ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Signor Ministro,
Le Sue ultime esternazioni a commento della recente ordinanza (non sentenza) delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione mi sollecitano a condividere con Lei alcune brevi riflessioni. Sarò molto schietta. Sono una ex collega e come Lei ho alle spalle lunghi anni di servizio in magistratura: tale comunanza mi induce ad esporLe direttamente e francamente il mio pensiero.
Quando Ella fu chiamata ad assumere l’incarico di Ministro della Giustizia molti accolsero con fiducia la Sua designazione, nella speranza che Ella, immune da vincoli di partito, avrebbe assolto con tempestività ed efficacia agli obblighi che la Costituzione Le assegna in tema di organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, affrontando i gravi problemi che affliggono la magistratura, nel rispetto rigoroso del principio di separazione dei poteri e con il valore aggiunto di una pregressa esperienza professionale maturata nel segno della legalità e nel culto della giurisdizione. La speranza era anche che Ella avrebbe portato all’ interno della compagine di governo la voce del diritto e la sensibilità verso i diritti fondamentali della persona che sono scolpiti nella Costituzione.
Purtroppo queste speranze sono andate deluse, ed ancor più forte è la delusione dopo il Suo recente intervento sulla ordinanza delle Sezioni Unite.
Ella ha sostenuto che «se noi introducessimo il principio che queste persone, anche entrando in Italia illegalmente, hanno diritto a risarcimenti finanziari, le nostre finanze andrebbero in rovina», ed ha aggiunto che «ci sono momenti in cui il giudice, pur mantenendo il suo rigore, deve anche avere una visione d’ insieme, che non si limiti al caso singolo».
Si tratta di un messaggio che fa certamente presa sulla collettività, ma che è falso nell’impostazione e terribilmente fuorviante per la pubblica opinione.
In realtà le Sezioni Unite hanno riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti da un solo migrante - l’ unico ad aver proposto ricorso per cassazione tra i cittadini eritrei le cui domande risarcitorie erano state rigettate dai giudici di merito - in occasione e a causa dell’ illegittima restrizione della libertà personale subita a bordo della nave della Guardia Costiera Diciotti per 10 giorni ed ha rimesso alla Corte di Appello in sede di rinvio la relativa liquidazione, che non potrà comunque superare il quantum richiesto, pari a 160 euro al giorno.
Ella ha ignorato tutto questo, scegliendo di appiattirsi sulla posizione assunta dalla maggioranza di governo, anche al suo massimo livello.
Sono consapevole che una lettura corretta di quella decisione l’ avrebbe costretta a pagare un prezzo molto alto sul piano politico, ma sono altrettanto convinta che Ella, associando la Sua voce a quella della propaganda, abbia perso un’ occasione importante per recuperare il rispetto di chi crede nella legalità e nella intangibilità dei diritti fondamentali - prima di ogni altro il diritto alla libertà personale, che è un diritto di tutti, anche dei migranti - e soprattutto per onorare quella toga che - come Ella stessa ha talvolta ricordato, non si dismette mai.
Lettera già apparsa sul quotidiano Domani il 10 marzo 2025 e qui ripubblicata con il consenso dell'autrice.
La legge della Regione Toscana sul fine-vita. Note a prima lettura.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il contenuto della legge - 3. Il quadro di riferimento normativo - 4. I precedenti giurisprudenziali - 5. Alcune osservazioni a prima lettura: è una legge costituzionalmente legittima? - 6. Conclusioni.
1. Premessa
Il tema del fine-vita torna ad occupare prepotentemente il dibattito pubblico in queste ultime settimane, a seguito dell’approvazione da parte della Regione Toscana, lo scorso 11 febbraio, di una legge ad hoc.
Come è noto, all’indomani della pronuncia della Corte costituzionale n. 242 del 2019, alcune Regioni si sono attivate al fine di giungere ad un testo normativo inteso a stabilire tempi certi e procedure uniformi per accedere all’aiuto medico a morire alle condizioni stabilite dalla Consulta.
Orbene, la Regione Toscana è stata la prima ad approvare un testo normativo in questa materia.
Come si vedrà da qui a breve, la legge appena approvata non ha avuto vita facile, tant’è vero che, a tutt’oggi, non è ancora stata promulgata.
Può essere, però, l’inizio di una nuova stagione dei diritti della persona e, in particolare, di quelli che riguardano le scelte ultime; diritti che non hanno sino ad ora trovato piena tutela da parte del legislatore nazionale.
2. Il contenuto della legge
La legge regionale, approvata dal Consiglio regionale della Toscana, è una legge di appena 6 articoli, intitolata “Modalità organizzative per l’attuazione delle sentenze della Corte costituzionale n. 242/2019 e n. 135/2024”.
Già il titolo chiarisce le finalità della legge, che sono ulteriormente esplicitate nel “preambolo” e nell’art. 1.
L’intento del legislatore toscano è, in estrema sintesi, quello di dare concreta attuazione ai principi dettati dalla Corte costituzionale in questa materia.
In particolare, come si ricorderà, con la sentenza n. 242/2019, la Corte costituzionale ha individuato una circoscritta area di non punibilità dell’aiuto al suicidio, limitandola, cioè, a quei casi nei quali l’aspirante suicida si identifichi in una persona “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Inoltre, la Corte costituzionale, con la medesima pronuncia, ha ritenuto che la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio e delle relative modalità di esecuzione debba restare affidata, in attesa dell’intervento legislativo, a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale e che, a tal fine, debba essere acquisito il parere del comitato etico territorialmente competente.
Nel preambolo della legge si precisa che “i tempi e le procedure rappresentano elementi fondamentali affinché la facoltà riconosciuta dalla Corte costituzionale sia efficacemente fruibile, accedendo a condizioni di malattia, sofferenza ed estrema urgenza”.
Il preambolo si conclude con una “clausola di cedevolezza”.
Il legislatore regionale chiarisce, infatti, che il proprio intervento in questo ambito avviene nell'esercizio delle proprie competenze in materia di tutela della salute, pur riconoscendo “la propria cedevolezza rispetto ad una successiva normativa statale che regoli la materia, fissandone i principi fondamentali”.
Possono accedere alle procedure relative al suicidio medicalmente assistito le persone in possesso dei requisiti indicati dalle sentenze della Corte costituzionale 242/2019 e 135/2024, con le modalità previste dagli articoli 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (art. 2).
Viene istituita, all’art. 3, una Commissione multidisciplinare permanente, con il compito di verificare la sussistenza dei requisiti per l’accesso al suicidio medicalmente assistito e le relative modalità di attuazione.
In base all’art. 4, la persona interessata, o un suo delegato, presenta all'azienda unità sanitaria locale competente per territorio un’istanza per l'accertamento dei requisiti per l'accesso al suicidio medicalmente assistito nonché per l'approvazione o definizione delle relative modalità di attuazione. L'azienda unità sanitaria locale trasmette tempestivamente l'istanza e la relativa documentazione alla Commissione e al Comitato per l’etica nella clinica.
La procedura per la verifica dei requisiti di accesso è assai rapida, dovendosi concludere entro venti giorni dal ricevimento dell’istanza (art. 4 bis).
Condizione per iniziare la procedura di verifica dei requisiti è che il richiedente abbia confermato la volontà di accedere al suicidio medicalmente assistito.
Acquisito il consenso dell’interessato, che deve essere espresso in modo libero e consapevole, la Commissione procede alla verifica dei requisiti, esaminando la documentazione prodotta ed effettuando gli accertamenti necessari (art. 4 bis, comma 3).
Durante questa procedura, la Commissione chiede al Comitato etico un parere, che deve essere rilasciato entro sette giorni.
Terminata la fase di verifica dei requisiti per l’accesso, la Commissione, entro i successivi dieci giorni,procede all’approvazione o definizione delle modalità di attuazione del suicidio medicalmente assistito (art. 4 ter).
Le modalità di attuazione del suicidio medicalmente assistito possono essere contenute in un protocollo redatto dal medico di fiducia dell’interessato e sottoposte all’approvazione della Commissione.
In alternativa, queste modalità possono essere definite dalla Commissione in accordo con la persona stessa. In mancanza di accordo la richiesta non ha seguito.
Le modalità di attuazione devono prevedere l’assistenza del medico e devono essere tali da evitare abusi in danno delle persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze.
L’azienda unità sanitaria locale “assicura”, nelle forme previste dal protocollo approvato dalla Commissione o dallo stesso definito in modo condiviso con la persona interessata, il supporto tecnico e farmacologico nonché l’assistenza sanitaria per la preparazione all'autosomministrazione del farmaco autorizzato. L’assistenza è prestata dal personale sanitario “su base volontaria” ed è considerata come attività istituzionale da svolgersi in orario di lavoro (art. 4-quater, comma 1):
Queste prestazioni sono gratuite (art. 5) e costituiscono un livello di assistenza sanitaria superiore rispetto ai livelli essenziali di assistenza (art. 4-quater, comma 2).
La persona in possesso dei requisiti autorizzata ad accedere al suicidio medicalmente assistito può decidere in ogni momento di sospendere o annullare l'erogazione del trattamento (art. 4 quater comma 3).
Queste le norme della legge regionale che, come si vede, interviene in una materia delicatissima, sulla quale, come detto, il Parlamento, nonostante le molteplici sollecitazioni provenienti anche dalla Corte costituzionale, è rimasto sino ad ora silente.
Si è già anticipato che, all’indomani della sua approvazione, la legge non ha avuto vita facile.
Infatti, il 16 febbraio scorso, alcuni consiglieri regionali hanno presentato un ricorso al Collegio di garanzia previsto dall’art. 57 dello Statuto per verificarne eventuali difformità con lo statuto della Regione[1]. Il Collegio ha un termine massimo di 30 giorni per decidere e, se non vi sarà una decisione negativa, la legge potrà essere promulgata.
3. Il quadro di riferimento normativo
La legge 22 dicembre 2017, n. 219, intitolata “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, contiene alcune importanti disposizioni sul fine vita, che costituiscono la cornice normativa all’interno della quale deve essere letta ed interpretata la legge della Regione Toscana.
La legge n. 291/2017 ruota attorno al punto centrale, costituito dal “consenso libero e informato della persona interessata” (art. 1), consenso che deve essere declinato nella duplice accezione positiva di accettazione del trattamento e negativa di rifiuto.
Di estrema importanza è l’art. 1, comma 5, relativo ai trattamenti di sostegno vitale, secondo cui “Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”.
Questa disposizione, unitamente alle altre contenute nell’art. 1 e nel successivo art. 2, è espressamente richiamata dalla legge della Regione Toscana.
Parimenti rilevante è l’art. 2, comma 2, che riguarda più propriamente i cosiddetti “malati terminali”: “Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente”.
Ed ancora viene in rilievo l’art. 5, comma 1, in tema di pianificazione condivisa delle cure in caso di malattia con prognosi infausta: “Nella relazione tra paziente e medico di cui all'articolo 1, comma 2, rispetto all'evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il medico e l'equipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità”.
Un altro significativo intervento in questa materia è costituito dalla legge 15 marzo 2010, n. 38, “Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”; legge che è richiamata dalla successiva l. n. 219/2017, all’art. 2, a proposito del dovere del medico di adoperarsi per alleviare la sofferenza del paziente, anche in caso di rifiuto o revoca del trattamento.
La legge, nel disciplinare l’accesso alle cure palliative e del dolore, indica, tra le sue finalità, quella di tutelare e promuovere “la qualità della vita fino al suo termine” (art. 1, comma 3, lett. b)).
In particolare, l’art. 2, comma 1, lett. a) definisce le “cure palliative” come “l'insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un'inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”.
4. I precedenti giurisprudenziali
Numerosi sono i precedenti giurisprudenziali in tema di fine-vita.
