta riforma della scuola media inferiore, dal ’68 in poi.
Puoi spiegare meglio questo punto?
L’intendimento originario di tutta l’opera di don Milani è di natura essenzialmente teologico-evangelica (l’amore per il prossimo come manifestazione di Dio su questa terra) ed etica: non c’è una sola parola di argomento politico, detta o scritta da lui, che non si collochi nell’ambito di un discorso eminentemente etico e di fede cristiana. Non è sbagliato affermare che nella sua predicazione sono espliciti il contenuto “classista” e anche quello lato sensu “comunista”; ma il suo classismo è di natura etica, prima e più che politica: risponde al dovere di dividere il pane con chi non ce l’ha; e il “comunismo” di don Milani, molto più radicale di quello predicato e praticato dallo stesso Partito comunista, non è un progetto politico di organizzazione della società: è la conseguenza rigorosa, applicata al comportamento di ogni persona, di un precetto della più genuina morale cattolica. A chi gli obiettava che la morale cattolica riconosce il diritto di proprietà privata, don Lorenzo rispondeva con la massima di Tommaso d’Aquino: «In extremis omnia sunt communia»; e – l’ho sentito dalle sue labbra – aggiungeva: «Tutto sta nello stabilire qual è l’extremum; non puoi stabilirlo stando al calduccio a casa tua; il Vangelo ti impone di stabilirlo mettendoti nei panni del prossimo, di chi soffre, di chi non ha nulla, di chi ha paura; solo così ti accorgi che l’extremum è qui e ora».
Innamorato di Dio e dei poveri, un prete “disubbidiente”, un maestro straordinario (per usare alcuni concetti espressi da Lancisi). Ma di quale scuola? A Scotto di Luzio fa scandalo la sua scuola, ma non la povertà e l’arretratezza dei parrocchiani di Barbiana. È, questo, un giudizio, che mi sembra di poter riservare anche alle due recensioni, adesive, che hanno accompagnato il libro di Scotto di Luzio, enfatizzando la sua analisi: quella apparsa sul Corriere della Sera del 1° giugno 2023, a firma di Ernesto Galli della Loggia, Don Milani capovolto, e quella pubblicata sul Il Sole 24 Ore dell’11 giugno 2023, a firma di Gabriele Pedullà, Don Milani al di là del conformismo.
È facile “capovolgere” don Milani, confrontando il suo messaggio con il modo in cui è stato recepito e attuato; confrontando cioè il suo ideale di uguaglianza e la sua idea di scuola come strumento per costruirla con il degrado e l’inadeguatezza della scuola pubblica italiana a svolgere questa funzione, a più di mezzo secolo dalla pubblicazione di Lettera a una professoressa. Ma questo paradosso non è la conseguenza di un difetto dell’idea fondamentale predicata dal Priore di Barbiana; è la conseguenza di una riforma della scuola gravemente carente sotto il profilo della formazione dei docenti e del monitoraggio dei risultati dell’insegnamento: difetti che non vedo come possano essere addebitati a quell’idea originaria. Si è pensato – come troppo spesso accade nel nostro Paese – che bastassero le norme sulla riforma scolastica pubblicate nella Gazzetta Ufficiale: il problema maggiore è invece l’organizzazione amministrativa e la strumentazione del nuovo colossale organismo cui la riforma intendeva dare vita. È stato gravemente sottovalutato il problema dell’implementazione. Il solo egualitarismo che si è attuato in concreto è quello che riguarda il trattamento degli insegnanti, indipendentemente dalla loro competenza, dal loro impegno personale, dalla loro diligenza, intesa nel senso originario del diligere, ovvero dell’amare il proprio lavoro e i suoi destinatari.
Sul tema della riforma della scuola, però, Scotto di Luzio muove a don Milani una contestazione radicale: per svolgere la propria funzione di equalizzazione delle dotazioni di partenza, la scuola pubblica, per sua stessa natura, deve trasmettere una cultura “altra” rispetto a quella originariamente propria dei figli del popolo. Negando questa funzione della scuola, pretendendo che la scuola coltivi solo la “cultura dei poveri”, cioè le risposte che il popolo dà ai problemi della vita quotidiana, la predicazione milaniana si contrapporrebbe radicalmente all’idea stessa che è alla base della scuola pubblica.
