ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Indipendenza ed imparzialità del giudice. Piccole cose che so di loro.
di Giancarlo Montedoro
Ringraziamenti a guisa di premessa: giudice partigiano e giudice asceta
Vorrei ringraziare il Centro internazionale magistrati Luigi Severini per avermi invitato a all’International Forum “High Culture of jurisdiction. Impartiality and quality of the judge”.
Si tratta di un’importante occasione di incontro fra magistrati di diverse nazionalità non solo europee.
Son grato a Paolo Micheli Presidente del centro e Giuseppe Severini e per aver organizzato questo libero confronto e sono lieto di aver potuto aiutare la professoressa Piana nella preparazione del meeting.
Mi piace ricordare che il Centro è dedicato a Luigi Severini che fu giudice e partigiano, figura poliedrica, poi aderente al Partito d’azione e amico di Aldo Capitini un intellettuale quest’ultimo che solo l’odierno deficit di memoria storica non celebra come dovrebbe fra le massime personalità politiche del secolo scorso, credente, non violento, resistente alla maniera crociana, pacifista, libertario, animalista, vegetariano: un Ghandi italiano.
Giudice e partigiano non sono qualità in contrasto se non apparente.
Del giudice si predica l’imparzialità da più parti.
Certo così deve essere il suo lavoro ordinario.
Ma vi sono circostanze storiche nelle quali è il diritto ad essere sotto attacco.
Sono le circostanze storiche tragiche vissute nell’epoca dei totalitarismi, un’epoca nella quale le libertà sono state violate e nella quale la legge è divenuta instrumentum regni.
Allora anche il giudice che ama la libertà può essere chiamato a deporre la toga e fare la sua parte nel conflitto.
Normalmente e fortunamente non è così: la lotta jeringhiana per il diritto si svolge nelle sedi istituzionali.
Perché il diritto è sempre una lotta: ad esempio contro le leggi incostituzionali o i provvedimenti amministrativi illegittimi o – nel mercato – avverso le violazioni della fair competition.
Una perenne lotta – quella alla quale il giudice assiste – dei cittadini e delle imprese per trovare il loro spazio vitale.
Dello Stato per garantirci l’ordine e curare i pubblici interessi domando privati egoismi nella legalità sostanziale.
La giurisdizione è un luogo di calma ritualizzata – uno spazio protetto – che ha – normalmente – il conflitto per oggetto per mediarlo o risolverlo, assegnando ragioni e/o torti.
Quindi il giudice può divenire partigiano proprio e solo per difendere il suo essere giudice e deve sapere che ha il dovere di non esserlo (partigiano) quando la storia – per felici circostanze legate al contesto politico sociale ed istituzionale – gli consente di continuare ad essere giudice indipendente.
L’incontro poi si svolge all’Università per stranieri di Perugia luogo di confronto da sempre fra diverse culture.
Mi piace ricordare che il pluralismo è l’essenza della Costituzione e siamo qui in un luogo che lo celebra, favorendo dalla sua istituzione lo studio, l’educazione e l’apprendimento fra giovani di tutto il mondo.
La premessa del dialogo intessuto dal Centro è la significatività di ogni esperienza giudiziaria e l’intento è, nel mettere a confronto tali esperienze, suscitare una sorta di polifonia, di musica a più voci, che non teme il contrappunto ma se ne avvantaggia per superare l’ignoranza e limitare la fallibilità umana.
Piccole cose come introduzione
Alcune piccole cose che ho appreso – come lezione – negli anni – non pochi ormai – in cui mi è accaduto di fare il giudice.
Prima piccola cosa: la giustizia è fatta di differenti punti di vista.
Il film Rashomon di Akira Kurosawa la simbolizza a sufficienza.
Un boscaiolo, un monaco e un vagabondo si interrogano su una vicenda, l'assassinio di un samurai e lo stupro di sua moglie per mano del bandito Tajômaru, che li ha coinvolti come testimoni. Mentre si susseguono le dichiarazioni dei protagonisti davanti a un tribunale sulla loro versione dei fatti, la verità anziché emergere sembra vieppiù allontanarsi.
In un Giappone ancora dilaniato dai lasciti del dopoguerra, Kurosawa ritorna a un'altra epoca di morte e sofferenza, quel periodo Heian in cui di fronte alla porta del tempio di Rashô non scorrevano che sangue, violenza e frode.
Prendendo spunto dai racconti di Ryûnosuke Akutagawa, Kurosawa riflette sulla natura dell'uomo e sulla sua inclinazione alla menzogna, guidata da un esasperato spirito di autoconservazione. A contare non è mai il senso di verità o di giustizia, ma la salvaguardia del proprio tornaconto e di un miserrimo particulare, tale da portare – è il caso del personaggio del samurai – a mentire anche post mortem pur di difendere il proprio onore.
Ma se questo è già l'apologo originario di Akutagawa, risultato della messa in scena di tre versioni – tutte discordanti e tutte false – della stessa storia, Kurosawa vi aggiunge una nuova valenza, in cui la riflessione si estende a un'ulteriore menzogna, quella dell'immagine e del cinema come suo strumento principe. E le conclusioni di Kurosawa sull’illusorietà del cinema risultano anticipatrici della condizione della verità nell’epoca della civiltà dell’immagine e dei mass media. E anche della verità fornita dal processo dovremmo non scordarci mai che si tratta di verità umana (verità processuale convenzionalmente accettata).
Le versioni dell'assassinio non si limitano ad essere raccontate dai personaggi, infatti, ma sono offerte alla visione del pubblico come se si trattasse di realtà oggettiva e indiscutibile; ciò che si vede dovrebbe tradursi in ciò che è, anziché rivelarsi mutevole nei contenuti e nello stile, ma tutto alla fine risulta illusorio come nel sogno taoista della farfalla.
Il giudice dovrebbe avere consapevolezza della fallibilità della ragione umana e dovrebbe avere confidenza con la logica scientifica popperiana della falsificazione (evitando ogni forma di sacralizzazione della scienza).
Seconda piccola cosa: ogni discorso è situato.
Ciò significa che esistono delle premesse implicite, un complesso di pregiudizi e preferenze, un processo di precomprensioni, una pressione dell’inconscio e delle dinamiche culturali in ogni giudizio.
Enrico Scoditti ha – per questo motivo – kantianamente detto che il giudice dovrebbe essere indipendente innanzi tutto da se stesso.
Questa uscita da sé è un buon metodo, ma alla fine difficilmente attuabile se non impossibile, proponendo un modello di giudice asceta.
Non è facile uscire dalla propria passionalità e nemmeno dal linguaggio che ci forgia, rispetto al quale siamo come mosche in un bicchiere.
Un rimedio – modesto ma efficace – può essere l’onesta consapevolezza di questa realtà pre-razionale pre-logica al fine di domarla per quanto possibile.
Terza piccola cosa: la giustizia è lo sguardo del Terzo.
L’oggetto della giustizia è la lite, il conflitto: esso per essere risolto reclama lo sguardo del Terzo.
La terzietà è l’essenza della giustizia.
Astensione, ricusazione, incompatibilità, conflitti di interessi sono solo meri strumenti per assicurare lo sguardo del Terzo.
Esso – dal punto di vista teologico politico – tiene luogo dello sguardo di un dio o così potrebbe essere figurato da chi ha sempre – perennemente – nostalgia dell’Assoluto.
Judex Deus: un paradosso non desiderabile, per nulla accettabile, connotato da una dismisura (evitata dall’ingiunzione biblica “nolite iuridicare”) da scongiurare lasciando la terzietà giocare con gli eventi, intendendola come forma di attraversamento del dolore e della vita da parte di un uomo (fallibile) fra gli uomini (altrettanto fallibili).
La terzietà produce paradossi, vediamone quindi alcuni.
Il primo paradosso: è miglior giudice chi non vuole giudicare; il giudice riluttante.
Camus ha detto: “non può negarsi, per il momento, che i giudici siano necessari, ma cionondimeno non riesco a comprendere come un uomo possa proporre se stesso per un compito così strabiliante”.
Vi sono alcuni precisi corollari di questa profonda affermazione di Camus:
1) Il giudice che lo diviene per caso potrebbe essere meglio da quello che vuole fortemente diventarlo, maturando ambizioni di successo e carriera.
2) Occorre mantenere e promuovere sempre l’umiltà del giudice come opposto della sua ubris.
3) L’umanesimo è importante.
4) Il modello del giudice asceta è forse impossibile, ma il modello del giudice riluttante nel giudicare (infine prudente) è alla portata di tutti, purché sia temperato da un forte senso del dovere.
Il secondo paradosso: v’è connessione inestricabile fra diritto e violenza; il diritto è anche ritualizzazione della violenza.
Il giudice penitente. Il giudice strumento della violenza.
Lo Stato weberianamente ha il monopolio della violenza.
Esercita violenza legittima, ma in un perenne “ritorno del rimosso” può veder di nuovo l violenza dominare la scena (è accaduto nelle esperienze totalitarie).
Basta pensare a Kafka ed al suo “Il processo”[1] o ancora a Camus ed al suo “La caduta”[2] Antoine Garapon ha studiato – nel saggio Del giudicare – l’Archeologia della scena giudiziaria (pp. 173-200): il rituale, il rapporto fra scena, teatro e processo che raffredda e legittima la violenza (specie nel processo penale).
Su tale analisi si è rilevato da parte di Daniela Bifulco, nell’introduzione del libro, che nel soffermarsi sulle origini religiose del giudizio nella civiltà occidentale, Garapon si mostra ben consapevole di tale raddoppiamento-spostamento rituale della violenza (analizzato soprattutto dagli studi di Girard sul capro espiatorio), che, continuando a funzionare nella sfera secolarizzata del politico, rischia di mettere tra parentesi il concetto razionale di responsabilità giuridica individuale – l’unico ad aver cacciato dai tribunali moderni la brutalità dell’ordalia e del giudizio di Dio, con il ritorno di una perenne sproporzione fra accusatore ed accusato.
In questo teatro il giudice – col suo corpo togato e seppure in maniera inconscia e/o velata dall’ascetica professionale – incarna, più che l’imparzialità del Terzo (cfr. pp. 83-86), l’assurda – kafkiana – superiorità della Legge rispetto all’accusato (cfr. p. 67), il suo spettacolare potere di condanna non sembra molto distante dalle “antiche trame ordaliche e dall’ambivalenza del sacro” (dalla Prefazione di D. Bifulco, p. XVII).
Siamo cioè di fronte al paradosso per cui la violenza processuale, che in quanto forza e autorità (cfr. in tedesco l’asse semantico Gewalt > Macht) pretende di fondare la democrazia e lo stato di diritto ovvero la trasparenza della responsabilità giuridica, può essere solo teatralmente – dunque tragicamente e mai del tutto sostanzialmente a meno che non si affronti il problema dei fini e dei valori (che pure a sua volta è contraddistinto dalla lotta) – distinta dall’altra violenza pre- o infra-giuridica, che, etichettata come ‘crimine’ minaccia la comunità: in fondo, si tratta della stessa violenza, che solo il rituale giudiziario, con le sue maschere e la sua differenziazione dei ruoli, permette di trasformare in qualcosa di lecito e giusto, dunque di democratico (ove la democrazia venga intesa come dominio della maggioranza e non come democrazia costituzionale sostanziale).
In questo quadro può ricordarsi anche che l’origine hobbesiana dello Stato si radica sulla violenza delle guerre religiose e che il diritto fiorisce nello spazio della loro sospensione come è ben noto a tutti gli studiosi dello ius publicum europaeum.
Il nesso hobbesiano conflitto – violenza – forza – diritto è costitutivo dell’esperienza giuridica e la dialettica fra queste componenti viene costantemente a riproporsi nella storia sia pure senza una direzione predeterminata da alcuna filosofia.
Agli albori dell’esperienza totalitaria del nazismo W. Benjamin scrive sulla critica della violenza.
Il testo propone il problema se in generale e in linea di principio sia morale la violenza in sé come mezzo per realizzare fini giusti.
Ivi si legge: “il potere conservatore del diritto è anche potere che minaccia.
E la sua minaccia non ha il senso dell’intimidazione, come l’interpretano teorici liberali mal istruiti. All’intimidazione in senso proprio appartiene una determinatezza che contraddice l’essenza della minaccia e che nessuna legge raggiunge, dato che si spera sempre di farla franca. La legge appare tanto più minacciosa quanto più assomiglia al destino, da cui ultimamente dipende se il delinquente incorre nei suoi rigori. Il senso più profondo della minaccia giuridica si dischiude solo nella successiva analisi della sfera del destino, da cui emerge. Un valido riferimento ad essa si trova nel campo delle pene. Tra le quali, da quando è stato messo in questione il valore del diritto positivo, la pena di morte è quella che ha più di ogni altra suscitato critiche... se il diritto origina dalla violenza – dalla violenza coronata dal destino – è lecito supporre che al livello massimo di potere, quella cioè sulla vita e sulla morte, là dove esso entra a far parte dell’ordinamento giuridico, le sue origini affiorino ben rappresentate e si manifestino paurosamente proprio nella realtà attuale”.
Il diritto si può fare strumento della violenza nella storia, come nell’epoca del totalitarismo ed il giudice può essere cieco strumento della violenza.
Profetico– tenuto conto dell’atmosfera che si respirava all’epoca dell’avvento del nazismo – è quanto Benjamin scrive del puro potere della polizia anche in situazioni dove c’è la polizia senza il bilanciamento del giudice[3].
Le conclusioni del saggio sono pessimistiche:
“il diritto appare in una luce morale tanto equivoca che sorge spontanea la domanda se, per regolare i conflitti di interesse tra uomini, non vi siano altri mezzi che violenti.”
Il terzo paradosso: Costituzionalismo e dimensione del sacro. Le basi morali della Rule of Law.
Si tratta del dilemma di Bökenförde:
«Lo stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà. Da una parte, esso può esistere come stato liberale solo se la libertà che garantisce ai suoi cittadini è disciplinata dall'interno, vale a dire a partire dalla sostanza morale del singolo individuo e dall'omogeneità della società. D'altro canto, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ricade – su un piano secolarizzato – in quella stessa istanza di totalità da cui si era tolto con le guerre civili confessionali»
(Staat, Gesellschaft, Freiheit, Francoforte sul Meno, Suhrkamp, 1976, p. 60).
La secolarizzazione ha due volti: uno virtuoso ossia la fine della legittimazione a divinis del potere (fenomeno visto da Lowith in chiave storicistica, da Blumenberg senza una consolazione ma confidando nella forza dell’illuminismo) ed uno insidioso ossia l’approdo nichilistico della società che perde ogni cifra di trascendenza (plurale non necessariamente monista) e di capacità di speranza (Schmitt, Bloch da prospettive diverse se non opposte come quella della reazione conservatrice e del messianismo marxista).
È quel che accade con la versione minima, debole, procedurale della Rule of Law.
Con il contesto della cooperazione europea e globale sul piano economico che consente all’economico di dominare il politico, nella produzione della lex mercatoria.
Tanto che attualmente potrebbe predicarsi del liberalismo quello che una volta di diceva del socialismo: occorre distinguere il liberalismo ideale (ad esempio quello di Croce che relegava l’economia ad uno stadio non elevato dello sviluppo dello spirito) e quello reale che invece ha sposato o spesso rischia di sposare una logica inversa nel rapporto economia – politica – cultura.
Questo spiega il declino del costituzionalismo, anche in UE [4].
Sullo sfondo del ritorno di conflitti bellici (che speriamo cedano al più presto il posto a percorsi di pace) e di una generale svalutazione della vita umana (indotta da problemi demografici ed ambientali).
Un mondo senza alcuna dimensione sacrale del diritto (un mondo nichilistico in cui tutto è negoziabile) è esposto a crisi continue e resta spaesato e senza speranza.
Le divisioni tradizionali fra sfera pubblica sfera privata non funzionano più perché il loro presupposto era comunque un residuo sacrale del “politico”.[5]
E ci chiede se il fondamento della costituzione debba continuare ad essere visto nel contratto (come nella tradizione hobbesiano – lockeano – rousseauiana) sempre rivedibile con operazioni estenuate di ingegneria costituzionale o nel senso morale dell’individuo ossia nella sua capacità di essere libero (messa a rischio dalla rivoluzione digitale) anche scegliendo tragicamente fra valori differenti[6].
Ma sempre nel levinassiano senso dell’Altro come scaturigine dell’Ethos.
In che senso può operare il sacro?
Tema complesso ovviamente. Tocca il rapporto religione politica.
Al giurista è consentito volare più basso.
Il sacro opera come limite, come coscienza del limite.[7]
Tolstoj sovviene: “Se riesci a provare dolore sei vivo. Se riesci a sentire il dolore degli altri sei umano...”.
Può aggiungersi se senti la sofferenza della creazione come nelle encicliche che Papa Francesco ha dedicato al tema del rispetto della Natura, oggi oggetto della complessa attuazione costituzionale degli articoli 9 e 41 nuovo testo allora sei un uomo che si sente parte della creazione e sei un uomo felice.
Con le parole di Rilke, sentiamo di poter dire:
“Si cominciò a capire la natura quando non la si capì più”.
Il senso del limite, la immedesimazione nel dolore, restando terzi e ascoltando le voci degli altri: la professione del giudizio è tutta qui.
[1] Il protagonista del romanzo, Josef K., è impiegato come procuratore presso un istituto bancario. Una mattina, due uomini a lui sconosciuti si presentano presso la sua abitazione, dichiarandolo in arresto, senza tuttavia porlo in stato di detenzione. K. scopre così di essere imputato in un processo. Pensando ad un errore, decide di intervenire con tempestività per risolvere quello che ritiene essere uno spiacevole (ma temporaneo) malinteso.
Ben presto, K. si rende conto che il processo intentato nei suoi confronti è effettivamente in corso. K. tenta inizialmente di affrontare la macchina processuale con la logica e il pragmatismo che gli derivano dal suo lavoro presso la banca. Tuttavia, tempi e modalità di svolgimento del processo, né altri aspetti del suo funzionamento, non vengono mai pienamente rivelati all'imputato, neppure nel corso della sua deposizione presso il tribunale. A K. non verrà mai comunicato il capo di imputazione che pende su di lui.
Dietro consiglio dello zio, K. affida a un avvocato il mandato di difenderlo. Pur rassicurando K. in merito all'impegno profuso per il suo caso, l'avvocato pare tuttavia procedere con la medesima opacità che è propria del tribunale, mettendo in atto iniziative la cui efficacia K. non è in grado di valutare appieno. K. decide infine di rimuovere il mandato all'avvocato, a dispetto del tentativo di dissuasione da parte dello stesso legale difensore. K. entrerà anche in contatto con un pittore, Titorelli, che sembrerà prodigarsi a suo vantaggio, anche in questo caso però senza effetti tangibili.
Questa rinuncia alla difesa prelude all'epilogo della vicenda. Josef K. viene infatti prelevato da due agenti del tribunale e condotto in una cava, dove viene giustiziato con una coltellata. K. muore in conseguenza di una condanna inflittagli da un tribunale che non lo ha mai informato in merito alla natura delle accuse a suo carico, e che non gli ha mai fornito alcun riferimento per attuare una vera difesa.
[2] Il protagonista della Caduta è Jean-Baptiste Clamence è un brillante avvocato parigino, una persona dedita al benessere degli altri che si prodiga in innumerevoli buone azioni che lo rendono un uomo stimato dalla maggior parte dei suoi conoscenti. Durante un lungo monologo (o dialogo, che egli intrattiene con un ascoltatore cui non cede mai la parola e che può essere identificato con il lettore stesso), Clamence si rende conto che la sua vita è in realtà incentrata su se stesso, sul proprio egocentrismo e sul senso di superiorità nei confronti di chiunque che lo pervade.
Inoltre, mentre in pubblico mostra una maschera di virtù, in privato è un uomo dedito alla ripetizione continua e frustrata dei più disparati piaceri, dall'alcol alle donne. Resosi così conto della fondamentale duplicità della sua esistenza e della sua persona, decide di abbandonare la professione e di trasferirsi ad Amsterdam, facendo del bar Mexico City il suo nuovo "studio".
In quel luogo, egli cerca di far confessare e redimere i suoi uditori, assumendo il ruolo di profeta, pur essendo ben consapevole di essere un falso profeta, portando così le persone a provare ogni sorta di colpevolezza. La sua nuova condotta, però, non è un caso esemplare di redenzione, ma appunto una caduta, poiché Clamence ha invero abbandonato la maschera di duplicità che si era reso conto di indossare: ciò non avviene rendendosi migliore, bensì abbandonando quella compassione di facciata che lo aveva contraddistinto in precedenza, annullando in questo modo quei valori che riescono a tenere insieme la società basata sulle apparenze additata dallo scrittore.
Il nocciolo della nuova filosofia di vita del protagonista al Mexico City è quello del giudice-penitente. Essa consiste nel confessare a chiunque le proprie colpe (vere o fittizie), in modo da costringere l'ascoltatore a pensare di aver commesso egli stesso le medesime colpe: in questo modo, accusando se stesso, riesce a rendere colpevole l'umanità intera; ecco quindi che, partendo dalla posizione di penitente, egli diventa giudice.
[3] La polizia interviene “per ragioni di sicurezza” in numerosi casi in cui non sussiste una situazione giuridica chiara, quando non accompagna il cittadino come brutale vessazione senza alcun rapporto con fini giuridici attraverso una vita regolata da ordinanze o addirittura non lo sorveglia.
Al contrario del diritto, che riconosce nella “decisione” spaziotemporale precisamente determinata hic et nunc una categoria metafisica, attraverso cui si espone alla critica, il trattamento dell’istituto poliziesco non incontra nulla di sostanziale. Il suo potere è informe come la sua presenza spettrale, inafferrabile e diffusa per ogni dove nella vita degli stati civilizzati.
Anche se nei dettagli la polizia sembra dappertutto uguale, non si può alla fine misconoscere che il suo spirito è meno devastante là dove rappresenta, come nella monarchia assoluta, il potere del sovrano, dove confluiscono pienamente il potere legislativo ed esecutivo, rispetto alle democrazie, dove la sua presenza, non sostenuta da un simile rapporto, testimonia la massima degenerazione pensabile del potere.
[4] An increasing number of scholars have begun to express heightened concerns about the decline of constitutionalism in the context of the euro crisis management. For example, Agustín Menéndez has documented the breadth of the European Union’s ‘constitutional mutation’, warning that ‘the breakdown of constitutional law will result in the mid- or long-run in the breakdown of the Social and Democratic Rechtsstaat’. Gunnar Beck cautions that the recent euro crisis adjudication in the European and national courts has allowed a bending of the rules to suit the executive to the extent that ‘the Rechtsstaat is effectively suspended’.
The prevailing theories in Italy, as summarised by Andrea Simoncini, are that the euro crisis measures have accelerated a ‘decline of European constitutionalism’, with constitutions ‘destined to be obsolete’ in ‘the present age [that is] no longer the age of constitutions’.
A small but growing number of scholars have even expressed concern about the EU having taken an authoritarian turn in the euro crisis governance. Christian Joerges and Maria Weimer have cautioned against the entrenchment of ‘authoritarian executive managerialism’11 that ‘threatens to discredit the idea of the rule of law and its intrinsic linkages to democratic rule’.
Alexander Somek finds that in the EU’s euro crisis management, ‘formal legal constraints are bent in order to accommodate necessities’; he is concerned that this has led to ‘authoritarian liberalism’ and ‘loss of political agency’, with the executive branch gaining power, as the constraints on governance are economic.
Michael Wilkinson, also describing the EU crisis governance as ‘authoritarian liberalism’, has observed a process of ‘de-democratisation’, ‘de-legalisation’ and the overriding of Europe’s constitutional law with market teleology.