Pur volendo limitare, in questa sede, la rassegna alle più significative e recenti pronunce della Corte costituzionale, non può non menzionarsi la sentenza della Corte di cassazione sul “caso Englaro” (Sez. 1, n. 21748 del 16 ottobre 2007, Pres. Luccioli, rel. Giusti[2]), vera e propria “pietra miliare” della materia.
In quella importante sentenza, la Suprema Corte enunciò il seguente principio di diritto: “Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva 1'applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medicа nell'interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Ove l'uno o l'altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa”.
Già da una sommaria lettura del principio di diritto emerge agevolmente come quella sentenza già conteneva in nuce i principi che avrebbero, poi, ispirato il legislatore del 2017 e i successivi interventi del Giudice costituzionale, tra i quali particolare rilievo assumono la sentenza n. 242 del 25 settembre 2019[3] e la sentenza n. 135 del 1° luglio 2024[4], entrambe richiamate dalla legge in commento.
La prima sentenza – nota anche come “sentenza Cappato” dal nome dell’imputato nel giudizio penale nel quale era stato sollevato l’incidente di costituzionalità – ha avuto ad oggetto lo scrutinio della legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., (“Istigazione o aiuto al suicidio”).
La sentenza era stata preceduta da un’ordinanza (la n. 207 del 24 ottobre 2018[5]), con la quale la Corte aveva individuato una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie, corrispondente segnatamente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi in una persona “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
In quell’occasione, la Corte, facendo leva sui propri “poteri di gestione del processo costituzionale”, aveva rinviato il giudizio, lasciando pur sempre al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità.
Stante la perdurante inerzia del legislatore, la Corte, pronunciandosi con la sentenza n. 242/2019, non si è limitata a dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi dianzi indicati –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
La Corte è andata oltre e, assumendo come “punto di riferimento” la legge n. 219/2017, ha “disciplinato” un procedimento “medicalizzato” di acquisizione del consenso ad essere aiutati a morire; procedimento che è in larga parte sovrapponibile a quello previsto dalla legge regionale in commento.
Con la successiva sentenza n. 135 del 1° luglio 2024, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., (così risultante all’esito della pronuncia n. 242/2019) nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla condizione che l’aiuto sia prestato a una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale.
In questa importante pronunzia, la Corte ha chiarito la portata applicativa della nozione di “trattamento di sostegno vitale” nel cui ambito rientrano tutte “le procedure – quali, per riprendere alcuni degli esempi di cui si è discusso durante l’udienza pubblica, l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”.
Nella parte finale della pronuncia, la Corte riafferma “la necessità del puntuale rispetto delle condizioni procedurali stabilite dalla sentenza n. 242 del 2019”. “Queste condizioni – prosegue il Giudice delle leggi - sono inserite nel quadro della “procedura medicalizzata” di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017, entro la quale deve essere necessariamente assicurato al paziente l’accesso alle terapie palliative appropriate ai sensi del successivo art. 2”.
5. Alcune osservazioni a prima lettura: è una legge costituzionalmente legittima?
Si è più volte ricordato che la legge della Regione Toscana interviene in una materia sulla quale il legislatore nazionale, nonostante i moniti della Corte costituzionale, è rimasto sino ad ora silente.
La questione principale che si pone è, allora, quella di stabilire se un siffatto intervento legislativo a livello regionale sia conforme a Costituzione.
Se si riconduce la materia in oggetto nell’ambito della tutela della salute, allora si ricade nell’alveo dell’art. 117, comma 3 Cost., che disciplina la potestà legislativa concorrente delle Regioni.
L’ultimo periodo dell’art. 117, comma 3 Cost. recita: “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”.
Orbene, si potrebbe obiettare che la Regione Toscana abbia esercitato la potestà legislativa concorrente in assenza di una legge statale regolatrice dei principi fondamentali.
E questo esporrebbe la legge in esame a vizio di costituzionalità.
Sulla questione si sono registrate in dottrina due opinioni di segno diametralmente opposto.
Secondo una prima tesi[6], le Regioni avrebbero uno spazio di intervento entro le coordinate poste dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 242/2019.
In altre parole, in base a questa impostazione, si tratta di prendere atto che la cornice normativa entro cui collocare l’azione regionale può essere composta anche dalle norme enunciate in via pretoria dalla Corte costituzionale.
Le decisioni della Corte - si è osservato - soprattutto quando risolvono questioni fondamentali rispetto all’identità dell’ordinamento, rimandano ad un processo dinamico di unificazione nei valori costituzionali, cui partecipano, nei casi previsti dalla Costituzione, anche le autonomie regionali.
In questo quadro, l’intervento della Regione delineerebbe, con una disciplina di dettaglio, meramente esecutiva dei principi posti dalla Corte, una procedura organizzativa uniforme (quanto meno) sul territorio regionale. In tal modo, si eviterebbe il rischio di lasciare alle disomogenee prassi (queste sì, necessariamente frazionate) della giurisdizione e delle amministrazioni sanitarie locali l’enforcement di nuovi diritti formalmente vigenti ma non pienamente garantiti.
Esercitando la potestà legislativa in questa materia, le Regioni colmerebbero una lacuna costituzionale, un vuoto normativo che rende parzialmente inoperante un imperativo della Costituzione.
Le Regioni avrebbero, dunque, uno spazio per legiferare, in ossequio alla competenza concorrente in materia di tutela della salute.
E, tuttavia, l’intervento regionale non sarebbe libero, ma dovrebbe svolgersi entro i binari tracciati dalla stessa Corte costituzionale.
In base a questa tesi, alle Regioni spetterebbe la disciplina degli aspetti organizzativi e procedimentali, entro le coordinate poste dalla Corte costituzionale che legittimano l’accesso al trattamento.
I limiti inderogabili, sottratti alla disponibilità regionale, sarebbero, invece, dati dalle condizioni che definiscono la titolarità della libertà di autodeterminazione in ordine al suicidio assistito: la sussistenza di una malattia irreversibile, le gravi sofferenze, la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, la capacità di prendere decisioni consapevoli.
All’interno di questa opinione favorevole all’intervento legislativo regionale, si dubita che le Regioni possano prevedere un vero e proprio diritto a ricevere la prestazione da parte del Servizio sanitario regionale, attraverso l’erogazione gratuita del farmaco, del macchinario (se del caso) e dell’assistenza sanitaria funzionale all’autosomministrazione.
Più articolata è, invece, la posizione di quanti ritengono che non vi sarebbe spazio per un intervento del legislatore regionale in questa materia.
Secondo una prima tesi, per così dire, più radicale, la sentenza della Corte costituzionale, lungi dal creare una nuova prestazione sanitaria, andrebbe semplicemente a descrivere una causa di esclusione della punibilità del reato e il suo impatto sarebbe, dunque, limitato all’interpretazione della condotta nell’ambito di un procedimento penale; si tratterebbe, quindi, di materia penale soggetta in via esclusiva alla legge dello Stato ex art. 117, comma secondo, lettera l)[7].
Altra parte della dottrina[8] ritiene, invece, che i dubbi sulla legittimità costituzionale di un intervento legislativo regionale in questa materia debbano ricavarsi dal formante della giurisprudenza costituzionale relativa al riparto di competenze tra Stato e Regioni, negli oltre vent’anni di vigenza del Titolo V, che ha effettivamente adottato un approccio tendente a valorizzare maggiormente le competenze statali, dando risalto, di volta in volta, alle preminenti esigenze di eguaglianza nella garanzia dei diritti sul territorio nazionale o ad interessi unitari non frazionabili.
Giovano alle tesi contrarie alla legittimità di un intervento legislativo regionale alcune note pronunce[9] attinenti all’ambito delle decisioni di fine-vita e del consenso informato, che la Corte aveva ricondotto alla competenza esclusiva statale, determinando l’impossibilità di qualunque forma di intervento – né innovativo né meramente ripetitivo – per il legislatore regionale. la tendenza della Corte che sembra potersi registrare consiste in una interpretazione piuttosto estensiva dei principi fondamentali in materia di tutela della salute, spinta spesso sino al punto di includere anche previsioni legislative statali molto dettagliate, e nella censura di ogni intervento regionale che si discosti, anche minimamente, dalla normativa di riferimento.
La ragione di siffatto approccio consiste nella volontà di assicurare un elevato e uniforme livello di qualità dei servizi in tutto il territorio, a tutela del diritto alla salute delle persone. L’effetto collaterale generato è, però, quello di stroncare ogni slancio legislativo delle Regioni senza, peraltro, raggiungere nella sostanza il risultato di restituire agli utenti del SSN una effettiva eguaglianza nell’assistenza sanitaria offerta e prestata.
E tuttavia, si ritiene in dottrina che, non attraverso la legge regionale, bensì per mezzo di atti amministrativi[10], le autonomie territoriali possono intervenire, stabilendo gli snodi organizzativi necessari a garantire l’effettività della disciplina d’accesso al suicidio medicalmente assistito, come ricostruita dalla Corte costituzionale nelle pieghe delle fonti normative esistenti e dei principi costituzionali rilevanti[11].
6. Conclusioni
Come si è sin qui cercato di evidenziare, la legge della Regione Toscana, intitolata “Modalità organizzative per l’attuazione delle sentenze della Corte costituzionale 242/2019 e 135/2024”, si inserisce appieno nel solco tracciato dal Giudice delle leggi e contiene delle norme intese ad attuarne i principi sul piano pratico-operativo.
Pertanto, nella misura in cui non “aggiunge” sostanzialmente nulla di nuovo a quanto già affermato dalla Corte, la legge non parrebbe porsi in contrasto insanabile con la Carta costituzionale.
Il punctum crucis – non risolto e non risolvibile dalla legge regionale in assenza di un intervento legislativo a livello nazionale – è quello relativo alla enforceability del “diritto al suicidio assistito” (rectius, diritto all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale mediante l’aiuto prestato da terzi)[12].
Per meglio chiarire quanto si vuole dire, occorrerà riportare il paragrafo 6 del “considerato in diritto” della sentenza n. 242/2019: “Quanto, infine, al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”.
Il dettato normativo è in linea, del resto, con quanto previsto dall’art. 1, comma 6 della legge n. 219/2017: “Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”.
Ed è una regola – quella dell’assenza di obblighi del personale sanitario in questa materia - che riecheggia nella legge regionale in commento, laddove si afferma che l’assistenza è prestata dal personale sanitario “su base volontaria” (art. 4 quater, comma 1).
Alla luce di questi elementi sorgono alcuni interrogativi.
Può effettivamente configurarsi un diritto soggettivo in capo a chi, trovandosi nelle condizioni stabilite dalla Corte costituzionale, voglia interrompere, mediante l’aiuto di terzi, i trattamenti di sostegno vitale?
E, se sì, come può parlarsi di “diritto”, in un quadro normativo che non prevede obblighi, ma rimette la soddisfazione dell’interesse del titolare alla libera scelta dell’operatore sanitario?
Per essere ancora più chiari: come potrà il paziente portare a compimento la procedura di suicidio medicalmente assistito, se non ci sarà nessun medico “volontario”, disposto a prestargli assistenza?
Occorrerebbe, in altre parole, che il legislatore nazionale, recependo le plurime sollecitazioni della Corte costituzionale, intervenisse nella materia, introducendo una norma del tipo di quella contenuta nell’art. 9, comma 4 della l. n. 194 del 1978 (“Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza”): “Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l'espletamento delle procedure previste dall'articolo 7 e l'effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e garantisce l'attuazione anche attraverso la mobilità del personale”.
Naturalmente, in tale ipotesi andrebbe parimenti regolata l’obiezione di coscienza, sulla falsariga di quanto previsto nel sopra citato art. 9 della l. n. 194/1978.
Diversamente, i principi enunciati dalla Corte costituzionale, ancorchè recepiti attraverso una normativa di dettaglio dalle singole Regioni, rischierebbero di rimanere “lettera morta”, essendo rimessa alla “buona volontà” degli operatori sanitari la relativa attuazione.