Questa critica coglie nel segno soltanto in riferimento ad alcuni passaggi, alcuni argomenti utilizzati in modo un po’ provocatorio in Lettera a una professoressa per evidenziare certe astrattezze dei contenuti dell’insegnamento impartito nella scuola pubblica. Ma non sta lì la parte essenziale né del messaggio contenuto nella Lettera, né del modello di scuola cui don Milani ha concretamente dato vita a Barbiana: una scuola, la sua, nella quale si imparava, sì a usare la pialla, la sega e il tornio, ma si studiavano – oltre all’italiano e alla matematica – anche l’astronomia, la musica classica, la pittura, le lingue straniere; si leggevano i giornali per confrontarne criticamente i contenuti; si consultavano i dizionari alla ricerca del significato di parole inusuali; si esercitava la curiosità in tutte le direzioni. Certo, era un insegnamento “classista”, nel senso che era fortemente ispirato dall’intendimento di tirar fuori gli appartenenti alla classe più povera dalla loro condizione di inferiorità, liberarli dalla timidezza rispetto alla classe privilegiata, dotarli degli strumenti necessari per emanciparsi. Prima fra tutti questi strumenti la padronanza del linguaggio. Ma non per questo il contenuto di ciò che si insegnava nella piccola aula della pieve di S. Andrea era meno universale. Se la cultura è la risposta di una società ai problemi della propria esistenza, quella che don Milani trasmetteva a Barbiana era “cultura” nel senso più pieno e universale del termine.
Sta di fatto che lui imputava alla cultura trasmessa nella scuola pubblica di essere concepita per escludere e non per rendere eguali. Scotto di Luzio sostiene che questa tesi di don Milani finisce col negare alla radice la funzione della scuola pubblica, cioè quella di trasmettere una cultura nazionale tendenzialmente universale.
Se riferita al nucleo essenziale della tesi sostenuta in Lettera a una professoressa, mi sembra che questa critica non tenga conto di che cosa era realmente la scuola media prima della riforma avviata nel 1963. Chiunque l’abbia frequentata, come è accaduto a me (e proprio negli anni immediatamente precedenti a quelli in cui è nato quel libro), sa quanto essa fosse ferocemente classista, fatta per selezionare e non per equalizzare le dotazioni di partenza degli allievi. La mia classe era composta da 31 ragazzi in prima media, dei quali solo 13 arrivarono alla fine della terza. Di “Gianni” bocciati dalle mie severissime professoresse di lettere e di matematica ne ho conosciuti personalmente 18 e ho ancora ben presenti i loro volti e le loro condizioni sociali: erano il figlio della portinaia di piazza Conciliazione, del ciabattino di via Marghera, della lattaia di via Pier Capponi e così via. Non solo le materie insegnate, ma anche il metodo dell’insegnamento pareva studiato in funzione della selezione: presupponeva che l’allievo avesse alle spalle una famiglia colta, genitori che lo aiutassero nei compiti, una casa dotata di libri e adatta allo studio pomeridiano. Per questo mi sembra davvero sbagliato sostenere, come fa Scotto di Luzio a conclusione del suo saggio, che – morto don Milani – della Scuola di Barbiana non sia rimasto nulla; la nostra scuola dell’obbligo è in gran parte figlia di quella esperienza, quanto meno nel suo intendimento fondamentale, cioè quello della costruzione della parità delle opportunità. Che poi questo intendimento sia stato e venga tuttora di fatto diffusamente tradito per il modo in cui la scuola media unificata effettivamente funziona, per come i suoi dirigenti e i suoi insegnanti interpretano la loro missione, questo davvero non può essere imputato a don Milani.
Dunque, non condividi la tesi conclusiva del saggio di Scotto di Luzio secondo cui, dopo la morte del maestro, della Scuola di Barbiana non è rimasto nulla e i suoi allievi si sono ridotti ad amministrarne la memoria, un perenne e nostalgico amarcord?
Non vorrei che il mio dissenso possa apparire come una svalutazione di questo saggio, che – lo ripeto – considero tra gli studi più acuti e stimolanti usciti su don Milani in questo anno del centenario della sua nascita, scritto da uno tra i maggiori conoscitori della sua vita e della sua opera. E tuttavia, proprio per il carattere radicale della critica che contiene, esso ci aiuta a liberare il discorso sul Priore di Barbiana dai toni agiografici che prevalgono in tanti altri scritti, a rivivere per intero le asprezze e le durezze della sua predicazione; e anche a metterne a fuoco i limiti e i difetti: lo stesso don Milani era ben consapevole del nesso che legava strettamente la sua predicazione al suo tempo. Però la tesi conclusiva di Scotto di Luzio secondo cui dell’esperienza della Scuola di Barbiana non sarebbe rimasto in piedi nulla e il messaggio di Lettera a una professoressa si sarebbe rivelato del tutto sterile mi sembra davvero non sostenibile. È vero che a quel messaggio non ha giovato la lettura prevalente che ne è stata data nel Sessantotto e poi nel corso degli anni Settanta: in altre parole, non gli ha giovato un certo “donmilanismo” che è venuto diffondendosi. Ma non mi sembra che si possa ragionevolmente negare il valore e la modernità della tesi fondamentale di don Milani: quella secondo cui la vera emancipazione dei poveri sta nell’apprendimento della lingua, nell’appropriarsi della cultura e dei suoi strumenti, più e prima che nell’appropriarsi dei mezzi di produzione. Non mi sembra che si possa ragionevolmente negare l’impatto dirompente che questo messaggio ha avuto sulla cultura dell’intera Europa: prova ne sia la citazione che ne ha fatto ultimamente la Presidente della Commissione UE Ursula Von der Leyen. Del resto, quel messaggio non riguarda soltanto la missione fondamentale della scuola dell’obbligo; esso ha anche un contenuto particolare riguardante gli insegnanti e il loro compito, che conserva per intero la sua attualità.