Altri riferimenti in Albi, Anneli; Bardutzky, Samo. National Constitutions in European and Global Governance: Democracy, Rights, the Rule of Law: National Reports (English Edition) (pp.33-34). T.M.C. Asser Press. Edizione del Kindle.
[5] Cfr. G. Preterossi, Teologia politica e diritto, Bari Roma 2022.
[6] In tal senso vi sono illuminanti spunti nella lezione di Capograssi ripresa giustamente da V, Caputi Iambrenghi in Libertà e Autorità volumi I e II Napoli, 2021.
[7] È quanto mostra Garimberti ne L’etica del viandante, Milano, 2023 che sposa un politeisimo neopagano che per il giurista rispettoso della Carta fondamentale diviene pluralismo non nichilistico dei valori.
Immagine: Paul Cézanne, Natura morta con caraffa, bicchiere e mele, olio su tela, circa 1877, H. O. Havemeyer Collection, Bequest of Mrs. H. O. Havemeyer, 1929, Metropolitan Museum of Art, New York.
Pubblichiamo questo contributo in occasione del centenario della morte del Maestro Giacomo Puccini, nato a Lucca il 22 dicembre 1858 e scomparso a Bruxelles il 29 novembre 1924.
All’alba vincerò!
La vittoria di Giacomo Puccini sul tempo. PARTE PRIMA.
di Gerardo Casiello
Sommario: 1. Sei generazioni di musicisti – 2. Trenta chilometri a piedi per Aida – 3. Anni difficili a Milano – 4. Tonio Puccini e la fine di una stirpe di musicisti – 5. Un miracolo a Milano – 6. Le Villi, l’esordio operistico di Puccini – 7. L’influenza di Wagner – 8. Edgar: “la cosa più orribile che sia mai stata scritta” – 9. Anni difficili alla vigilia della gloria – 10. In anticipo sulla musica per il cinema – 11. Puccini e i suoi contemporanei – 12. Bohème: una sfida tra amici – 13. Il gioco e la caccia – 14. Caruso e Puccini: due amici ambasciatori dell’Italia nel mondo – 15. E lucean le stelle – 16. Il grammofono di casa Puccini – 17. Puccini e le “sue donne” – 18. Madama Butterfly – 19. Un fortunatissimo fiasco. [Seguirà PARTE SECONDA].
All’alba del primo quarto di secolo di questo millennio, si può dire che il Maestro Giacomo Puccini ha vinto la battaglia contro il tempo; la sua anima nella sua musica vive ancora oggi nel 2024, a cento anni dalla sua morte, e sopravvivrà nei tempi a venire.
Questo scritto ripercorre la “vicenda” biografica del grande Maestro Toscano condensando gli eventi salienti anche attraverso aneddoti, estratti da lettere e citazioni dello stesso compositore. È fondamentale parlare della produzione operistica del Maestro sia per dare al lettore un’infarinatura sulla trama e i caratteri salienti di ciascun lavoro, sia perché nelle opere si può riscontrare l’essenza profonda della vita di Puccini.
Nella chiusura di questo saggio si lancia un’idea per rendere un originale omaggio all’immortale compositore e alla sua italianità.
1. Sei generazioni di musicisti.
Giacomo Antonio Domenico Michele Secondo Maria Puccini, per brevità Giacomo, nacque a Lucca il 22 dicembre 1858; il suo lungo nome porta la memoria dei suoi avi, una stirpe di musicisti che per 124 anni furono direttori musicali della Cattedrale di San Martino a Lucca.
A soli cinque anni, nel 1864, Giacomo divenne orfano del padre Michele, la madre Albina Magi si trovò sola a crescere sette figli.
Nonostante le difficoltà economiche, l’educazione musicale di Giacomo gli fu assicurata dal suo incarico di chierichetto e successivamente di organista presso la chiesa della Confraternita di San Girolamo, occupazione retribuita che mantenne dal 1872 al 1880; frequentò inoltre la Scuola di Musica Pacini a Lucca dove insegnavano lo zio Fortunato Magi e il Maestro Carlo Angeloni.
Secondo lo zio, Giacomo non aveva particolari attitudini musicali, era un allievo poco attento e indisciplinato; il Maestro Carlo Angeloni intravvedeva invece nel ragazzo un’importante propensione per la melodia e un acuto intuito armonico.
Essendo organista e passando molto tempo in chiesa, Giacomo iniziò a trafugare i preziosi spartiti musicali conservati nell’archivio parrocchiale per studiarli a casa. Un giorno fu scoperto dai preti che furono però colpiti dalla sua grande dedizione e gli fu dunque permesso di prendere in prestito le partiture in modo appropriato.
2. Trenta chilometri a piedi per Aida.
Il 1876 fu l’anno in cui arrivò la svolta: l’adolescente Puccini camminò, per 30 chilometri, da Lucca a Pisa per assistere a una rappresentazione di Aida di Giuseppe Verdi. Poté permettersi solo un biglietto per i posti in piedi, ma l’esperienza gli cambiò la vita. In seguito disse: «Quando ho sentito Aida a Pisa, ho sentito che una finestra musicale si era aperta per me». Quella rappresentazione lo rapì al tal punto da convincerlo a intraprendere una carriera nell’opera lirica piuttosto che diventare un organista di chiesa come i suoi antenati.
Convinto di voler percorrere la strada dell’operista, chiese una borsa di studio alle autorità lucchesi per trasferirsi a Milano e studiare al Conservatorio, ma non gli fu accordata secondo la seguente motivazione: «… perché sostenere, con denaro pubblico, un musicista dal quale la città non ricaverebbe alcun beneficio?...». Il Comune di Lucca voleva che Giacomo continuasse la tradizione di famiglia.
3. Anni difficili a Milano.
Dopo aver conseguito il diploma presso l’Istituto Musicale Pacini e grazie alla tenacia della madre Albina, Giacomo ottenne una modesta borsa di studio dalla Regina Margherita; nel 1880 poté iscriversi al Conservatorio di Milano per studiare composizione con Antonio Bazzini e Amilcare Ponchielli. Furono anni di sacrifici e stenti, proprio quel tipo vita che anni dopo avrebbe immortalato nella sua opera Bohème; era uno studente squattrinato ma ricco di ambizioni, talento e non poca paura di fallire. Così scriveva alla sorella Ramelde il 9 dicembre 1880: «[…] L’abbuono alla Scala è 130 lire per il carnevale e quaresima, che roba […] maledetta miseria! […]»; e in una lettera del primo dicembre alla madre:
«[…] Avrei bisogno di una cosa ma ho paura a dirgliela, perché capisco anch’io Lei non può spendere. Ma stia a sentire, è roba da poco. Siccome ho una gran voglia di fagioli (anzi un giorno me li fecero ma non li potei mangiare a cagione dell’olio che qui è di sezamo o di lino!), dunque, dicevo… avrei bisogno di un po’ d’olio, ma di quello nuovo. La pregherei di mandarmene un popoino. Basta poco, l’ho promesso di farlo assaggiare anche a quelli di casa. Dunque se le mie geremiadi frutteranno, mi farà la gentilezza (come l’ungo, già si parla d’olio) di mandarmene una cassettina, che costa quattro lire […] Qui fanno opere a tutto andare, ma io nulla… Mi mangio le mani dalla bile! […]»
Nonostante le ristrettezze il giovane Puccini era costante negli studi e frequentatore assiduo dei circuiti musicali e intellettuali milanesi insieme ai suoi compagni di conservatorio tra i quali Pietro Mascagni, con il quale condivideva anche l’alloggio.
Gli incontri precoci di Puccini con la povertà e la miseria, non solo condizionarono la sua vita, ma influenzarono profondamente anche i temi e le risonanze emotive delle sue composizioni, in particolare in opere come Bohème e Tosca.
La familiarità con le difficoltà economiche gli permise in seguito di ritrarre in modo autentico la vita della gente comune. L’integrazione delle esperienze personali nel suo lavoro di composizione contribuirono a spingerlo oltre lo stile verista dei suoi amici Mascagni e Leoncavallo, e a sottolineare emozioni e situazioni della vita reale.
Nel 1883 conseguì il diploma in composizione e Carpiccio sinfonico, l’elaborato che presentò alla commissione, fu accolto con entusiasmo riscuotendo poi successo e notorietà negli ambienti musicali milanesi.
Nel 1884 iniziò una relazione con la lucchese Elvira Bonturi; la donna, già madre di due figli, Fosca e Renato, era sposata con Narciso Gemignani, ricco commerciante di Lucca. Fu proprio il Gemignani, marito poco fedele, a consigliare alla moglie di prendere lezioni di pianoforte dal suo amico d’infanzia Puccini. Fu durante uno dei lunghi viaggi lavorativi di Narciso che Elvira e Giacomo divennero amanti. La relazione dei due destò grande scandalo nella provinciale Lucca tanto da costringere la coppia a trasferirsi a Monza e poi a Milano portando con loro Fosca, lasciando con il padre il piccolo Renato del quale oggi non si hanno notizie; non si poteva più nascondere la gravidanza di Elvira incinta di Antonio, detto Tonio, che sarebbe nato il 22 dicembre del 1886.
4. Tonio Puccini e la fine di una stirpe di musicisti.
Il rapporto di Puccini con il figlio fu molto complesso e per alcuni versi anche turbolento. Giacomo fu sempre un padre molto severo nonostante amasse profondamente il figlio; alla severità di Puccini si contrapponeva l’eccessiva premura di Elvira che invece fu sempre molto permissiva. Puccini capì che la stirpe di musicisti si sarebbe fermata con lui quando, avendo regalato a Tonio un violino per invogliarlo a studiare musica, vide che il bambino aveva trasformato lo strumento in una simpatica barchetta che faceva galleggiare nell’acqua. Il rapporto di Tonio con il padre fu molto difficile a causa della schiacciante personalità di Giacomo che difficilmente approvava le scelte e i desideri del giovane; lo raccomandò personalmente per numerosi lavori, tutti rifiutati da Tonio che invece era dedito alla “bella vita”. Puccini disapprovò sempre pesantemente le relazioni amorose del figlio e a questo si può ricondurre anche il difficile rapporto che il compositore aveva con Elvira che divenne sua moglie solo nel 1904, dopo la morte di Narciso Gemignani.
[Antonio e Giacomo Puccini]
5. Un miracolo a Milano.
La Milano degli studi di composizione al Conservatorio, degli stenti e dei sacrifici fu anche la Milano delle opportunità: grazie alle sue frequentazioni ebbe modo di conoscere l’editore Giulio Ricordi, proprietario della storica casa editrice Ricordi che aveva promosso la realizzazione di opere liriche importanti della tradizione italiana, e che contribuì alla gloria di compositori quali Gioacchino Rossini, Vincenzo Bellini, Gaetano Donizetti, Giuseppe Verdi.
Giulio Ricordi intuì subito il grandissimo talento drammaturgico di Puccini che lo differenziava dai musicisti a lui coevi quali Mascagni e Leoncavallo. C’è una simpatica leggenda dietro all’opera d’esordio Le Villi: nel 1883, qualche mese dopo il suo diploma in composizione, su suggerimento del maestro Amilcare Ponchielli, Puccini partecipò a un concorso indetto dalla casa editrice Sonzogno per il finanziamento e la messinscena di una nuova opera.
Compose la musica, tra giugno e dicembre, per il libretto già scritto dal poeta e scrittore Ferdinando Fontana.
La giuria giudicatrice, composta dallo stesso Ponchielli e altri maestri vicini a Giulio Ricordi, non assegnò il premio a Puccini ma a Guglielmo Zuelli in ex-aequo con Luigi Mapelli; Giacomo Puccini non fece così parte della scuderia Sonzogno e Ricordi, grazie alla sua “manovra editoriale”, poté avere il tempo di lavorarsi il giovane talento.
Fontana, già in accordo segreto con Giulio Ricordi, organizzò un ascolto privato dell’opera presso la casa del giornalista e critico Marco Sala, alla presenza di numerosi intellettuali, scrittori e musicisti della Milano di quegli anni, tra i quali Arrigo Boito, Alfredo Catalani e l’editrice Giovannina Lucca. L’ascolto destò grande interesse tra i presenti che, sempre sotto la guida di Giulio Ricordi, organizzarono una raccolta fondi per la messinscena dell’opera.
6. Le Villi, l’esordio operistico di Puccini.
La prima rappresentazione de Le Villi si tenne presso il teatro Dal Verme di Milano il 31 maggio 1884 ed ebbe un immediato successo di pubblico e di critica; solo qualche giorno dopo, l’otto maggio, Giulio Ricordi concluse la sua “operazione editoriale” contro la rivale Sonzogno acquistando i diritti dell’opera di Puccini e annunciando sarcasticamente «[…] un’altra delle opere presentate al concorso del “Teatro Illustrato” (la rivista di Casa Sonzogno) che non ebbero né premio né menzione[…]».
La trama de Le Villi è ispirata alle leggende nord europee sulle donne abbandonate che cercano vendetta.
La storia è ambientata nella Foresta Nera dove, dinanzi alla modesta casa di Wilhelm Wulf, si sta celebrando il fidanzamento tra Anna, figlia di Wulf, e il giovane Roberto. Il protagonista partirà presto alla volta di Mainz per riscuotere un’eredità ma lì sarà coinvolto in una storia di passione con un’altra donna dimenticando completamente Anna che, morta di dolore, si trasforma in una villi, ossia uno spirito vendicativo. Abbandonato poi dall’amante, Roberto fa ritorno alla foresta Nera ma viene travolto dal fantasma di Anna che lo costringe in una vorticosa danza mortale, vendicandosi così per il suo tradimento.
Dato l’immediato successo dell’opera, tra il 1884 e il 1889, Puccini rimaneggiò più volte la partitura portando l’atto unico originario a due atti e inserendo la romanza di Anna Se come voi piccina e il monologo di Roberto Per te quaggiù sofferse ogni amarezza, assenti nell’originale. Fu aggiunta anche una quartina corale durante l’intermezzo L’abbandono e ampliata la scena finale.
7. L’influenza di Wagner.
Sin dalla prima opera, una grande presenza nell’arte pucciniana fu Richard Wagner.
L’influenza di Wagner su Le Villi è evidente in vari aspetti compositivi e drammaturgici. Puccini, grande ammiratore del compositore tedesco, incorporò l’uso dei Leitmotiv e una struttura sinfonica fortemente legata al “dramma musicale”.
L’uso dei leitmotiv ossia di frasi musicali associate a personaggi, eventi o emozioni permise a Puccini di creare connessioni emotive più profonde e continuità tematiche all’interno delle sue opere, migliorando così la narrativa drammatica.
Il preludio de Le Villi presenta riferimenti diretti al Parsifal di Wagner, evidenziando così l’adozione di tecniche armoniche ardite e innovative poco usuali nell’opera lirica tradizionale italiana. La narrazione e l’impianto drammatico seguono anch’essi i modelli wagneriani, utilizzando gli impasti timbrici orchestrali e i motivi melodici per sottolineare il carattere dei personaggi e rendendo così più fluido lo svolgimento del dramma.
Già nella sua prima opera Puccini inserì tutti gli elementi stilistici che, evolvendo con il tempo e l’esperienza, divennero poi un marchio di fabbrica; enfatizzò l’orchestra come elemento centrale della narrazione utilizzandola, non come semplice accompagnamento ai cantanti, ma per creare trame ricche che supportassero le linee vocali migliorandone l’impatto emotivo, ponendo grande attenzione ai sentimenti umani.
Puccini si mosse dunque verso una forma musicale più continua, integrando recitativo e aria in un flusso senza soluzione di continuità.
Mentre Wagner era votato al realismo psicologico dei suoi personaggi, Puccini era concentrato a riflettere le emozioni interiori dei personaggi affidandole alla sua grande abilità melodica e all’innata attitudine drammaturgica.
Le Villi fu rappresentata in tutto il mondo e diretta da grandissimi maestri tra i quali Gustav Mahler.
8. Edgar: “la cosa più orribile che sia mai stata scritta”.
La consacrazione mondiale doveva però ancora arrivare. Puccini era ormai un compositore di casa Ricordi e Giulio lo sostenne economicamente e moralmente nei periodi di difficoltà prima del grande successo internazionale che arriverà solo nel 1893 con Manon Lescaut.
Fu Ricordi ad affidargli il libretto di Edgar scritto da Ferdinando Fontana tratto dal romanzo La coupe et les lèvres di Alfred de Musset.
La composizione dell’opera ebbe una gestazione molto difficile anche a causa di quell’insicurezza che accompagnò Puccini per tutto il suo percorso artistico; la composizione iniziò quasi subito dopo il debutto de Le Villi e si trascinò fino ai primi mesi del 1889; fu rappresentata per la prima volta il 21 aprile dello stesso anno presso il Teatro Alla Scala di Milano riscuotendo un tiepido successo.
L’opera è ambientata in un villaggio nelle Fiandre; qui il giovane Edgar è diviso tra l’amore per la dolce Fidelia e la passione carnale per la provocante Tigrana, ragazza dal passato misterioso. Gli atteggiamenti irriverenti di costei, che intona una canzone blasfema davanti alla chiesa nel bel mezzo della messa, suscitano lo sdegno degli abitanti del villaggio ed Edgar accorre in sua difesa e, in preda a un’irrefrenabile esaltazione, afferra una torcia accesa e appicca il fuoco alla propria casa fuggendo poi con Tigrana verso una vita di dissolutezze. I due amanti si ritrovano poi a vivere in un ricco castello, passando da un piacere all’altro. Ben presto però il ricordo di Fidelia e della vita semplice trascorsa nel proprio villaggio cominciano a tormentare Edgar; il giovane decide così di riscattarsi arruolandosi nelle truppe che andavano in battaglia.
I soldati sono guidati da Frank, fratello di Fidelia, anch’egli in passato sedotto da Tigrana; durante una cruenta battaglia Edgar risulta disperso. Al villaggio si preparano poi le esequie del compianto Edgar ma un misterioso frate ne infanga la memoria suscitando l’ira di Fidelia; il frate, d’accordo con Frank, offre grandi ricchezze a Tigrana in cambio della denigrazione pubblica di Edgar. Gli attacchi al defunto suscitano l’indignazione dei compaesani che profanano il catafalco scoprendo l’assenza della salma; il misterioso frate, toltosi il cappuccio, si rivela essere Edgar e Tigrana, accecata dall’ira si lancia su Fidelia pugnalandola a morte.
Come già successo per Le Villi, Puccini rimaneggiò più volte l’opera, composta in principio da quattro atti poi ridotti poi a tre, non trovando mai completa soddisfazione. Nonostante l’opera non fosse amata da Puccini perché insoddisfatto del lavoro, «[…] la cosa più orribile che sia mai stata scritta […]», così definì il finale del secondo atto, Edgar rappresenta un lavoro importante del giovane Giacomo verso la maturità artistica.
9. Anni difficili alla vigilia della gloria.
La sua relazione tumultuosa con Elvira e la morte della madre, avvenuta nel 1884, influenzarono profondamente il suo stato emotivo e creativo. Questi eventi portarono a una maggiore introspezione nei temi dell’amore e della redenzione presenti nell’opera, riflettendo le sue esperienze di conflitto interiore, desiderio e peccato. Inoltre, il dramma psicologico dei personaggi può essere visto come un riflesso delle sue stesse tensioni affettive e delle sue fragilità.
Già dall’estate del 1889, tra un rimaneggiamento e l’altro di Edgar, Puccini si mise a lavoro per la composizione di una nuova opera; Ricordi aveva messo sotto contratto i librettisti Marco Praga e Domenico Oliva per lavorare sul soggetto tratto del romanzo di Prévost intitolato Storia del cavaliere Des Grieux e di Manon Lescaut.
Nonostante dallo stesso soggetto fosse già stata tratta un’opera intitolata Manon, messa in scena con la musica di Jules Massenet e il libretto Mehilac e Gille, Puccini si calò anima e corpo nella composizione.
Essendo sempre insoddisfatto delle liriche, non ebbe facile rapporto con i librettisti Praga e Oliva che passarono la scrittura ad altri intellettuali tra i quali Ruggero Leoncavallo, non ancora affermato come musicista e poi infine a Luigi Illica e Giuseppe Giacosa. Si può infine dire che il vero librettista di Manon Lescaut fu proprio Puccini che riuscì a cucire, con l’aiuto di Ricordi, il meglio dei testi più confacenti alla musica che andava via via componendo.
L’eco di Wagner è molto forte pure in quest’opera, anche per il fatto che Giulio Ricordi affidò a Puccini la riduzione per pianoforte de I maestri cantori di Norimberga e Giacomo dovette recarsi, nel luglio del 1889, a Bayreuth per assisterne ad una rappresentazione.
Ricordi svolse un ruolo fondamentale nella consacrazione di Giacomo Puccini come erede di Giuseppe Verdi attraverso strategie editoriali e promozionali:
organizzò la prima di Manon Lescaut presso il Teatro Regio di Torino il primo febbraio del 1893, solo otto giorni prima del debutto di Falstaff, l’ultima opera di Giuseppe Verdi, al Teatro Alla Scala, creando così un parallelo simbolico tra i due compositori e consacrando Puccini come nuovo compositore di punta dell’opera italiana a livello internazionale e futuro erede di Verdi.
Il pubblico di Torino reagì con grandissimo entusiasmo a Manon Lescaut destando grande interesse anche nella critica specializzata; George Bernard Shaw elogiò Puccini sottolineandone la sua unicità. I critici lodarono la “potente concezione musicale” e l’abilità di Puccini nel fondere melodie evocative con una drammaturgia incisiva, capace di esprimere emozioni profonde senza contorsioni artistiche. La sua scrittura orchestrale, densa e ricca, contribuì a creare un’atmosfera intensa mentre i temi musicali accompagnavano e amplificavano la narrazione.
La scrittura musicale evita le strutture rigide dei numeri tradizionali per una melodia continua che va a favorire una narrazione più fluida; l’utilizzo timbrico della compagine orchestrale riesce così a rendere al meglio gli stati emotivi dei personaggi integrando al meglio il tutto con l’azione scenica.
Puccini, per sostenere ancor di più la drammaturgia, inserisce anche elementi stilistici tipici del Settecento e del romanticismo.
L’opera fu diretta da Alessandro Pomè e interpretata da Cesira Ferrani e Giuseppe Cremonini Bianchi nei ruoli di Manon e Des Grieux.
La vicenda si svolge ad Amiens, alle porte di Parigi nei pressi di un’osteria dove sono radunati degli studenti che scherzano sul tema dell’amore; giunge sul piazzale una carrozza dalla quale scendono la bella Manon, ragazza destinata alla vita monastica e il fratello Lescaut. Il giovane Renato Des Grieux si innamora perdutamente di Manon e riesce a strapparle un appuntamento. Lescaut vuole dare in sposa la sorella al vecchio e ricco Geronte ed escogita dunque un piano per rapire Manon ma viene scoperto dal giovane studente Edmondo che riferisce subito a Des Grieux che, a sua volta, convince Manon a scappare con lui. Stanca poi della vita modesta condotta con Renato, Manon cede alla vita di lusso di Geronte e si rifugia da lui.
L’insoddisfazione di Manon la porta poi a stancarsi anche della vita agiata e, durante un ricevimento nella lussuosa casa di Geronte, è in preda ad una crisi di nervi così il fratello fa chiamare Des Grieux che giunge al palazzo. Alla vista di Manon, Renato dimentica le sofferenze passate e si getta tra le sue braccia; nell’istante in cui la ragazza apprende che Geronte l’ha denunciata per furto, cerca di fuggire ma viene arrestata dai gendarmi.