Si tratta – va da sé – di uno scenario normativo auspicabile, ma, se non irrealistico, quantomeno di difficile realizzazione nell’immediato.
Consapevole di queste difficoltà connesse all’ “enforceability” è il recente decreto 13 febbraio scorso del Tribunale di Firenze (Pres. Guttadauro, est. Sturiale)[13], con il quale il Collegio toscano – proprio negli stessi giorni in cui veniva approvata la legge regionale in commento – ha pronunciato, in sede di reclamo cautelare, sulle richieste, negate in prime cure, di una donna che chiedeva all’ASL competente di a) concludere la fase esecutiva della procedura di suicidio medicalmente assistito, e quindi di mettere a disposizione della ricorrente il farmaco letale, il suo dosaggio, la metodica di autosomministrazione nonché di individuare il personale sanitario, su base volontaria, che assisterà G.S. nella fase di autosomministrazione dello stesso farmaco letale”; (b) “di fornire il farmaco letale e la strumentazione utile alla sua autosomministrazione non appena la signora G.S. avrà deciso di procedere con la fase finale della procedura di suicidio medicalmente assistito”; (c) “di consegnare il farmaco letale al medico individuato e che presterà la propria assistenza durante la fase di sua autosomministrazione”.
Il Collegio toscano – nel decidere la controversia, sia pure ai soli fini della soccombenza virtuale, essendo medio tempore deceduta la ricorrente – si è posto la domanda che va “dritta” al cuore del problema: “È da chiedersi, cioè, se a fronte di un diritto assoluto e personalissimo qual è quello all’autodeterminazione terapeutica sussista un dovere delle aziende sanitarie locali di collaborare con la persona consentendole l’esercizio effettivo, dignitoso e libero del proprio diritto. E se sì, quale sia il limite entro cui detta collaborazione debba esplicarsi”.
La risposta del Collegio toscano è positiva per due ordini di ragioni.
In primo luogo “poiché è coerente con la funzione assegnata alle Aziende Sanitarie Locali nel meccanismo di verifica delle condizioni entro cui il medico che assiste le persone che intendono procedere a SMA dalla Corte Costituzionale con la sentenza 242/2019 è scriminato”. “Se infatti – prosegue il Tribunale fiorentino - il compito assegnato dalla Corte Costituzionale alle strutture pubbliche è quello di evitare abusi in danno delle persone vulnerabili, nonché di garantire la dignità del paziente ed evitare al medesimo sofferenze ne consegue che l’attività di verifica sulle modalità esecutive non può esaurirsi in un controllo generico e astratto sulle modalità proposte, ma deve intendersi volta anche a rendere fattivo il progetto proposto”.
“In secondo luogo, anche in attuazione dell’art. 3 della Costituzione. Se come si è detto l’esercizio di un diritto fondamentale – come è quello di autodeterminazione terapeutica – rappresenta un esplicazione della persona umana allora era compito dell’USL TOSCANA CENTRO eliminare gli ostacoli che si frapponevano alla realizzazione di tale diritto mettendo a disposizione di G.S. tutto il materiale farmacologico non reperibile sul mercato e le strumentazioni ospedaliere per lei necessarie al fine di porre in essere una procedura giudicata idonea e legittima dalla stessa reclamata”.
Dunque, si può dire che, assai più efficacemente della legge regionale, il Tribunale fiorentino ha fornito una soluzione giurisprudenziale al problema dell’enforceability del “diritto al suicidio assistito”, facendo applicazione diretta dei principi della Carta costituzionale[14].
L’auspicio è che, come si diceva in incipit, sia l’inizio, pur in tempi così difficili, di una nuova primavera dei diritti della persona.
[1] Il Collegio di garanzia, previsto dall’art. 57 dello Statuto, è disciplinato dalla legge regionale 4 giugno 2008, n. 34.
[2] In Il Foro It., 2008, 9, 1, 2609.
[3] In Corriere Giur., 2020, 2, 145, nota di BIANCA.
[4] In Dir. Pen. e Processo, 2024, 10, 1272.
[5] In Fam. e Dir., 2019, 3, 229, nota di FALLETTI.
[6] C. CARUSO, Al servizio dell’unità. Perché le Regioni possono disciplinare (con limiti) l’aiuto al suicidio, in Il Piemonte delle Autonomie, 2024, n. 1-2024, pagg. 8 e ss.
[7] In tal senso anche G. RAZZANO, Le proposte di leggi regionali sull’aiuto al suicidio, i rilievi dell’Avvocatura Generale dello Stato, le forzature del Tribunale di Trieste e della commissione nominata dall’azienda sanitaria, in Consulta Online, 1, 2024, 84.
[8] L. BUSATTA, Come dare forma alla sostanza? Il ruolo delle Regioni nella disciplina del suicidio medicalmente assistito, in Osservatorio costituzionale, 2024, 184 ss.
[9] Si citano, al riguardo, Corte cost., sentenza. n. 195 del 9 ottobre 2015, che, affrontando il caso relativo alla legge calabrese sulla donazione degli organi, dichiarò incostituzionale l’intera disciplina regionale, mera novazione della fonte statale, stabilendo che il tema attiene ad un ambito di competenza esclusiva dello Stato che, come tale, esclude la legge regionale. Poco tempo dopo, con riguardo all’istituzione di un registro regionale delle dichiarazioni anticipate di trattamento, Corte cost., sentenza n. 262 del 14 dicembre 2016, affermando la necessità di uniformità di trattamento sul territorio nazionale per ragioni imperative di eguaglianza, ricondusse la materia all’ordinamento civile, spettante in via esclusiva al legislatore statale.
[10] In questa direzione si è mossa la Regione Emilia-Romagna, mediante la DGR n. 194/2024, che ha istituito il Comitato Regionale per l’Etica nella Clinica (COREC) con la funzione, tra le altre, di rendere i pareri previsti dalla sentenza. Ad esso è seguita la determinazione della Direzione generale Cura della persona, salute e welfare n. 2596/2024, Istruzioni tecnico-operative per la verifica dei requisiti previsti dalla sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019 e delle modalità per la sua applicazione, che si occupa di descrivere l’iter per dar seguito alle richieste di assistenza al suicidio
[11] L. BUSATTA, op. cit., pag. 188.
[12] Nel dibattito successivo alla sentenza n. 242/2019 non sono mancate voci che hanno declassato il suicidio medicalmente assistito a una “possibilità di fatto”, una mera liceità cui corrisponderebbe la scriminante a favore del soggetto che agevola la morte prematura: in tal senso, G. RAZZANO, Nessun diritto di assistenza al suicidio e priorità per le cure palliative, ma la Corte costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama «terapia» l’aiuto al suicidio, in Dirittifondamentali.it, 1/2020, pp. 18 e ss., Id., Le proposte di leggi regionali sull’aiuto al suicidio, i rilievi dell’Avvocatura generale dello Stato, le forzature del Tribunale di Trieste e della commissione nominate dall’azione sanitaria, in Consulta Online, 1/2014, 69 e ss.; M.G. Nacci, Il contributo delle regioni alla garanzia di una morte dignitosa. note a margine di due iniziative legislative regionali in tema di suicidio medicalmente assistito, in La Rivista “Gruppo di Pisa”, 1/2023, pp. 93 e ss. In senso contrario C. CARUSO, op. cit., p. 10, secondo cui non si tratterebbe di mera “libertà di fatto”, ma di un agere posse, una vera e propria pretesa, giuridicamente assistita, a porre fine alla propria vita tramite l’ausilio di terzi.
[13] Di prossima pubblicazione sulla rivista online “Il Quotidiano Giuridico”.
[14] Sulla possibilità di diretta applicazione giurisdizionale della Costituzione si rimanda, ex aliis, a E. SCODITTI, Diretta applicazione della Costituzione da parte del giudice o necessario incidente di costituzionalità nel caso di lacuna legislativa, Relazione presentata all’incontro di studi, in occasione del novantesimo compleanno di Nicolò Lipari, su “Diritto e ragione” (Bari 18-19 aprile 2024). Lo scritto, destinato alla pubblicazione degli atti dell’incontro di studi, è pubblicato anche in Questione Giustizia del 29 aprile 2024.
E il mio maestro mi insegnò come è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire.
I 50 anni della legge 8 marzo 1975, n. 39
La legge 8 marzo 1975, con lo spostamento della maggiore età da 21 a 18 anni, estese il suffragio a migliaia di giovani e ne sancì così l’ingresso nella vita attiva del Paese, modificando gli equilibri elettorali e ridefinendo il peso reciproco delle diverse componenti della società civile. Quella evoluzione si rendeva necessaria perché i giovani avevano acquisito e facevano sentire una voce propria, e perché il funzionamento della democrazia nella sua fase forse più matura fornì alla politica la capacità e gli strumenti per non ignorarla. Cinquant’anni in più pesano oggi sulle spalle della nostra democrazia, che non sembra invecchiata molto bene. Non sempre gli anniversari sono giorni di autocelebrazione, talvolta portano in sé amare prese d’atto. Tuttavia, esattamente a questo servono, ricordarci a che punto siamo della storia.
Sommario: 1. I diciott’anni della democrazia italiana - 2. Ordine contro caos e le regole del gioco - 3. Piani inclinati - 4. L’imbrunire della democrazia - 5. Che fare?
1. I diciott’anni della democrazia italiana
L’uscita dalla minore età, dal punto di vista semantico, giuridico e simbolico, è la fine brusca della soggezione a controllo, e al tempo stesso a protezione e tutela. Lasciare contemporaneamente il comfort delle spalle coperte e il fastidio del fiato sul collo, accedere con un unico passo trepidante alla libertà ed alla responsabilità adulta. Idealmente, auspicabilmente, avendo prima potuto sperimentare entrambe in un contesto assistito e sorvegliato. Un contesto che deve essere predisposto da fuori, e se non lo è (poiché ciò presuppone coscienza e lungimiranza del fuori), deve essere organizzato da dentro. E se non lo è (poiché ciò presuppone coscienza e lungimiranza del dentro), la maggiore età resta un orpello vuoto, pericoloso per chi lo detiene, e per gli altri[1].
Le ragazze e i ragazzi tra i 18 e i 21 anni che, tutti insieme, nel 1975 diventarono maggiorenni avevano fatto esercizio di partecipazione nei movimenti giovanili e studenteschi, moti spontanei di aggregazione di portata intercontinentale, potenti e rumorosi come la giovinezza. In quei contesti di ribellione organizzata al carattere autoritario di alcune istituzioni sociali, quelle ragazze e quei ragazzi per la prima volta si percepivano – e quindi erano – un gruppo sociale autonomo. Chiari gli elementi che lo identificavano: il carattere enfatico delle loro forme aggregative; il contenuto provocatorio della loro semantica rispetto alla morale tradizionale; l’internazionalismo; la politica come valore in sé.
E poiché il riconoscimento di sé coincide spesso con la capacità di riconoscere gli altri, quei movimenti si imposero all’attenzione pubblica anche per la contiguità con gruppi tradizionalmente strutturati. Nelle stesse sedi si facevano lotte trasversali per i diritti di tutte le minoranze, i femminismi, le istanze di operai e braccianti, pienamente consonanti con quelle studentesche o comunque col loro sostrato ideologico e filosofico. Il conflitto generazionale si legava a quello sociale, gli avversari delle proteste non erano solo controparti politiche, ma anche i gruppi di potere (economico) ritenuti in contrasto con l’interesse del popolo, e quindi avversari comuni di tutte le sue componenti.
L’ascesa delle sinistre in quegli anni (il quasi sorpasso del PCI sulla DC) conseguì alla capacità di alcuni suoi esponenti di sintonizzarsi su questo sentire, di raccogliere la spinta che veniva dal basso e sfruttarne la potenza.