A che cosa ti riferisci?
Tutta la vita di don Lorenzo, prima ancora che i suoi scritti, è dedicata a porre in evidenza un carattere essenziale proprio del buon insegnamento: l’amore dell’insegnante per gli allievi, che deve essere almeno pari a quello di un genitore per il proprio figlio. Non è l’amore universale per il genere umano: il Priore di Barbiana chiarisce più volte di essere capace di un amore molto più “piccolo”, limitato ai suoi ragazzi; ma è quello che genera in essi la motivazione a impegnarsi, a superare la fatica, a fare tutto quanto è nelle loro possibilità per soddisfare le attese del maestro. Qui, sì, potrebbe apparire che il messaggio di Lettera a una professoressa sia incompatibile con le caratteristiche della scuola pubblica, la quale è per definizione un’istituzione laica, fondata su meccanismi amministrativi, non su precetti etici. E invece, sorprendentemente, proprio questo aspetto essenziale dell’esperienza della Scuola di Barbiana esprime alla perfezione quello che dovrebbe costituire il nucleo essenziale del compito dell’insegnante nella scuola pubblica.
Stiamo parlando dell’amore evangelico?
No, qualche cosa di più specifico e al tempo stesso più universale; qualche cosa che l’umanità ha conosciuto perfino prima dell’amore evangelico. Parlo dell’amore del genitore per i propri figli. Pochi sanno che già nel diritto romano antico la parola “diligenza”, usata per indicare l’atteggiamento che deve connotare il comportamento di chi adempie una obbligazione contrattuale – quale è anche l’obbligazione lavorativa ed è in particolare quella dell’insegnante – è parola derivata dal verbo diligere, che – come accennavo poc’anzi – significa “amare”; già il diritto romano antico stabiliva che l’adempimento dell’obbligo deve essere ispirato non a una “diligenza” generica, bensì a quella “del buon genitore” (bonus pater familias).Non per un comandamento evangelico, dunque, ma perché lo richiede molto laicamente l’ordinamento dei rapporti civili, ciò che deve animare l’insegnante nei confronti dei suoi allievi è un amore simile a quello che un genitore nutre per i propri figli; e non l’amore di un genitore qualsiasi, ma quello di un buon genitore.
Puoi spiegare meglio questo aspetto?
Per mettere a fuoco la distanza che separa di fatto ancora la scuola dell’obbligo realizzata nell’ultimo mezzo secolo nel nostro Paese dal modello della Scuola di Barbiana da cui come si è visto in qualche modo essa trae origine, basta confrontare la “diligenza” mediamente profusa dagli insegnanti nell’adempimento della loro missione con quella del Priore di Barbiana nell’insegnare ai suoi ragazzi. Sono molti, certo, gli insegnanti che nello svolgere il loro compito esprimono la “diligenza del buon genitore”; ma sono, ahimè, più numerosi gli avari, i pigri, gli sciatti, quelli che coi propri allievi, se va bene, stabiliscono un rapporto di tiepida amicizia ma senza alcun rilevante coinvolgimento emotivo; che non muovono un dito per compensare le disparità profonde tra le famiglie che i loro allievi hanno alle spalle. La scuola stessa, come istituzione, di questo non si mostra preoccupata, non reagisce; non corregge né avarizie, né pigrizie, né sciatterie, bensì accetta che esse appartengano alla propria normalità. Così tradendo la funzione essenziale che le assegna la Costituzione: quella di “rimuovere gli ostacoli” all’eguaglianza sostanziale dei cittadini, quella di costruire la parità delle dotazioni di partenza. In riferimento a questo tradimento ha un senso affermare che della Scuola di Barbiana è rimasto poco; ma solo per dire che, per questo aspetto fondamentale, quel modello è ancora lontano dall’essere realizzato nella maggior parte della scuola pubblica italiana.
Bisogna anche riconoscere il messaggio, fortemente simbolico (anche se, talvolta, politicamente abusato) della cultura solidale espressa dal motto I care, che campeggiava nell’aula di Barbiana: non a caso, come si legge anche nel libro di Lancisi, per Don Milani i luoghi sociali per eccellenza erano, oltre alla scuola, la politica e l’attività sindacale.
“Politica”, per don Milani, è il “venirne fuori insieme” invece che ciascuno per conto proprio. In questo stava il suo “comunismo” e al tempo stesso il nocciolo della sua scuola, del suo insegnamento, che aveva per oggetto essenzialmente il “venirne fuori insieme”, sempre prendendo per mano il più debole, non lasciando indietro nessuno.
Il messaggio di don Milani sulla scuola è rivolto più ai politici che la governano o più agli insegnanti che la fanno vivere giorno per giorno?