Nella prigione di Le Havre Manon attende di essere deportata in America; Renato non si rassegna a perdere la sua amata e convince il sergente a lasciarlo imbarcare insieme a lei; giunti poi oltre oceano Manon muore lasciando Des Grieux nella totale disperazione.
10. In anticipo sulla musica per il cinema.
Possiamo dire che con Manon Lescaut Puccini abbia posto basi solide sulle quali costruire la futura drammaturgia cinematografica; non è un caso che la musica e l’approccio drammaturgico del Maestro toscano siano stati studiati, assimilati e talvolta anche trafugati dai compositori contemporanei di musica per il cinema. Un esempio è l’Intermezzo proprio da Manon Lescaut che ha fortemente ispirato John Williams nella composizione e orchestrazione del tema principale della famosa saga Star Wars, un’ ispirazione ai limiti del plagio.
Giacomo Puccini, grazie al grandissimo successo internazionale della sua ultima opera, comprese di aver scoperto le “formule giuste” e trovato il suo modo di lavorare; aveva allestito il suo laboratorio ben attrezzato dove poter inventare e sperimentare.
Nelle opere successive si ritroveranno tutti gli elementi drammaturgici e narrativi sperimentati nei primi tre lavori, ma sempre con la costante ricerca di elementi nuovi spesso esotici, soggetti moderni per esaltare i sentimenti dell’animo umano.
11. Puccini e i suoi contemporanei.
Musicisti italiani contemporanei a Giacomo, tra i quali Pietro Mascagni, Ruggero Leoncavallo, stranieri come Claude Debussy e Richard Strauss, contribuirono a plasmare il panorama musicale di fine Ottocento e inizi Novecento; le interazioni e le influenze reciproche fecero emergere numerose similitudini ma anche differenze stilistiche.
Mascagni e Leoncavallo furono i due principali esponenti del verismo musicale, movimento che cercava di rappresentare la vita reale e i drammi quotidiani attraverso la musica.
Mascagni, con la sua Cavalleria Rusticana (1890) diede vita a un’opera esemplificativa del verismo, esaltando i temi della passione e della vendetta. La sua musica è caratterizzata da melodie forti e da un uso drammatico dell’orchestra. Sebbene Puccini e Mascagni condividessero la volontà di rappresentare la realtà umana, come anche Leoncavallo che con Pagliacci esplorò la vita degli artisti di strada, Giacomo andò oltre il verismo distaccandosi da entrambi gli amici grazie alla sua capacità di sviluppare personaggi più complessi e psicologicamente profondi.
Un altro importante contemporaneo di Puccini, che ebbe su di lui grande influenza, fu Claude Debussy.
Il collega francese, con il suo approccio impressionista, cercava di evocare atmosfere e stati d’animo attraverso il colore sonoro dell’orchestra e la delicatezza armonica. Le sue opere, tra le quali Pelléas et Mélisande (1902), condividono con Puccini una sensibilità per l’emozione e il lirismo. Tuttavia, mentre Debussy tendeva a enfatizzare l’ambiguità, Puccini mantenne una struttura narrativa più definita con un forte impatto melodico.
Entrambi i compositori esplorarono nuove sonorità, spesso esotiche, e orchestrazioni ardite con la differenza che Puccini utilizzava l’orchestra come strumento di sostegno drammatico e supporto emotivo, mentre Debussy la impiegava per evocare immagini e atmosfere, creando una sorta di paesaggio sonoro spesso onirico.
Puccini trovò dei punti di connessione drammaturgica anche con il tedesco Richard Strauss, autore di opere importanti quali Salomé (1905) e Il Cavaliere della rosa (1911); Puccini si distinse da Strauss per il suo focus sulle emozioni umane e sulla vulnerabilità dei personaggi, mentre il tedesco esplorò la psicologia umana in modi più provocatori e simbolici.
La maestria di Strauss nell’orchestrazione fu notevole e influenzò molto Puccini; tuttavia, mentre il primo spesso utilizzava l’orchestra per creare effetti grandiosi e imponenti, Puccini riuscì a combinare l’intimità delle sue melodie con un’orchestrazione evocativa, creando un’armonica coesistenza tra voci e strumenti.
12. Bohème: una sfida tra amici.
La sete di affermazione e la continua voglia di sperimentare per trovare nuove strade portò Giacomo, nel 1894, a imbarcarsi in una sfida con Ruggero Leoncavallo, suo caro amico che aveva avuto grande notorietà e successo a livello internazionale con Pagliacci: entrambi avrebbero scritto un’opera col medesimo soggetto, Bohème, ispirato al romanzo Scene della vita di Bohème di Henri Murger.
L’egocentrismo misto all’insicurezza furono la miscela esplosiva che catapultò Puccini in un forsennato lavoro di composizione, facendogli terminare l’opera nel novembre del 1895, in anticipo su Leoncavallo.
La Bohème pucciniana fu messa in scena per la prima volta il primo febbraio del 1896 presso il Teatro Regio di Torino con la direzione del ventinovenne Maestro Arturo Toscanini.
La prima rappresentazione fu un successo di pubblico ma la critica si dimostrò molto scettica, uno scetticismo portatore di fortuna: poco dopo avrebbe trionfato nei teatri in tutto il mondo.
Si racconta che Puccini dopo il debutto, emozionato dalla reazione del pubblico, si recò in un bar vicino al teatro e ordinò un drink per festeggiare. Un’ora dopo il barista gli riferì che le persone in teatro continuavano a chiedere di lui.
L’opera, suddivisa in quattro “quadri” piuttosto che atti, presenta una fluidità musicale che elimina le tradizionali separazioni tra recitativi e arie.
Qui Puccini affronta i temi della giovinezza, della precarietà, della misera ma anche dell’ambizione.
L’amore e la fragilità segnano la storia intensamente romantica tra Rodolfo e Mimì, intrisa però di precarietà e malattia.
Con quest’opera Puccini ricorda la sua vita precaria di studente a Milano, quando condivideva la camera e i sogni di gloria con il suo amico Pietro Mascagni; Bohème rappresenta la vita di giovani artisti che sognano fama e felicità, confrontandosi purtroppo con la dura realtà della povertà e delle delusioni.
Il tema del tempo che passa è centrale: le continue reminiscenze musicali dei leitmotif evocano momenti del passato che si mescolano al presente, creando un senso di malinconia e nostalgia.
Il libretto dell’opera fu scritto da Luigi Illica e Giuseppe Giacosa che seppero, con tenacia e pazienza, trovare le liriche giuste per vestire la musica di Puccini suscettibile di continui ripensamenti e cambiamenti.
La storia si svolge a Parigi, in una fredda soffitta del Quartiere Latino dove vive un gruppo di giovani artisti bohémien: lo scrittore Rodolfo, il pittore Marcello, il filosofo Colline e il musicista Schaunard; sono poveri ma, da buoni amici, si aiutano e si confortano vicendevolmente.
Per la vigilia di natale decidono di cenare fuori ma, proprio all’ora di cena, Benoit, il padrone di casa, si presenta a riscuotere l’affitto; con uno stratagemma riescono a mandarlo via e poi si avviano tutti verso la trattoria Café Momus. Rodolfo, attardatosi qualche momento per finire di scrivere un articolo, sente bussare alla porta: è Mimì la sua vicina fiorista venuta a chiedergli un favore.
I due giovani fanno conoscenza e si scoprono subito innamorati. Rodolfo porta Mimì al Café Momus e la presenta ai suoi amici. Il clima si fa teso dopo l’arrivo di Musetta, ex amante di Marcello, che ora si accompagna all’anziano e ricco Alcindoro.
Musetta cerca in tutti i modi di farsi notare da Marcello, lui vorrebbe resisterle ma alla fine la loro passione si riaccende e Musetta si unisce all’allegra brigata, lasciando ad Alcindoro il conto dell’osteria da pagare per l’intera comitiva.
Dopo qualche tempo Mimì va a trovare Marcello che lavora come ritrattista in una taverna dove Musetta si esibisce da cantante; gli confida che il suo rapporto con Rodolfo è in crisi a causa della sua eccessiva gelosia. Marcello le promette che cercherà di far ragionare Rodolfo. Anche Marcello però ha problemi con Musetta che fa la civetta con tutti. Intanto Rodolfo sta andando incontro a Marcello per confidarsi. Mimì si nasconde e ascolta la loro conversazione.
Rodolfo dapprima dice che vuole interrompere la relazione con Mimì a causa del suo comportamento troppo leggero ma poi confessa il vero motivo: la salute di Mimì è in continuo peggioramento e quindi non può restare più con lui nella fredda soffitta che purtroppo è la sola casa che può permettersi.
Mimì, molto turbata da questa rivelazione, si lascia sfuggire un colpo di tosse rivelando la sua presenza; lei e Rodolfo decidono così di separarsi.
Nel frattempo Marcello, sempre nel locale, sente la risata di Musetta e vede che sta flirtando con un uomo e, dopo un litigio, anche loro due decidono di separarsi.
Il tempo passa, Rodolfo e Marcello soffrono molto per amore essendo entrambi separati dalle loro donne; mentre gli amici cercano di rallegrarli, arriva Musetta chiedendo aiuto per Mimì che è gravemente malata. Rodolfo corre subito a soccorrerla e la ragazza è felice di riunirsi a lui, ma si spegnerà quietamente di lì a poco, tra la commozione di tutti i presenti.
Puccini dipinge con la musica, in ciascuno dei quattro quadri, le emozioni che caratterizzano la storia.
Nel primo quadro si trovano gioia e spensieratezza, con i giovani artisti che vivono momenti di allegria e amicizia; si intravede però già la fragilità della loro esistenza.
Nel secondo quadro abbiamo la passione e il desiderio. L’amore tra Rodolfo e Mimì si intensifica, mentre Musetta esprime vivacità e gran voglia di libertà, creando così un contrasto tra le due coppie. Il terzo quadro invece è caratterizzato dal sentimento di tristezza per la malattia di Mimì e dal conflitto interiore sia di Rodolfo sia di Marcello.
Il quarto e ultimo quadro è contraddistinto invece dalla desolazione per la morte della protagonista e dalla nostalgia per la giovinezza che svanisce col passare del tempo.
Con Bohème, Puccini ha regalato al mondo brani immortali ancora oggi molto eseguiti tra i quali Che gelida manina, Sì, mi chiamano Mimì, O soave fanciulla, Sono andati? Fingevo di dormire.
La figura femminile nelle opere di Giacomo Puccini è complessa e stratificata, rivelando un ampio spettro di emozioni, aspirazioni e conflitti.
Attraverso i suoi personaggi femminili, Puccini non solo esplora le relazioni umane, ma affronta anche temi sociali e culturali del suo tempo.
Mimì è una figura che incarna la fragilità e la passione. La sua storia d’amore con Rodolfo è intrisa di dolcezza ma anche di tragedia. La protagonista rappresenta il sogno e la speranza ma anche la vulnerabilità e la malattia. La sua morte non è solo un evento tragico, ma una riflessione sulla precarietà della vita e delle aspirazioni giovanili.
La complessità dei sentimenti che Puccini esalta attraverso le sue opere è lo specchio della sua stessa identità caleidoscopica, caratterizzata da numerosissime sfaccettature che vanno dal serio al goliardico.
Un episodio singolare si verificò durante le prove per la prima al Teatro Regio di Torino: il soprano Cesira Ferrani, interprete di Mimì, aveva problemi con la scena della morte. Puccini le consigliò di osservare l’uccisione di un’anatra per comprendere il graduale svanire della vita. Quando la Ferrani protestò, Puccini fece portare un’anatra nel suo camerino e la fece macellare, con grande orrore della donna. Tuttavia, l’interpretazione di Ferrani della morte di Mimì divenne leggendaria.
[Giacomo Puccini, Pietro Mascagni, Titta Ruffo al funerale di Ruggero Leoncavallo]
13. Il gioco e la caccia.
Puccini era un grande appassionato di caccia, in particolare di uccelli acquatici nei dintorni della sua villa che si era fatto costruire a Torre del Lago, frazione del comune di Viareggio.
Diceva spesso che era “tanto felice di una buona giornata di caccia quanto di una prima d’opera di successo”. Si fece persino realizzare degli stivali speciali che gli permettevano di guadare il lago per recuperare le sue prede; le battute di caccia spesso gli fornivano ispirazione per la sua musica.
Puccini era noto anche per il suo amore per i giochi di carte e biliardo. Spesso procrastinava le sue composizioni impegnandosi in maratone di gioco con gli amici. Quando a volte si trovava bloccato su un passaggio musicale difficile diceva: “…giochiamo a carte, la soluzione verrà da sola”.
Le sue abitudini lavorative erano notturne. Spesso componeva tutta la notte fumando sigarette a catena e bevendo whisky. Per non essere disturbato mentre dormiva durante il giorno, aveva fatto costruire la sua villa a Torre del Lago con muri molto spessi. Per i suoi orari strani la gente del posto lo soprannominò “il gufo”.
Giacomo Puccini nel giardino della sua villa a Torre del Lago
14. Caruso e Puccini: due amici ambasciatori dell’Italia nel mondo.
Bohème fu fondamentale anche per un altro personaggio molto importante per Puccini e per la storia della musica mondiale: Enrico Caruso.
L’allora emergente tenore napoletano e il Maestro toscano si conobbero nel 1897 al Teatro Goldoni di Livorno in occasione di una ripresa dell’ultima opera; Puccini dopo avere ascoltato l’interpretazione di Caruso nel ruolo di Rodolfo esclamò «Ma chi ti manda, Dio?».
Questa edizione dell’opera sugellò sia una profonda amicizia tra il cantante e il compositore ma fu anche la circostanza in cui nacque la leggendaria storia d’amore tra Caruso e il soprano Ada Giachetti. Due anni dopo la coppia rese omaggio a Puccini chiamando il primogenito Rodolfo, come il personaggio di Bohème.
Il critico Fausto Torrefranca diceva che il compositore toscano fosse pigro e che scrivesse un’opera ogni quattro o cinque anni.
Puccini era tutt’altro che pigro, lavorava molto alla sua musica anche quando svolgeva altre attività; leggeva molto, assisteva a tante rappresentazioni teatrali, operistiche, prendeva continuamente appunti per non perdere idee musicali, letterarie e intuizioni di vario tipo.
15. E lucean le stelle.
L’opera successiva a Bohème fu Tosca. Nel 1889 Puccini aveva assistito a Milano alla rappresentazione del dramma La Tosca di Victorien Sardou e ne era rimasto immediatamente colpito; chiese subito a Giulio Ricordi di acquisirne i diritti per trarne un’opera lirica. Ricordi si recò a Parigi per contrattare con Sardou che, in un primo momento, si dimostrò riluttante, ma poi accettò anche grazie all’influenza di Giuseppe Verdi che, essendo a Parigi per un allestimento, fu presente insieme a Ricordi a una riunione col drammaturgo francese.
Lo stesso Verdi fu molto colpito dal dramma di Sardou ma si reputò troppo vecchio e stanco per poterci lavorare.
In un primo momento Ricordi affidò il soggetto di Tosca al compositore Alberto Franchetti che però dopo qualche mese rinunciò al progetto; fu naturale che Ricordi affidasse a Puccini il soggetto per la composizione della nuova opera.
Qualche mese dopo la prima rappresentazione di Bohème, nella primavera del 1896, il Maestro iniziò a comporre Tosca che terminò nell’ottobre del 1899.
L’opera fu rappresentata per la prima volta il 14 gennaio del 1900 a Roma presso il Teatro Costanzi, attuale Teatro dell’Opera, ricevendo un’accoglienza contrastante; il pubblico, che alla fine applaudì entusiasta, fu inizialmente teso a causa di problemi tecnici, di voci di un probabile attentato, e infine per la protesta di alcuni ritardatari che costrinsero il direttore Leopoldo Mugnone a fermare l’orchestra e a ricominciare da capo.
Nonostante gli intoppi il pubblico applaudì calorosamente e chiese il bis delle arie Vissi d’arte e E lucean le stelle. I critici della stampa furono invece freddi; l’opera ebbe però più di venti repliche consecutive a teatro pieno, anticipando il grande successo internazionale.
Nonostante l’acclamazione Puccini era noto per essere molto sensibile alle critiche. Si dice che, dopo una recensione negativa di un’opera, potesse rimanere sconvolto per giorni.
Questo lato della sua personalità mette in evidenza l’intensità emotiva con cui affrontava la sua arte e il desiderio di essere apprezzato non solo come compositore, ma anche come uomo.
Con quest’opera volle affrontare i temi della gelosia, del sacrificio ma anche della brama di potere e desiderio; il barone Scarpia, con la sua brutalità manipolatrice, simboleggia l’abuso di potere maschile mentre Tosca è contemporaneamente la ribelle che ammazza il potente Scarpia ma anche la vittima che si toglie la vita.
La storia si svolge nella Roma papalina d’inizio Ottocento, periodo molto effervescente a livello politico.
Cesare Angelotti, già console della Repubblica e per questo prigioniero politico, riesce a evadere da Castel Sant’Angelo e trova rifugio nella Chiesa di Sant’Andrea Della Valle. Sua sorella, la Marchesa Attavanti, gli ha lasciato la chiave della cappella di famiglia dove potersi nascondere.
Il pittore Mario Cavaradossi, fidanzato con la cantante Floria Tosca, è impegnato nella chiesa a realizzare un affresco raffigurante la Madonna; ha tratto ispirazione dal viso di una fedele devota ignorando che quella donna fosse proprio la Marchesa Attavanti.
Angelotti, credendo di esser rimasto solo, esce dal nascondiglio. Incontra però Cavaradossi, suo vecchio amico e anch’egli simpatizzante per Napoleone Bonaparte. I due vengono interotti bruscamente dall’arrivo di Tosca che ha sentito il suo amato parlare con qualcuno e teme la presenza di un’altra donna. Dopo essere stata rassicurata, la gelosissima Tosca riconosce nello sguardo della Madonna gli occhi della Marchesa Attavanti e viene presa nuovamente da un impeto di gelosia.
Allontanatasi Tosca, Angelotti esce dal nascondiglio e Cavaradossi gli consiglia di recarsi nella sua villa e, in caso di pericolo, nascondersi nel pozzo. Sopraggiunge allora in chiesa il barone Scarpia, capo della polizia, per cercare l’evaso Angelotti e per un caso fortuito, nota che vicino all’affresco c’è un ventaglio femminile con lo stemma degli Attavanti e una forte somiglianza tra il volto della Marchesa e quello della Madonna ritratta nell’affresco.
Intuisce così che il piano di fuga di Angelotti è stato ordito con la complicità di Cavaradossi. Tosca, tornata in chiesa per avvisare il suo amato che la sera sarebbe stata ospite a Palazzo Farnese, viene avvicinata da Scarpia che utilizza il ventaglio per instillare nella ragazza il dubbio del tradimento di Mario con la Marchesa. Tosca corre quindi alla villa del pittore per poter cogliere i due amanti in flagranza ma viene seguita da alcuni poliziotti.
Il duplice scopo di Scarpia è catturare Angelotti e avere Floria Tosca tutta per sé.
Cavaradossi viene arrestato e condotto a palazzo Farnese per essere interrogato da Scarpia; il pittore si rifiuta di tradire l’amico Angelotti e quindi viene torturato e condannato a morte.
Tosca, pur di salvare la vita al suo amato, decide di concedersi a Scarpia in cambio della salvezza di Mario e di un documento che li autorizzi insieme a lasciare Roma. Il furbo Scarpia le dona il salvacondotto e la rassicura che l’esecuzione di Cavaradossi sarà solo una fucilazione simulata. Quando il barone si avvicina a Tosca per possederla, la ragazza afferra un pugnale e ferisce mortalmente Scarpia al cuore. Dopo la finta fucilazione di Mario, Tosca si avvicina al corpo dell’amato scoprendo con orrore che si è trattato di una vera esecuzione e, in preda alla disperazione, si lancia dalla torre di Castel Sant’Angelo dove è appena avvenuta la disgrazia.
Come quasi tutte le opere, anche Tosca fu soggetta a revisioni, tagli, aggiustamenti; Puccini non era mai completamente soddisfatto e qualsiasi critica lo feriva terribilmente. In quest’opera non vi è ouverture, la scena parte direttamente con dei forti accordi dissonanti che lasciano presagire subito la tragedia; il Maestro fu attentissimo al connubio tra musica e parola, ancora una volta Illica e Giacosa riuscirono a tener testa a Giacomo, ai suoi continui ripensamenti e alle richieste di rifacimenti testuali per i tre atti di cui l’opera si compone.
Tosca si può considerare l’opera più drammatica di Puccini, con colpi di scena, tensione costante, evidenziata da armonie dissonanti, materiali tematici brevi ma emotivamente molto incisivi.
La scrittura timbrica dell’orchestra è fondamentale nella drammaturgia dell’intera rappresentazione, oltre ai Leitmotif, a ciascun personaggio sono associati degli strumenti o gruppi di strumenti che ne identificano la personalità e l’emotività, donando grande fluidità e tensione drammatica alla narrazione, anticipando di qualche anno l’espressionismo musicale.
Altra innovazione della partitura è l’ambiente sonoro della Roma di prim’Ottocento: Puccini inserisce le campane, il colpo di cannone che si ode dal Gianicolo ma anche uno stornello romanesco cantato per strada, il tutto per fare immergere totalmente il pubblico in un altro tempo storico. Inserisce inoltre il Te Deum con effetti drammatici significativi per far emergere il contrasto tra sacro e profano e la lotta tra sostenitori della restaurazione pontificia e rivoluzionari repubblicani.
I capolavori melodici dell’opera sono tre, ciascuno per ogni atto: Te Deum nel primo, Vissi d’arte nel secondo, E lucean le stelle nel terzo.
16. Il grammofono di casa Puccini.
Il nuovo secolo fu carico di novità tecnologiche, scoperte scientifiche e cambiamenti sociali; l’incisione fonografica fu una delle più importanti innovazioni d’inizio Novecento. Prima con il fonografo a cilindro di cera messo a punto da Thomas Edison nel 1877 e poi con il grammofono su disco in ceralacca inventato da Emile Berliner, la musica, anche se solo riprodotta, divenne accessibile a un pubblico molto più vasto di quello teatrale.
Una data fondamentale per la storia della fonografia, che cambierà poi l’approccio dell’essere umano alla musica e alla performance sonora, fu l’undici aprile del 1902: nel pomeriggio di questa data, presso l’Hotel et de Milan, a Milano, il tenore Enrico Caruso incise 10 arie d’opera per la compagnia fonografica Gramophone&Typewriter; tra i titoli ovviamente non poteva mancare la musica di Puccini.
L’interpretazione del tenore napoletano di E lucean le stelle per sola voce e pianoforte cambiò per sempre il modo di cantare nell’opera lirica. L’incisione fonografica, prima di Caruso, veniva considerata una cosa poco seria, un gioco per bambini; il tenore ne aveva intuito invece le potenzialità e quindi accettò di registrare per una somma di 100 sterline, pari al compenso di una recita al Teatro alla Scala. Nel giro di pochi mesi la Gramophone&Typewriter vendette più di un milione di dischi rendendo Caruso ancora più celebre e gettando le basi per la grande industria discografica di massa.
Puccini fu entusiasta delle incisioni di Caruso e credeva che la fonografia potesse influire positivamente sulla diffusione della musica per il teatro.
Giacomo inoltre era un appassionato di tecnologia e acquistava subito qualsiasi nuova invenzione lo interessasse. Il grammofono e i dischi non mancarono in casa Puccini, come non mancarono le automobili, i più avanzati impianti di innaffiamento automatico del tempo e poi, verso gli anni Venti, la radio.