C’era una componente utopistica nei moti giovanili degli anni ‘70, la componente di illusione che la gioventù consente, ma il potere della spinta fu reale, e condusse alle numerose riforme di quegli anni. La riforma tributaria, lo Statuto dei lavoratori, la legge sul divorzio, l’istituzione degli asili nido, la riforma del diritto di famiglia, del diritto penitenziario, la parità salariale, l’equo canone, l’istituzione del servizio sanitario nazionale, per citarne soltanto alcune. L’adeguamento progressivo dell’ordinamento giuridico alle istanze sociali era una conseguenza del buon funzionamento del motore politico della democrazia, affondava le radici in quella rinvigorita coscienza di classe[2] e nella capacità di alcune forze politiche di mettersi in ascolto di essa.
Autocoscienza e ascolto funzionavano: creavano un movimento ascendente capace di far emergere, rimescolandole e lavorandole nelle sedi collettive, istanze popolari schiette, reali, di intercettarle e farle confluire nel discorso pubblico, di trasformarle in misure concrete di avanzamento dell’ordinamento verso forme sempre più egualitarie ed inclusive, quindi sempre più democratiche.
La democrazia stessa, letteralmente potere al popolo, implica del resto la coscienza in capo al popolo di averlo, quel potere. E il popolo, in quanto soggetto collettivo, plurale, ontologicamente complesso e contraddittorio, non può avere consapevolezza di sé se non costruendola in spazi condivisi, attraverso la discussione e il dialogo, il confronto e la sintesi, esercizi faticosi e complessi, non sempre lineari nelle forme e negli esiti[3].
La complessità di funzionamento di un popolo attivo ed autocosciente si manifestava in quegli anni anche in forme violente. In parte erano un’espressione, estrema, della carica di aggressività implicita nell’azione dei movimenti, e di alcune assonanze tra la componente culturale marxista e certe idee anarchiche. Per la restante parte, tuttavia, la violenza fu anche, innegabilmente, una reazione sgomenta al potere trasformativo dell’autocoscienza popolare, un tentativo di sedarla. E ciò perché il fervore politico (non solo giovanile) era visto come pericolosissimo da quelle frange della popolazione e delle istituzioni che non avevano mai smesso di aderire all’ideale di un ordine artificioso, semplificato, come era stato quello del regime fascista[4]. Un ordine intrinsecamente violento, necessariamente imposto con la forza, a causa della sua innaturalità e della conseguente fatica a contenere le multiformi ribellioni quotidiane di cui la vita è fatta, specie quando costretta.
2. Ordine contro caos e le regole del gioco
Democrazia, come del resto ormai compiutamente teorizzato, è concetto tendenzialmente antitetico a quelli di ordine e disciplina: la democrazia è strutturalmente caotica, contraddittoria, scomposta nelle modalità di funzionamento. Lo stesso meccanismo elettorale altro non è che la presa d’atto del limite ontologico della sovranità popolare: proprio la pluralità di anime che compongono il popolo, soggetto collettivo titolare del potere, impone che a un certo punto si sospenda l’incedere del confronto dialettico, altrimenti inesauribile, e ci si conti. E allora le modalità di questa conta sono massimamente rilevanti.
La storia del suffragio e del suo progressivo allargamento è infatti la storia del progredire della società italiana verso forme sempre più compiute di democrazia. Dal diritto di voto ristretto ai cittadini maschi individuati su base censitaria dello scenario post-unitario[5] – segno di una società stratificata e divisa –, all’allargamento, nel 1882[6], a tutti i cittadini alfabetizzati in risposta alle istanze popolari, all’estensione del diritto di voto a tutti i cittadini di sesso maschile nel 1912[7]. Con la successiva estensione alle donne, avvenuta soltanto nel secondo dopoguerra e con lo shock della guerra alle spalle, il suffragio divenne finalmente universale. Furono quindi infine tutte le componenti sociali ad eleggere nel 1946 l’Assemblea Costituente[8]. Di lì, il cammino è proseguito con la necessità di dare forma e vita alle istituzioni ed ai principi che in base alla Carta compongono l’ordinamento repubblicano, ed in quel solco si colloca la legge 8 marzo 1975, n. 39[9]. Dal punto di vista del suffragio, essa costituisce il punto ad oggi più alto del percorso di concretizzazione del principio costituzionale della sovranità popolare, ridefinendo dall’interno, in senso ampliativo e fortemente simbolico, il concetto stesso di popolo.
La storia del suffragio va letta in parallelo con quella dei sistemi elettorali, che pure ben racconta il percorso attraverso ed oltre l’esperienza fascista. Fin dagli albori del ventennio il tema fu attenzionato: il sistema plurinominale e proporzionale del Regno d’Italia in vigore al 1919[10] venne scalzato dalla legge uninominale del 1925[11] – mai attuata – e poi dall’aberrante sistema plebiscitario del 1928[12], fino alla completa obliterazione del passaggio elettorale a fronte della sostituzione, dal 1939 al 1943, della Camera dei Deputati con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, i cui componenti non vi era necessità di scegliere. Reazione del tutto naturale a quel vuoto fu l’opzione per il sistema proporzionale puro compiuta con la legge elettorale del 1946[13], inizialmente prevista per l’elezione dell’Assemblea Costituente avvenuta il 2 giugno di quell’anno, e successivamente adottata come disciplina per l’elezione dei membri della Camera dei Deputati[14]. La legge è rimasta in vigore per quasi 50 anni, tanto solida fu la ratio sottesa. È emblematico che, rispetto alla scelta di campo in favore del proporzionale, l’inserimento (mai attuato) di un premio di maggioranza nel 1953[15] fu percepito come talmente oltraggioso nei confronti della base democratica della neonata repubblica che il relativo provvedimento passò alla storia come “legge truffa”.
L’ampiamento del suffragio arrivò quindi in un quadro di acquisita affermazione e ferma difesa della rappresentatività come elemento fondamentale dell’ordinamento repubblicano, in un contesto di ormai pieno compimento del disegno costituzionale attraverso la progressiva costruzione del nuovo assetto istituzionale (la Corte Costituzionale nel 1956, il CNEL nel 1958, il CSM nel 1959). Eppure, un altro importante elemento di contesto è l’interessamento internazionale sulla situazione italiana negli anni ’70, che pure aveva molto a che fare con i risultati elettorali: ragion d’essere di quell’interessamento era infatti la paura che il comunismo prevalesse, assurgendo a forza di governo, e mettendo di nuovo in discussione i principi democratici per la sua vocazione ritenuta intrinsecamente totalitaria[16].
Ma il comunismo berlingueriano era quello che invocava la collaborazione di tutte le forze democratiche alla guida del paese, affermando la pericolosità di un governo delle sole sinistre per le sorti della democrazia italiana poiché, nonostante il PCI al 34%, le forze di sinistra avrebbero avuto, se del caso, una maggioranza assoluta troppo risicata, e non bastava: serviva un governo che avesse un consenso di molto superiore al 51%, che avesse la forza di consolidare e difendere le conquiste democratiche. Serviva agire col sostegno della maggioranza delle forze popolari, e quindi serviva l’unione dei partiti che le rappresentavano. L’invito al compromesso storico non era nei confronti della DC, ma nei confronti di tutti. Il governo doveva, quanto più possibile, rispecchiare il popolo. La rappresentatività non riguardava quindi solo il Parlamento. Non è più tempo della rivoluzione delle minoranze, diceva Berlinguer; egli voleva fare la rivoluzione delle maggioranze[17].
La posizione meno totalitaria che potesse assumersi, e che valse al PCI contestazioni dall’interno, dal basso, dagli stessi movimenti studenteschi. Con gli occhi di oggi, allora, la premura che l’attenzione internazionale riservava all’Italia sembra piuttosto rivolta al rischio che il partito comunista al governo potesse interferire con l’indisturbato sbocciare del neoliberismo capitalista.
3. Piani inclinati
La nostalgia per quell’energia, per quel fervore, per quel sano rapporto tra un popolo tumultuoso e ribelle e una politica in ascolto, pacata e lungimirante è inevitabile a fronte delle successive involuzioni.
Se le regole del gioco contano, significativamente la seconda repubblica si aprì con la riforma elettorale maggioritaria del 1993[18], dopo l’abrogazione referendaria del sistema proporzionale per il Senato, nel nome della governabilità e in risposta all’instabilità che la rappresentatività portava con sé. Ancora in nome della governabilità, le successive riforme della legge elettorale hanno sempre mantenuto, come costante, la presenza di un premio di maggioranza e di soglie di sbarramento, pur sulla base proporzionale, comunque distorta dall’introduzione di liste o capilista bloccati[19], non facendo eccezione il sistema misto della legge attuale[20].
Sembra che la sempre maggiore complessità del reale abbia richiesto a un certo punto di reintrodurre forme di semplificazione. Ma comprendere quale sia la causa e quale l’effetto non è agevole. Lo sviluppo tecnologico e l’evolvere delle modalità di comunicazione e informazione, se sotto alcuni aspetti hanno progressivamente accentuato tale complessità, dall’altro hanno costituito di per sé un formidabile ulteriore strumento di semplificazione dei meccanismi interni di funzionamento della società, nonché dei meccanismi di pensiero del popolo che la compone. L’effetto più evidente, carico di implicazioni, è il progressivo sostanziale venir meno della funzione dei corpi intermedi, che rende l’individuo solo e svuota la dimensione collettiva, facendo virare il popolo verso forme più o meno coscienti e sempre meno reversibili di individualismo psicologico ed ideologico. All’esercizio difficile dello stare insieme si è sostituito il picco glicemico della apparente libertà assoluta di scelta, della apparente accessibilità diretta dell’informazione, dell’apparente rapporto immediato col potere di riferimento.
Si è così prodotto un inevitabile slittamento da forme di partecipazione attiva del popolo al dibattito pubblico, necessariamente collettive, e forme di adesione individuale (la somma delle quali non crea per ciò solo una collettività) a contenuti preconfezionati, cui prestare semplicemente un consenso (chiamato suggestivamente scelta), senza alcuna possibilità di sindacare né tantomeno alcun potere di interferire con il processo di elaborazione di essi.
Altro elemento caratterizzante la seconda repubblica è, non a caso, costituito dalla centralità dello strumento televisivo nell’orientare i costumi (e le scelte) della popolazione, strumento poi progressivamente soppiantato da altri ancor più efficaci nel mantenere la presa dell’offerta sulla domanda.
Una virata talmente forte da meritare il nome che dovrebbe, nel gergo costituzionalistico, indicare una forma di stato analoga alla precedente ma intrinsecamente diversa nel suo assetto istituzionale, di norma quindi nata da un processo di revisione costituzionale; in Italia la televisione, il bipolarismo e qualche altro dettaglio, tra cui la coincidenza tra potere politico, mediatico ed economico, bastarono ampiamente ad imprimerla.
Nello slittamento dalla rappresentatività alla governabilità, dalla partecipazione al consenso (spesso mascherato da partecipazione in forme plebiscitarie), risiede la crisi del motore politico della democrazia[21], di quella capacità di sintonizzarsi sulle esigenze del popolo e dar loro attuazione.
Questa incapacità si manifesta in una resistenza a riconoscere le istanze sociali, anche quando sono evidentissime, anzi in una insofferenza sempre meno celata verso di esse.
Al movimento ascendente sperimentato proficuamente negli anni ’70 si contrappone da tempo, e oggi con evidenza, un sempre più evidente movimento discendente: quello di una politica che dice al popolo anziché ascoltarlo, che ne dirotta l’attenzione o i mal di pancia dove meglio ritiene, che cerca di spiegargli quali debbano essere le sue stesse esigenze. Un plusmaterno[22] statuale, rectius governativo, che dice al popolo anche, soprattutto, cosa debba temere, per ripristinare una soffusa sensazione di minorità che depotenzi eventuali slanci di autocoscienza in favore di un’insicurezza bisognosa di tutela. Un fenomeno studiato a livello psicologico come generativo di dipendenze.