È rivolto agli uni e agli altri, a ciascuno per la sua diversa parte di responsabilità. Ma, quale che ne sia il destinatario, il fondamento del suo appello è sempre lo stesso, di natura etica, in difesa dei più poveri e diseredati. E l’indicazione è sempre nel senso di fare della scuola dell’obbligo uno strumento di parificazione delle dotazioni di partenza. Che non significa affatto un pareggiamento del livello dell’istruzione pubblica verso il basso: semmai l’inverso.
Sono, quindi, i presupposti di una scuola laica, che contraddicono le analisi e le valutazioni fatte da Ernesto Galli della Loggia, non solo nella recensione citata all’inizio, ma anche nel suo saggio più importante su questi temi, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la scuola, Marsilio Editori, Venezia, 2019.
Nel periodo trascorso a Calenzano (quello delle Esperienze pastorali) don Milani guarda alla scuola democratica e popolare secondo il modello fatto proprio dall’ala sinistra della Democrazia Cristiana: è un dossettiano che crede fortemente nella forza trasformatrice del cristianesimo. Qui concordo con Scotto di Luzio e Galli della Loggia. La carica rivoluzionaria e la sua focalizzazione sul ruolo della scuola maturano nell’esilio di Barbiana; ma a questa carica rivoluzionaria – che certamente c’è nell’idea di scuola di don Milani – sarebbe sbagliato attribuire una valenza eversiva nei confronti dell’istituzione scolastica. La “distruzione della scuola” di cui parla Ernesto Galli della Loggia non la ha causata la Lettera a una professoressa, ma l’abdicazione da parte dello Stato alla propria funzione di garante del perseguimento dei propri obiettivi da parte del sistema scolastico.
Insomma, per dirla con le parole utilizzate da Riccardo Cesari (p. 337 e ss.), la scuola di Barbiana è stata «un granello di senape nel deserto». La Lettera a una professoressa fu accolta con grande entusiasmo e condivisione, ma anche con molte critiche, non solo negli ambienti cattolici; più di quanto fosse capitato per gli altri scritti (lo stesso Cesari, alle pp. 524 e ss., elenca un nutrito gruppo di detrattori di don Milani e della sua scuola, con dotte spiegazioni a confutazione dei loro severi giudizi critici). Una serie di critiche che sono continuate, nei tempi a seguire, dopo il ’68. Sono critiche che incidono sulla pedagogia, sull’educazione e il modo di fare scuola, o si tratta, piuttosto, di valutazioni e giudizi di carattere politico?
In questo campo tutto è (anche) politica. È politica la passione per l’emancipazione dei poveri che muove don Milani e che lui si propone di inculcare ai propri seguaci; è politica la lettura parzialmente distorta che del suo messaggio è stata dal movimento studentesco del ’68; è politica la critica di questa lettura parzialmente distorta, che finisce con l’estendersi – indebitamente, a mio avviso – al messaggio originario del Priore di Barbiana. Ed è “politica” anche qualsiasi soluzione del problema di come fare scuola, se si vuole realizzare l’obiettivo di farne il luogo e lo strumento principale di costruzione dell’uguaglianza e della libertà delle persone.
Non può essere rimproverato al don Milani del suo tempo quello che è diventato dopo il suo tempo: mito e simbolo della cultura dell’opposizione e della minoranza; una “presenza postuma”, come la definisce Scotto di Luzio, quella di un don Milani al quale si può far dire qualunque cosa, nell’ambito, però, di un dibattito al quale lui non ha potuto partecipare. Trovo, peraltro, davvero ingenerosa la critica di Scotto di Luzio per il fatto che don Milani (a suo dire citato molto ma letto poco) sia diventato mito dell’ufficialità. I riferimenti, impliciti, sono, di tutta evidenza, a quello che è successo dopo la sua morte: dal costante riferimento al suo modello di scuola nel corso degli anni, alla visita, e al discorso, di Papa Francesco sulla sua tomba nel piccolo cimitero di Barbiana il 20 giugno 2017 (non per caso, risale allo stesso giorno la visita, e il discorso, a Bozzolo, diocesi di Cremona, sulla tomba di don Primo Mazzolari) e alle numerose cerimonie per il centenario della nascita, che hanno visto, il 27 maggio 2023, la presenza a Barbiana, tra gli altri, del Presidente della Repubblica, dell’On. Rosy Bindi (nella sua qualità di Presidente del Comitato per il centenario), dei Cardinali Zuppi e Betori. Ufficialità della Repubblica Italiana, ma anche della Chiesa (dalla quale, comunque, don Milani non è mai uscito).
I profeti sono sempre molto scomodi per le istituzioni finché sono in vita, più facilmente inquadrabili nella cultura istituzionale quando non possono più parlare e della loro predicazione si può fare una citazione selettiva. Non è questo il caso del Papa, né del Presidente Mattarella, nei loro pellegrinaggi a Barbiana del 2017 e del 2023; ma nessuna delle due grandi istituzioni che essi rispettivamente rappresentano può dire di avere per davvero fatto proprio il messaggio cruciale contenuto in quella predicazione.
