ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le comunicazioni conservate sulle chat sono da considerare corrispondenza. Problematiche attuali e prospettive de iure condendo.
Sommario: 1. La sentenza n.170/2023 della Corte costituzionale 2. Il mutamento della giurisprudenza penale: da documento a corrispondenza - 3. La tutela dell’art. 15 Cost. e l’inosservanza delle regole processuali - 4. Problematiche attuali e prospettive de iure condendo.
1. La sentenza n.170/2023 della Corte costituzionale
Come è noto a tutti, le comunicazioni tra le persone non si svolgono quasi più tramite la corrispondenza tradizionale, ossia con la lettera in busta chiusa ed inviata a mezzo posta, ma avvengono tramite telefono oppure, sempre più di frequente, attraverso dispositivi elettronici e informatici, come e-mail, messaggi SMS, o con applicativo WhatsApp e simili. Tali comunicazioni, una volta ricevute dal destinatario, rimangono conservate nella memoria dello strumento elettronico, sia esso un computer, uno smartphone o un tablet. Sono dati ormai statici, ovvero cd. “freddi” secondo il linguaggio informatico, perché il flusso della comunicazione elettronica è già avvenuto; per tale ragione la giurisprudenza della Corte di Cassazione, in misura pressoché unanime, aveva sempre escluso che in ordine a tali comunicazioni potesse trovare applicazione la disciplina sulle intercettazioni, facendo, invece, richiamo alle norme sui documenti (art. 234 cod. proc. pen.) oppure quella sui documenti informatici (art. 234-bis cod. proc. pen.).
La svolta interpretativa, certamente, è stata data soprattutto dalla sentenza n.170 del 22 giugno 2023 della Corte costituzionale (cosiddetta sentenza Renzi, perché aveva ad oggetto l’acquisizione di plurime comunicazioni, con messaggi elettronici, del Senatore Matteo Renzi disposte dalla Procura di Firenze senza la previa autorizzazione da parte del Senato), che ha affermato una serie di principi, tra cui, per quanto qui di interesse, quello relativo alla definizione di corrispondenza, rilevante ai fini della tutela dell’art. 15 della Costituzione. Sul sito della Corte cost., si trovano pubblicate le seguenti massime:
“Il discrimen tra le intercettazioni di comunicazioni o conversazioni e i sequestri di corrispondenza non è dato principalmente dalla forma della comunicazione, giacché le intercettazioni possono avere ad oggetto anche flussi di comunicazioni non orali (informatiche o telematiche). Affinché si abbia intercettazione debbono invece ricorrere due condizioni: la prima, di ordine temporale, è che la comunicazione deve essere in corso nel momento della sua captazione da parte dell’extraneus, e va dunque colta nel suo momento “dinamico”, con conseguente estraneità al concetto dell’acquisizione del supporto fisico che reca memoria di una comunicazione già avvenuta (dunque, nel suo momento “statico”); la seconda condizione attiene alle modalità di esecuzione: l’apprensione del messaggio comunicativo da parte del terzo deve avvenire in modo occulto, ossia all’insaputa dei soggetti tra i quali la comunicazione intercorre.
Il concetto di «corrispondenza» è ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza; in linea generale, pertanto, lo scambio di messaggi elettronici – e-mail, SMS, WhatsApp e simili – rappresenta, di per sé, una forma di corrispondenza agli effetti degli artt. 15 e 68, terzo comma, Cost.
La tutela accordata dall’art. 15 Cost. – anche ove si guardi alla prerogativa parlamentare prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost. – prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato ai fini della trasmissione del pensiero, aprendo così il testo costituzionale alla possibile emersione di nuovi mezzi e forme della comunicazione riservata. La garanzia si estende, quindi, ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale. Posta elettronica e messaggi inviati tramite l’applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di c.d. messaggistica istantanea) rientrano, dunque, a pieno titolo nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi. La riservatezza della comunicazione, che nella tradizionale corrispondenza epistolare è garantita dall’inserimento del plico cartaceo o del biglietto in una busta chiusa, è qui assicurata dal fatto che la posta elettronica viene inviata a una specifica casella di posta, accessibile solo al destinatario tramite procedure che prevedono l’utilizzo di codici personali; mentre il messaggio WhatsApp, spedito tramite tecniche che assicurano la riservatezza, è accessibile solo al soggetto che abbia la disponibilità del dispositivo elettronico di destinazione, normalmente protetto anch’esso da codici di accesso o altri meccanismi di identificazione. (Precedenti: S. 2/2023 - mass. 45265; S. 20/2017 - mass. 39645; S. 81/1993 - mass. 19295; S. 1030/1988).