Possedeva diverse automobili, quando in Italia erano ancora una rarità, e nel 1903 fu vittima anche di un grave incidente automobilistico che lo costrinse per mesi con una gamba rotta, durante i quali lavorò a Madama Butterfly.
Puccini amava anche molto cucinare e, durante i suoi soggiorni a Torre del Lago, spesso organizzava cene per amici e colleghi. Era noto per la sua abilità nel preparare piatti tipici toscani; un aneddoto racconta che, durante una cena, il compositore servì un piatto di spaghetti così delizioso che i suoi ospiti, fra cui Caruso, ne rimasero estasiati.
17. Puccini e le “sue donne”.
Tutto il percorso operistico di Puccini è dominato dalla figura della donna; risulta dunque essere un elemento centrale che contribuisce alla ricchezza e alla complessità delle sue narrazioni.
Attraverso personaggi come Mimì di Bohème, Tosca e Ciò-Ciò-San di Madama Butterfly, il compositore riesce a catturare l’essenza delle emozioni umane, esplorando temi di amore, sacrificio e identità.
Le sue opere non solo celebrano la forza delle donne ma pongono anche interrogativi sulle dinamiche sociali e culturali, rendendo la figura femminile un punto di partenza per riflessioni più ampie sulla condizione umana.
Nella sua vita privata Puccini fu sempre circondato da numerose donne ed ebbe con loro un rapporto controverso; la relazione con Elvira fu conflittuale e contraddistinta da astio e amore profondo, infatti le sue ultime parole, che scrisse sul letto di morte il 29 novembre del 1924, furono proprio a lei dedicate: “Elvira, povera donna finita”.
Puccini non riusciva a resistere al fascino femminile ed ebbe numerose storie extraconiugali. Uno dei suoi primi “giardini”, come definiva le sue avventure, fu nel 1900 con una signora di nome Corrina che si pensa fosse un avvocato di Torino. Questa storia clandestina causò naturalmente grossi problemi con Elvira e fu interrotta solo dopo l’intervento di Ricordi.
La successiva relazione conosciuta fu con Sybil Seligman, moglie di un ricco banchiere londinese che, dopo un solo incontro sessuale, interruppe la relazione per paura di essere scoperta e cadere in disgrazia. Tuttavia rimase la fedele amica di Puccini assistendolo persino sul letto di morte.
Ebbe storie anche con Blanke Lendvai, sorella del compositore ungherese Ervin Lendvai; con l’aristocratica tedesca Josephine von Stengel per la quale nel 1915 fece costruire una villa a Viareggio.
Anche molte delle interpreti delle sue opere furono sue amanti come la cantante tedesca Rose Ader.
Ebbe anche relazioni con donne che non appartenevano all’aristocrazia tra le quali Giulia Manfredi di cui parlerò più avanti.
18. Madama Butterfly.
Già dal 1901 Puccini aveva iniziato a lavorare a una nuova opera che terminò nel dicembre del 1903.
Nell’estate del 1900 il compositore aveva assistito a Londra al dramma scritto da David Belasco intitolato Madame Butterfly innamorandosene follemente; il soggetto fu tratto da un racconto del 1898 dello scrittore americano John Luther Long.
Ciò-Ciò-San, la protagonista, è una delle figure femminili più iconiche di Puccini.
La sua innocenza e la sua devozione nei confronti dell’amato Pinkerton, ufficiale della Marina Americana, rendono la narrazione tragica e commovente. Ciò-Ciò-San incarna l’idealizzazione dell’amore ma anche la brutalità della realtà coloniale.
La sua tragica fine, segnata dal rifiuto e dall’abbandono di Pinkerton, pone interrogativi sull’identità e sul sacrificio. La storia di Ciò-Ciò-San, ambientata all’inizio del Novecento nella città di Nagasaki in Giappone, è una riflessione sul colonialismo e sulla condizione femminile.
Una costante nelle opere di Puccini è l’idea dell’amore che porta al sacrificio. Le sue protagoniste spesso si trovano a dover scegliere tra la loro felicità e il bene dei loro amati. Questo è particolarmente evidente nei personaggi di Tosca e Ciò-Ciò-San, dove l’amore diventa un elemento di conflitto che conduce alla tragedia.
Le donne pucciniane sono rappresentate con una duplice natura: sono vulnerabili e forti al contempo; le loro scelte, anche quando sono influenzate da fattori esterni, riflettono una volontà di agire e di difendere ciò che amano. Puccini utilizza i suoi personaggi femminili anche per mettere in luce questioni sociali e culturali. Le loro storie affrontano temi di classe, di identità e oppressione, specialmente nel contesto storico in cui vivono.
Ciò-Ciò-San, ad esempio, rappresenta le conseguenze del colonialismo e della disparità culturale tra occidente e oriente, sollecitando il pubblico a riflettere su questioni di giustizia e umanità.
Per Madama Butterfly Puccini si avvalse nuovamente dei librettisti delle due opere precedenti, Luigi Illica e Giuseppe Giacosa.
L’opera inizia con Pinkerton che sta organizzando il suo matrimonio con Ciò-Ciò-San ma considera l’unione come un affare temporaneo, poiché prenderà una moglie “seria” quando sarà tornato in America. L’ingenua Ciò-Ciò-San crede sinceramente nel loro amore. Nonostante il disaccordo della famiglia, in particolare dopo aver abbracciato il cristianesimo per amore di lui, Ciò-Ciò-San è piena di speranza per il futuro anche se dovrà affrontare un periodo di solitudine a causa del ritorno di Pinkerton negli Stati Uniti.
Per tre lunghi anni Ciò-Ciò-San resta devota al marito, aspettandolo con ansia. Sharpless, console americano a Nagasaki, si reca dalla donna per farle visita; vedendo quanto lei s’illudesse dell’amore di Pinkerton, le suggerisce di accettare la corte del principe Yamadori che vorrebbe sposarla, ma lei rifiuta ostinatamente poiché si considera già sposata con l’americano.
Il console la avvisa che il “marito” sta per arrivare in Giappone; la ragazza gli mostra così il figlio che ha avuto da Pinkerton e che ha nascosto a tutti. Successivamente Cio-Cio-San, scrutando l’orizzonte, scorge la nave su cui è imbarcato il suo amato e, insieme alla sua governante Suzuki, addobba la casa per accoglierlo degnamente.
Le donne, insieme al bambino, restano in attesa per tutta la notte senza che nessuno si presenti.
Pinkerton, appreso da Sharpless di avere un figlio, si reca da Ciò-Ciò-San con l’unica intenzione di portare con sé il bambino negli Stati Uniti ed educarlo insieme alla sua moglie americana Kate secondo gli usi occidentali. A questo punto Butterfly capisce che la sua grande storia d’amore, la sua felicità, sono state solo un’illusione. Con il volto coperto di lacrime, pone il bambino in una stuoia, lo benda delicatamente e gli mette tra le mani una bambola e una bandierina americana. Nella disperazione, dopo aver pregato le statue dei suoi Dei ancestrali, si toglie la vita con un antico pugnale ereditato dal padre.
Pinkerton è dunque il simbolo dell’arroganza occidentale, considera il matrimonio con Butterfly come un’avventura temporanea, riflettendo così la mentalità imperialista che tratta le culture extra-occidentali come inferiori e sfruttabili.
La figura di Ciò-Ciò-San, che rinuncia alla sua cultura per adattarsi a quella americana, evidenzia le devastanti conseguenze del colonialismo: isolamento e annientamento personale. La sua tragica fine evidenzia dunque l’impossibilità di una vera integrazione culturale, mostrando come il colonialismo distrugga identità e dignità.
19. Un fortunatissimo fiasco.
La prima di Madama Butterfly al Teatro alla Scala, il 17 febbraio 1904, fu un clamoroso fiasco. Nonostante le aspettative elevate, il pubblico accolse l’opera con schiamazzi e disapprovazione.
Puccini e Giulio Ricordi avanzarono l’ipotesi che fosse stato costruito un clima di ostilità attorno all’opera e che una claque di rivali aveva disturbato la rappresentazione.
La critica specializzata fu spietata, il musicista compositore Ferruccio Busoni la giudicò persino “indecente”.
Puccini così scrisse all’amico Camillo Bondi: «[…] con animo triste ma forte ti dico che fu un vero linciaggio. Non ascoltarono una nota quei cannibali. Che orrenda orgia di forsennati, ubriachi d’odio. Ma la mia Butterfly rimane qual è: l’opera più sentita e suggestiva ch’io abbia mai concepito. E avrò la rivincita, vedrai, se la darò in un ambiente meno vasto e meno saturo d’odi e di passioni […]».
Dopo l’insuccesso della prima al Teatro alla Scala, Puccini decise di rivedere pesantemente la partitura, eliminando scene e modificando alcuni passaggi musicali per rendere l’opera più agile ed equilibrata.
Tre mesi dopo, la versione rivisitata fu presentata a Brescia dove riscosse un enorme successo.
Per la composizione di quest’opera, Puccini studiò molto il folklore musicale giapponese, si documentò sulla storia delle tradizioni e dei costumi. Utilizzando melodie intrise di pentatonismo e orchestrazione ricercata, il compositore cercò di evocare quel mondo esotico e lontano sconosciuto alle masse occidentali. L’utilizzo di ritmi ternari per esprimere momenti di gioia e passione, di ritmi binari per caratterizzare melodie più drammatiche, resero la narrazione emozionante e fluida.
Come già successo in Tosca, Puccini utilizza musiche esistenti rendendole funzionali alla drammaturgia: inserisce The Star-Spangled Banner, all’epoca inno della Marina Militare e attualmente inno degli Stati Uniti d’America, per evocare l’imponenza della supremazia statunitense in contrasto con le delicate melodie orientali.
Brani come Un bel dì, vedremo, Coro a bocca chiusa e Addio fiorito asil sono e resteranno pagine importanti nella storia della musica.
Il cruscotto della cassazione civile[1
di Franco De Stefano
Uno sguardo d’insieme alla recente introduzione di uno strumento di rilevamento, organizzazione e rappresentazione dei dati statistici dell’ufficio giudiziario giudicante di legittimità, funzionale alle scelte di pianificazione di trattazione delle pendenze, ad iniziare da quelle di composizione dei ruoli di udienza e adunanza, funzionale all’adeguamento flessibile ed in progress dei relativi strumenti processuali di gestione di pendenze e sopravvenienze ed al complessivo miglioramento della risposta complessiva alla domanda di giustizia di legittimità.
Sommario: 1. Premessa metodologica. - 2. Il cruscotto direzionale, in generale. - 3. Il cruscotto direzionale in Cassazione. - 4. Il ruolo del cruscotto direzionale in Cassazione. - 5. Le utilità offerte dal cruscotto della Cassazione. - 6. Qualche idea sulle opportunità offerte. - 7. Gli interventi coordinati. - 8. Notazioni conclusive.
1. Premessa metodologica.
È innegabile che, con il generalizzato recepimento – a partire dall’introduzione dei programmi di gestione e dalla loro implementazione nella legislazione e nella successiva normazione secondaria di attuazione – di un’impostazione definibile, a fini comunque meramente descrittivi o in via prudenziale, sostanzialmente aziendalistica di attenzione al risultato quantitativo del “prodotto” della funzione giurisdizionale quale parametro della sua efficienza, negli ultimi anni l’attenzione si è concentrata su quest’ultima soprattutto in termini di riduzione o contenimento dei tempi di lavorazione delle pendenze prima e, in generale, delle sopravvenienze.
È, del resto, questa l’impostazione del PNRR, dal nostro Paese liberamente accettata al momento della sollecitazione dell’erogazione delle risorse europee.
Non è questa la sede per una riflessione o un approfondimento sulla congruità di tale impostazione e della matrice di una simile scelta efficientistica, né per alcuna considerazione sull’utilità o sulla funzionalità dell’opzione di rispondere alla dilagante domanda di giustizia con strumenti volti a consentire alla relativa offerta di rincorrerla, incrementando in termini quantitativi il prodotto dell’attività degli uffici investiti della funzione giurisdizionale, anziché mediante interventi strutturali in grado di incidere sul contesto, sulle condizioni e sulle cause che quella domanda generano, idonei a contenerne l’irrefrenabile espansione e a ridurre l’indispensabilità dell’impegnativa risposta pure così sollecitata.
Una tale impostazione viene qui presa a riferimento come dato di realtà, da studiare e valutare in quanto tale: cioè, da un punto di vista meramente empirico e tecnico, mantenendosi una posizione che si dichiara espressamente volersi mantenere quanto più neutrale possibile in ordine all’assetto assiologico che la sostiene.
Una tale premessa di neutralità non esime, peraltro, almeno dal richiamo al fatto che, a prescindere dalle impellenti esigenze produttivistiche (comunque utili, quando non indispensabili, ad impostare efficienti tecniche di gestione della domanda di giustizia), il “prodotto” su cui si ragiona ed il cui procedimento di realizzazione si analizza è pur sempre una risposta giurisdizionale: non soltanto un bene materiale, per quanto delicato o di lusso possa – di volta in volta – qualificarsi, ma soprattutto un risultato, quello della risoluzione o della prevenzione dei conflitti interpersonali e della ponderata regolazione dei rapporti tra i consociati, quale precondizione per la loro piena realizzazione quali persone umane e nel riconoscimento e contemperamento dei loro diritti e delle loro libertà fondamentali.
In quest’ottica, può comunque anticiparsi la conclusione che l’adozione e la stessa applicazione di strumenti propri della gestione aziendale, finalizzati all’equilibrio – anche solo di lungo termine – della domanda e dell’offerta di “prodotto” all’esito di un procedimento di lavorazione – assimilato sempre più ad una catena produttiva – è, da un lato, indotta da questa impostazione e, dall’altro, comunque in grado di avvalersi dei progressi e degli sviluppi delle tecniche di organizzazione e gestione aziendale: ai quali va ricondotto anche il “cruscotto” oggi in esame, con una valutazione senz’altro positiva se non altro per le opportunità offerte ai decisori ed ai responsabili.
2. Il cruscotto direzionale, in generale.
Un’impostazione sostanzialmente aziendalistica impone, necessariamente, di mutuare dalla relativa disciplina alcuni concetti fondamentali, con l’avvertenza che, appunto, essi vanno applicati a grandezze che, probabilmente, fino a qualche tempo fa non erano considerate a livello di meri manufatti in esito ad un ciclo produttivo: e, così, con la necessaria attenzione alle esigenze di adeguamento indotte dalla peculiarità dell’oggetto del ciclo stesso.
In primo luogo, occorre prendere dimestichezza con l’acronimo KPI, che sta per Key Performance Indicator, vale a dire, letteralmente “indicatore chiave di performance”[2] (o di prestazione), una definizione che riflette efficacemente la sua funzione: il compito di tali indicatori è la somministrazione di informazioni (sia a consuntivo che in corso d’opera, a seconda delle esigenze da soddisfare) rispetto alle performance – o risultati attesi o prestazioni – di un determinato processo di produzione di beni o servizi; e deve trattarsi di elementi da monitorare che siano rilevanti ed utili, se non decisivi, ai fini dell’impostazione di una qualunque strategia e del perseguimento degli scopi prefissati. Generalmente, può – in linea di grande approssimazione – rimarcarsi una differenza sostanziale tra KPI e Obiettivi: i primi sono, infatti, funzionali ai secondi (che possono definirsi, sia pure descrittivamente, i traguardi che un’attività si propone di raggiungere) e forniscono elementi puntuali e misurabili sulle estrinsecazioni, sugli aspetti e sulle caratteristiche della strategia adottata (o, se si vuole, su impostazione e funzionalità delle diverse fasi del processo produttivo).
In questo contesto, “cruscotto direzionale” (o “dirigenziale”, nel senso di messo a disposizione del dirigente, a sua volta inteso quale decisore) – o dashboard[3] – può definirsi uno strumento di misurazione e valutazione con la finalità di integrare in un’ottica multidimensionale gli obiettivi strategici, le performance attese e il conseguimento di outcome desiderati; in particolare, un sistema più o meno articolato di supporto al processo decisionale, in grado di fornire ai decisori tutte e solo le informazioni necessarie, presentandole in un determinato formato, con l’obiettivo generale di migliorare il processo decisionale ampliando la capacità cognitiva dei decisori stessi[4].
Esso presuppone la definizione dei suoi fini ed obiettivi (programmazione, monitoraggio, performance management, comunicazione, ecc.), l’identificazione dei suoi utilizzatori e la mappatura del loro fabbisogno informativo, nonché la definizione delle caratteristiche funzionali e grafiche.
Un cruscotto funzionale deve garantire: tempestività (cioè, i dati devono essere forniti nel minor tempo possibile o, comunque, in quello indispensabile al decisore per adeguare opportunamente il proprio operato); chiarezza (immediata leggibilità ed interpretabilità da parte dei responsabili e, in generale, dei decisori cui quello è rivolto); affidabilità (solidità e genuinità dei dati raccolti); selettività (capacità di somministrare dati organizzati in informazioni prioritarie e fruibili, diverse dalla mera esposizione grezza o collezione di dati analitici interpretabili con difficoltà)[5].
Applicate tali conclusioni alla P.A. ed al ciclo della produzione dei servizi da essa resi (cui, descrittivamente e a questi soli fini, equiparare mutatis mutandis la giurisdizione), può convenirsi con chi ascrive il cruscotto ad uno degli strumenti del controllo di gestione: il quale va qualificato come «sistema integrato» in grado di rendere visibile e trasparente, ai vari livelli dell’organizzazione, la traduzione delle linee strategiche in obiettivi operativi, in un contesto che fa maturare la condivisione di strategie ed obiettivi, attraverso le varie fasi nelle quali si realizza l’attività di pianificazione e controllo di gestione. Un cruscotto direzionale – che consenta di tenere sotto controllo l’andamento delle attività, sia sotto il profilo dell’efficienza e della qualità del servizio erogato che dell’economicità della gestione – oltre a svolgere un ruolo importante per le esigenze legate al controllo della gestione (e quindi, di autentica guida all’azione) e al controllo strategico, svolge un importante servizio di supporto per le funzione di indirizzo e controllo dei decisori[6].
Più in particolare, quanto all’esperienza della funzione giurisdizionale è decisiva la circostanza che la CEPEJ, cioè la Commissione europea per l’efficienza della giustizia costituita in seno al Consiglio d’Europa, ha dedicato, non molti anni addietro (ed anzi, significativamente, in tempi coincidenti con l’avvio della sperimentazione di cui oggi ci si occupa), una specifica attenzione proprio agli strumenti di rilevazione dei dati nel sistema giudiziario.
In quella sede definito il cruscotto di indicatori, in base ad una definizione ormai classica quale “rappresentazione visiva dei dati sotto forma di tabelle, diagrammi, grafici, codificati con scale di colori che mira a tracciare, analizzare e visualizzare dati sul livello di prestazione di un’organizzazione o di un processo” e quindi[7] quale “strumento per comprendere, gestire e migliorare le prestazioni di una data organizzazione, sistema, o processo, incentrando l’attenzione sugli indicatori di prestazione rilevanti”, è stato – in esito alla 36a seduta plenaria del 16 e 17 giugno 2021 della CEPEJ – adottato un articolato “Handbook on Court Dashboards” ( “Manuale sui cruscotti giudiziari”)[8].
La sua complessità ne impedisce un approfondito esame in questa sede: dovendo allora qui essere sufficiente un richiamo alla sua ampia strutturazione, idonea a fornire agli operatori le indicazioni necessarie per la costruzione di cruscotti efficienti ed utili[9], a loro volta funzionalizzati a migliorare l’efficienza della risposta di giustizia.
Anche in questo caso, può dirsi che la linea di tendenza degli studiosi dell’efficienza del sistema giudiziario è quella di acquisire strumenti di gestione consapevole del ruolo, questo da intendersi sia come funzione vera e propria nell’assetto istituzionale, sia come magazzino o coacervo degli affari di cui è richiesta la trattazione e l’esaurimento in termini di efficiente risposta di giustizia.
3. Il cruscotto direzionale in Cassazione.
Come rilevato dalla Prima Presidente nella sua relazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024, la Corte di cassazione ha avviato, dalla fine del 2021, un progetto diretto a sviluppare un sistema di monitoraggio dei dati statistici e delle attività giudiziarie sulla gestione dei procedimenti civili e penali della Corte.
Alla sua realizzazione hanno contribuito il Politecnico di Milano e la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI), con la collaborazione del CED della Corte di cassazione, in forza di Convenzione sottoscritta tra il Ministero della Giustizia e la Conferenza dei Rettori delle Università italiane.
Dal settembre 2023 è operativo il Cruscotto per il settore civile, mentre è in corso di realizzazione, sviluppo ed applicazione quello per il settore penale; pertanto, anche in considerazione delle specifiche esperienze finora maturate, si concentra qui l’attenzione su quello civile, rimandati ad altre sedi gli approfondimenti su quello penale.
Nell’impostazione della Prima Presidenza, il “cruscotto direzionale” realizzato per la Corte (e, al momento, funzionante per il settore civile) assolve a quattro principali funzioni, tra loro sovrapponibili e intersecabili:
1) una funzione operativa (o ricognitiva), diretta a descrivere lo stato delle cose momento per momento e le performance o prestazioni dell’organizzazione nel tempo;
2) una funzione analitica (letteralmente, di analisi dei dati), diretta a presentarli in modo chiaro e leggibile per l’utente destinatario;
3) una funzione tattica: di filtraggio dei dati e di combinazione tra loro dei filtri per consentire un’interpretazione più dettagliata e precisa dello stato dell’arte e delle dinamiche storiche dei dati;
4) una funzione strategica, intesa a far emergere le potenziali evoluzioni rispetto ad obiettivi di medio e lungo termine e, quindi, consente di valutare, in termini prognostici, quali interventi privilegiare per il loro raggiungimento.
In tale prospettiva, questo strumento fornisce una rappresentazione aggiornata sostanzialmente in tempo reale (con frequenza tendenzialmente giornaliera) dello stato di avanzamento dei procedimenti della Corte, attingendo direttamente dal sistema informatico interno (al momento, per civile, il SIC).
Il cruscotto è pensato come strumento aggiuntivo e non sostitutivo delle rilevazioni e delle elaborazioni di competenza dell’Ufficio Statistico della Corte, predisposte e pubblicate con frequenza almeno mensile: in altri termini, si tratta di uno strumento versatile di interpretazione, combinazione, lettura e approfondimento dei dati grezzi comunque disponibili.
Nella pratica, sono stati sviluppate due specie di cruscotto, entrambe visualizzabili via web e fruibili senza necessità di installazione di programmi dedicati, ma differenti nel tipo di indicatori inclusi – ripartiti in diverse schede di analisi – e nell’obiettivo di utilizzatori definito: il Cruscotto direzionale e il Cruscotto sezionale.
Il primo (Cruscotto direzionale) è destinato ai vertici della Corte, che accedono alle informazioni di carattere generale relative all’andamento del Settore (civile o penale) di interesse: l’assoluta specialità dello strumento, essendo appunto riservato alle posizioni direttive apicali, impedisce la sua illustrazione analitica in questa sede.
Il Cruscotto sezionale, invece, è destinato principalmente ai presidenti di sezione – titolari e non titolari – ed ai magistrati addetti alle attività di spoglio, che possono così disporre in ogni momento di dati immediatamente fruibili sull’andamento degli indicatori principali con un dettaglio utile alla gestione della sezione stessa (ad es. la classificazione dei fascicoli per materia, la pendenza per ciascuna di esse, la sopravvenienza, lo stato di lavorazione dei procedimenti dalla fase della preparazione della trattazione a quella successiva all’udienza o all’adunanza, compresi i tempi di lavorazione e deposito).