Riemerge allora con evidenza la verticalità deteriore del rapporto di potere autoritario che il quadro repubblicano intendeva scalzare: se al popolo inteso come moltitudine[23] si sostituisce la plebe del plebiscito, la massa indistinta delle iconografie totalitariste, da soggetto detentore della sovranità questo ridiventa soggetto dominato.
Tornando al suffragio: in questo quadro di svuotamento sotterraneo dell’art. 1 della Costituzione, quale sia la composizione dell’elettorato non interessa minimamente ai governanti, che tanto decidono da soli quali siano le istanze meritevoli. Non sembra che ci siano i presupposti per sperare in nuovi adeguamenti del concetto di popolo includendovi le nuove componenti che ad oggi, innegabilmente non fosse per ragioni statistiche, lo compongono. Le istanze dei giovani, ad oggi gli infrasedicenni ed il loro futuro già segnato da una demografia spietata, quelle di ogni straniero che qui vive e lavora e beneficia – anche grazie a tanta giurisprudenza – degli stessi diritti sociali dei cittadini, le istanze di questo popolo che materialmente, fisicamente, esiste, sono testardamente tenute fuori dal gioco democratico.
Di più: al depotenziamento dei corpi intermedi si affiancano misure che hanno l’effetto, e quindi presumibilmente lo scopo, di mantenere e talvolta accentuare frammentazioni e differenze, censitarie, geografiche, fiscali, spaccando dall’interno il popolo stesso.
Mentre si indebolisce la forza politica propulsiva del popolo (l’autocoscienza e gli habitat in cui questa si crea) si bada ad evitare che esso inglobi nuove energie, e si lavora intanto a massimizzarne la frammentazione.
Una democrazia a bassa partecipazione, come quella invocata dalle aristocrazie europee all’indomani della Seconda Guerra Mondiale[24], all’epoca dichiaratamente pensata per salvaguardare gli interessi delle élites. Oggi, a chi giova?
4. L’imbrunire della democrazia
Questa riflessione muove dalla celebrazione di un anniversario, e allora urge chiedersi a che punto siamo.
L’Italia è di nuovo oggetto dell’interesse internazionale, questa volta per il suo posizionamento, nelle sedi ufficiali, accanto a paesi autoproclamati illiberali o fortemente in odore di esserlo sebbene formalmente democratici, che si sostengono a vicenda nel propugnare un modello di stato prospettato come alternativo (ancora l’illusione della scelta) rispetto alle forme consolidate della democrazia costituzionale, per mascherarne il carattere antitetico rispetto ad esse.
I sistemi statuali oggetto di regressione democratica (in base a processi dissimili, ma con esiti univoci) sono oggetto di attento studio da parte dei costituzionalisti[25]. Ne emerge un modello il cui carattere insidioso consiste nel mantenimento formale di alcuni passaggi fondamentali della democrazia – primo fra tutti il momento elettorale – che sono tuttavia svuotati dall’interno al fine di rendere sempre più accentrato e forte il potere: nell’aggiramento del dibattito parlamentare attraverso l’abuso di forme di decretazione d’urgenza o di istituti come la fiducia, nel mantenimento formale delle istituzioni di garanzia e di controllo, che sono tuttavia fatte oggetto di boicottaggio, di delegittimazione o di cattura, o tutte e tre le cose insieme.
Un ulteriore elemento connota questi sistemi, a fronte del formale mantenimento delle libertà: l’indole repressiva, securitaria, che ad ogni manifestarsi di disagio sociale, ad ogni rivendicazione, ad ogni istanza di tutela risponde come ad un problema di ordine pubblico da risolvere. Si è persa la capacità di distinguere i profili di illegalità, da trattare con proporzionalità di risposta, dal caos immanente nella democrazia, sintomo di salute, da non toccare, da salvaguardare. Al contrario, nella sforzata sovrapposizione tra stato e governo, il dissenso popolare non è concepito come un fisiologico pezzo dello stato stesso, ma come un nemico. E quando la repressione avviene nei confronti dei più giovani, nell’esercizio del loro tirocinio alla cittadinanza, diventa chiaro che si è perso di vista l’obiettivo di una loro inclusione nel concetto di popolo[26].
Il securitarismo rende evidente quanta insofferenza i governi interessati da queste regressioni nutrano per il disordine proprio della democrazia. Ma allora, per dirla con Zagrebelsky, essi nutrono insofferenza per la democrazia stessa[27].
E non si dica che la democrazia, per il suo strutturale relativismo, è idonea ad includere anche i fascismi: tale relativismo vale per ogni cosa, tranne che per i principi fondamentali della democrazia stessa, ossia l’uguaglianza sostanziale tra tutti gli uomini, ed i suoi corollari[28]. E non può quindi includere voci come quelle che in Italia, negli anni ’70, si opponevano expressis verbis al compiuto dispiegarsi dei principi costituzionali, affermando apertamente che la democrazia parlamentare fosse ideologicamente da avversare, voci per le quali il suffragio universale era sbagliato, poiché non credevano nell’uguaglianza degli uomini, credevano invece nelle differenze[29]. E che, negli anni ’80, invocavano una revisione costituzionale come presupposto necessario per la costruzione di una alternativa di destra che nel quadro repubblicano non era ritenuta ipotizzabile, evidentemente in quanto considerata con esso incompatibile, sostenendo il fallimento ed invocando la fine della prima repubblica[30].
Ironia della sorte, la prima repubblica finì per ragioni ben diverse ed a Costituzione invariata, ma la seconda si aprì nel segno della sovrapposizione tra potere economico e potere politico, e il resto è storia.
La convergenza tra potere politico ed economico è ormai consueta, e solo occasionalmente se ne percepisce il lato grottesco. I grandi magazzini aperti e con le luminarie di Natale accese, nel centro di Kiev, durante le ore di razionamento energetico, mentre la popolazione resta al buio[31]. Ma sono a disposizione esempi ben più vistosi.
La cattura da parte del potere economico di quello politico è tale per cui non si può neppure più parlare di convergenza di interessi bensì, troppo spesso, di coincidenza. Il che esclude che la politica possa fare quello che dovrebbe, ossia l’interesse del popolo.
Se l’emergere oggi di nuovi autoritarismi è un pericolo concreto è proprio perché si tratta di un modello simbiotico al più forte potere esistente su scala globale, quello economico appunto.
A differenza dei totalitarismi tradizionali, i modelli politici di cui si discute non ambiscono affatto ad accentrare i mezzi di produzione e a controllare l’economia. Al contrario, lo Stato come attore economico e come attore sociale è regressivo, affidando fette sempre più ampie di servizio pubblico al mercato. Il welfare non viene debitamente sostenuto, anzi è minato alle fondamenta attraverso misure che favoriscono l’ingresso di interessi privati.
Le ragioni del capitalismo e dell’autoritarismo oggi convergono perché condividono un interesse primario: quello all’indebolimento del popolo e del suo senso critico. L’accentramento del potere beneficia infatti, anzi necessita, della massa di consumatori instupiditi dai social network che il secondo ha creato, e così (solo così) può affermarsi; il capitalismo beneficia dell’erosione del pubblico e del conseguente deserto valoriale, dove qualsiasi prodotto può essere piazzato più facilmente per mancanza di alternative. Dove l’autoritarismo vede sudditi il capitalismo vede consumatori, entrambi concetti in antitesi con popolo. Concetti imperniati sull’individuo, autoreferenziale e privo della capacità di riconoscersi nell’altro a meno che questo sia identico a sé. L’identitario è l’opposto del collettivo, che presuppone differenze a confronto, l’emergere di nuclei di valorialità che possano poi essere aggregati attraverso la volontà[32], la capacità di intessere convergenze, la fatica che ciò comporta, l’imperfezione e l’approssimazione che implica.
5. Che fare?
Che possibilità hanno, in questo quadro, le proposte di ulteriore allargamento del suffragio? Non molte, e infatti le iniziative tentate in questa direzione sono tutte naufragate. Così i disegni di legge per l’attribuzione della maggiore età ai cittadini che abbiano compiuto 16 anni del 1997[33] e poi del 2007[34], quelli per il riconoscimento della cittadinanza ai bambini nati in Italia (ius soli), o che qui avessero completato uno o più cicli di studi frequentando le istituzioni scolastiche per almeno 5 anni (ius scholae)[35]. Si tratta ancora, sempre, di proposte di un allargamento verso il basso del suffragio, in funzione riequilibratrice della rappresentanza rispetto al dato reale. I giovani cui si nega il suffragio portano oggi uno specifico messaggio culturale: l’ambientalismo, la parità di genere e la non binarietà dei generi, ma anche temi relativi al mercato del lavoro ed alle politiche previdenziali. Istanze difficili, che potranno rimanere legittimamente secondarie nell’agenda fintanto che molti dei loro titolari sono mantenuti fuori dall’elettorato. Il tema è oggi rilanciato con il referendum sulla cittadinanza, il cui quesito è stato approvato con Sentenza della Corte Costituzionale dello scorso 7 febbraio 2025[36], volto ad abbassare da 10 a 5 anni di residenza il tempo necessario per poter chiedere ed ottenere la cittadinanza. Un’occasione per chiamare il popolo a far sentire la propria voce sull’idea che esso ha di sé stesso, che segna un fallimento della politica che non è riuscita a dare risposte in sede parlamentare, un’occasione cui si spera il popolo arrivi pronto.
E il mio maestro mi insegnò come è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire, dice una vecchia canzone, eppure è indispensabile tentare. Percepire l’urgenza di un cambiamento rispetto all’attuale globale china neoautoritaria, neoimperialista e tardocapitalista, implica porsi l’obiettivo primario di riabilitare il funzionamento politico della democrazia, come presupposto per qualsiasi più ambizioso progetto di avanzamento verso il bene comune.
Occorre allora difendere e moltiplicare occasioni e spazi di esercizio del carattere non deterministico della democrazia, del suo non rispondere ad alcuna irresistibile meccanica esterna, del suo progredire – o regredire, o schiantarsi – esclusivamente in ragione di forze endogene. Necessariamente ripartire dal basso, dal popolo, poiché nessun individuo da solo ha il potere di contrastare le forze globali che convergono nel senso di un suo progressivo e inesorabile deterioramento. Le forme aggregative vanno cercate negli interstizi, nei “buchi creati dall’esercizio formale della democrazia”[37], ossia negli spazi sottratti alle varie forme di coercizione – anche indiretta – che oggi sembrano opprimerla. Occorre quindi salvaguardare sacche di resistenza, custodire viva una brace di collettività sperando che possa prima o poi riaccendere il fuoco democratico anche nelle istituzioni.
Parlare di resistenza non è velleitario, poiché di questo si tratta, con riferimento all’esercizio della memoria, della critica e autocritica, dell’analisi delle reali implicazioni dei frammentati pezzi del discorso di cui ciascuno di noi, anche i meglio attrezzati, dispone.
L’attuale carattere esplicito di alcune di queste implicazioni, in relazione a fenomeni lungolatenti ed a lungo ambigui, ha quantomeno l’effetto di svegliare dal torpore fette di popolazione: lo scenario attuale crea nuovi attivismi, stimola quei sussulti di esercizio auto-organizzato di cittadinanza attiva mai sopiti ma rinnovati e rinvigoriti dal nuovo polarizzarsi del quadro. Attrae l’attenzione e le simpatie della classe media ai nuclei più radicali di contestazione.
Il ruolo che i giovani possono avere in questa fase è evidente. I giovani rappresentano la parte di mondo non ancora stanca o assuefatta, fisiologicamente ribelle. Giovinezza è concetto archetipico della capacità di integrare una componente utopica. In questo senso la democrazia deve curare i propri giovani, non soltanto in senso anagrafico: curare la componente propulsiva, perché no romantica, o nostalgica di qualcosa che neppure ha vissuto, e nondimeno percepisce come vitale e mancante.