Tu hai conosciuto e frequentato di persona don Lorenzo Milani. Ci racconti come è accaduto?
Lui da ragazzo frequentò il liceo artistico di Brera, dove incontrò la cugina di mia madre Carla Sborgi, sua coetanea, e attraverso di lei mia madre, con la quale pure ci fu qualche frequentazione fino a quando, dopo lo scoppio della guerra, la famiglia di lei – ebrea – dovette nascondersi in montagna per sfuggire alla deportazione e lui entrò in seminario per farsi sacerdote. In quegli anni Lorenzo si era legato sentimentalmente a Carla, ma forse era stata lei a legarsi di più a lui. Fatto sta che fra di loro rimase una forte amicizia; e sul letto di morte lui la presentò agli allievi che aveva intorno dicendo “Questa è la sola persona a cui ho fatto del male”. Perché lei aveva sofferto molto della sua decisione di entrare in seminario. Quando, nel 1958, era uscito il primo libro di don Lorenzo, Esperienze pastorali, lui ne aveva inviato a lei una copia, che lei aveva prestato a mia madre. I miei genitori, attivi nel mondo cattolico progressista milanese, lessero il libro con entusiasmo e ne acquistarono 250 copie per distribuirle nei gruppi del Gallo, di Adesso e di Rinascita Cristiana, dei quali facevano parte, e nell’ambito dell’associazione Corsia dei Servi (dove qualche anno prima era approdato padre David Maria Turoldo, anche lui esiliato da Firenze su indicazione del Cardinale Alfredo Ottaviani).
Un gesto assai significativo, se si considera la disapprovazione del libro da parte della Chiesa “ufficiale”, condivisa financo da una parte della cultura liberale. Cito, fra tutti, l’articolo L’apocalisse di don Milani, pubblicato sul Corriere della Sera del 28 dicembre 1958 da Indro Montanelli (che molti anni dopo si ricrederà, chiedendosi cosa aspettasse la Chiesa a farlo santo).
Considero quella recensione, nella quale le Esperienze pastorali venivano liquidate come “baggianate, che non vale nemmeno la pena di confutare”, come l’espressione del peggiore giornalismo di Indro Montanelli: superficiale, arroccato in difesa di un quieto vivere borghese metropolitano contro qualsiasi tentativo delle “periferie” di farsi sentire, che non bastano i “dubbi” finali a riscattare. Ma torniamo alla vicenda della “diffusione militante” di quel libro da parte dei miei genitori: l’editore informò l’autore dell’acquisto di molte copie da parte di una lettrice milanese e così, quindici anni dopo la traumatica interruzione della sua relazione affettiva con Carla, mia madre e don Lorenzo tornarono a parlarsi per telefono.
E non solo per telefono, come ho letto.
Lui raccontò del suo esilio a Barbiana a mia madre, che gli chiese che cosa potesse fare per dargli una mano. Don Lorenzo chiese l’invio di libri per la sua scuola; e poco dopo chiese ospitalità per portare i suoi primi sei allievi a visitare Milano. Detto fatto, nell’aprile del 1959 le mie sorelle vennero spedite a dormire dai nonni, a casa nostra venne steso qualche materasso aggiuntivo per terra e una sera don Lorenzo arrivò da Barbiana con Aldo Bozzolini, Agostino Burberi, Giancarlo Carotti, Michele Gesualdi, Silvano Salimbeni e Giancarlo Tagliaferri. Nella settimana che passarono a Milano io venni esentato dalla scuola e mi aggregai a loro nella visita della città e di due delle sue fabbriche, la Pirelli e la Siemens. In seguito, noi andammo a Barbiana più volte e qualche volta anche lui venne a Milano ospite da noi.
La gita a Milano è descritta molto bene da Cesari (pp. 338 e ss.), che riferisce, in un altro passo del suo libro (p. 345) i sentimenti di gratitudine di don Lorenzo per Elena Pirelli Brambilla e i tuoi genitori, per aver aiutato i suoi ragazzi e averli amati «con affetto silenzioso e ritirato».
Sì; ma le sue lettere non esprimevano soltanto questa gratitudine, che pure c’era ed era viva: lui non lesinava mai, neanche nelle occasioni di un ringraziamento per l’ospitalità o il sostegno ricevuto, il sale e il pepe della sua critica nei confronti del nostro “vivere borghese”. Ed era ben consapevole della irritualità di questo coniugare il “grazie” con un “non credete però, con questo, di esservi sdebitati compiutamente”; e si giustificava aggiungendo: “se tacessi perché vi sono grato non vi farei un buon servizio!”.
Il rapporto con i tuoi genitori è legato solo a questi episodi?