Entrambi i Cruscotti, poi, contengono una scheda denominata “Obbiettivi e previsioni”, composta di due sezioni.
La prima, statica, riporta gli obiettivi semestrali da perseguire in termini di pendenze per ogni sezione, al fine di raggiungere l’obiettivo finale di volta in volta previsto, che, attualmente e com’è noto, è quello fissato dal PNRR; è un piano di riduzione dell’arretrato calcolato a partire dalle pendenze in essere a marzo 2023 e dalla media di ricorsi iscritti (dodici mesi) e di ricorsi definiti nei tre mesi precedenti; e viene rappresentato in modo tale da consentire il raffronto tra gli obiettivi intermedi e quello finale, durante il tempo preso a riferimento per conseguire il secondo.
La seconda, invece, ha natura dinamica, perché propone una proiezione, ossia opera una stima ipotetica futura in base al ritmo di lavoro dei tre mesi precedenti alla data di consultazione e della media mensile delle iscrizioni degli ultimi 365 giorni. Il variare delle condizioni (tra cui, a titolo esemplificativo, l’aumento o la diminuzione delle sopravvenienze, la modifica dell’organico, la frequenza e l’intensità dell’impegno per ogni singola udienza o adunanza) influenza, di conseguenza, nel singolo momento in cui è operata, la stessa proiezione, che è suscettibile di modificarsi nel tempo ed anzi è pensata per variare in rapporto alla variazione dei dati immessi e relativi alla diversa situazione del tempo in cui questi sono elaborati. L’indicazione assolve, pertanto, ad una funzione strategica mirata a somministrare gli elementi indispensabili per consentire di verificare la correttezza delle scelte gestionali già prese e, se del caso, di adottare gli eventuali adeguamenti per perseguire l’obbiettivo prefissato nel medio-lungo periodo.
4. Il ruolo del cruscotto direzionale in Cassazione.
Ora, deve convenirsi con l’Autrice[10] che qualifica il cruscotto “espressione di una mutata cultura dei giudici della Corte, consapevoli che il loro ruolo non si limita all’impegno di studio, ricerca, approfondimento per garantire ‘l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale’ della legge, in vista di una razionale sintesi coerenziatrice dei plurimi indirizzi interpretativi nell’ambito di un confronto sia interno che con la giurisdizione di merito, ma si traduce anche nel contributo propositivo ad un efficace assetto organizzativo in grado di coniugare fluidità e tempestività dei processi lavorativi, ampia collaborazione tra le diverse componenti dell’ufficio, sollecita individuazione delle eventuali criticità ostative al rispetto di tempi ragionevoli nella definizione delle procedure”.
È indubbio, poi, che l’adozione, l’implementazione e, soprattutto, il costante utilizzo del cruscotto possono concretare l’estrinsecazione di una concezione del ruolo del dirigente dell’ufficio giudiziario innovativa, frutto di un lungo e complesso percorso.
Si può, al riguardo, condividere l’individuazione di un’ideale linea evolutiva, che parte dalla previsione costituzionale (dell’art. 107, comma terzo, della Carta fondamentale) della differenziazione dei giudici soltanto in base alle funzioni svolte e della soppressione del previgente assetto gerarchico (in virtù della legge 24 maggio 1951, n. 392), si consolida negli interventi della Consulta[11] a tutela dell’indipendenza già solo nella necessaria motivazione dei provvedimenti di revoca delle assegnazioni degli affari e poi si afferma, capillarmente, nella previsione di un ruolo dei dirigenti intermedi caratterizzato sempre più da una collaborazione con i dirigenti dell’ufficio (basti ricordare gli artt. 42-bis, 47 e 47-quater ord. giud., introdotte con d.lgs. 51/1998), con riserva ai primi di precisi compiti di organizzazione del lavoro, di sorveglianza sui servizi di cancelleria, di vigilanza sui magistrati componenti la sezione, di promozione di scambi di informazioni in ordine agli orientamenti giurisprudenziali maturati all’interno della stessa. In tale contesto, un ruolo decisivo ha svolto ed assunto la normativa secondaria del Consiglio superiore della magistratura, “tesa a superare l’idea tradizionale della dirigenza come approdo di un cursus honorum e come esercizio di poteri insindacabili e a valorizzare la dimensione di servizio che richiede sensibile attenzione a tutti gli ambiti interessati dall’amministrazione della giustizia” [12].
Alla tradizionale concezione dell’esercizio del potere giurisdizionale, sempre più inteso come servizio reso alla collettività[13], si è via via sostituita altra, connaturata alla costituzionalizzazione del principio (peraltro, già recepito a livello sovranazionale e vincolante in forza dell’adesione della Repubblica italiana alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali) della ragionevole durata del processo, che esige ormai una chiara consapevolezza del nesso inscindibile tra fattore tempo e organizzazione come “precondizione di effettività di una risposta giudiziaria che sappia coniugare tutela dei diritti fondamentali, efficienza, tempestività, qualità delle decisioni all’esito di un processo che ponga al centro il rispetto del diritto di difesa e il contraddittorio” [14].
In quest’ottica, “il cruscotto costituisce l’indice di una nuova dimensione professionale del giudice di legittimità, consapevole che l’efficiente strutturazione dell’ufficio, il corretto funzionamento dell’attività giudiziaria e dei servizi ad essa correlati, la complessiva capacità di fornire risposta alle numerose e sempre nuove domande di giustizia sono il frutto dello sforzo ideativo e progettuale di tutte le varie componenti, chiamate a fornire il loro corale contributo propositivo in una dimensione collaborativa e partecipe delle scelte da compiere, possibilmente d’intesa anche con l’avvocatura, interlocutore ineliminabile della magistratura” [15].
È innegabile che l’introduzione del cruscotto direzionale e la sua stessa diuturna e continuativa disponibilità deve indurre “i giudici di legittimità ad affinare le loro conoscenze tecnico-giuridiche e ordinamentali, la sensibilità e l’attenzione al tema dell’organizzazione quale dimensione complessa che opera su molteplici livelli e di cui essi si rendono garanti, ad acquisire la consapevolezza del rilievo centrale di dati attendibili su cui costruire proposte efficaci”.
Infatti, “organizzare significa, innanzitutto, conoscere la Corte in tutte le sue articolazioni, analizzare i flussi degli affari, le pendenze, le definizioni, predisporre seri e concreti piani di definizione e di recupero dell’arretrato, avere piena contezza delle varie fasi del lavoro sia più squisitamente giudiziario che amministrativo, tra loro inscindibilmente connessi, al fine di cogliere eventuali criticità e di porvi sollecitamente rimedio, elaborare, all’esito di un’attenta analisi, progetti in vista di un servizio più moderno e rispondente alle attese di un corpo sociale in continuo divenire, oltre che del conseguimento degli obiettivi fissati dal PNRR.
Impegnarsi per fornire una risposta effettiva alla tutela dei diritti fondamentali, assicurare l’accesso e la trasparenza dei dati disponibili, delle informazioni, delle decisioni e delle logiche ad esse sottese, rafforza la legittimazione dell’intera Corte, di quanti vi operano e, più in generale, dell’intera magistratura.
Rendere conto all’intera collettività della propria azione, dei risultati conseguiti e delle criticità perduranti è fondamentale per superare lo schermo di diffidenza e di sfiducia che spesso connota i rapporti tra giustizia e cittadino” [16].
È innegabile che queste considerazioni valgono a maggior ragione per i direttivi della Corte di cassazione: i cinquantanove presidenti di sezione, dodici dei quali soltanto titolari delle rispettive sezioni civili e penali, rivestono, formalmente e sostanzialmente, la qualifica di ufficio direttivo giudicante di legittimità; e hanno assunto via via un ruolo sempre più incisivo nella gestione dell’organizzazione del lavoro, ben maggiore rispetto a quello di meri presidenti dei singoli collegi giudicanti: sul quale non è questa la sede per ulteriori riflessioni[17].
5. Le utilità offerte dal cruscotto della Cassazione.
Come è possibile ricavare dalla sua stessa struttura, il cruscotto rende disponibili in tempo reale i dati aggiornati, alimentati da un’interazione continua con i sistemi informatici in funzione, alle ventiquattro ore precedenti e relativi alla gestione dei ricorsi. È, pertanto, un innovativo strumento dinamico, non solo perché integra l’elaborazione statistica già effettuata su base mensile dalla Corte e destinata a confluire nella statistica ufficiale curata dal ministero della Giustizia su base trimestrale, semestrale, annuale, ma, soprattutto, perché il monitoraggio è costante ed aggiornato.
Infatti, la disponibilità immediata di dati raffinati e depurati, per quanto possibile, di inevitabili errori (false pendenze, difetti di imputazione, ritardi nelle annotazioni, ecc.) è fondamentale per il dirigente dell’ufficio giudiziario e i presidenti titolari delle sezioni, o, comunque, per tutti coloro (compresi i presidenti non titolari, coordinatori o meno di una delle aree interne alla sezione di assegnazione), per avere piena contezza dell’efficacia dell’assetto organizzativo adottato, per introdurre eventuali correttivi, per intervenire prontamente rispetto a situazioni di ritardo riscontrate nell’adozione delle decisioni, nel deposito delle motivazioni dei provvedimenti da parte del relatore, nella sottoscrizione degli stessi da parte del presidente del collegio. È, altresì, funzionale ad una perequazione dei carichi di lavoro tra i singoli magistrati componenti la sezione e ad una più razionale distribuzione degli affari tra le diverse aree specialistiche interne alla sezione stessa in caso di obiettive, rilevanti asimmetrie rispetto alle unità di organico effettivamente disponibili[18].
Il carattere intuitivo, l’immediatezza dell’utilizzo, la duttilità e l’agilità dello strumento ne hanno reso possibile, dopo una pur sempre necessaria fase di illustrazione e formazione, la fruizione da parte dei presidenti di sezione – titolari e non, ma pure degli spogliatori o degli altri consiglieri che vi fossero stati delegati – senza la necessità dell’assistenza tecnica di personale qualificato (che, invece, resta necessaria per estrarre i dati ed elaborarli in tabelle e grafici quanto all’impiego di altri strumenti, quali, ad esempio, la “consolle del Presidente” o il c.d. “pacchetto ispettori”, del resto ispirati ad altre finalità e comprensibilmente connotati da un maggior livello di sofisticazione).
Come icasticamente sottolineato[19], attraverso una costante analisi dei dati contenuti nel cruscotto direzionale, raggruppati organicamente per temi e settori di ricerca, il dirigente dell’ufficio e i presidenti titolari e non titolari delle sezioni sono attualmente in grado di verificare in tempo reale il conseguimento, entro i tempi prefissati, degli obiettivi concordati e di modificare e adeguare le scelte a suo tempo adottate in base alla rilevazione dei risultati medio tempore ottenuti, suscettibili di utile confronto e discussione – anche collegiale – all’interno delle singole sezioni e fra presidenti titolari delle diverse sezioni in un’ottica di rappresentazione coordinata dell’ufficio.
In particolare, rimandando ad altri contributi degli specialisti e dei progettisti per una analitica illustrazione, il cruscotto sezionale (sul quale è forse opportuno concentrare l’attenzione, per il carattere assai specialistico di quello riservato ai vertici della Corte) prevede una schermata di apertura, ove si precisa: “Il cruscotto di monitoraggio fornisce una rappresentazione aggiornata su base giornaliera dello stato di avanzamento dei procedimenti della Sezione e attinge direttamente dal sistema informatico interno. Per questo motivo i dati visualizzati potrebbero riportare piccole imprecisioni, che sono poi corrette nella reportistica ufficiale trimestrale. La sua funzione è quindi di aiuto al controllo del lavoro e alla pianificazione di breve e medio periodo delle attività e non di valutazione strategica, come è il caso invece della reportistica ufficiale. Lo strumento di visualizzazione è costituito da diverse schede che possono essere navigate tramite PC, tablet o smartphone. Le grafiche sono interattive, l'utente può quindi filtrare i dati desiderati ed evidenziarne i dettagli informativi.”.
Le singole schede riguardano poi, sempre con la possibilità di riferire i rilevamenti a specifici momenti o lassi temporali e di applicare filtri anche trasversali: i procedimenti pendenti; lo stato di lavorazione dei pendenti; la ripartizione per materia dei pendenti (con l’utile suddivisione ulteriore per aree); i dati dei definiti (utilmente disaggregabili per tipologie di provvedimento, epoca di iscrizione a ruolo, tempi di definizione complessivi e così via); le materie dei definiti (anche qui riaggregabili e disaggregabili in funzione di una o più di esse e delle sezioni e rispettive aree di attribuzione); il disposition time (con possibilità di confronto tra due periodi discrezionalmente scelti, ma, per sua stessa natura, non disponibile – allo stato – per l’anno in corso); l’indice di ricambio; le udienze (con indicazione sia del carico medio per relatore, sia della media dei definiti); infine, gli obiettivi (in relazione a quelli del PNRR, ma con facoltà di fissarne discrezionalmente altri; e specificamente evidenziati sia quelli per pendenze che quelli per disposition time).
6. Qualche idea sulle opportunità offerte.
L’illustrazione pratica di ognuna di queste non è possibile nei tempi a disposizione e si rinvia, pertanto, alla sperimentazione sul campo.
Ma, fin d’ora e in via di prima approssimazione (e, pertanto, senza porre limiti alle possibilità di fruizione), si può ipotizzare un impiego massivo dello strumento:
a) in generale, da parte dei presidenti titolari o da quelli coordinatori di area per verificare il corretto funzionamento dei meccanismi interni di gestione delle pendenze;
b) da parte di tutti i presidenti, titolari e non e dei singoli collegi giudicanti, per il rilevamento delle eventuali criticità – o, al contrario, per il rilievo delle auspicabili utilità – nelle fasi non strettamente dipendenti dal lavoro di coordinamento dei colleghi o all’interno dei collegi, cioè in quelle, complementari ma indispensabili, della fluidità delle lavorazioni complessive in cancelleria: in tal caso, in stretta cooperazione con i responsabili di questa e col personale, ivi compreso – a seconda delle concrete modalità di organizzazione prescelte – quello dell’Ufficio per il processo;
c) da parte di tutti i presidenti, titolari e non e dei singoli collegi giudicanti, per la verifica della fluidità dei procedimenti e dei tempi di pubblicazione e dell’attività della cancelleria a tal fine preposta, se del caso con adeguato coinvolgimento dei dirigenti di quella, in relazione ai singoli ricorsi o a gruppi di ricorsi per settori di attività, onde intervenire sulle criticità e individuare i settori o segmenti procedimentali in cui sollecitare il superamento dei ritardi nell’apprestamento delle attività serventi alla preparazione del singolo ricorso e, poi, delle fasi successive alla decisione;
d) da parte dei presidenti titolari per verificare l’adeguatezza della ripartizione in aree in relazione all’andamento delle relative sopravvenienze e pendenze in relazione al numero delle udienze e adunanze fissate;
e) da parte dei presidenti titolari – se del caso, opportunamente coinvolti anche i non titolari – per modulare periodicamente le linee strategiche (ovvero di orientamento generale) da applicare – o da delegare ad applicare – per la ponderata formazione dei singoli ruoli di udienza o adunanza;
f) da parte di coloro che si occupano della formazione dei ruoli di udienza o adunanza, per la composizione sempre più consapevole e meditata di quelli ed al fine di conseguire una progressiva erosione delle pendenze afflitte da più risalenti epoche di iscrizione a ruolo;
g) da parte dei presidenti di collegio per verificare l’andamento dei tempi di deposito da parte degli estensori e prevenire le anomalie (con l’avvertenza che non pare di immediata ed intuitiva disponibilità la verifica nominativa delle singole situazioni, dovendo al riguardo attivarsi separati strumenti) nel lavoro dei colleghi o all’interno dei collegi;
h) da parte di tutti gli spogliatori per indirizzare ed orientare l’attività di spoglio alla più opportuna composizione delle categorie di “magazzino” e, poi, degli stessi ruoli di adunanza e di udienza;
i) da parte di tutti gli operatori coinvolti per la verifica della congruità del funzionamento del procedimento di proposta di definizione accelerata (anche per intervenire, in caso di incongrui scostamenti dalle medie fisiologiche di “opposizioni”, sui redattori delle proposte stesse, pure soltanto per sottoporre loro le problematiche indotte da una eccessiva tendenza ad istanze di decisione).
7. Gli interventi coordinati.
La filosofia e l’impostazione del cruscotto direzionale ha implicato l’adozione di altri interventi di sistema, indispensabili per coordinare i diversi ambiti interessati.
È stato necessario definire con puntualità, nel rispetto delle previsioni processuali e con un’interazione costante anche in fase progettuale, le diverse cadenze procedimentali e, all’interno di ciascuna di esse, i tempi e le modalità di lavorazione, oltre che la corretta individuazione delle attribuzioni di ciascuna componente; importante e delicato è stato, poi, il momento di individuazione attenta delle definizioni da attribuire ai termini prescelti, anche al fine di prevenire eventuali ambiguità nella interpretazione dei dati; infine, si è reso necessario implementare la digitalizzazione ed il raccordo con i database informativi del SIC e di quelli ad esso collegati, in modo da consentire modalità e meccanismi di aggiornamento automatico a cadenze prefissate nel corso della giornata; né si è mancato di rendere possibile un adeguato raffronto con gli anni decorsi (che pure hanno compreso la parentesi – auspicabilmente eccezionale – del periodo pandemico), popolando il database dei dati storici del lavoro a partire dal 2019.
Contemporaneamente, sono stati istituiti gruppi di lavoro interdisciplinari per seguire lo sviluppo del progetto complessivo, cui hanno concorso, oltre ai professori del Politecnico di Milano, i magistrati del Segretariato generale, il personale giudiziario e amministrativo del CED, l’ufficio statistico della Corte di cassazione: con successiva messa a disposizione dei risultati di tali discussioni collegiali per il confronto con i presidenti titolari e non titolari delle sezioni, con il Presidente aggiunto e con la Prima Presidente. Questa modalità di interazione tra le diverse professionalità si è rivelata determinante per condividere progetti e scelte destinati a riverberarsi, nella quotidiana attività della Corte, sull’efficacia della sua azione e sull’assetto organizzativo e tabellare[20].
È intuitivo che, a mano a mano che il cruscotto si raffina con la disponibilità sempre più sofisticata di dati ed elementi, sarà possibile individuare i settori dei nuovi interventi, interdisciplinari o meno, nonché gli oggetti delle successive interlocuzioni con tutti i coprotagonisti della gestione dell’ufficio, a cominciare dal personale non togato (cancellieri e ufficio del processo in generale).
8. Notazioni conclusive.
È stato efficacemente sottolineato[21] che “il cruscotto direzionale si è rivelato, sotto questo punto di vista, non un ordinario sistema di analisi e di gestione di dati conoscitivi, ma una sollecitazione importante a ripensare in chiave più moderna l’intero assetto della Corte di cassazione in modo da renderla più rispondente alle esigenze di una società in continua evoluzione, al rispetto della centralità del tempo nella vita delle persone, alle programmate politiche economiche di crescita e di sviluppo del Paese, influenzate anche dai tempi della giustizia nel settore civile”.
Al contempo, “il carattere assolutamente innovativo dell’esperienza vissuta dalla Corte di cassazione ha una valenza generale che trascende il peculiare assetto dell’ufficio in cui è maturata e meriterebbe ampia condivisione con gli uffici di merito, con l’Organo di governo autonomo della Magistratura, con la Scuola Superiore della Magistratura nella consapevolezza che il confronto fra le diverse Istituzioni sulle buone prassi rappresenta un’occasione utile e preziosa per suggerire ulteriori contributi propositivi e per riannodare i fili di un dialogo, talora spezzato, tra magistrati e collettività” [22].
Una gestione con mezzi moderni, duttili ed interattivi, di una pendenza dalla composizione spesso inadeguatamente conosciuta e dal peso sempre soffocante non è più differibile.
Il ruolo del dirigente dell’Ufficio, sia pure nella sua declinazione specifica propria dell’ufficio direttivo di presidente di sezione in Cassazione, deve quindi evolversi verso una compartecipazione proattiva nell’organizzazione della gestione della sezione, ad iniziare dalla consapevole composizione dei ruoli delle udienze e delle adunanze, in uno alla specifica e mirata utilizzazione degli strumenti processuali deflattivi specificamente disegnati (come, appunto, nel caso della Corte di cassazione, la proposta di definizione accelerata), con una disponibilità ad un’impostazione progettuale che va ben al di là del primario e fondamentale compito di organizzazione della giurisprudenza e della decisione della mole – pure, sempre crescente – di ricorsi da definire. Sarà, infine, importante che anche sugli strumenti incisivi, a tal fine offerti, di piena e completa informazione dello stato di pendenze e sopravvenienze, ci si possa confrontare, nel pieno rispetto dei ruoli, con gli altri magistrati dell’ufficio, gli altri dirigenti ed il personale di cancelleria indispensabile a sostenere le scelte gestionali.
[1] Testo dell’intervento tenuto il 28 ottobre 2024 a Scandicci, Villa Castel Pulci, al 3° modulo del Corso per magistrati neodirettivi e neo-semidirettivi (art. 26-bis, co. 5 bis, D.Lgs. n. 26/2006), organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura (cod.: FPFP24020-DIR24001).
[2] I. Tsiouras, La progettazione del sistema di gestione per la qualità nelle organizzazioni ad alta intensità informativa. Dalla ISO 9000 alla modellazione del business, F. Angeli editore, 2005, pp. 99 ss.
[3] La definizione, icastica, di “schermata che permette di monitorare in tempo reale l’andamento dei report e delle metriche più importanti” è in S. Ruffini, Competenze Digitali per la PA - Termini, definizioni e acronimi, Youcanprint editore (e-book), p. 65.
[4] Aa.Vv., La valutazione delle performance per il governo strategico delle Aziende Sanitarie Pubbliche, EGEA editore (e-book), 2013, p. 48, ove riferimenti bibliografici.
[5] Aa.Vv., La valutazione etc., cit., p. 49, ove si specifica pure che, inoltre, il buon cruscotto direzionale deve essere in grado di rappresentare la performance attraverso: a) indicatori “sempre validi”, con potenziale diagnostico elevato indipendentemente da obiettivi strategici specifici; b) indicatori specifici, da attivare in presenza di obiettivi strategici definiti e delle correlate leve azionate e iniziative strategiche perseguite per evitare il rischio di “omologazione”.
[6] A. De Luca, Il sistema di controllo di gestione in INPS: la misurazione e la valutazione delle performance, in Lavoro nelle P.A., fasc.1, 2013, pag. 83. Vi si osserva che “il ‘controllo’, da attuare nelle sue diverse espressioni, manifestazioni e applicazioni, deve essere inteso come quella funzione che rende i sistemi capaci di autoregolamentazione e non già come mera ‘verifica di conformità’ degli atti … alle prescrizioni normative e regolamentari. Per incidere efficacemente sull’efficienza, efficacia e qualità dei servizi non è sufficiente promuovere iniziative di controllo che intervengano solo al termine del ciclo produttivo, ma occorre inserire tale valutazione all’interno di un sistema di ‘controllo di gestione’ che consenta, in itinere, di attivare modifiche organizzative ed operative in direzione di obiettivi assegnati. Tutto ciò nell’ambito di un corretto e trasparente sistema di regole e rapporti, dovendo considerarsi in sede di analisi e valutazione le diverse specificità e i differenti contesti socio-economici ed ambientali nei quali si trovano ad operare le strutture”.
[7] R. Eccles, The performance measurement manifesto, in Harvard Business Review, (1991) 69(1), pp. 131-137.