La rivoluzione delle maggioranze appare oggi lontanissima e quantomai improbabile. Ma al tempo stesso, se il totalitarismo ha potuto cambiare veste e forma, forse anche la rivoluzione potrebbe farlo.
L’immagine tradizionale di rivoluzione è quella dell’“irrompere delle masse popolari sul terreno dove si decidono le loro sorti”[38], l’improvviso deflagrare di energie lungamente accumulate, ma anche il prevalere di una soggettività politica sui fattori strutturali esterni, in una concezione della storia come “processo permanente di produzione di soggettività”[39]. La forza emotiva è ciò che realmente connota l’impulso rivoluzionario: un impulso endogeno, il cui progredire lentamente fino a un punto di saturazione (o di completa maturazione) è dato proprio dalla complessità e lentezza dei meccanismi di sintonizzazione delle molteplici voci popolari. La rivoluzione non ha quindi necessariamente in sé l’elemento violento, che invece è proprio delle rivolte, dei sollevamenti, concetti distanti da quello di organizzazione, imprescindibile per il funzionamento di una soggettività collettiva[40].
Nel plasmare tale soggettività collettiva la memoria ha un ruolo centrale. Alcuna discontinuità può aversi se non attraverso la presa d’atto di ciò che è stato, di ciò che è, del percorso: “un appuntamento tra le generazioni che sono state e la nostra”[41].
Ecco perché gli anniversari sono importanti.
[1] Il riferimento è a Kant e alla sua definizione dell’illuminismo come uscita dell’uomo dallo stato di minorità intesa come uso dell’intelletto con la guida di un altro, in un testo del 1784 intitolato Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?.
[2] Il riferimento è a Storia e coscienza di classe di G. Lukács, del 1922, uscito nella prima edizione italiana del 1967 con una prefazione dell’autore che chiarì ed aggiornò alcuni concetti prendendo le distanze da altre. L’Autore individuava infatti l’unica vera coscienza di classe in quella della classe proletaria (idealmente intesa, e non come categoria sociologica), che può diventare realmente tale solo sopprimendo il dominio di classe, in contrapposizione con la falsa coscienza di classe borghese, in realtà frammentata al proprio interno dove non è che una somma di capitali, e che non può concepirsi come classe se non in relazione al suo essere classe dominante. Negli anni ’70, tali teorie erano già state integrate dalle posizioni dell’esistenzialismo francese ed in particolare da Sartre, dalla sua concezione materialista sintetizzabile nella piena presa di coscienza dell’influenza delle condizioni materiali ed ambientali sullo sviluppo dell’intelletto e della vita sociale, politica e intellettuale dell’essere umano. Deve tuttavia osservarsi che quello di Lukács era un proletariato ideale, non necessariamente identificato con la relativa categoria sociologica, o almeno come tale è qui assunto in quanto archetipico della parte del popolo meno attrezzata economicamente, culturalmente o sotto qualsiasi altro profilo di potere.
[3] “A ben pensarci il moto a zig-zag del potere al popolo, il destino non lineare del suo passo, lʼincertezza del suo risultato assomigliano incredibilmente al modo in cui si muove anche il cammino di tutto ciò che è organico: strade sbagliate, tentativi, aborti, un passo avanti e due passi indietro o di lato, fecondazioni a vuoto e rapsodici balzi in avanti. Il lavoro umano, il lavoro del popolo, non fa eccezione rispetto agli altri lavori dei viventi. Per funzionare, e quindi per produrre delle meraviglie, ha bisogno di incorporare una quota di disordine e caos. Di questo caos che gli si rimprovera immagino che non si possa fare a meno. In questo senso lʼinconcludenza della complessità è apparente, perché una parte di vuoto, di dispersione, di spreco è funzionale al suo obiettivo, è ciò che la fa andare avanti tenendo conto di tutto.” Annalisa Ambrosio, Il popolo al potere, Doppiozero, maggio 2024.
[4] Il riferimento è a C. Rosselli, Socialismo Liberale, uscito nel 1930 a Parigi e nel 1945 in Italia. L’Autore esprime l’idea che il fascismo costituisca essenzialmente una fuga dalla complessità caotica della democrazia, ossia del potere affidato al popolo, in nome di un ideale di ordine che quella complessità non comprende, non sopporta, rifugge, e per questa ragione osteggia tentando di ridurre, nella più estrema ed ingenua delle semplificazioni, il potere plurale e multiforme del popolo al potere di uno. L’impulso violento consegue allora alla necessità costante, per mantenere quell’ordine nella sua artificialità, di sopprimere ogni afflato di quella complessità che, tuttavia, non può che continuare continuamente ad affiorare.
[5] Legge 17 dicembre 1860, n. 4513.
[6] C.d. “Legge Zanardelli”, comportò l’estensione del diritto di voto ai cittadini che avessero compiuto 21 anni, mantenendo il criterio censitario tuttavia non necessario per i cittadini scolarizzati. In base a tale legge, era ammessa al voto una percentuale di cittadini compresa tra il 6 e il 7 per cento, contro il precedente 3 per cento.
[7] Legge 30 giugno 1912 n. 666, contenente il “Nuovo testo unico della legge elettorale politica”. Tale legge manteneva il criterio censitario o, in alternativa, il criterio della scolarizzazione o dello svolgimento del servizio militare, per i cittadini tra i 21 e i 30 anni, soglia di età raggiunta la quale tutti i cittadini di sesso maschile potevano votare.
[8] Decreto legislativo luogotenenziale n. 74 del 10 marzo 1946.
[9] Legge 8 marzo 1975, n. 39, Attribuzione della maggiore età ai cittadini che hanno compiuto il diciottesimo anno e modificazione di altre norme relative alla capacità di agire e al diritto di elettorato.
[10] Legge elettorale italiana del 1919 (modificata nel 1923 dalla Legge 18 novembre 1923, n. 2444) in materia di “Modificazioni alla legge elettorale politica, testo unico 2 settembre 1919, n. 1495”, che introdusse il premio di maggioranza.
[11] Legge 15 febbraio 1925, n. 122, in materia di “Modificazioni al testo unico della legge elettorale politica 18 dicembre 1923, n. 2694".
[12] Legge 17 maggio 1928, n. 1019, in materia di “Riforma della rappresentanza politica”.
[13] Legge 30 marzo 1957, n. 361, in materia di “Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati”.
[14] Legge n. 6 del 20 gennaio 1948. Minimi correttivi in senso maggioritario del medesimo impianto proporzionale erano previsti per il Senato dalla legge n. 29 del 6 febbraio 1948.
[15] Legge 31 marzo 1953, n. 148, in materia di “Modifiche al testo unico delle leggi per l'elezione della Camera dei deputati approvato con decreto presidenziale 5 febbraio 1948, n. 26.”.
[16] Su questi profili si veda diffusamente D. Vignati, Quando la democrazia italiana era “osservata speciale”: la Gran Bretagna e la questione comunista in Italia alla vigilia delle elezioni del 1976, in NAD, Nuovi Autoritarismi e Democrazia, n. 1/2021.
[17] Così Enrico Berlinguer in una intervista a Tg2 Ring del 1976.
[18] Legge 4 agosto 1993, n. 276, in materia di “Norme per l'elezione del Senato della Repubblica, e Legge 4 agosto 1993, n. 277 Nuove norme per l'elezione della Camera dei deputati”.
[19] Legge 21 dicembre 2005, n. 270, in materia di “Modifiche alle norme per l'elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica”, c.d. Porcellum, dichiarata incostituzionale con sentenza n. 1/2014 sia per quanto riguarda il premio di maggioranza che per quanto riguarda le liste bloccate; Legge 6 maggio 2015, n. 52, in materia di “Disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati”. Tale legge non era estesa al Senato, in ragione della connessione con la legge costituzionale Renzi-Boschi, che prevedeva l’elezione del Senato direttamente da parte dei Consigli regionali. La legge, c.d. Italicum, fu anch’essa dichiarata parzialmente incostituzionale con sentenza n. 35/2017.
[20] Legge 3 novembre 2017, n. 165, in materia di “Modifiche al sistema di elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Delega al Governo per la determinazione dei collegi elettorali uninominali e plurinominali”, c.d. Rosatellum, prevede un sistema misto, con soglia di sbarramento e liste bloccate per la quota proporzionale.
[21] Il riferimento è a C. Galli, La destra al potere, del 2024, che invita a contestualizzare l’attuale situazione di “crisi della democrazia” come dovuta a specifici e contingenti fattori economici, tecnici, geopolitici, nonché a una crisi della politica che si traduce in una latitanza degli organi preposti a dare risposte alle istanze sociali.
[22] Il riferimento è a Laura Pigozzi, Il Plusmaterno, La solitudine delle madri in una società che chiede loro troppo, raccolta di saggi psicanalitici sul rischio di una presenza materna ipertrofica che soffochi la capacità della prole di autodeterminarsi e di sviluppare senso critico ed autocoscienza, passivizzandola.
[23] Il riferimento è ad A. Negri e M. Hardt, Empire, del 2000. Il concetto fondamentale di questo libro è una analisi che muove dalle teorie marxiste vedendo nella Moltitudine il soggetto capace di affrontare, nella costruzione del bene comune, la patologia individuata nel capitalismo imperialista.
[24] J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, del 1942, che propone un modello democratico alternativo a quello “classico”, che passa per una presa d’atto della vaghezza di concezioni come bene comune e volontà popolare e concentra la propria attenzione sui soggetti eletti dal popolo stesso, individuati come i reali decisori, e sulla relativa necessaria professionalità e idoneità.
[25] Sia consentito rinviare, in Questa rivista, a «Dodici anni di riforme della giustizia in Ungheria», in questa rivista, vol. 3 settembre-dicembre 2023, Dialoghi oltre i confini nazionali, p. 499; «La riforma della giustizia israeliana: cronache dall’ultima frontiera costituzionale», in questa rivista, vol. 3 settembre-dicembre 2023, Dialoghi oltre i confini nazionali, p. 507; «Indipendenza della magistratura in Polonia. Lo “strappo nel cielo di carta” della rule of law e l’argomento identitario», in questa rivista, vol. 3 settembre-dicembre 2023, Dialoghi oltre i confini nazionali, p. 527. Si veda anche Miserie del sovranismo giuridico a cura di G. Martinico, L. Pierdominici, 2024.
[26] Emblematici i fatti del 23 febbraio del 2024 al Liceo Russoli di Pisa, in relazione ai quali si veda La democrazia dispotica, di Alfonso Maurizio Iacono, Doppiozero, Marzo 2024.
[27] G. Zagrebelsky, Imparare la democrazia, 2007.
[28] Iibidem.
[29] Così Pino Rauti nel 1971, in una intervista alla televisione svizzera.
[30] Il riferimento è alle posizioni dell’M.S.I. di Giorgio Almirante, che in una intervista a a Mixer del 1987 diceva: “democratico è un aggettivo che non mi convince”. Sulle posizioni dell’M.S.I. si veda diffusamente D. Conti, Fascisti contro la democrazia, del 2013.
[31] Davide Maria De Luca, Una guerra tardocapitalista, in Internazionale, n. 2025, che sottolinea come il centro commerciale in questione – il più grande e vistoso, ma comunque solo uno tra i tanti negozi illuminati per le strade di Kiev – sia di proprietà di Rinat Achmetov, un ricco oligarca ucraino, che controlla anche la Dtek, il più grande distributore privato di energia elettrica del paese, specificando come la giustificazione data consista nel ritenere essenziale non interrompere il funzionamento del mercato e del conseguente afflusso di guadagni, con la connessa fiscalità, ritenuta necessaria alle ragioni della guerra, evidenziando così la simbioticità tra ragioni politiche e mercato capitalista.