No: tra lui e loro si instaurò una corrispondenza abbastanza frequente: per questioni pratiche relative al funzionamento della scuola e ai viaggi dei ragazzi, che lui ha sempre promosso con grande impegno, considerandoli essenziali per la loro formazione; ma anche per qualche grana legale in cui incorrevano i genitori dei ragazzi o altri parrocchiani, per la quale lui chiedeva aiuto a mio padre; e per i guai giudiziari che seguirono alla pubblicazione della sua Lettera aperta ai cappellani militari. Quella, come la Lettera ai giudici sullo stesso tema, noi le leggemmo in anteprima, battute a macchina su fogli di carta velina che lui aveva inviato ai miei genitori per sentirne il parere.
Un manifesto contro la guerra e a favore dell’obiezione di coscienza, che qualche anno dopo diventerà legge dello Stato.
Pensare che una persona ha potuto essere incriminata per aver scritto quello che don Lorenzo scrisse in quella Lettera aperta dà la misura dell’arretratezza politico-culturale in cui versava il nostro Paese negli anni ’60. Gli odierni critici della sua predicazione e del suo operato sembrano non rendersene conto.
Nella scuola di Barbiana eri Pierino, il primo della classe che non ha problemi a scuola; ma il Priore trepidava per Gianni, che veniva immancabilmente bocciato. Per gli studenti di buona famiglia borghese, colta e ricca, vale il punto di arrivo; per quelli poveri, di famiglie contadine e operaie, è sufficiente l’impegno messo per superare il punto di partenza per non essere bocciati. È una semplificazione che troviamo nell’analisi di Scotto di Luzio. È così?
Scotto di Luzio rimprovera al Priore di Barbiana di trepidare, sì, per tutti i Gianni della terra, ma di non avere ottenuto e lasciato loro in eredità niente di concreto che in qualche modo possa migliorare la loro condizione. A me sembra, invece, che quanto don Milani ha fatto e ha scritto abbia contribuito in modo decisivo al superamento del modello di scuola media dominante in Italia ancora alla metà degli anni ’60; che poi il modello costruito in sua sostituzione sia ancora molto difettoso è verissimo, ma non riesco a vedere come i suoi difetti possano essere imputati alle idee di don Milani.
Nel suo libro (p. 16) Lancisi, per meglio far capire il pensiero di don Milani sulla scuola, riporta quanto lui stesso ti disse in una delle vostre frequentazioni: «Scrivi bene, ma usi troppi aggettivi; gli aggettivi sono come il belletto che usano le donne per sembrare più belle; se vieni a Barbiana ti insegno a scrivere acqua e sapone, andando al cuore delle cose, senza belletto». È questo il significato della «scuola» di Barbiana? È questa la lezione di don Milani?
No: questo è soltanto un piccolo dettaglio di quanto lui insegnava. È, però, significativo della differenza tra l’italiano che mi veniva insegnato a scuola e quello che intendeva lui: il primo, una lingua strutturata per costruire belle strutture di parole con cui fare bella figura, mostrando la propria padronanza del lessico in tutta la sua ricchezza; il secondo, una lingua funzionale a comunicare in modo incisivo cose duramente concrete e utili per vivere meglio. Nel primo la ricerca della bellezza della scrittura, nel secondo la ricerca della risposta ai problemi che la vita pone quotidianamente.
Chi legge il tuo libro La casa nella pineta. Storia di una famiglia borghese del Novecento (Giunti Editore, Firenze, 2018) ha la chiara percezione che ci fosse un’affinità di fondo tra la tua famiglia e quella di don Lorenzo Milani. È così?
Certo, di affinità ce n’erano diverse: entrambe famiglie borghesi e benestanti; entrambe molto attente alla questione sociale; entrambe di origine ebraica; mia madre e suo fratello, come lui, battezzati in età adulta. Ma l’affinità che ha più colpito me e le mie sorelle è quella tra un atteggiamento di don Lorenzo subito dopo l’esilio a Barbiana e un insegnamento che la nostra nonna, Paola Pontecorvo, ci ha sempre ripetuto quando ci siamo trovati di fronte a sconfitte, incidenti di percorso, eventi sfortunati: “non puoi sapere se quel che ti accade è per il tuo bene o per il tuo male; anche perché se sarà per te fonte di bene o di male dipende per la maggior parte da te”. Quando venne spedito dall’arcivescovo di Firenze nel “non luogo” di Barbiana, don Milani rifiutò di considerare quell’assegnazione come una pena da scontare nel più breve tempo possibile, per poi voltar pagina: decise invece che lì avrebbe trascorso la parte più importante e più significativa della sua vita; e per porre un sigillo su questa decisione si affrettò ad acquistare dal Comune di Vicchio lo spazio di una tomba nel minuscolo cimitero situato subito sotto la pieve di S. Andrea. Poi fu capace di compiere il miracolo, trasformando il “non luogo” della sua punizione nel luogo di un’esperienza straordinaria, che sarebbe stata conosciuta in tutta Europa e anche oltre oceano. Per noi ragazzini questa sua scelta e il miracolo che ne è seguito era la più straordinaria conferma dell’insegnamento della nonna Paola: “se sarà per il tuo bene o per il tuo male dipende per la maggior parte da te”.