[8] Reperibile all’URL https://rm.coe.int/cepej-2021-8-handbook-on-court-dashboards-en/1680a2c2f6.
[9] Questo il contenuto, poi analiticamente sviluppato:
A. Content of the dashboards. A.1 General definitions and purpose. A.2 Initial classification of the dashboards. A.3 Recommended KPIs for courts systems.
B. Visualisation of data. B.1 Data filtering. B.2 Composition of KPIs, layout and flow. B.3 Types of visual representation and correct use of colours.
C. Court-level template dashboards. C.1 Overall court performance. C.2 Incoming and pending cases in multiple case categories. C.3 Resolved cases comparison between different case categories. C.4 Focus on an individual case category. C.5 Timeframes comparison between multiple case categories. C.6 National overview.
D. Judge-level template dashboards. D.1 Electronic task board. D.2 Case counts and CR dashboard. D.3 Pending cases dashboard. D.4 Resolved cases dashboard.
E. Technical requirements. E.1 Data availability and access. E.2 Dashboard platform (software).
F. Guidelines for creating court dashboards.
[10] M. Cassano, Misurare per apprendere e migliorare: il cruscotto direzionale della Cassazione, in La Magistratura, 2024, on line dal 14/10/2024.
[11] Corte cost. 18 luglio 1973, n 143.
[12] M. Cassano, op. ult. cit., § 1.1.
[13] Fondamentali le prese di posizioni che si leggono in Cass. civ., Sez. U., 9 ottobre 2008, n. 24883, a mente della quale va preso atto “dell’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli”. Una tale impostazione si è consolidata nella giurisprudenza di legittimità: tra le ultime, Cass. civ., Sez. U., 17 gennaio 2019, n. 1248, oppure Cass. civ., ord. 4 ottobre 2024, n. 26046.
[14] M. Cassano, op. loc. ult. cit..
[15] M. Cassano, op. ult. cit., § 1.2.
[16] M. Cassano, op. loc. ult. cit..
[17] Basti pensare che, in base all’art. 224 della Circolare del C.S.M. per la formazione delle tabelle per il prossimo quadriennio (diramata, com’è noto, con nota 08/07/2024, n. P13382/24 del CSM), in linea generale i presidenti di sezione non titolari collaborano con il titolare con incarichi e modalità determinate nelle tabelle dell’ufficio, anche al fine di evitare l’insorgere di contrasti inconsapevoli tra le decisioni, come pure nella determinazione di criteri omogenei ed efficaci con cui individuare i processi destinati alla pubblica udienza, nonché della elaborazione dei criteri generali per la formazione del ruolo di udienza. Le tabelle in vigore, del triennio 2020-2022 e tuttora in regime di prorogatio, disciplinano minuziosamente le attribuzioni dei presidenti non titolari, al § 14:
“14.1. Il presidente di sezione non titolare presiede i collegi e svolge la correlata attività giudiziaria, collabora con il presidente titolare nello svolgimento di ogni attività funzionale all'organizzazione della sezione e all'esercizio della nomofilachia.
14.2. Il presidente di sezione non titolare svolge, su incarico del presidente titolare, funzioni di coordinamento di aree omogenee.
14.3. Nelle aree omogenee oggetto di attribuzione, i presidenti di sezione non titolari contribuiscono a prevenire i contrasti, anche inconsapevoli, di giurisprudenza mediante ogni opportuna misura, tenendone informato il presidente titolare. Essi coordinano, inoltre, la predisposizione e la diffusione all'interno della sezione di massime provvisorie su questioni di diritto nuove o di particolare importanza e curano l'aggiornamento dei magistrati sulla normativa e sulla giurisprudenza costituzionale ed europea nelle materie di loro competenza.
14.4. Ulteriori specifiche attività, in aggiunta a quelle indicate, possono essere attribuite, con decreto motivato del presidente titolare, tenuto conto della competenza e della disponibilità del presidente di sezione non titolare, per particolari e comprovate esigenze della sezione da indicarsi specificamente, sentiti gli altri presidenti di sezione e dandone informazione al Primo Presidente”.
Infine, i decreti della Prima Presidente – fra tutti segnalandosi il n. 76 del 2023 – di riorganizzazione dell’intero assetto del settore civile (con la ripartizione di aree tematiche all’interno di ogni sezione civile) hanno individuato compiti anche più ampi e delicati: per l’espletamento dei quali, già solo prendendo a riferimento la sostanziale istituzionalizzazione della formazione dei ruoli di udienza o adunanza e la gestione dell’ufficio spoglio sezionale, il cruscotto effettivamente fornisce elementi e dati preziosi ed utili.
[18] M. Cassano, op. ult. cit., § 1.3.
[19] M. Cassano, op. loc. ult. cit..
[20] Su tutti tali aspetti, si veda M. Cassano, op. ult. cit., § 1.4.
[21] M. Cassano, op. ult. cit., § 1.5.
[22] M. Cassano, op. loc. ult. cit..
Immagine: Alvesgaspar, CC BY-SA 4.0
Lo strano caso, o forse no, delle elezioni dei Consigli giudiziari
di Riccardo Ionta
Un gruppo di uomini indecisi a tutto. La pratica letteraria, icastica, di Ennio Flaiano restituisce sempre una immagine della nostra complessa realtà. Il presente scritto ripercorre la vicenda, ancora aperta, delle elezioni dei Consigli giudiziari (e, seppur non espressamente, del Consiglio direttivo della Cassazione) come occasione per una riflessione sullo stato, e sulle sorti, della nostra democrazia ordinamentale.
Sommario: 1. La tormentata epoca delle nuove elezioni: parte prima (3 aprile 2016-13 dicembre 2023) - 2. I termini del procedimento elettorale e la durata dei Consigli - 3. La tormentata epoca delle nuove elezioni: parte seconda (13 dicembre 2023-25 novembre 2024) - 4. Quale partecipazione, quale democrazia ordinamentale - Approfondimenti.
1. La tormentata epoca delle nuove elezioni: parte prima (3 aprile 2016-13 dicembre 2023)
3 e 4 aprile 2016. Elezioni dei Consigli giudiziari per il quadriennio 2016-2020. L’art. 1.1 del decreto legislativo 28 febbraio 2008 n. 35 prevede che le elezioni avvengano ogni quattro anni, nella prima domenica e nel lunedì successivo del mese di aprile.
9 marzo 2020. Lockdown. Il governo estende le misure di contenimento a tutto il territorio italiano.
17 marzo 2020. È con il decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 che inizia lo strano caso delle elezioni dei Consigli Giudiziari. L’art. 83.19, per evidenti necessità dettate dalla pandemia, per l'anno 2020, dispone che le elezioni per il rinnovo dei componenti del Consiglio giudiziario e del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione si svolgeranno, invece che ad aprile 2020, la prima domenica e il lunedì successivo del mese di ottobre 2020. L’effetto indiretto della norma è la proroga dei Consigli insediati (art. 7.2 decreto legislativo 28 febbraio 2008 n. 35 secondo cui fino al completamento delle nuove operazioni elettorali, rimane in carica il precedente consiglio e art. 13.5 decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 secondo cui finché non è insediato il nuovo consiglio giudiziario, continua a funzionare quello precedente).
4 e 5 ottobre 2020. Elezioni dei Consigli giudiziari per il quadriennio 2020-2024.
13 dicembre 2023. Il Plenum del C.S.M. discute in merito alla risposta da fornire al quesito posto dal Consiglio giudiziario di Firenze (e ai dubbi di molti). Quando si svolgeranno le elezioni dei nuovi Consigli? Se il comma 19 dell’art. 83 ha differito le elezioni all’ottobre 2020, l’art. 1.1 del decreto legislativo 28 febbraio 2008 n. 35 prevede ancora che le elezioni si svolgano ad aprile. Allo stesso tempo, celebrare le elezioni nell’aprile 2024 contrasta con la previsione della durata quadriennale dei Consigli di cui all’art. 13 del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25. La Sesta Commissione vota all’unanimità: la normativa può interpretarsi nel solo senso che le elezioni si svolgeranno nell’aprile 2025. Solo in tal modo è possibile superare l’apparente contrasto e rispettare al contempo – con l’ausilio degli art. 7.2 d.lgs. n. 35/2008 e 13.5 d.lgs. n. 25/2006 – sia la norma sulla durata dei Consigli, sia quella sull’epoca delle elezioni. Il Plenum a maggioranza, su proposta di un consigliere di MI, decide il ritorno in Sesta Commissione della pratica per acquisire il parere dell’Ufficio Studi.
2. I termini del procedimento elettorale e la durata dei Consigli
Senza che vi sia una apparente, o quantomeno evidente, ragione logica la disciplina dei Consigli è contenuta in due separati decreti legislativi: il decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 “Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei consigli giudiziari” e il decreto legislativo 28 febbraio 2008, n. 35 “Coordinamento delle disposizioni in materia di elezioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari”.
La durata quadriennale dei Consigli, come visto, è indicata dall’art. 13 del d.lgs. n. 25/2006. Il decreto disciplina - oltre alla composizione e alle competenze dell’organo di autogoverno - anche parte del procedimento elettorale (art. 12 e ss.)
Il decreto legislativo 28 febbraio 2008, n. 35 contiene la gran parte della disciplina elettorale e quindi la disciplina dei termini del procedimento.
- Le elezioni avvengono ogni quattro anni, nella prima domenica e nel lunedì successivo del mese di aprile (art. 1.1). Avendo previsto le elezioni nell’unico mese in cui cade la principale festività mobile dell’anno, il legislatore ha avuto cura di precisare che qualora nella prima domenica di aprile cada la festività della Pasqua, le elezioni si terranno la domenica ed il lunedì immediatamente successivi (art. 1.2).
- Le schede elettorali sono fornite, almeno tre mesi prima delle elezioni a cura del Ministero della giustizia (art. 4.1).
- Entro il martedì precedente lo svolgimento delle elezioni, sono costituiti gli uffici elettorali (art. 2.1).
- Entro il giovedì precedente lo svolgimento delle elezioni devono esser presentate le liste di candidati all'ufficio elettorale competente, unitamente alle firme dei sottoscrittori, ed a ciascuna di esse viene attribuito un numero progressivo secondo l'ordine di presentazione (art. 2.1).
- Il venerdì e il sabato antecedenti le elezioni, ogni ufficio elettorale verifica che le liste siano conformi, in base alle rispettive attribuzioni, alle disposizioni di cui agli articoli 4, 12 e 12-ter del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 (art. 2.6).
- La votazione si svolge dalle ore otto alle ore quattordici della domenica e prosegue dalle ore otto alle ore quattordici del lunedì successivo (art. 4.1).
- Alle ore quattordici del lunedì, dopo che tutti i presenti nella sala hanno votato, il presidente di ciascun ufficio elettorale: dichiara chiusa la votazione; accerta il numero dei votanti; procede allo spoglio dei voti; forma separati elenchi per categoria; proclama gli eletti. In caso di più uffici elettorali il presidente trasmette copia del verbale della votazione e degli elenchi al presidente dell'ufficio avente sede nel capoluogo del distretto. Questi procede alla formazione degli elenchi e alla proclamazione degli eletti, in base alla somma dei voti riportati da ogni lista e da ogni candidato negli uffici elettorali istituiti nel distretto (art. 5).
- Entro l'ottavo giorno successivo alla proclamazione dei risultati può esser presentato il reclamo in merito alla validità delle liste, alla eleggibilità dei candidati ed alle operazioni elettorali. Sui reclami decide, in camera di consiglio e sentito il procuratore generale, la prima sezione della Corte di appello competente per gli affari civili con ordinanza motivata non impugnabile adottata entro otto giorni. Decorsi i termini le schede sono distrutte (art. 6).
3. La tormentata epoca delle nuove elezioni: parte seconda (13 dicembre 2023-25 novembre 2024)
13 dicembre 2023. Il Plenum, come visto, decide il ritorno in Sesta Commissione della pratica di risposta al quesito sulla data prevista per le elezioni.
30 dicembre 2023. A dicembre, oltre al Natale e all’ultimo giorno dell’anno, puntualmente giunge il c.d. “Decreto milleproroghe”. Arriva quindi il decreto legge 30 dicembre 2023 n. 215 che con l’art. 11.6, “al fine di garantire la durata quadriennale dei Consigli giudiziari”, differisce le elezioni dal mese di aprile 2024 al mese di ottobre 2024.
23 febbraio 2024. La legge n. 18 di conversione del “milleproroghe” modifica il comma 6 dell’art. 11 disponendo che per l'anno 2024, le elezioni dei consigli giudiziari sono differite dal mese di aprile al mese di dicembre 2024. Le ragioni giuridiche del differimento non sono evidenti e in ogni caso il risultato ottenuto è stato quello di un ulteriore slittamento delle elezioni di soli due mesi.
L’art. 1 del d. lgs. n. 35/2008, in tutta questa storia legislativa, non è mai interessato dalle modifiche e continua a prevede che le elezioni avvengano ad aprile: il problema quindi dovrebbe riproporsi, tale e quale, alle prossime elezioni del 2028 dei Consigli.
Settembre 2024. Il Ministero non invia nei termini di legge le schede elettorali.
Autunno 2024. Tra i corridoi inizia a serpeggiare la notizia di un rinvio delle elezioni ad aprile 2025. Rinvio che interessa a molti, per diverse ragioni, e che normativamente consente di arrivare al ricongiungimento normativo con l’art. 1 del d. lgs. n. 35/2008 e a porre così fine all’effetto farfalla, innescato dall’art. 83.19 decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 e alimentato dallo stesso legislatore. Le voci continuano a rincorrersi, la data del 1 e 2 dicembre prevista per le elezioni si avvicina. Tutti, o quasi, confidano nel rinvio: le attività amministrative preparatorie procedono senza fretta, la campagna elettorale latita.
25 novembre 2024. “Il Consiglio dei ministri è convocato lunedì 25 novembre 2024, alle ore 17.45 a Palazzo Chigi, per l’esame del seguente ordine del giorno: schema di decreto-legge: misure urgenti in materia di giustizia (Presidenza - Giustizia)” così recita l’ordine del giorno del C.D.M. La norma del rinvio dovrebbe esser contenuta in un difficile decreto-legge contenente anche un nuovo e pericoloso illecito disciplinare (“la consapevole inosservanza del dovere di astensione nei casi in cui è espressamente previsto dalla legge l’obbligo di astenersi o quando sussistono gravi ragioni di convenienza”) e delicate norme in materia di cybersicurezza.
Ore 17:12. Dalla stampa giunge la notizia del rinvio dell’esame del decreto sulla giustizia ad altra seduta su richiesta di una delle forze di governo.
4. Quale partecipazione, quale democrazia ordinamentale
1 e 2 dicembre 2024 resta, ad oggi e in modo ancora incerto, la data delle elezioni.
Lo strano caso, o forse no, delle elezioni pone la questione del senso della partecipazione e della democrazia ordinamentale in relazione al primo e immediato organo di autogoverno, il Consiglio giudiziario, le cui origini sono più antiche di quelle del C.S.M.
Il processo democratico di formazione dei Consigli è in difficoltà per tante ragioni. E la storia di queste elezioni ne è un chiaro sintomo. Difficoltà che è la premessa della annunciata tecnicizzazione e regressione democratica, da attuare mediante sorteggio, del C.S.M.
Si indicano almeno quattro di queste ragioni.
Il Consiglio giudiziario è spesso degradato ad organo esclusivamente “tecnico-giuridico” (sempre che questa espressione abbia un reale significato). E tuttavia resta un organo democratico che esprime ed assume frequentemente indirizzi di “politica giudiziaria” o “ordinamentale” che dir si voglia. Basti pensare alle diverse scelte in merito alla trasparenza dei lavori dei consigli, al diverso atteggiamento da assumere sul vaglio delle regole organizzative degli uffici, al differente modo di affrontare le spinte gerarchiche presenti, e così via. Le norme e la realtà non saranno mai così cristalline da elidere la necessità della scelta valoriale. Per tale ragione la maggioranza dei suoi componenti è - e si auspica resti - elettiva. Se il Consiglio non è un ufficio meramente tecnico-amministrativo allora la sua elezione non deve esser svilita a mero passaggio burocratico.
La disaffezione nei confronti della vita associativa e ordinamentale si accompagna, da tempo, alla trasformazione in senso dispregiativo della espressione “politica giudiziaria” o “politica ordinamentale”. Resta così un affare di pochi. E diventa di conseguenza difficile coinvolgere sia l’elettorato attivo, sia quello passivo, anche nel processo democratico di prossimità.
La struttura normativa delle elezioni del Consiglio e la lettura data spesso dai gruppi associativi alle elezioni hanno poi contribuito ad alimentare il circolo della disaffezione politico-giudiziaria e la visione apolitica (intesa come assenza di idee e valori) dei Consigli. La disaffezione muove anche e forse soprattutto dal basso e si congiunge con precise aspirazioni politico-partitiche di riduzione della giustizia a mera tecnica.
Le norme elettorali non favoriscono la partecipazione, soprattutto nei distretti medio-piccoli. Basti considerare, ad esempio, che l’art. 12 d. lgs. n. 25/2006 prevede la raccolta di 25 firme di elettori per la presentazione della lista e tanto sia per il distretto di Roma che per quello di Campobasso. L’art. 3 d. lgs. n. 35/2008 consente invece ai Presidenti di Corte di stabilire discrezionalmente il numero degli uffici elettorali da costituire nel distretto. L’assenza di un termine iniziale delle operazioni elettorali - in particolare della raccolta firme – spinge poi a condotte di accaparramento delle sottoscrizioni che possono soffocare, sin dall’inizio, nuove iniziative democratiche.
I gruppi associativi e i distretti - anche in ragione delle difficoltà normative riportate e della disaffezione sottolineata - hanno ceduto spesso alla prassi del c.d. “listino unico bloccato” (unica lista con tanti candidati quanti sono i posti da eleggere, come previsto dall’art. 12 del d.lgs. 25 del 2006, suddivisi tendenzialmente per appartenenza territoriale) alimentando il circolo vizioso e l’idea distorta del consigliere giudiziario quale rappresentante di un territorio o di un ufficio, invece che portatore di idee e valori.
La tormentata vicenda delle nuove elezioni - l’andirivieni di date e ipotesi - ha certamente ingenerato un diffuso e colpevole affidamento nel rinvio che ha addormentato il confronto elettorale rendendolo ad oggi, di fatto, quasi impossibile. L’ipotizzato rinvio delle elezioni nei prossimi giorni - favorito dalla latitanza delle schede elettorali in ragione delle scelte del Ministero e come tale formalmente impeccabile - sarebbe comunque un ulteriore svilimento della democrazia ordinamentale (anche considerando i termini previsti dal procedimento elettorale: martedì 26 per la costituzione degli uffici e giovedì 28 per la presentazione delle liste).
L’assenza di confronto elettorale ed essersi affidati ad una manovrabile norma di rinvio per le elezioni è democratico? Il rinvio delle elezioni democratiche a pochi giorni dalla data prevista è democratico? Quale partecipazione, quale democrazia ordinamentale?
Democrazia. Parola di uso comune, anche nella sua declinazione come aggettivo. È ampiamente diffusa. Suggerisce un valore… Non è fuor di luogo, allora, chiedersi se vi sia, e quale, un’anima della democrazia. O questa si traduce soltanto in un metodo? Cosa la ispira? Cosa ne fa l’ossatura che sorregge il corpo delle nostre Istituzioni e la vita civile della nostra comunità? È un interrogativo che ha accompagnato e accompagna il progresso dell’Italia, dell’Europa. Alexis de Tocqueville affermava che una democrazia senz’anima è destinata a implodere, non per gli aspetti formali, naturalmente, bensì per i contenuti valoriali venuti meno (Discorso del Presidente della Repubblica e, si ricorda, Presidente del C.S.M. Sergio Mattarella, Trieste 3 luglio 2024).
Approfondimenti
Sul tema dei Consigli giudiziari, su questa rivista, si segnala:
Il Consiglio giudiziario, questo sconosciuto di Marcello Basilico
Direttivi e semidirettivi, nomine e conferme. La parola al Consiglio giudiziario. Intervista di Federica Salvatore e Riccardo Ionta a Riccardo Ferrante, Cataldo Intrieri e Giuseppe Sepe.
Sette anni al Consiglio Giudiziario di Brescia. Un bilancio che va oltre l'esperienza locale di Claudio Castelli
Immagine: Karma di Do-Ho Suh, 2003.
Sulla natura giurisdizionale del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. L‘Adunanza Plenaria si pronuncia sulla violazione del principio di alternatività (nota a Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 7 maggio 2024, n. 11).
di Silvia Casilli
Sommario: 1. Premessa: i fatti di causa e il thema decidendum. – 2. La pronuncia dell’Adunanza Plenaria. – 3. Sulla natura del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: tra funzione giustiziale e forma provvedimentale. –– 4. Lo statuto della nullità dei provvedimenti amministrativi.
1. Premessa: i fatti di causa e il thema decidendum.
Con la sentenza n. 11 del 2024, l’Adunanza Plenaria si è pronunciata in ordine alla natura del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e al regime del decreto decisorio del Presidente della Repubblica reso erroneamente su ricorso straordinario ormai trasposto in sede giurisdizionale.
La vicenda da cui trae origine la questione sorge da un mancato coordinamento tra la decisione resa in sede giurisdizionale, a seguito di rituale trasposizione, ed il parallelo procedimento proseguito ai sensi degli artt. 8 ss. d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 e culminato con l’erronea emanazione del decreto decisorio.
In particolare, la vicenda contenziosa nasce dalla realizzazione, senza alcun previo titolo abilitativo, di un manufatto abusivo per il quale veniva poi presentata istanza di condono, cui il Comune rispondeva con un diniego; il diniego di condono veniva impugnato con un primo ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, trasposto innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria pronunciatosi con sentenza di rigetto, confermata in appello dal Consiglio di Stato.
Nel frattempo, il Comune adottava una prima ordinanza di demolizione dell’opera realizzata in assenza di titolo autorizzativo. Avverso tale ordinanza (n. 754/2006) il privato cittadino artefice del manufatto abusivo proponeva ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, trasposto in sede giurisdizionale dinnanzi al medesimo Tar[1].
Nelle more del giudizio da ultimo indicato, il Comune ingiungeva nuovamente la demolizione con una nuova ordinanza (n. 43/2008, ripetitiva della precedente n. 754/2006) impugnata innanzi al Tar[2], che respingeva la domanda[3].
Nonostante la rituale trasposizione in sede giurisdizionale del giudizio avente ad oggetto la prima ordinanza di demolizione, il 18 novembre 2020 veniva erroneamente emesso il decreto del Presidente della Repubblica con il quale veniva accolto il ricorso straordinario proposto avverso l’ingiunzione n. 754/2006.
Successivamente, in senso opposto interveniva la sentenza a definizione del giudizio (n.r.g. 1240 del 2006) relativo allo stesso ordine di demolizione n. 754/2006 con la quale il Tar, respingendo il ricorso, rilevava che “il decreto presidenziale […] è intervenuto dopo la rituale trasposizione del contenzioso innanzi a questo giudice, in cui si era radicata definitivamente la giurisdizione e, pertanto, esso non preclude una decisione sul merito nel presente giudizio”.
I giudici amministrativi, dunque, precisavano immediatamente come il radicamento della propria giurisdizione non potesse essere intaccato dall’emanazione del decreto del Presidente della Repubblica, essendo questo intervenuto solo dopo la rituale trasposizione del contenzioso in sede giurisdizionale.