La garanzia apprestata dall’art. 15 Cost. si estende anche ai dati esteriori delle comunicazioni (quelli, cioè, che consentono di accertare il fatto storico che una comunicazione vi è stata e di identificarne autore, tempo e luogo), come ad esempio i tabulati telefonici, contenenti l’elenco delle chiamate in partenza o in arrivo da una determinata utenza e che possono aprire squarci di conoscenza sui rapporti di un parlamentare, specialmente istituzionali. La stretta attinenza della libertà e della segretezza della comunicazione al nucleo essenziale dei valori della personalità – attinenza che induce a qualificare il corrispondente diritto come parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana – comporta infatti un particolare vincolo interpretativo, diretto a conferire a quella libertà, per quanto possibile, un significato espansivo. (Precedenti: S. 38/2019 - mass. 42192; S. 188/2010 - mass. 34690; S. 372/2006 - mass. 30769; S. 281/1998 - mass. 24085; S. 81/1993 - mass. 19295; S. 366/1991 - mass. 17448). (Nel caso di specie, è dichiarato che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze acquisire agli atti del procedimento penale iscritto al n. 3745/2019 R.G.N.R., sulla base di decreti di perquisizione e sequestro emessi il 20 novembre 2019, corrispondenza riguardante il sen. Matteo Renzi, costituita da messaggi di testo scambiati tramite l’applicazione WhatsApp tra il sen. Renzi e V. U. M. nei giorni 3 e 4 giugno 2018, e tra il sen. Renzi e M. C. nel periodo 12 agosto 2018-15 ottobre 2019, nonché da posta elettronica intercorsa fra quest’ultimo e il senatore Renzi, nel numero di quattro missive, tra il 1° e il 10 agosto 2018; ed è annullato, per l’effetto, il sequestro dei messaggi di testo scambiati tra il sen. Matteo Renzi e V. U. M. nei giorni 3 e 4 giugno 2018, per i quali, a differenza di altri, non è nel frattempo intervenuto provvedimento di annullamento della Cassazione. Degradare la comunicazione a mero documento quando non più in itinere, è soluzione che, se confina in ambiti angusti la tutela costituzionale prefigurata dall’art. 15 Cost. nei casi, sempre più ridotti, di corrispondenza cartacea, finisce addirittura per azzerarla, di fatto, rispetto alle comunicazioni operate tramite posta elettronica e altri servizi di messaggistica istantanea, in cui all’invio segue immediatamente – o, comunque sia, senza uno iato temporale apprezzabile – la ricezione. Una simile conclusione si impone a maggior ragione allorché non si tratti solo di stabilire cosa sia corrispondenza per la generalità dei consociati, ma di delimitare specificamente l’area della corrispondenza di e con un parlamentare, per il cui sequestro l’art. 68, terzo comma, Cost. richiede l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Limitare la citata prerogativa alle sole comunicazioni in corso di svolgimento e non già concluse significherebbe darne una interpretazione così restrittiva da vanificarne la portata: condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione del mandato parlamentare possono bene derivare, infatti, anche dalla presa di conoscenza dei contenuti di messaggi già pervenuti al destinatario. Se, dunque, l’acquisizione dei dati esteriori di comunicazioni già avvenute, quali quelli memorizzati in un tabulato, gode delle tutele accordate dagli artt. 15 e 68, terzo comma, Cost., è impensabile che non ne fruisca, invece, il sequestro di messaggi elettronici, anche se già recapitati al destinatario: operazione che consente di venire a conoscenza non soltanto dei dati identificativi estrinseci delle comunicazioni, ma anche del loro contenuto, e dunque di attitudine intrusiva tendenzialmente maggiore). (Precedenti: S. 157/2023 - mass. 45658; S. 38/2019 - mass. 42192; S. 113/2010 - mass. 34488; S. 390/2007 - mass. 31839)”[1].