Nel 1959 avevi dieci anni. Quando don Milani è morto ne avevi diciotto. Quanto ha inciso l’averlo conosciuto e frequentato sulle scelte della tua famiglia? E quanto, in particolare, su quelle che tu hai compiuto al termine della tua adolescenza?
Sulle scelte compiute dai miei genitori, da mia madre soprattutto, incise davvero molto e profondamente: subito dopo l’istituzione dell’“adozione speciale”, che avrebbe dovuto svuotare gli orfanotrofi, lei si dedicò anima e corpo, con un gruppo di altre volontarie, al lavoro presso il Tribunale dei Minorenni perché il dettato legislativo venisse attuato effettivamente e alla diffusione dello stesso modello organizzativo presso altri Tribunali in tutta Italia; e in quel lavoro rientrava anche assai spesso il prendersi in casa i bambini che tardavano a essere scelti dalle famiglie adottive o affidatarie. Quanto a mio padre, la svolta nella sua vita in risposta alla predicazione di don Milani fu meno evidente; ma nel libro che hai citato mi sono proposto di mostrare come, per certi aspetti, quella predicazione abbia influito sulle sue scelte di vita non meno incisivamente che su quelle di mia madre.
E sulle scelte tue?
La mia adolescenza è stata segnata profondamente dall’avvertimento che don Lorenzo mi rivolse quando avevo 12 anni, riferendosi alla casa e agli agi in cui vivevo e soprattutto all’abbondanza di libri, di istruzione e di cultura di cui beneficiavo: «Per ora tutto questo non è peccato; ma da quando compirai 21 anni [allora era questa l’età della maturità], se non restituisci tutto diventa peccato»; ed è stata dedicata in gran parte a rimuginare su come adempiere questo comandamento, che lui stesso concretizzava nell’alternativa: «o fai l’insegnante, o il sindacalista». Finii con lo scegliere di fare il sindacalista e a vent’anni andai a lavorare alla Fiom-Cgil, rinunciando a entrare nello studio legale di cui i miei nonni materni e i miei genitori erano titolari. Ma uno dei temi de La casa nella pineta è quello del privilegio dal quale neppure con quella scelta sono riuscito a liberarmi: anche in seno al sindacato io ero il “bun de pena” (buono con la penna), quello che sapeva leggere, scrivere, parlare con i giudici e gli avvocati. Quello che organizzava il corso di diritto del lavoro per i delegati. Di questo privilegio non mi sono mai liberato; e lungo tutto l’arco della vita adulta ogni rinuncia compiuta in funzione del lavoro nel sindacato in quel primo decennio mi è tornata a credito raddoppiata.
Nel 1959 don Milani scrisse a tuo padre una lunga lettera che prendeva spunto dal licenziamento di un operaio della Pirelli per sostenere che il licenziamento doveva essere vietato perché è come una pena di morte; e la pena di morte non si deve infliggere neanche agli assassini. Sembra che l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori abbia costituito la risposta positiva del legislatore all’invettiva di don Milani contro la libertà di recesso del datore di lavoro. Come si concilia questo suo insegnamento con le tesi che tu hai incominciato a sostenere già negli anni ’80 e hai poi sviluppato compiutamente nei due decenni successivi, circa la necessità di superare l’articolo 18 nell’ordinamento italiano?
La risposta a questa domanda si trova nel testo stesso di quella lettera, nella quale don Milani condanna l’istituto del licenziamento: «Un atto feudale. […] Nessun motivo può intaccare i principî che un licenziamento viola. È un processo senza le garanzie che il diritto romano aveva, credo, introdotte già nel periodo repubblicano cioè prima di Cristo (te lo saprai preciso). Ma ora son passati venti secoli e il nostro senso della fraternità evangelica è stato raffinato da Dio in mille maniere. […] Per cui oggi p. es. la pena di morte che san Tommaso giustificava non trova più diritto di cittadinanza né nel nostro cuore né nel nostro cervello. E neanche un’infinità d’altri concetti antichi non valgono più o stanno disgregandosi ai nostri occhi cui Dio paternamente va allargando giorno l’orizzonte. Licenziamento è uno di questi concetti che appartenevano al mondo feudale e derivavano dall’art. 3 del codice di diritto penale della giungla».
Quello di don Milani era il rifiuto dell’assoggettamento della persona che lavora a una forma di arbitrio signorile. E il discorso si collocava in un contesto nel quale la persona licenziata aveva diritto a un’indennità di disoccupazione di entità e durata minime, con una prospettiva di durata lunga della disoccupazione. L’articolo 18 ha avuto il significato di un voltar pagina rispetto a quella situazione, all’indomani dell’autunno caldo del ’69. Ma resto convinto che non fosse quello il modo giusto di voltar pagina; e che quel modo non sarebbe piaciuto neanche a don Milani. Perché il regime di job property che da quella norma è sostanzialmente derivato nel settore privato non era suscettibile di essere esteso a tutti i lavoratori dipendenti: di fatto si è applicato soltanto a una metà di essi, scaricando tutto il peso della flessibilità di cui il tessuto produttivo aveva bisogno sull’altra metà; don Milani non avrebbe mai approvato una norma che opera necessariamente solo a favore di una parte dei lavoratori, gli insider, escludendone un’altra parte, gli outsider. Poi perché l’ingessatura dello stesso tessuto produttivo che ne derivava non faceva bene né alle imprese né ai loro dipendenti.