Ciò nonostante, il privato cittadino appellava la predetta sentenza sulla scorta di tre motivi, tra cui l’asserita elusione del decreto del Presidente della Repubblica del 18 novembre 2010. L’appellante, muovendo dall’assunto della “natura sostanzialmente giurisdizionale” del ricorso straordinario “e dell’atto terminale della relativa procedura”, sosteneva l’impossibilità per il giudice di disattendere il parere recepito nel decreto presidenziale, pena la violazione della regola dell’alternatività tra i due mezzi di gravame espressa dall’art. 8 d.P.R. n. 1199/1971, sulla base di un’asserita lapalissiana influenza del decreto sul processo di convincimento del giudice.
In altri termini, la decisione contenuta nel decreto del Presidente della Repubblica viene tratteggiata dal ricorrente come cosa giudicata.
A fronte del ricorso presentatole, la Sezione VI del Consiglio di Stato osservava come la controversia ponesse la questione inedita del rapporto esistente tra la decisione resa su un ricorso straordinario, nonostante il giudizio fosse stato ritualmente trasposto, e la sentenza adottata in sede giurisdizionale, nel caso in cui le due pronunce abbiano avuto esiti contrastanti.
La soluzione che l’Adunanza Plenaria è chiamata a fornire attiene, sì, al regime del decreto decisorio reso all’esito del ricorso straordinario, ma prima ancora alla natura stessa di tale strumento, questione strettamente funzionale alla risoluzione del quesito se la pronuncia resa sul ricorso straordinario sia idonea a passare in giudicato in una maniera assimilabile alla sentenza pronunciata dal giudice amministrativo.
La Sezione rimettente, infatti, ritiene sussistenti ancora profili di incertezza circa la natura del ricorso straordinario e la portata del principio di alternatività enunciati dall’art 8 d.P.R. n. 1199/1971, pertanto – affermando di propendere per la tesi della nullità sul rilievo della natura soggettivamente amministrativa della decisione che definisce il ricorso straordinario, con conseguente applicabilità delle norme che regolano le invalidità del provvedimento amministrativo – ha rimesso all’esame dell’Adunanza Plenaria il quesito volto a chiarire quale sia “il regime giuridico del decreto decisorio del Presidente della Repubblica reso erroneamente su ricorso straordinario ormai trasposto, ossia: se ad esso sia o non sia riferibile l’insegnamento consolidatosi che considera la decisione di un ricorso straordinario non trasposto avente valore di cosa giudicata e, nel caso in cui tale decreto decisorio del Presidente della Repubblica non abbia valore di cosa giudicata, se debba essere considerato nullo ai sensi dell’art. 21 septies della legge 241 del 1990 perché reso in astratta e totale carenza di potere per violazione del principio di alternatività dei rimedi”
2. La pronuncia dell’Adunanza Plenaria.
L’Adunanza Plenaria, con la sentenza in commento, ha preso posizione netta sulla natura del ricorso straordinario, ponendosi in aperto contrasto con la tendenza, sempre maggiormente consolidata in seno a una parte della giurisprudenza[4], a riconoscere una sorta di progressiva “giurisdizionalizzazione”[5] del ricorso straordinario, che avrebbe una natura “formalmente amministrativa, ma sostanzialmente giurisdizionale”[6] .
I principi di diritto enunciati dall’Adunanza Plenaria[7] sono, infatti, i seguenti: “Il ricorso straordinario è un rimedio giustiziale alternativo a quello giurisdizionale, di cui condivide soltanto alcuni profili strutturali e funzionali. La decisione resa su ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, sebbene il giudizio fosse stato ritualmente trasposto in sede giurisdizionale, è nulla ai sensi dell’art. 21 septies del c.p.a., in quanto emanata in difetto assoluto di attribuzione”.
Per giustificare tali conclusioni, i giudici affermano come l’individuazione della regola atta a dirimere il contrasto pratico loro sottoposto sia dipesa dalla qualificazione del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e dal regime giuridico conseguentemente applicabile al decreto decisorio.
Attraverso un ineccepibile percorso argomentativo, di cui si dirà diffusamente a breve, volto a ribadire la tesi tradizionale della natura amministrativa, o meglio, giustiziale del rimedio, l’Adunanza Plenaria, avendo dato atto dei due orientamenti contrapposti sulla natura del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e delle relative conseguenze del regime giuridico applicabile al decreto decisorio reso all’esito del procedimento, attraversa la storia dell’istituto ripercorrendo l’accidentato percorso normativo e giurisprudenziale che lo ha caratterizzato, per poi approdare al dibattito più recente, raffrontando la compatibilità dei diversi orientamenti contrapposti con il quadro normativo esistente.
Svolta tale approfondita ricostruzione, il Supremo Consesso Amministrativo ha ravvisato la necessità di affinare ulteriormente il quadro concettuale e ricostruttivo, a partire da un’imprescindibile indagine sulla portata della nozione di giurisdizione (e non sovrapponibilità della stessa con la nozione di giudice) e di cosa giudicata, senza tralasciare la ratio della regola dell’alternatività di cui all’art. 8 del d.P.R. n. 1199/1971 per poi tracciare, una volta data adesione alla teoria giustiziale, il regime giuridico dell’atto conclusivo che rappresenta un provvedimento amministrativo a tutti gli effetti e come tale trova la propria disciplina, nelle norme sull’invalidità amministrativa.
3. Sulla natura del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: tra funzione giustiziale e forma provvedimentale.
Il punto di partenza da cui muove l’Adunanza Plenaria, su cui si spende gran parte della pronuncia, attiene alla qualificazione del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Vengono immediatamente prospettate, in apertura della parte in diritto, le due letture[8] attorno alle quali si è polarizzato il dibattito sulla natura del rimedio in esame.
Da una parte la tesi tradizionale[9] – fondata originariamente sulla natura amministrativa dell’organo promanante la decisione, sulla natura obbligatoria ma non vincolante del parere del Consiglio di Stato[10], sull’inidoneità delle decisioni del Presidente della Repubblica a passare in giudicato, e sull’impossibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale e di effettuare rinvio pregiudiziale[11], nonché sul principio di alternatività – vede nel ricorso straordinario un rimedio di natura amministrativa[12].
Dall’altra, la tesi della natura “sostanzialmente giurisdizionale”[13] trova sostegno negli indici della presenza del parere del Consiglio di Stato, nello stesso principio di alternatività che starebbe a dimostrare l’equiordinazione rispetto al rimedio giurisdizionale, nella tendenziale immutabilità delle decisioni rese su ricorso straordinario, nella possibilità di esperire il rimedio della revocazione[14] e nel principio del contraddittorio, accentuato nell’ambito del ricorso straordinario.
Diverse sono le conseguenze che discendono sul piano pratico, per la questione sottoposta al vaglio dell’Adunanza, a seconda che si sposi l’una o l’altra teoria.
Seguendo l’impostazione tradizionale, la fattispecie andrebbe sussunta sotto le norme che disciplinano l’invalidità dell’atto amministrativo (segnatamente, la nullità per difetto di attribuzione) che in quanto tale sarebbe privo della forza e del valore giuridico per imporsi o condizionare l’accertamento giurisdizionale.
La tesi che invece configura il ricorso straordinario come sostanzialmente giurisdizionale dovrebbe comportare una soluzione diametralmente opposta: la pronuncia sul ricorso straordinario, in maniera non dissimile alla sentenza del giudice amministrativo, sarebbe idonea a passare in giudicato con una serie di conseguenze: la violazione della norma sull’alternatività tra sede straordinaria e giurisdizionale si tradurrebbe in un vizio del decreto che, in applicazione del principio generale della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione, andrebbe fatto valere tramite il mezzo di impugnazione previsto dalla legge (nel caso di specie quello di cui all’art. 10 comma 3 del d.P.R. n. 1199/1971), risultando altrimenti sanato; il mezzo attraverso il quale dovrebbe essere rilevata l’esistenza di un precedente decreto decisorio (equiparato alla sentenza) ormai “stabile”, sarebbe l’eccezione di cosa giudicata; solo ove non fosse rilevata l’eccezione di cosa giudicata o proposta revocazione avverso la seconda sentenza[15] si determinerebbe, in caso di difformità tra le due pronunce, un contrasto tra giudicati in cui sarebbe l’ultimo giudicato a prevalere sul precedente.
Al fine di dimostrare la fondatezza della tesi tradizionale, la sentenza in commento, tralasciando la trattazione sull’origine storica dell’istituto[16], ripercorre il dibattito che lo ha caratterizzato.
Sino al 2009, l’orientamento assolutamente prevalente nella giurisprudenza amministrativa intendeva il ricorso straordinario come un rimedio contenzioso di natura amministrativa. In quest’ottica non vi era spazio per il riconoscimento, in capo alle sezioni consultive del Consiglio di Stato, della legittimazione a sollevare l’incidente di costituzionalità né della proponibilità del giudizio di ottemperanza per l’esecuzione delle decisioni rese su ricorso straordinario o della loro ricorribilità per motivi di giurisdizione.
La discussione sulla natura del rimedio venne rivitalizzata dall’entrata in vigore della l. 69/2009 che, all’art. 69, ha modificato l’art. 13 d.P.R. n. 1199/1971 prevedendo che la Sezione consultiva “se ritiene che il ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una questione di legittimità costituzionale che non risulti manifestamente infondata, sospende l’espressione del parere e ordina alla segreteria l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale” nonché l’art. 14 del medesimo d.P.R., eliminando la potestà del Governo di deliberare in senso difforme rispetto al parere espresso dal Consiglio di Stato. A fronte anche delle ulteriori innovazioni introdotte dal codice del processo amministrativo di cui al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104[17], a seguito del riconoscimento da parte della Corte di Cassazione di una serie di rimedi che spostavano l’asse del rimedio verso la natura giurisdizionale, quali l’ammissibilità dell’azione di ottemperanza per l’esecuzione dei decreti resi su ricorsi straordinari[18], nonché la loro impugnabilità per motivi inerenti alla giurisdizione[19], la giurisprudenza di legittimità ha sempre più mostrato la propria propensione a riconoscere nel decreto presidenziale un’estrinsecazione sostanziale della funzione giudiziaria.
Diverso è, invece, il tenore delle pronunce della Corte Costituzionale[20] e del Consiglio di Stato che hanno, seppur quest’ultimo in maniera altalenante, negato la piena coincidenza dei due rimedi, per quanto possano dirsi assimilabili sotto taluni profili[21], senza che però ne venga mutata la natura amministrativa.
Da tale ricostruzione emerge innegabilmente un quadro complesso. In più, ragionevolmente, i giudici della Plenaria evidenziano come le formule linguistiche che, prudentemente e con diverse sfumature, alludono ad un’assimilazione del rimedio straordinario a quello giurisdizionale non appaiono, tuttavia, esaustive sul piano definitorio; in altri termini, non viene mai chiarito come “l’asserita antinomia – o ambivalenza – tra forma (di atto amministrativo) e sostanza (di atto decisorio) possa incidere sulla collocazione sistematica e sul regime giuridico dell’istituto”[22]; l’interprete, in altre parole, si mostra spesso restio ad abbandonare quella prudenza che lo trattiene in una costante incertezza definitoria.
Il progressivo riconoscimento della natura giustiziale del ricorso straordinario ha spinto, pertanto, a ingenerare quasi un equivoco lessicale fondato sull’arbitraria sovrapposizione dei concetti di giustiziale e giurisdizionale. Tale equivoco è particolarmente evidente a fronte di un istituto giuridico quale quello del ricorso straordinario, residuato invero di un’altra epoca del nostro diritto, ma pervenuto sino a noi, ove la natura amministrativa del rimedio giustiziale si colloca oggi in evidente contrasto col sentimento di tutela del diritto di difesa ormai imprescindibile nelle ipotesi di tutela giurisdizionale. Da ciò l’esigenza degli interpreti di piegare il lessico normativo e, di conseguenza, la sostanza del rimedio, per il perseguimento di questo obiettivo[23].
Proprio a fronte di tale incertezza lessicale e inconcludenza sul piano definitorio, il Supremo Consesso ravvisa l’esigenza di affinare ulteriormente il quadro concettuale e ricostruttivo, a partire dalla nozione di “giurisdizione” che, sin da subito, viene differenziata dalla rappresentazione ideale della funzione di rendere giustizia, dovendosi invece definire come attributo di specifica e concreta attività statale da disciplinare. Vanno scartati i tentativi dottrinali di definizione della giurisdizione sulla base di aspetti di tipo contenutistico o sulla base del dato strutturale – ossia quello di essere l’accertamento dei giudici contrassegnato dal particolare regime di cosa giudicata – dovendosi optare per l’unica definizione attendibile, basata non sul dato ontologico quanto sull’aspetto soggettivo: “la giurisdizione è l’attività di accertamento e decisoria che l’ordinamento imputa ai giudici, come individuati dalle norme costituzionali sulla competenza (artt. 101, 102 e 103 Cost.)”[24].
Partendo da tale concetto di attività giurisdizionale, demandata all’autorità giudiziaria ordinaria e agli altri organi di giurisdizione contemplati dalla Costituzione, tra cui i Tribunali Amministrativi Regionali ed il Consiglio di Stato, l’Adunanza Plenaria dimostra, a partire dalla qualificazione normativa dell’istituto, come gli indici normativi depongano tutti nel senso della natura amministrativa del rimedio del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Il d.P.R. n. 1199/1971 configura espressamente il ricorso come rimedio amministrativo, anche il procedimento[25]illumina la natura non giurisdizionale del rimedio. Difettano, infatti, tutti gli elementi propri dell’attività giurisdizionale in quanto: normalmente non viene garantito il contraddittorio e il parere è espresso in seduta non pubblica nella quale non è ammessa discussione orale; il parere del Consiglio di Stato è un atto endoprocedimentale, che acquista valore fino a quando non viene emanato il decreto del Presidente della Repubblica; il decreto conclusivo è un atto ministeriale perché controfirmato dal Ministro, che ne assume responsabilità politica e giuridica; la decisione finale viene imputata allora allo Stato come persona giuridica e non all’organo giurisdizionale; emerge, infine, un’autonomia strutturale della decisione del Presidente della Repubblica e Ministro rispetto a quella del Consiglio di Stato in quanto gli eventuali vizi propri del segmento successivo al parere possono essere fatti valere ai sensi dell’10 comma 3 d.P.R. 1199/1971 e il fatto che il Presidente della Repubblica abbia la facoltà di richiedere il riesame del parere restituendo gli atti al Ministro competente, sostiene la teoria che la decisione finale non sia meramente dichiarativa di una pronuncia dell’organo giurisdizionale.
Significativa, in questa ricostruzione, è la caratteristica – richiamata a fondamento di entrambe le teorie sulla natura del ricorso straordinario – dell’alternatività del rimedio rispetto a quello giurisdizionale. In quest’ottica, l’argomento è richiamato a sostegno dell’eterogeneità dei due rimedi, che, pur presentando punti di contatto, hanno natura diversa; non a caso è prevista la possibilità di trasporre il ricorso in sede giurisdizionale, evidenziandosi in tal modo la diversità e complementarietà dei due, che danno vita ad un sistema integrato di tutela. L’art. 8 d.P.R. n. 1199/1971 subordina, infatti, l’ammissibilità del ricorso straordinario alla condizione che lo stesso interessato non abbia impugnato il medesimo atto con ricorso giurisdizionale; il ricorso straordinario diviene improcedibile qualora l’amministrazione o il controinteressato abbiano trasposto il giudizio in sede giurisdizionale (art. 10).
Lo stesso c.p.a. prende allora in considerazione il ricorso straordinario al solo fine di disciplinare gli effetti processuali della predetta trasposizione. La generalizzazione della facoltà di opposizione estesa a tutte le parti art. 48 comma 1 c.p.a.) si spiega per salvaguardarne il diritto di azione in sede giurisdizionale: la locuzione di cui all’art. 48 c.p.a. (secondo cui se l’opposizione è dichiarata inammissibile il tribunale dispone la restituzione del fascicolo “per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria”) è semplicemente un meccanismo di raccordo con il rimedio amministrativo conseguente all’accertata inidoneità dell’opposizione a comportare la trasposizione.
A spiegare la natura giustiziale del ricorso straordinario è la stessa ratio dell’opposizione, volta a garantire ai controinteressati e alle parti resistenti la piena libertà di adire la tutela giurisdizionale e non quella di scegliere tra due rimedi entrambi giurisdizionali[26]: la trasposizione esprime allora “un rapporto di complementarietà tra il mezzo giustiziale e quello giurisdizionale, entrambi parti di un sistema comunicante e integrato di tutela”[27].
Non può poi ignorarsi lo stesso art. 69 della legge n. 69/2009 che, rubricato “Rimedi giustiziali contro la pubblica amministrazione”, sottolinea esplicitamente l’intenzione legislativa di incrementare le garanzie di un rimedio giustiziale e non di certo di trasformarlo in mezzo di impugnazione giurisdizionale.
Il dato positivo è allora inequivoco e, poiché le norme processuali rinviano a una nozione formale di giurisdizione, le relative disposizioni non possono estendersi ad attività poste in essere da soggetti diversi dai giudici. Pur a fronte dell’indeterminatezza dei termini del linguaggio naturale, l’interpretazione non è mai un atto libero da vincoli e deve pur sempre muoversi, nell’attribuzione del significato, nel perimetro della volontà del legislatore. La nozione di rimedio “formalmente amministrativo, ma sostanzialmente giurisdizionale” non trova alcun riscontro nel dato normativo ed è priva di un effettivo significato.
Perciò l’Adunanza Plenaria nega la possibilità di riqualificare in via pretoria un intero istituto, ricollocando una classe di ipotesi da una sede normativa ad un’altra, in quanto tale operazione trascende il testo ed è destinata a creare ulteriori antinomie: affidare agli interpreti una tale discrezionalità significa esporsi ad esiti imprevedibili, fondati su criteri ondivaghi ed evanescenti[28].
Né si può dal contesto sovranazionale estrapolare una definizione autonoma di giurisdizione, distorcendo una definizione funzionale che, nell’elaborazione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della Corte di Strasburgo, ha semplicemente lo scopo di assicurare allo strumento del rinvio pregiudiziale la garanzia dell’“effettività” del diritto europeo, e certamente non di ampliare la nozione, inglobando un rimedio amministrativo nel sistema giurisdizionale[29].
La possibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale o di effettuare il rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia non può essere assunta quale indice della natura giurisdizionale del rimedio in quanto le nozioni di giurisdizione, e ancor più quella di giudice[30], adottate a tal fine sono, dunque, più ampie rispetto a quelle delineate dal diritto interno e rispondono ad un diverso fine che ne giustifica la connotazione in senso sostanziale.
Su queste basi, l’Adunanza Plenaria, tira le fila della digressione, dettando[31] le proprie conclusioni:
Proprio alla luce dell’impossibilità di qualificare la decisione amministrativa come cosa giudicata in senso tecnico, la Plenaria fa un ultimo passaggio mettendo in discussione anche quell’orientamento[33] che la ritiene impugnabile ai sensi dell’art. 111 comma 8 Cost.: la posizione favorevole al ricorso di cui all’art. 362 c.p.c., infatti, sembrerebbe collidere con l’art. 10 comma 3 d.P.R. n. 1199/1971, ove si prevede la possibilità di impugnare la decisione resa su ricorso straordinario davanti al giudice amministrativo: per le parti del giudizio, unicamente per vizi di forma o di procedimento; per il soggetto pregiudicato dalla decisione straordinaria, ma non evocato in sede straordinaria, anche per tutti altri possibili errori di giudizio della decisione[34].
Sicché sembrerebbe quantomeno asistematico fare discendere dalla (asserita) “ambivalenza” del ricorso straordinario finanche una divaricazione del regime delle impugnazioni: il giudizio amministrativo di legittimità con riguardo alla “forma amministrativa”; il ricorso per cassazione in ragione della “sostanza giurisdizionale”. Impugnazioni che, per giunta, sarebbero concorrenti tra di loro, mancando una qualsivoglia norma di coordinamento.
Ad opinione della Plenaria appare, quindi, preferibile ritenere che l’art. 7, comma 8, del c.p.a. – il quale ammette il ricorso straordinario “unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa” – contenga una norma che delimita l’ambito di applicazione del ricorso giustiziale, la cui violazione è censurabile in sede giurisdizionale (e nei vari gradi di giudizio) tramite l’impugnazione di cui al predetto art. 10, comma 3..
4. Lo statuto della nullità dei provvedimenti amministrativi.
Una volta sposata la teoria giustiziale, può finalmente completarsi il quadro delineando il regime giuridico dell’atto finale: inquadrata la decisione del Presidente della Repubblica come provvedimento amministrativo a tutti gli effetti, il regime giuridico non può che essere quello delineato dalla legge n. 241/1990.
Viene, dunque, scartata l’ipotesi del contrasto tra giudicati – corollario della tesi della natura giurisdizionale del ricorso straordinario – e affermato che il regime della decisione resa, per tutto quanto non previsto dal d.P.R. n. 1199/1971 e dalle pertinenti norme del c.p.a., è quello dettato dalle disposizioni in materia di procedimento amministrativo, segnatamente dalle norme sull’invalidità amministrativa.
I giudici di Palazzo Spada tracciano il regime del provvedimento nullo, evidenziandone tutta la distanza rispetto alla disciplina dell’invalidità in ambito negoziale.
L’art. 21 septies l. n. 241/1990, si legge, ha confermato le precedenti acquisizioni giurisprudenziali circa l’inserimento a pieno titolo della nullità nell’ambito dell’invalidità del provvedimento amministrativo, che diviene così una categoria composita e idonea a ricomprendere i diversi stati vizianti entro una cornice sistematica unitaria.
Tra i vizi che determinano la nullità, la norma contempla il difetto assoluto di attribuzione, il quale è il portato del principio di tipicità del potere amministrativo, a sua volta corollario del principio di legalità cui è soggetta l’attività amministrativa di diritto pubblico. Il difetto assoluto di attribuzione è ravvisabile nell’ipotesi in cui venga esercitato un potere non previsto né attribuito dall’ordinamento (cd. carenza di potere in astratto), nonché come conseguenza del divieto, da parte di un’Amministrazione, di esercitare un potere che, ancorché definito dall’ordinamento, sia attribuito ad una diversa Amministrazione (incompetenza assoluta) ovvero per il quale sussista un impedimento legale assoluto al suo esercizio (la categoria pretoria della carenza di potere in concreto, invece, rientra oramai nell’area dell’annullabilità).
La fattispecie de qua, ad opinione della Plenaria, ricade senza dubbio nell’ipotesi del difetto assoluto di attribuzione. L’intervenuta opposizione e la rituale riassunzione del giudizio in sede giurisdizionale spogliano, infatti, l’amministrazione del potere di definire la controversia (l’art. 10 d.P.R. n. 1199/1971, inibisce qualsiasi pronuncia, di rito e nel merito, sul ricorso straordinario che sia stato trasposto in sede giurisdizionale). Se ne desume che l’istruzione dell’affare da parte del Ministero competente, il parere del Consiglio di Stato ed il decreto stesso di definizione del ricorso, sono assolutamente preclusi dall’atto con il quale si opera la trasposizione del ricorso dalla sede straordinaria a quella giurisdizionale (salva l’ipotesi dettata dall’art. 10, comma 2, d.P.R. n. 1199/1971).
L’Adunanza si spende poi in una ricostruzione, anche storica, del regime dell’invalidità del provvedimento, valorizzando le innovazioni apportate dal c.p.a.