Alla decisione appena analizzata, è seguita dopo poco altra pronuncia, la sentenza n. 227 del 2023, in cui la Consulta ha risolto un altro conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Senato della Repubblica, dichiarando che non spettava all’autorità giudiziaria procedente disporre, effettuare e utilizzare le intercettazioni che avevano coinvolto un senatore della Repubblica, nel periodo in cui questi ricopriva l’incarico, e acquisire, quali elementi di prova documentale, i messaggi WhatsApp scambiati tra il predetto e un terzo imputato, prelevati tramite copia forense dei dati contenuti nello smartphone in uso a quest’ultimo nell’ambito di un procedimento penale, pena la violazione degli artt. 4 e 6, legge n. 140 del 2003.
2. Il mutamento della giurisprudenza penale: da documento a corrispondenza
A distanza di meno di un anno sono, poi, intervenute le due sentenze “gemelle” delle Sezioni Unite, n.23755 (Gjuzi Ermal - Rv.286573) e n.23756 (Giorgi - Rv.286589) del 29 febbraio 2024, dep. 14/06/2024[2], in tema di acquisizione tramite Ordine europeo di indagine (da cui l’acronimo O.E.I) di comunicazioni svolte su piattaforma criptata e su cd. criptofonini che l’autorità giudiziaria francese aveva già captato e decriptato. Le due decisioni del massimo consesso hanno affermato in motivazione, con espresso richiamo della giurisprudenza costituzionale, che “…quando la prova documentale ha ad oggetto comunicazioni scambiate in modo riservato tra un numero determinato di persone, indipendentemente dal mezzo tecnico impiegato a tal fine, occorre assicurare la tutela prevista dall’art. 15 Cost. in materia di «corrispondenza». Come infatti precisato dalla giurisprudenza costituzionale, «quello di “corrispondenza” è concetto ampiamente comprensivo, atto ad abbracciare ogni comunicazione di pensiero umano (idee, propositi, sentimenti, dati, notizie) tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla conversazione in presenza», il quale «prescinde dalle caratteristiche del mezzo tecnico utilizzato», e si estende, perciò, anche alla posta elettronica ed ai messaggi inviati tramite l’applicativo WhatsApp, o s.m.s. o sistemi simili, «del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi» perché accessibili solo mediante l’uso di codici di accesso o altri meccanismi di identificazione (così Corte cost., sent. n. 170 del 2023; nello stesso senso, Corte cost., sent. n. 227 del 2023 e Corte cost., sent. n. 2 del 2023). Di conseguenza, indipendentemente dalla modalità utilizzata, trova applicazione «la tutela accordata dall’art. 15 Cost. – che assicura a tutti i consociati la libertà e la segretezza «della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione», consentendone la limitazione «soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge – […]» (cfr., ancora, testualmente, Corte cost., sent. n. 170 del 2023). La tutela prevista dall’art. 15 Cost., tuttavia, non richiede, per la limitazione della libertà e della segretezza della corrispondenza, e, quindi, per l’acquisizione di essa ad un procedimento penale, la necessità di un provvedimento del giudice. Invero, l’art. 15 Cost. impiega il sintagma «autorità giudiziaria», il quale indica una categoria nella quale sono inclusi sia il giudice, sia il pubblico ministero (per l’inclusione del pubblico ministero nella nozione di “autorità giudiziaria” anche nel diritto euro-unitario, cfr., proprio con riferimento alla Direttiva 2014/41/UE, Corte giustizia, 08/12/2020, Staatsanwaltschaft Wien, C-584/19). E questa conclusione trova conferma nella disciplina del codice di rito. L’art. 254 cod. proc. pen. prevede che il sequestro di corrispondenza è disposto della «autorità giudiziaria», senza fare alcun riferimento alla necessità dell’intervento del giudice, invece espressamente richiesto, ad esempio, in relazione al sequestro da eseguire negli uffici dei difensori (art. 103 cod. proc. pen.). A sua volta, l’art. 353 cod. proc. pen. statuisce, in modo testuale, che l’acquisizione di plichi chiusi e di corrispondenza, anche in forma elettronica o inoltrata per via telematica, è autorizzata, nel corso delle indagini, dal «pubblico ministero», il quale è titolare del potere di disporne il sequestro”. Le Sezioni Unite, perciò, hanno fatto propria la definizione di corrispondenza che la Corte costituzionale ha dato delle comunicazioni già avvenute con posta elettronica, oppure con i messaggi inviati tramite l’applicativo WhatsApp, o s.m.s. o sistemi simili, e conservati nella memoria dei dispositivi mobili. Si tratta, quindi, di ius receptum, malgrado in giurisprudenza permane qualche voce dissenziente[3].