Oggi si parla molto di «merito», con enfasi valorizzato in ogni occasione (strumentalmente, a mio avviso), tanto da comparire anche nella denominazione dell’attuale Ministero dell’Istruzione, che, non per caso, è stata privata dell’aggettivo “pubblica”. Qual è la tua opinione in proposito?
A questo proposito, però, ricordo che don Milani ha detto: “Cari insegnanti io vi pagherei a cottimo, anzi no! Multa per ogni ragazzo che non impara una materia. Così vi svegliereste la notte a pensare al metodo migliore per insegnare anche ai ragazzi difficili, e se uno di loro non torna a scuola andreste a casa a cercarlo”. Per questo motivo non capisco la levata di scudi dell’opposizione di sinistra contro la rivalutazione del merito nella scuola, nella quale mi è parso di vedere più una reazione faziosa che la difesa di un principio “di sinistra”. È merito degli insegnanti insegnare bene, con passione e amore per i propri allievi; una scuola degna di questo nome non può essere indifferente al merito dei propri insegnanti, non può, per questo aspetto, fare… parti eguali tra diseguali senza tradire la propria missione e infliggere perdite irreparabili ai propri utenti più deboli, ai diseredati dei quali dovrebbe ricostituire l’eredità. È merito degli allievi impegnarsi al massimo delle loro possibilità nello studio, consapevoli di ciò che questo significherà per il loro futuro; una scuola degna di questo nome non può essere indifferente all’impegno dei propri allievi senza venire meno al proprio compito educativo e trasmettere loro un messaggio di disimpegno, sciatteria, disponibilità allo spreco (esattamente il messaggio che troppi insegnanti, ahimè, trasmettono con il loro comportamento quotidiano nella nostra scuola). Per questo motivo, francamente, non ho nulla contro l’inserimento della parola “merito” nel nome del dicastero competente; inserimento che, nella scuola dell’obbligo, non può significare certo una rivalutazione dell’istituto della bocciatura come strumento di selezione. Di selezione, sia pure indirettamente, parla invece l’articolo 34 della Costituzione quando fa riferimento a “capacità e merito” come criteri per l’attribuzione del diritto della persona ad accedere ai gradi più alti dell’istruzione: ma qui si parla, appunto, dell’istruzione superiore, per la quale anche don Milani riconosceva che potesse applicarsi qualche criterio selettivo.
Sei ancora in contatto con i ragazzi di Barbiana con i quali ti incontrasti all’età di dieci anni?
Soprattutto con due di loro: Agostino Burberi e Aldo Bozzolini. Collaboro con loro e con la Fondazione don Lorenzo Milani, cui hanno dato vita. Michele Gesualdi, che ne è stato presidente per molti anni, è morto alcuni anni fa. Ora è sorta la controversia di cui ho fatto cenno sopra, tra la Fondazione e le eredi – moglie e figlia – di Michele, in merito alla titolarità di una parte rilevante dell’archivio. La speranza è che a Barbiana prevalga il buon senso, il rispetto della memoria del Priore, il senso della responsabilità comune di tutti per la conservazione di questo patrimonio culturale per le generazioni future e la diffusione della sua conoscenza.
Nell’introdurre la sua Lettera ai Giudici, il Priore di Barbiana descrive la sua scuola con queste parole: «La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c'era solo una scuola elementare. Cinque classi in un'aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati. Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa. Così da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola. Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Dodici ore al giorno, 365 giorni l'anno. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell'orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico. La questione appartiene a questo processo solo perché vi sarebbe difficile capire il mio modo di argomentare se non sapeste che i ragazzi vivono praticamente con me. Riceviamo le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale, la posta. Scriviamo insieme».
Don Lorenzo Milani. Sacerdote e maestro. Un testimone del suo tempo, che interpella, anche ora, ciascuno di noi.
[1] I tre libri di Don Lorenzo Milani sono stati pubblicati (e continuano ad essere pubblicati) da una piccola casa editrice di Firenze, la LEF-Libreria Editrice Fiorentina dei fratelli Vittorio e Valerio Zani.
A cinquant’anni dalla morte, tutte le opere sono state pubblicate nell’Edizione nazionale diretta da Alberto Melloni, a cura di Federico Ruozzi e di Anna Carfora, Valentina Oldano, Segio Tanzarella, Mondadori, Milano, 2017, in due tomi della prestigiosa collana I Meridiani. Classici dello Spirito.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.