Nell’assetto anteriore all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, annullabilità e nullità rappresentavano il precipitato di tecniche normative marcatamente diverse: l’atto nullo (nel solco della teoria generale del negozio giuridico) veniva considerato giuridicamente rilevante (in quanto sussumibile in una fattispecie normativa, in primis quella che contempla le diverse ipotesi di nullità), ma improduttivo di effetti; il regime dell’annullabilità, rispondendo all’esigenze di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, consentiva, a differenza della nullità, che il provvedimento illegittimo si consolidasse rapidamente in caso di mancata impugnazione e comunque producesse i suoi effetti fino all’eventuale caducazione.
L’entrata in vigore del c.p.a., ha tuttavia consacrato una disciplina dell’azione di nullità del tutto difforme rispetto alla tradizione civilistica.
Ai sensi dell’art. 31, comma 4, del c.p.a. “la domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni”. L’azione di nullità, dunque, non può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse (art. 1421 c.c.) e senza essere soggetta a prescrizione (art. 1422 c.c.), ma solo da coloro che sono legittimati a far valere ogni altra illegittimità del provvedimento ed entro un breve termine di decadenza (sia pure più lungo di quello previsto per l’azione di annullamento). Essendo configurata come vizio la cui contestazione è soggetta a termine decadenziale, la nullità si atteggia in termini di illegittimità “forte”, suscettibile anch’essa di consolidamento per coloro che ne subiscono gli effetti pregiudizievoli.
Le principali differenze tra le due forme di invalidità si manifestano nelle tecniche di sindacato: il giudizio sulla nullità si misura in termini “parametrici” di difformità dell’atto rispetto allo schema legale; il giudizio di l’annullabilità consente, invece, di sanzionare anche la devianza “funzionale” dell’atto rispetto al perseguimento dell’interesse pubblico assegnato alla cura dell’Amministrazione, ovvero di controllarne la ragionevolezza e proporzionalità (sia pure con il divieto di procedere a valutazioni sostitutive di merito).
La pronuncia si sofferma, infine, sui quesiti interpretativi sollevati con riguardo al secondo periodo del comma 4 dell’art. 31 c.p.a., il quale precisa che “la nullità dell’atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice”.
Con riguardo a tale aspetto, viene precisato che il potere del giudice di rilevare in via officiosa l’esistenza di una causa di nullità va contemperato e coordinato con il principio dispositivo della domanda e con la struttura impugnatoria del giudizio amministrativo.
Il rilievo d’ufficio della nullità – possibile solo ex actis, sulla base cioè dei fatti ritualmente introdotti o comunque acquisiti in causa – non trova ostacoli se volto a paralizzare la domanda di annullamento del ricorrente (com’è per l’ipotesi oggetto dell’ordinanza di rimessione). Il rilievo della nullità da parte del giudice non può invece sopperire alla carenza di allegazioni del ricorrente, introducendo un tema decisorio che non era stato dedotto nell’atto di impugnazione: l’esercizio del potere officioso, in tale caso, renderebbe vana la previsione stessa del termine decadenziale per la deduzione del vizio da parte del ricorrente[35]; sussistendone i presupposti e in ossequio al principio di legalità e di parità delle armi, non può riconoscersi alcuna discrezionalità in capo al giudice nel rilevare la nullità.
[1] Con ricorso iscritto al n.r.g. 1240 del 2006.
[2] Con ricorso iscritto al n.r.g. 528 del 2008.
[3] Con sentenza n. 584 del 5 giugno 2009, confermata poi dal Consiglio di Stato con sentenza n. 2906 del 2020.
[4] Si segnala, in particolare, Cass. SS.UU., 28 gennaio 2011, n. 2065 che, fungendo da modello per le successive pronunce che hanno spostato l’asse del rimedio verso la natura giurisdizionale, ha chiarito come le modifiche apportate alla disciplina del ricorso straordinario dalla legge 69 del 2009 sono tali da eliminare alcune determinanti differenze del procedimento per il ricorso straordinario rispetto a quello giurisdizionale: l’eliminazione del potere della PA di discostarsi dal parere del Consiglio di Stato confermerebbe che il provvedimento finale, che conclude il procedimento, è meramente dichiarativo di un giudizio, per cui che questo sia vincolante, se non trasforma il decreto presidenziale in atto giurisdizionale (in ragione della natura dell’organo emittente e della forma dell’atto), lo assimila a questo nei contenuti (si legge che “il provvedimento è amministrativo nella forma, ma assimilato a quello giurisdizionale nei contenuti”).
Sempre la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con una serie di sentenze successive (Cass. SSUU., 19 dicembre 2012, n. 23464; 8 settembre 2013, n. 20659; 5 ottobre 2015, n. 19786) sembrava aver superato la natura amministrativa del rimedio, riconoscendo l’idoneità del decreto stesso a formare il giudicato.
Tale tesi, sostenuta dalle Sezioni Unite, è stata successivamente avallata dal Consiglio di Stato che, con Ad. Plen. 5 giugno 2012, n. 18, pur avendo chiarito che il ricorso straordinario al Capo dello Stato costituisce un rimedio giustiziale che si colloca in simmetrica alternativa con quello giurisdizionale, ancorché di più ristretta praticabilità quanto al novero delle azioni esperibili, testualmente afferma come non sia dubitabile che il petitum proposto in sede di ricorso straordinario sia perfettamente equiparabile (e produca lo stesso effetto) ad una “domanda giurisdizionale”.
Nello stesso solco si colloca poi anche Cons. Stato, Ad. Plen., 6 maggio 2013, n. 9 che ha riconosciuto “la natura sostanzialmente giurisdizionale del rimedio in parola e dell’atto terminale della relativa procedura”.
Gli stessi argomenti sono stati poi ripresi, da ultimo, da Cons. stato, Ad. Plen, 2015, n. 7 per la quale la decisione resa all’esito di un ricorso straordinario è da ricondurre all’apporto consultivo del Consiglio di Stato, connotato da una suitas giurisdizionale tale da trasformare il provvedimento reso dal Presidente della Repubblica in meramente dichiarativo: secondo tale ricostruzione, il decreto presidenziale che recepisce il parere, pur non essendo, in ragione della natura dell’organo e della forma dell’atto, un atto formalmente e soggettivamente giurisdizionale, è comunque “estrinsecazione sostanziale di funzione giurisdizionale” che culmina in una decisione caratterizzata dal crisma dell’intangibilità, propria del giudicato, all’esito di una procedura in unico grado incardinata sulla base del consenso delle parti (la sentenza, che di fatto ha riconosciuto la portata innovativa e non meramente interpretativa della modifica legislativa del 2009, nel precisare come tali modifiche debbano considerarsi “inidonee ad incidere sulla natura giuridica” di decreti presidenziali adottati prima della loro entrata in vigore, ha sostanzialmente ravvisato, al contrario, un mutamento della natura giuridica dei decreti presidenziali adottati all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 69 del 2009..
[5] Sul punto si segnalano: per un’ampia trattazione critica sulla natura del rimedio e sulla sua attualità, C. Volpe, Il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, in www.giustizia-amministrativa.it; per una ricostruzione sulla natura del rimedio alla luce della sua “giurisdizionalizzazione” e sulla compatibilità con l’ottemperanza, S. Casilli, La tutela esecutiva per la decisione resa in sede di ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: gli ultimi sviluppi, tra evoluzione e arresti giurisprudenziali (nota a Consiglio di Stato, Sezione Prima, 28 febbraio 2022, n. 475), in questa Rivista, 1 febbraio 2023.
[6] Definizione, questa, affermatasi in via pretoria, ma che non trova alcun riscontro effettivo nel dato normativo (non si dimentichi la fondamentale incidenza del principio di legalità nella materia amministrativa), come evidenziato dalla stessa sentenza in commento al punto 3.1 ove si legge che “la creazione pretoria di una nuova categoria di atti formalmente presidenziali ma sostanzialmente giurisdizionali contrasta anche con la qualificazione scolpita nella legge 12 gennaio 1991, n. 13 (Determinazione degli atti amministrativi da adottarsi nella forma del decreto del Presidente della Repubblica) che, nel tipizzare gli «atti amministrativi» (non previsti espressamente dalla Costituzione o da norme costituzionali) da adottarsi nella forma del decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio o del ministro competente, all’art. 1, comma 1 lettera bb), vi include espressamente la «[…] decisione dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica».
[7] Al punto 8 della sentenza in commento.
[8] Il fulcro di detto contrasto giurisprudenziale, afferendo all’estensione delle forme di tutela disponibili sulla base del dato formale dello strumento di tutela attivato, pur a fronte della medesima situazione giuridica soggettiva (e, segnatamente, al riconoscimento della possibilità di accedere alla tutela esecutiva), ricorda, per certi versi, la tensione sottesa al concetto di Rechtsschutzbedürfnis nel pensiero di Schönke (cfr. P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021, 107 ss.).
[9] Cass. SSUU, 2 ottobre 1953, n. 3141; Cons. Stato, sez. V, 9 luglio 1954, n. 724.
[10] Natura poi mutata dalla legge n. 69/2009 che ha modificato gli artt. 13 e 14 del d.P.R. 1199/1971 rendendo obbligatorio e vincolante nell’ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica il parere del Consiglio di Stato e prevedendo la possibilità, per quest’ultimo, di sollevare, anche in sede consultiva, questioni di legittimità costituzionale.
Il mutato carattere vincolante del parere ha costituito, per taluni, argomento a sostegno della tesi della natura giurisdizionale.
In senso contrario, tuttavia, è stato escluso che possa essere significativo il fatto che la riforma del 2009 abbia reso vincolante il parere del Consiglio di Stato, in quanto la vincolatività di tale provvedimento non ne muterebbe la natura, che rimarrebbe amministrativa ed ancorata ad una funzione giustiziale: in questo senso deporrebbe anche la rubrica dell’art. 69 l. 69/2009. Così G. D’Angelo, La «giurisdizionalizzazione» del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: profili critici di un orientamento che non convince, in www.giustamm.it, 2013, 6, secondo cui semmai la vincolatività muta i termini del rapporto con il decreto del Presidente della Repubblica. Del resto, è stato evidenziato che nel procedimento del ricorso straordinario la natura decisoria è riconoscibile, con maggiore evidenza oggi in ragione del carattere vincolato, al parere del Consiglio di Stato, il quale avrebbe carattere formale di atto consultivo ma dal punto di vista sostanziale sarebbe caratterizzato dagli stessi contenuti di una decisione amministrativa (cfr. A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2013, 165).
[11] Anche in relazione all’esperibilità del rinvio pregiudiziale lo scenario è oggi mutato alla luce della spinta favorevole operata dalla Corte di Giustizia già con sentenza del 16 ottobre 1997, cause riunite da C-69/96 a C-79/96. In quell’occasione la Corte, infatti, giunse ad ammettere la possibilità per il Consiglio di Stato, in sede di emissione del parere su ricorso straordinario, di effettuare il rinvio pregiudiziale. A tale conclusione la Corte di Giustizia pervenne sulla base della considerazione per cui anche in tale sede al Consiglio di Stato va riconosciuta la qualifica di “giurisdizione nazionale” ai sensi dell’art. 177 (ora 234) del Trattato CE.
Sulla scia della sentenza della Corte di Giustizia si pose poi lo stesso Consiglio di Stato, sez. I, 19 maggio 1999, n. 850, giungendo ad ulteriori conseguenze e ritenendosi legittimato, anche in sede di parere reso su ricorso straordinario, a sollevare questione di legittimità costituzionale.
Deve però rilevarsi come a più riprese, prima dell’entrata in vigore della modifica legislativa del 2009, si fossero espresse la Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 21/1975, n. 148/1982, n. 254/2004) al fine di negare alle Sezioni consultive del Consiglio di Stato la legittimazione a sollevare incidente di costituzionalità e le Sezioni Unite (con sentenza del 18 dicembre 2001, n. 15978) al fine di confinare la portata del precedente offerto dalla Corte di Giustizia, osservando come la nozione di “organo giurisdizionale – rilevante al fine dell’individuazione delle autorità legittimate a rimettere in via pregiudiziale all’esame della Corte di Giustizia questioni relative all’interpretazione del Trattato – dovesse essere ricavata esclusivamente dalle norme di diritto comunitario, mentre nel caso di specie essa avrebbe dovuto essere desunta dalle disposizioni di diritto interno” per cui tra le due nozioni non doveva esservi, dunque, necessaria coincidenza.
[12] In tal senso pronunce fondamentali sono le già citate Cass. SS.UU. n. 15978/2001 e Corte Cost. n. 254/2004.
[13] Si rinvia, a fondamento dell’orientamento sostanzialmente giurisdizionale, supra, alla nota 4.
[14] Come previsto dall’art. 12 d.P.R. n. 119/1971, ma anche ribadito da TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 30 settembre 2022, n. 2582 in cui si legge che “Per giurisprudenza consolidata, la decisione del ricorso straordinario al Capo dello Stato o al Presidente della Regione può essere impugnata per revocazione nei casi previsti dall'art. 395 c.p.c., nonché davanti al giudice amministrativo solo per i vizi formali e procedurali successivi al vincolante parere di rito del Consiglio di Stato. Tali limitazioni all'impugnativa della decisone sono opponibili solo al ricorrente e alle controparti del procedimento giustiziale, le quali non avendo chiesto la trasposizione alla sede giurisdizionale hanno così accettato tutte le peculiarità e conseguenze di tale procedimento.
In particolare, la rinuncia del ricorrente straordinario successiva alla trasmissione del parere dell'organo consultivo, ma anteriore al decreto presidenziale, non può essere utilmente presentata e, ove prodotta, non può essere considerata e dispiegare i pretesi effetti estintivi.
L'espressione del parere obbligatorio esaurisce la fase decisionale del ricorso straordinario; la sua rivalutazione in sede giurisdizionale è inammissibile stante il principio di alternatività fra ricorso straordinario e ricorso giurisdizionale, che non consente che vengano rimesse in discussione questioni, di forma e/o di sostanza, afferenti gli atti ed i provvedimenti opposti in via straordinaria, onde evitare che l'impugnazione in sede giurisdizionale porti ad un riesame del medesimo giudizio espresso in sede consultiva, per effetto della sovrapposizione della decisione giurisdizionale a quella del ricorso straordinario”.
[15] Ai sensi dell’art. 395 n. 5 c.p.c.
[16] Il più lontano antenato del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è rinvenibile nel sistema di “giustizia ritenuta”, tipico delle monarchie assolute. La prima codificazione di questo rimedio risale al 1739, nel 1975 fu poi istituito il Consiglio del Re e si stabilì che il sovrano potesse ascoltarne il parere, anche se non vincolante, prima di decidere sui ricorsi a lui indirizzati; fu poi Carlo Alberto nel 1831, a modificarne la denominazione in “Consiglio di Stato” il cui parere venne reso obbligatorio in tutti i casi di ricorso al Re dalla Legge del Regno di Sardegna n. 3707/1859.
Con l’istituzione nel 1889 della IV Sezione del Consiglio di Stato venne meno la funzione del ricorso straordinario di rimedio generale per l’impugnazione, per motivi di legittimità, dei provvedimenti amministrativi definitivi. La legge n. 5992/1889, infatti, attribuiva definitivo sbocco giurisdizionale anche agli interessi legittimi, fino ad allora tutelabili solo attraverso lo strumento dei ricorsi amministrativi.
Pur ritenendo alcuni che il rimedio avesse esaurito la sua utilità, l’istituto venne mantenuto in vita e disciplinato dal d.P.R. n. 1199/1971 e, per evitare che vi fossero problematiche duplicazioni, in ossequio al principio del ne bis in idem, si fece ricorso al principio di alternatività tra ricorso giurisdizionale e ricorso straordinario di modo da evitare da un lato che sullo stesso atto intervenissero due pronunce giustiziali diverse e dall’altro che il Consiglio di Stato si pronunciasse due volte sulla medesima questione.
[17] Il quale: ha stabilito che il ricorso straordinario è ammissibile unicamente per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa (art. 7 comma 8); ha, sia pur non espressamente, definitivamente riconosciuto la possibilità di azionare il giudizio di ottemperanza per l’esecuzione del decreto presidenziale (art. 112); ha generalizzato la facoltà di opposizione di cui all’art. 10 d.P.R. n. 1199/1971 in favore di tutte le parti nei cui confronti sia stato proposto il ricorso straordinario (art. 48 comma 1); ha previsto che “qualora l’opposizione sia inammissibile, il Tribunale amministrativo regionale dispone la restituzione del fascicolo per la prosecuzione del giudizio in sede straordinaria”, delineando, secondo alcuni, una particolare ipotesi di translatio iudicii (art. 48 comma 3 c.p.a.)
[18] In tal senso le già citate SS.UU. n. 2065/2011.
[19] Cass. SS.UU. n. 23464/2012, n. 20596/2013, n. 10414/2014.
[20] Corte Cost. n. 73/2014, n. 24/2018, n. 63/2023.
[21] Recentemente il Consiglio di Stato in sede consultiva (Sez. I, 22 novembre 2019, n. 2935), pur riconoscendo che il ricorso straordinario “ha perso la sua connotazione, tipicamente ed esclusivamente, di rimedio amministrativo”, ha concluso che “non vi è coincidenza tout court con gli altri rimedi giurisdizionali sul piano dei principi applicabili” e che l’atto conclusivo della procedura va qualificato come provvedimento amministrativo, “solo per certi aspetti equiparato” ad una sentenza (proprio su queste basi è stata giustificata la non perfetta operatività delle garanzie della pubblicità e oralità).
[22] Punto 2.4 della sentenza in commento.
[23] La questione della corretta lettura lessicale dei termini di diritto è peraltro non frutto solo della recente ipertrofia interpretativa, ma era noto già alla dottrina ottocentesca ove si poneva il problema di coordinare un testo normativo ritenuto vago e incompleto con la sentita necessità di garantire adeguata tutela. Così, “l’appello al sentimento giuridico del giudice è il segno che non ci sono altre parole: il sentimento giuridico è la reazione sociale alla frustrazione del desiderio del testo. Sussiste una correlazione necessaria tra afasia normativa e senso giuridico. Una società è in afasia normativa quando non riesce a verbalizzare norme per l’insuperabilità di contrasti sugli oggetti da regolare. Giunta al limite del linguaggio regolativo, mediante le formule di autotrascendenza la società scopre quanto possa esserle provvidenziale l’afasia” (P. Femia, Sentimento e moltitudine. Rudolf von Jhering tra interessi ideali e beni comuni, Il Mulino, 2024, 225 ss).
[24] Si legge al punto 3 della sentenza.
[25] Il legislatore, in ordine al procedimento che conduce alla decisione, prevede che: il ricorso venga notificato all’organo che ha emanato l’atto o al Ministero competente, il quale ordina, se del caso, l’integrazione del procedimento (art. 9): l’Amministrazione competente per materia svolge l’istruttoria (art. 11); l’affare già istruito viene trasmesso alle Sezioni Consultive del Consiglio di Stato (art. 12) per l’adozione del parere vincolante (art. 13).
[26] È stato autorevolmente rilevato che, se si optasse, al contrario, per la natura “sostanzialmente giurisdizionale” del rimedio in esame, il significato dell’opposizione dei controinteressati (e delle parti resistenti) non sarebbe più quello di scegliere tra un rimedio giurisdizionale e uno amministrativo, ma quello di scegliere tra due rimedi giurisdizionali (l’uno semplificato e l’altro ordinario), con una conseguente notevole limitazione dell’oggetto del consenso di tutte le parti: l’espressione “sostanzialmente giurisdizionale” da un lato lascerebbe intendere l’impossibilità di sostenere la tesi della natura effettivamente giurisdizionale, dall’altro lato introdurrebbe una distinzione tra giurisdizione in senso sostanziale e giurisdizione in senso formale, che è giustificabile in altri sistemi giuridici ma non nel nostro, in considerazione della disciplina costituzionale della funzione giurisdizionale (in tal senso F.G. Scoca, Osservazioni sulla natura del ricorso straordinario al Capo dello Stato; Cons. Stato, Ad. Plen., 5 giugno 2012, n. 18, in Foro it., 2012, III, 2378).
[27] Punto 3.1 della sentenza in commento.
[28] Le conseguenze rischiose sono presto dette: il diritto giurisprudenziale “diviene un diritto di lotta combattuta con le armi dell’interpretazione, cioè delle norme modellate dall’attività interpretativa: lotta ermeneutica contro fenomeni che non si ritengono adeguatamente tutelati dalla legge” (P.L. Portaluri, Immagini da un futuro possibile: il paradigma della legittimazione ad agire, in CERIDAP. Rivista Interdisciplinare sul Diritto delle Amministrazioni Pubbliche, fasc. 2/2023, 227 ss).
[29] In tal senso deve essere ridimensionata la portata della pronuncia – che per taluni avrebbe segnato la conclusione del processo di giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario – della Corte Edu, Sez. I, 8 settembre 2020, Mediani c. Italia, che ha affermato che le tutele previste dalla Convenzione (e segnatamente l'art. 6 sulla ragionevole durata dei processi) sono riferibili anche al ricorso straordinario.
[30] Nel diritto interno, infatti, già le due nozioni si differenziano in quanto quella di “giudice”, ai fini dell’applicazione dell’art. 1 legge costituzionale n. 1/1948 e dell’art. 23 l. n. 87/1953, è più ampia di quella di “giurisdizione”.
[31] Al punto 5 ss.
[32] Come è stato osservato da Cons. Stato, Ad. Plen. 14 luglio 2015, n. 7, l’ottemperabilità di una decisione è una qualitas non sovrapponibile a quella diversa della sussistenza di un giudicato resistente al potere della legge. Inoltre, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il diritto all’esecuzione delle decisioni definitive e vincolante che le ha pronunciate, è parte integrante del “diritto a un tribunale” nell’ampia accezione ‘convenzionale’ (inclusiva cioè anche di organi non inseriti nell’apparato giudiziario). Che la decisione resa su ricorso straordinario non configuri un giudicato in senso tecnico non comporta, tuttavia, alcuna modifica dell’orientamento espresso dalla medesima Adunanza Plenaria, nelle sentenze n. 9 e 10 del 2013, secondo cui il ricorso per l’ottemperanza deve essere proposto dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si identifica il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta.
[33] Sul punto si segnala nuovamente Cass. SS.UU. n. 10414/2014, sentenza che, con un’opera di equilibrismo giuridico, ha segnato un’apertura verso l’impugnabilità delle decisioni rese all’esito del ricorso straordinario per motivi inerenti alla giurisdizione, ma non con la medesima ampiezza prevista dall’art. 9 c.p.a.; la Corte estrae una regola processuale assente nell’ordinamento, conformata alla specialità del procedimento (che si svolge in unico grado) che preclude l’impugnazione delle pronunce laddove non sia stata contestata nel corso del procedimento la giurisdizione, fondatasi, così, per accordo delle parti (potendosi diversamente impugnare la decisione per motivi di giurisdizione ove una delle parti l’abbia contestata durante il procedimento).
Le Sezioni Unite consentono tuttavia il ricorso per motivi di giurisdizione ai sensi dell’art. 111 comma 8 Cost. sotto un diverso profilo, ossia quello dell’eccesso di potere giurisdizionale, in quanto in tal caso la questione di giurisdizione non attiene alla giurisdizione come presupposto che deve sussistere, ma riguarda un momento successivo, quello della decisione, che astrattamente potrebbe eccedere dai limiti del potere giurisdizionale, come quando il giudice amministrativo esercita una prerogativa spettante alla PA; evenienza questa (eccezionale), che legittimerebbe le parti, che sul punto non possono dirsi soccombenti, a proporre ricorso ex art. 111 comma 8 Cost. e art. 362 c.p.c.
[34] Cons. Stato, Ad. Plen., 27 giugno 2006, n. 9.
[35] Così come osservato da Cons. Stato, Sez. III, 3 luglio 2019, n. 4566.
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