Nelle motivazioni vi è stato poi il richiamo alla disciplina specifica del sequestro di corrispondenza ex art. 254 cod. proc. pen.; in particolare, la norma prevede, al comma 2, che: “Quando al sequestro procede un ufficiale di polizia giudiziaria, questi deve consegnare all'autorità giudiziaria gli oggetti di corrispondenza sequestrati, senza aprirli o alterarli e senza prenderne altrimenti conoscenza del loro contenuto”. Norma chiara se riferita alla corrispondenza per così dire tradizionale, ossia quella cartacea, a mezzo una busta chiusa inviata tramite il servizio postale. La probabile ratio della previsione normativa va ravvisata nell’esigenza che il contenuto della corrispondenza non debba essere conosciuto da soggetti diversi dall’autorità giudiziaria prima che il destinatario abbia ricevuto il plico con la corrispondenza poi sequestrata. Le Sezioni Unite, pertanto, hanno affermato che le chat costituiscono non mera documentazione acquisibile ex articolo 234 cod. proc. pen., ma “corrispondenza informatica” che quindi deve essere acquisita attraverso un provvedimento di sequestro ai sensi dell'articolo 254 cod. proc. pen., così disattendo la granitica giurisprudenza di legittimità che fino a quel momento aveva, invece, sostenuto trattarsi di mero documento acquisibile ex art. 234 ovvero ex art. 234-bis cod. proc. pen., ove qualificato come documento informatico[4]. Si può osservare che, a legislazione vigente, in entrambi i casi, sia che la messaggistica di una chat venga considerata mero documento (oppure documento informatico) sia che, invece, sia definita corrispondenza, il sequestro probatorio dei messaggi contenuti nell’archivio di un device può essere disposto direttamente dal pubblico ministero, senza alcuna previa autorizzazione del giudice. Del resto, l’art. 15 Cost., che prevede, a tutela della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, la doppia riserva di giurisdizione e di legge[5], fa riferimento all’endiadi autorità giudiziaria, che comprende, come è noto, anche il pubblico ministero, il quale gode nel nostro ordinamento delle stesse guarentigie di indipendenza ed autonomia del giudice. Tale assunto, però, non può celare le profonde differenze di disciplina processuale che conseguono all’affermazione di una definizione anziché dell’altra, sia dal punto di vista teorico sia per quanto riguarda aspetti per così dire pratici.