[32] “Se non disaggreghiamo, ogni proposito aggregativo evapora e del cosiddetto demos restano solo vaghe tracce discorsive, destinate a scomporsi sotto velature retoriche o populistiche. […] Se non disaggreghiamo, rischiamo di disorientarci, di perderci in una minacciosa foschia sociale, di non riconoscerci se non in ciò che supponiamo identico a noi, negando così il confronto, che è appunto esercizio concreto della democrazia, negoziazione e non sempre garantito superamento dei conflitti, disponibilità a fallire da soli insieme e a tentare ancora. In altre parole, rischiamo la stagnazione. E, forse, questo è proprio ciò che da noi si vuole e che noi abbiamo finito per volere o credere inevitabile.”, M. Nadotti, La democrazia e i suoi interstizi, Doppiozero, Luglio 2024.
[33] XIII Legislatura, PROPOSTA DI LEGGE N. 3986. Modifica all’articolo 2 del codice civile, in materia di maggiore età e di capacità di agire. Presentata il 10 luglio 1997.
[34] XV Legislatura, PROPOSTA DI LEGGE N. 2845. Attribuzione della maggiore età ai cittadini che hanno compiuto il sedicesimo anno e modificazione di altre norme relative alla capacità di agire e al diritto di elettorato. Presentata il 28 giugno 2007.
[35] Da ultimo, XVII legislatura, Disegno di legge n. 2092, approvato dalla Camera dei deputati il 13 ottobre 2015, in un testo risultante dall’unificazione di un disegno di legge d’iniziativa popolare, arenatosi a fronte del cambio di governo.
[36] Sentenza della Corte Costituzionale n. 11/2025, Camera di Consiglio e Decisione del 20.1.2025, Deposito del 7.2.2025. Le norme oggetto del quesito sono costituite dall’art. 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza”.
[37] Ancora M. Nadotti, La democrazia e i suoi interstizi, citando David Graeber, Critica della democrazia occidentale (titolo originale There never was a West, or, Democracy emerges from the spaces in between).
[38] E. Traverso, Interpretare le rivoluzioni, Introduzione a Rivoluzione, che cita Benjamin e il suo paragone delle rivoluzioni alla fissione nucleare, Trotskij e la sua rivendicazione del diritto dello storico ad andare sulle emozioni dei protagonisti.
[39] Ibidem.
[40] Elias Canetti, Massa e potere, 1972; Toni Negri, L’Evénement soulèvement, Soulevements, 2016.
[41] W. Benjamin, Sul concetto di storia, nelle Lezioni pubblicate nel 1950 (ma risalenti al 1942).
Foto di Mario Dondero, Algeria, 1962.
In difesa dell'autonomia e dell'indipendenza della funzione giudiziaria
Mulugeta Gebru Kefela, per il tramite del difensore Avvocato Alessandro Ferrara, ha proposto ricorso contro la sentenza della Corte di appello di Roma che aveva respinto la sua domanda di risarcimento del danno per essere stato ristretto dieci giorni senza un provvedimento dell’autorità giudiziaria.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 6 marzo 2025 n. 5992, hanno ritenuto fondato il ricorso e annullato con rinvio la sentenza della Corte di appello, che deciderà nuovamente sulla richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale, questa volta secondo il principio di diritto enunciato nella richiamata ordinanza.
Le Sezioni unite hanno ribadito il principio dell’inviolabilità della libertà personale e che dunque nessuno può esserne privato senza provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, garanzia minima ed imprescindibile di ogni individuo ai sensi dell’art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti umani del 1948.
A valere ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale subìto da Mulugeta Gebru Kefela hanno affermato che: “la libertà personale, oltre ad essere tutelata dall’art. 13 Cost. quale diritto inviolabile della persona, presidiato dalla riserva di giurisdizione e dalla riserva assoluta di legge, è riconosciuta quale garanzia minima ed imprescindibile di ogni individuo ai sensi dell’art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti umani del 1948, ha trovato una dettagliata tutela, sul piano regionale in seno al Consiglio d’Europa, ai sensi dell’art. 5 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, e successivamente, a livello internazionale in seno alle Nazioni Unite, ai sensi dell’art. 9 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966. Da ultimo, l’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sancisce il diritto «alla libertà e alla sicurezza» di «ogni individuo». Sulla base di tale quadro normativo, teso a garantire l’inviolabilità della persona, occorre valutare se il trattenimento dei migranti a bordo della nave Diciotti integri, oppure no, un’arbitraria violazione della libertà personale. Rilievo particolare assume al riguardo l’art. 5 par. 1 lett. f) CEDU il quale ammette, eccezionalmente, la privazione della libertà personale nella peculiare ipotesi in cui si tratti dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio, oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione”
Le Sezioni unite hanno così escluso che “il trattenimento a bordo della nave costiera di migranti non ancora compiutamente identificati (e potenzialmente titolari del diritto di asilo ex art. 10, terzo comma, Cost.) possa essere inquadrato nell’ambito di procedimenti di espulsione o di estradizione, non può nemmeno ipotizzarsi che detto trattenimento possa trovare copertura sovranazionale quale misura (assimilabile all’arresto o alla detenzione regolare) finalizzata a impedire l’ingresso illegale nel territorio”.
Il cittadino eritreo Mulugeta Gebru Kefela ha ottenuto l’affermazione del suo diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, grazie al suo avvocato, perché in Italia sono garantiti i diritti di cui all’art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti umani del 1948, perché tutti possono agire in giudizio per tutela dei diritti davanti a un giudice terzo e imparziale, autonomo e indipendente.
L'autonomia e l'indipendenza della magistratura rappresentano pilastri fondamentali dello Stato di diritto e costituiscono garanzie imprescindibili per il corretto funzionamento della giustizia e la tutela dei diritti.
Le aggressioni verbali, quando provengano da alte istituzioni, costituiscono una forma di intimidazione. Nessun operatore di giustizia, nessun cittadino può volere una magistratura più timida nella difesa dei diritti.
In questo momento storico caratterizzato da continui attacchi alla Magistratura è fondamentale che le Camere Penali abbiano autorevolmente ribadito l'imprescindibilità del principio dell'autonomia e dell'indipendenza, e sottolineato la necessità di difenderlo non solo come valore costituzionale, ma anche nell'ambito dell'esercizio quotidiano della funzione giurisdizionale.
Riteniamo per ciò importante pubblicare il Comunicato delle Camere penali del 9 marzo 2025:
"L’autonomia e l'indipendenza della funzione giudiziaria vanno garantite, tutelate e difese non solo in quanto principi costituzionali ma anche nell'esercizio quotidiano della giurisdizione. La critica e il dissenso rappresentano il fondamento di ogni confronto democratico, ma incontinenti aggressioni verbali che esulano del tutto dal merito tecnico delle decisioni giudiziarie, costituiscono una grave lesione all'immagine stessa della giurisdizione"
Roma, 9 marzo 2025
La Giunta Camere penali
In difesa dell'autonomia e dell'indipendenza della funzione giudiziaria
Pubblichiamo, a puntate domenicali, la storia di Al Masri, Il cittadino libico destinatario del mandato di arresto della Corte dell'Aja, arresto dalla polizia italiana a Torino e poi riaccompagnato a casa con il volo di Stato.
La prima puntata racconta di Mitiga e degli orrori che vi si svolgono.
A Mitiga anche in questo momento ci sono persone private di ogni dignità, corpi in balia di torture e vessazioni, che si stanno domandando «ma nessuno si accorge di noi?»
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Prima puntata: Mitiga
Le azioni e il brutale contesto in cui opera l’uomo che la Corte Penale Internazionale ha sottoposto a mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Inizia qui un racconto su una realtà che non possiamo ignorare.
Sommario: 1. Presentazione – 2. Senza pace - 3. L’Apparato di deterrenza contro il terrorismo - 4. Bolidi tra sabbia e palme - 5. Carcerati tra aerei e passeggeri - 6. L’inferno in terra.
1. Presentazione
Il “palo”, la “gabbia della Falqa”, la “stanza del telefono” sono nomi o espressioni che ai più dicono nulla, ma che per i prigionieri di Osama Elmasry Njeem suonano come spaventosi. La figura dell’uomo che la prima camera della Corte penale internazionale dell’Aja ha chiesto di arrestare nel gennaio scorso è diventata famigerata dopo il suo discusso e veloce reimpatrio in Libia da parte del nostro Governo.
Di lui, del mondo in cui si muove e agisce sappiamo però poco o nulla. Ne tracciamo dunque un quadro, affinché siano noti il contesto illegale, i gesti criminali della sua milizia, le ragioni della fama acquisita nel suo Paese. Per i media italiani è “Al Masri”. Noi preferiamo chiamarlo “Njeem”, in aderenza ai testi giuridici internazionali.
2. Senza pace
La Libia di oggi è un Paese ancora spaccato in due. L’inizio delle violenze coincide con le proteste, sfociate nella rivolta del 2011 contro il regime di Muammar Mohammed Abu Minyar Gheddafi. Da allora non si sono più placate, anche se i protagonisti (spesso solo i loro nomi) sono cambiati. Gheddafi viene ucciso il 20 ottobre 2011, quando già da almeno sei mesi si era insediato un governo di transizione riconosciuto da molti Stati. Gli scontri tra miliziani riconducibili a diverse fazioni tribali, tuttavia, non si placano fino al colpo di Stato da parte del gruppo armato Libyan National Army (LNA) guidato da Khalifa Belkasim Haftar, il 18 maggio 2014.
È questa la data che segna la rottura permanente – pur con le alterne vicende che caratterizzano i conflitti interni dominati da matrici religiose e alleanze mobili – tra i due blocchi: l’est e alcune parti meridionali, sostanzialmente la Cirenaica, sono sotto il controllo di Haftar; la parte restante della Libia è invece dominata del Governo di accordo nazionale (GNA) di Fayez Al Serraj. Di fatto si tratta di due governi rivali, aventi sede a Tobruk e Tripoli, rispettivamente.
Il 10 marzo 2021 il parlamento libico a Sirte vota la fiducia a un governo di unità nazionale, con sede a Tripoli e riconosciuto dall’ONU. Primo ministro è nominato Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh, che s’insedia detronizzando formalmente i due regimi rivali. Nei fatti la Cirenaica, dove nel marzo 2022 si è costituito un governo parallelo con a capo Fathi Bashagha, rimane sotto il controllo di Haftar[1].
Entrambi i governi, privi di vera legittimazione popolare, si reggono sulla forza delle rispettive milizie armate e sull’appoggio di gruppi islamisti integralisti. Gli scontri ripetuti tra gli esponenti delle due fazioni, spesso diretti al controllo di singole infrastrutture energetiche, creano una costante instabilità.
All’esplodere della rivoluzione, nel 2011, un gruppo militare nato a Tripoli nel quartiere Souk al Juma si era schierato subito contro Gheddafi. Il quartiere è nella zona orientale della capitale. Non lontano c’è la base aerea di Mitiga e il gruppo partecipa alla sua presa di controllo. A guidarli è Abdel Raouf Kara.
3. L’Apparato di deterrenza contro il terrorismo
Aumenta così il prestigio dei miliziani rivoluzionari del Souk al Juma. Essi si schierano col Governo di accordo nazionale dopo avere dimostrato il proprio peso militare: si fanno chiamare Forze Speciali di Deterrenza e il relativo acronimo (Al-Radaa o RADAA) conferisce loro un alone di ufficialità in una vera e propria guerra tra bande. Nel 2016 RADAA ottiene il riconoscimento formale da parte del GNA[2].
Si completano così l’ascesa al potere del gruppo di combattenti e l’autorità del suo capo, Abdel Raouf Kara. Si consolida anche la fama del potente generale di Kara, Osama Elmasry Njeem.