3. La tutela dell’art. 15 Cost. e l’inosservanza delle regole processuali
Partendo da un profilo teorico si ritiene che considerare come corrispondenza lo scambio di comunicazioni avvenuto con la posta elettronica, oppure con i messaggi inviati tramite l’applicativo WhatsApp, o s.m.s., involga la tutela di un diritto, quello della riservatezza delle comunicazioni, a copertura costituzionale ai sensi dell’art. 15 Cost. La violazione delle norme processuali sull’acquisizione della corrispondenza porta all’inutilizzabilità cosiddetta patologica di quanto sequestrato dal P.M., come di recente sostenuto dalla Suprema Corte (Sez. 6, n.31180 del 21/05/2024, Donnarumma, Rv.286773-01), che in motivazione ha affermato sul punto che “ Si è da tempo affermato che rientrano nella categoria delle prove sanzionate dall'inutilizzabilità, non solo le prove oggettivamente vietate, ma anche quelle formate o acquisite in violazione dei diritti soggettivi tutelati dalla legge e, a maggior ragione, come in precedenza detto, quelle acquisite in violazione dei diritti tutelati in modo specifico dalla Costituzione. La Corte costituzionale con la sentenza numero 34 del 1973 ha ravvisato l'esistenza di divieti probatori ricavabili in modo diretto dal dettato costituzionale, enunciando il principio per cui attività compiute in dispregio dei diritti fondamentali del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito. Il suddetto principio - come già detto - ha consentito l'elaborazione della categoria delle prove cosiddette incostituzionali, cioè di prove ottenute attraverso modalità, metodi e comportamenti realizzati in violazione dei fondamentali diritti del cittadino garantiti dalla Costituzione, da considerarsi perciò inutilizzabili nel processo”[6]. In precedenza, mutatis mutandis, la Suprema Corte ha sostenuto, sempre in tema di prove assunte in violazioni di precetti costituzionali, che “ In tema di acquisizione di dati contenuti in tabulati telefonici, non sono utilizzabili nel giudizio abbreviato i dati di geolocalizzazione relativi a utenze telefoniche o telematiche, contenuti nei tabulati acquisiti dalla polizia giudiziaria in assenza del decreto di autorizzazione dell'Autorità giudiziaria, in violazione dell'art. 132, comma 3, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in quanto prove lesive del diritto alla segretezza delle comunicazioni costituzionalmente tutelato e, pertanto, affette da inutilizzabilità patologica, non sanata dalla richiesta di definizione del giudizio con le forme del rito alternativo” (così Sez.6, n.15836 del 11/01/2023, Berera, Rv.284590-01)[7]. Tale ultima decisione, si segnala anche perché ha escluso in maniera netta che possa argomentarsi in senso contrario, facendo leva, ad esempio, sulla disciplina della cosiddetta prova innominata di cui all'articolo 189 cod. proc. pen; tale norma consente certamente l'ingresso processuale della prova atipica, ma solo qualora essa presenti cumulativamente due caratteristiche: la prima, positiva, si sostanzia nella sua idoneità all'accertamento del thema probandum; la seconda, di segno negativo, consiste nel limite per il quale essa non possa presentarsi come lesiva della libertà morale della persona. Essa, però, ricorda la Corte contempla solo le prove atipiche che non rechino vulnus alle esigenze costituzionalmente tutelate e, dunque, non richiedono una disciplina legislativa espressa, come deve, invece, sussistere in tutti i casi in cui sono in gioco i diritti tutelati dalla previsione dell'articolo 15 Cost. In altri termini, l’inosservanza delle norme codicistiche conduce all’inutilizzabilità patologica della prova raccolta in tal modo, né può utilizzarsi in tale ambito lo strumento della prova atipica per il limite intrinseco del citato art. 189.
4. Problematiche attuali e prospettive de iure condendo
Orbene, se il quadro teorico derivante dall’affermazione che le comunicazioni avvenute su chat sono corrispondenza appare più che sufficientemente delineato, molto meno chiare sono implicazioni dal punto di vista per così dire pratico. Come già evidenziato, il richiamo alla disciplina di cui all’art. 254 cod. proc. pen. (rubricato “Sequestro di corrispondenza”), comporta che la polizia giudiziaria non possa prendere conoscenza del contenuto della corrispondenza presente nel dispositivo sequestrato. Tale limite, facilmente osservabile per la corrispondenza cartacea, risulta di difficile ottemperanza in caso di comunicazioni digitali/informatiche. All’interno di un computer o di un telefono cellulare si trova, di regola, tutta “la vita” di una persona, come sinteticamente è stato affermato in termini giornalistici: messaggi, fotografie, registrazioni vocali, appunti ecc.ecc., che possono risalire fino ad alcuni anni addietro rispetto al momento del sequestro a seconda della memoria del dispositivo. Va sottolineato, peraltro, che è ormai consolidata la giurisprudenza di legittimità, a partire dalla decisione Sez. 6, n.6623 del 9/12/2020, (dep.19/02/2021), Pessotto, Rv. 280838-01, che ha enunciato il seguente principio: “È illegittimo per violazione del principio di proporzionalità ed adeguatezza il sequestro a fini probatori di un dispositivo elettronico che conduca, in difetto di specifiche ragioni, alla indiscriminata apprensione di una massa di dati informatici, senza alcuna previa selezione di essi e comunque senza l'indicazione degli eventuali criteri di selezione (Fattispecie relativa a sequestro di un telefono cellulare e di un tablet)”[8]. Ne consegue, perciò, che quando viene sequestrato, ad esempio, uno smartphone, gli inquirenti devono selezionare le comunicazioni archiviate che sono pertinenti al reato per cui si procede, fatto salvo, ovviamente, il caso, in cui lo stesso smartphone è corpo di reato (ad esempio nei casi di diffusione o detenzione di materiale pedopornografico di cui agli artt. 600-ter e 600-quater cod. pen.). Come può, in concreto, svolgersi tale ricerca e selezione se la polizia giudiziaria non può prendere conoscenza del contenuto della corrispondenza presente sul device, in forza del limite indicato dall’art. 254, comma 2, cod. proc. pen.? La questione è stato oggetto di una recente sentenza della Suprema Corte (Sez. 2, n.25549 del 15/05/2024, Tundo, Rv.286467-01), che ha affermato in massima il seguente principio: “In tema di mezzi di prova, i messaggi di posta elettronica, i messaggi "whatsapp" e gli sms custoditi nella memoria di un dispositivo elettronico conservano natura giuridica di corrispondenza anche dopo la ricezione da parte del destinatario, sicché la loro acquisizione deve avvenire secondo le forme previste dall'art. 254 cod. proc. pen. per il sequestro della corrispondenza, salvo che, per il decorso del tempo o altra causa, essi non perdano ogni carattere di attualità, in rapporto all'interesse alla riservatezza, trasformandosi in un mero documento "storico". (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che non si fosse determinata alcuna violazione del disposto dell'art. 254 cod. proc. pen. sul rilievo che la polizia giudiziaria si era limitata a sequestrare il telefono cellullare, mentre l'accesso al contenuto della corrispondenza era avvenuto successivamente ad opera del pubblico ministero con il proprio consulente)”. A sommesso avviso dello scrivente, la sentenza citata appare, dal punto di vista del rigore logico/giuridico della motivazione, ineccepibile nella decisione finale perché fa propria la ricostruzione sistematica compiuta dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n.170/2023, e coerentemente ha ritenuto applicabile al sequestro dello smartphone la disciplina dell’art. 254 cod. proc. pen., che, nel caso di specie, non era stata violata solo perché la polizia giudiziaria si era limitata al sequestro del cellulare senza accedere al suo contenuto e subito dopo lo aveva consegnato al P.M. procedente. Questi, successivamente, tramite un consulente tecnico sua longa manus, aveva ricercato i messaggi di interesse investigativo. Tuttavia, appare evidente che l’utilizzo di un consulente tecnico diverso dalla P.G., in termini generali, allunga i tempi dell’attività investigativa, nonché aumenta in maniera esorbitante i suoi costi. Del resto, come già evidenziato, l’art. 254 cod. proc. pen. è una norma “costruita” in relazione alla corrispondenza cartacea, che mal si adatta alle comunicazioni elettroniche e informatiche per le ragioni esposte. In molti uffici di Procura si è cercato di trovare alcune soluzioni pratiche, diverse dall’applicazione dell’art. 254 cod. proc. pen., che consentano di salvaguardare in maniera sostanziale da un lato la tutela della riservatezza dei dati, contenuti nei dispositivi elettronici, ulteriori rispetto a quelli pertinenti al reato per cui si procede e dall’altro la necessaria speditezza delle attività di indagine. Per ragioni di spazio editoriale non è possibile descriverle e commentarle, ma si tratta, come è facile intuire, di sforzi interpretativi di adattamento rispetto ad una evidente lacuna normativa che è emersa solo dopo la sentenza della Corte costituzionale.