Nel 2018 RADAA cambia ancora nome. Diventa l’Apparato di deterrenza per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo (DACTO). La nuova qualifica serve a inquadrare la milizia nella struttura del Ministero dell’interno del GNA[3] o forse anche a rimuovere dalla memoria della popolazione qualche traccia dei soprusi commessi durante la rivoluzione. Non basta però l’ufficialità a cancellare la propensione alla brutalità.
Nel 2020 il GNA accorda al DACTO poteri integrativi per assicurare lo stato di polizia locale, combattere il crimine organizzato e il terrorismo e arrestare gli individui sospetti[4]. Nel solo anno 2022 il Ministero dell’interno stanzierà in suo favore 29,5 milioni di dollari USA. DACTO è ormai una milizia potentissima, con un nulla osta, di fatto, per continuare impunemente in azioni illecite e violente per conto del Governo di accordo nazionale[5]. Molta strada si è percorsa da quando, meno di dieci anni prima, si combatteva per conquistare la base di Mitiga con le armi di fortuna affluite dall’estero malgrado l’embargo dell’ONU[6].
4. Bolidi tra sabbia e palme
6 maggio 1933. Sua Eccellenza il Governatore della Libia, Italo Balbo in persona, inaugura il circuito della Mellaha[7]: sono 13 chilometri di asfalto realizzati spianando palme e scavando sabbia di un’oasi, a pochi passi dal lago salato che dà il nome al villaggio.
Finalmente l’Italia fascista ha il circuito per ospitare il Gran premio automobilistico della Libia italiana. Per otto anni ci si era accontentati delle strade della capitale, 71 chilometri dove le prodezze dei piloti mettevano a rischio la pelle dei coloni. Ma ora si può gareggiare in un vero autodromo.
L’evento è passatempo, occasione mondana per il bel mondo coloniale. Peccato solo per quelle macchine tedesche, Auto Union e Mercedes-benz, che dal ’35 prendono a vincere sistematicamente.
Siamo a un quarto d’ora da Tripoli, ma a pochi minuti dal mare. La pista corre intorno alle saline e a un aeroporto.
L’evento è di richiamo. Un passatempo per il bel mondo coloniale ristretto tra mare e dune di sabbia. Non basta la toponomastica (lì accanto c’è la tonnara Piacentini, proprio a ovest del capo Ancona) né le divise candide del governatore o del duca di Spoleto, le grisaglie indosso ai signori o le cloche che sporgono dalle tribune sui capi delle signore a ricreare l’ambiente della Patria sull’altro versante del Mediterraneo. Neppure l’emozione dei milioni distribuiti dalla lotteria abbinata al Gran premio dura più di un giorno.
Il tempo è breve. Di lì a poco provvederà la guerra a porre fine al prestigioso avvenimento sportivo. La sabbia tornerà a ricoprire l’asfalto del circuito costruito intorno all’aeroporto, intitolato dal fascismo al sottotenente Manzini, precipitato col suo aereo il 25 agosto 1912 davanti a Tripoli.
Già, come ogni aeroporto anche questo diventerà punto strategico per trasporti e rifornimenti. L’aveva costruito il Corpo aeronautico militare del Regio Esercito, ma la parabola bellica lo affiderà al controllo inglese.
Solo a fine secolo, 1995, l’aeroporto di Mellaha – nel frattempo denominato Mitiga – viene dedicato a scopi non più solo militari, ma anche civili. Oggi è l’hub delle compagnie statali libiche, Libyan Airlines e Afriqiyah Airways, e di una società maltese, Medavia.
Forse la vita di un’infrastruttura non è mai comune. Ciascuna nasconde misteri o almeno racconta episodi inaspettati. A Mellaha o, meglio, a Mitiga la storia è oggi ed è la storia delle brutalità peggiori di questo scorcio di secolo.
5. Carcerati tra aerei e passeggeri
Tra le basse palazzine dell’aerostazione, dove sbarcano passeggeri diretti a Tripoli, cinque chilometri a ponente da qui, c’è oggi il carcere di Mitiga. Nella Libia moderna questo nome suscita sgomento; ed è il nome del regno incontrastato di Njeem.
Sono stati gli stessi miliziani di RADAA, assumendo il controllo dell’aeroporto, a costruirvi il carcere, oggi la più grande struttura di detenzione della Libia occidentale. Comprende un edificio principale, diviso in dodici sezioni, con celle multiple e celle di isolamento, e un secondo edificio, formalmente dedicato all’amministrazione. Si chiama Naqliah: ospita uffici e altre stanze, alcune di queste molto grandi, per uso “non ufficiale”[8].
È qui che vengono commessi gli orrori peggiori.
È qui che comanda Njeem.
Non è dato sapere quante persone abbia ospitato Mitiga da quando è stato costruito. Del resto, non esistono cifre ufficiali sul numero di detenuti presenti nelle prigioni libiche. Per certo nell’ultimo decennio a Mitiga sono transitati in non meno di 5.000.
In Libia tuttora i cittadini spariscono senza lasciare traccia, per non parlare dei migranti in transito dall’Africa subsahariana. Si viene incarcerati perché dissidenti o avversari politici o sospettati di appartenere a fazioni avversarie o catturati durante gli scontri armati. Ma si viene incarcerati anche perché si è omosessuali o adulteri o semplicemente perché si vuole raggiungere l’Europa: se hai attraversato il deserto e sei sopravvissuto, vuol dire che sei disposto a pagare per trovare un imbarco; già questo basta per entrare a Mitiga o in uno degli altri centri di detenzione.
In Libia esistono “prigioni segrete”. Mitiga non è tra queste. Ciò malgrado è considerata la prigione dove si consumano la maggiore parte e le più crudeli violazioni dei diritti umani.[9]
A Mitiga si entra con l’accusa di essere cristiani o atei, di avere tenuto condotte immorali o di essere affiliati all’ISIS o di combattere per Haftar. Talvolta queste accuse si cumulano, altre volte una imputazione è solo formale, celando la vera ragione dell’imprigionamento[10].
Non di rado i detenuti non vengono informati delle ragioni del loro trattenimento. Vengono arrestati da persone mascherate e senza mandato. Una volta detenuti vengono costretti a consegnare il proprio telefono cellulare, così che i carcerieri possano accedere ai loro contatti, o a fissare appuntamenti all’esterno con qualcuno di questi contatti, così che anche questi vengano catturati.
I migranti vengono portati a Mitiga dalle bande che li hanno sorpresi ai limiti del deserto oppure dagli emissari della guardia costiera libica che li ha ricondotti sulla terraferma mentre tentavano di fuggire via mare.
6. L’inferno in terra
Quando si entra nella prigione si viene perquisiti nudi, anche nelle parti intime. Alla consegna del telefono cellulare seguono subito i primi interrogatori brutali, per estorcere informazioni da chi ne è ritenuto depositario o per indurre sottomissione totale in tutti gli altri. Deve essere subito chiaro che non esistono regole cui appellarsi né avvocati difensori, salvo che per alcuni tra coloro che siano stati arrestati dietro notifica di un mandato di trattenimento. Non esistono diritti, insomma.
Vi sono celle di isolamento e celle comuni, sovraffollate, i detenuti ammassati al punto che non tutti possono sdraiarsi. Vi si dorme a turno. C’è una sezione femminile, dove i bambini sono tenuti insieme con le madri o con chi si dichiara di essere la loro accompagnatrice. Esistono anche box di rete metallica, dove sono rinchiusi uno o più detenuti.
Le violenze vengono esercitate percuotendo le persone con pugni, manganelli e tubi di plastica, noti come PRR. Ve sono anche metodi più sofisticati: si spara fingendo di volere uccidere la vittima, si pratica l’elettrocuzione, si tiene la persona appesa a testa in giù col cosiddetto balanco o la si sottopone alla falqa. Questa è una tortura praticata da secoli nell’estremo e nel medio oriente, che consiste nell’infliggere percosse ripetute alle piante dei piedi, tenute rivolte verso l’alto, con verghe o manganelli; si provocano così lesioni a tendini e nervi o microfratture alle ossa dei piedi, così da rendere impossibile alla vittima mantenere la postura eretta e costringendola a muoversi carponi.
Si infierisce sui detenuti per ottenere informazioni o una confessione, per punizione o per lo svago delle guardie[11].
Secondo una testimonianza raccolta dal Consiglio ONU per i diritti umani, uno degli stanzoni ospitati nell’area amministrativa del carcere “assomiglia a un ospedale per pazzi, dove le percosse sono obbligatorie... e il sangue vi scorre”[12].
Un’altra vittima, sparita e trattenuta a Mitiga per circa sette anni sino al 2022, ha raccontato di essere stata incatenata e sottoposta al balanco mentre gli aguzzini gli bruciavano i capelli con un accendino e con pinze gli schiacciavano pene e testicoli. Ha potuto avvisare la famiglia della propria detenzione solo dopo un anno e dieci mesi. Ha parlato così col padre, che a suo tempo aveva denunciato invano la sua scomparsa. È stato, quello, il loro ultimo colloquio, perché il padre è morto prima del suo rilascio[13].
I carcerieri si rendono protagonisti anche di violenze sessuali, soprattutto nei confronti di donne e minori. Tra le vittime, secondo la Corte penale internazionale, v’è stato anche un bambino di cinque anni[14]. La condizione di abbruttimento e di totale promiscuità in cui vengono ridotti e lasciati i detenuti ne annienta inevitabilmente la dignità. Si registrano casi di minori violentati anche da altri carcerati.
Per tutto ciò, per le condizioni antigieniche delle celle (alle donne sono negate le cure mestruali di base), per la denutrizione, a Mitiga si muore[15]. Alcuni muoiono perché costretti a dormire nel cortile nonostante la temperatura gelida. I migranti vengono anche uccisi quando, sebbene torturati, rifiutano o si rivelano impossibilitati a pagare il proprio riscatto in denaro. I più fortunati tra loro vengono consegnati a proprietari terrieri o imprenditori locali e costretti a lavorare per loro finché non potranno pagare.
Ai migranti si estorce denaro costringendoli a chiederlo ai familiari. Condotti nella sala del telefono, vengono messi in contatto con un genitore o con un fratello. La liberazione costa alcune migliaia di dollari americani. Mentre parla al telefono, il detenuto viene battuto da un carceriere col PRR, così che le sue urla vengano udite dal familiare e le sue richieste risultino più convincenti. Il metodo è ferocemente efficace. Per RADAA una delle entrate principali viene dalle rimesse bancarie dei parenti dei migranti.
[1] F. Petronella, Libia: dallo stallo alla crisi?, in www.ispionline, 22 agosto 2024. Più di recente anche F. Manfredi, Libia: calano le tensioni tra est e ovest, in www.ispionline, 29 gennaio 2025.
[2] Corte penale internazionale, mandato di arresto per Osama Elmasry/almasri Njeem, n° ICC-I1/11, 18.1.2025, p. 6.
[3] Decreto del Consiglio presidenziale del GNA n. 555/2018.
[4] Decreto del Consiglio presidenziale del GNA n. 578/2020.
[5] Urgent Action: military prosecutor forcibly disappeared, in amnesty.org, 24 luglio 2023.
[6] Risoluzione Consiglio di sicurezza ONU 1970 (2011), del 26 febbraio 2011.
[7] Il nuovo autodromo di Tripoli, in Architettura, 1935, fasc. II.
[8] Corte penale internazionale, mandato cit., p. 27.
[9] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 11.
[10] Corte penale internazionale, mandato cit., p. 13.
[11] Corte penale internazionale, mandato cit., p. 16.
[12] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto cit., p. 11.
[13] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto cit., p. 10.
[14] Corte penale internazionale, mandato cit., p. 19.
[15] Corte penale internazionale, mandato cit., p. 22-24.
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