Accanto all’attività interpretativa della magistratura italiana, vi è però la concreta possibilità di un intervento legislativo che, prendendo atto della giurisprudenza costituzionale, modifichi la disciplina del sequestro dei device. Il disegno di legge n.806 del 19/07/2023, approvato dal Senato e in attesa dell’approvazione della Camera, introdurrebbe, dopo l’art. 254-bis cod. proc. pen., l’art.254-ter (Sequestro di dispositivi e sistemi informatici, smartphone e memorie digitali), con significative novità, prima fra tutte la necessità di un preventivo controllo del giudice sulla richiesta di sequestro del pubblico ministero[9].
Infine, si dovrà valutare l’impatto sull’ordinamento interno della recentissima sentenza della Corte di Giustizia U.E., Grande Camera, del 4 ottobre 2024, C-548/21, che riguarda proprio i messaggi contenuti nel telefono cellulare, già ricevuti e letti dal destinatario, ritenuti anche dalla C.G.U.E. come dati personali e segreti, che possono essere acquisiti nell’ambito di specifici procedimenti penali, nel rispetto del principio di proporzionalità e, di regola, a seguito di un provvedimento di autorizzazione del giudice o di un’autorità amministrativa indipendente[10].
[1] La Consulta nella sentenza ha sottolineato che tale orientamento trova, peraltro, conforto nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo che non ha avuto esitazioni nel ricondurre nell'alveo della «corrispondenza» tutelata dall'art. 8 CEDU anche i messaggi informatico-telematici nella loro dimensione "statica", ossia già inviati e ricevuti dal destinatario (con riguardo alla posta elettronica, Corte EDU, sentenza Copland, paragrafo 44; con riguardo alla messaggistica istantanea, Corte EDU, sentenza Barbulescu, paragrafo 74; con riguardo a dati memorizzati in floppy disk, Corte EDU, sezione quinta, sentenza 22 maggio 2008, Iliya Stefanov contro Bulgaria, paragrafo 42). Indirizzo, questo, recentemente ribadito anche in relazione [...] al sequestro dei dati di uno smartphone, che comprendevano anche SMS e messaggi di posta elettronica (Corte EDU, sentenza Saber, paragrafo 48).
[2] Si veda per un primo commento su questa rivista, in data 20 giugno2024, G.Spangher, Criptofonini: le sentenze delle Sezioni Unite.
[3] Si veda al riguardo la recente sentenza Cass., Sez. 6, n.31180 del 21/05/2024, Donnarumma, in cui si legge che “non può condividersi l'osservazione del procuratore generale secondo il quale il principio affermato dalla Corte costituzionale non avrebbe portata generale ma si riferirebbe esclusivamente all'ambito applicativo delle guarentigie apprestate dall'articolo 68 Cost. in favore del parlamentare”.
[4] Si veda a titolo di esempio, tra le tante, Sez.6 n. 22417 del 16/03/2022, Sgromo, Rv.283319-01, che ha affermato in massima il seguente principio: “In tema di mezzi di prova, i messaggi "whatsapp" e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell'art. 234 cod. proc. pen., sicché è legittima la loro acquisizione mediante mera riproduzione fotografica, non trovando applicazione né la disciplina delle intercettazioni, né quella relativa all'acquisizione di corrispondenza di cui all'art. 254 cod. proc. pen. (Fattispecie relativa a dati - allegati in copia cartacea o trasfusi nelle informative di polizia giudiziaria - acquisiti in separato procedimento, in cui la Corte ha precisato che non è indispensabile, ai fini della loro autonoma valutabilità, l'acquisizione della copia forense effettuata nel procedimento di provenienza, né dell'atto autorizzativo dell'eventuale perquisizione)”. In precedenza, si veda anche Sez.3, n.29426 del 16/04/2019, Moliterno, Rv.276358-01, secondo cui: “I messaggi di posta elettronica allocati nella memoria di un dispositivo dell'utente o nel server del gestore del servizio hanno natura di prova documentale sicché la loro acquisizione processuale non costituisce attività di intercettazione disciplinata dall'art. 266-bis cod. proc. pen. - atteso che quest'ultima esige la captazione di un flusso comunicativo in atto - ma presuppone l'adozione di un provvedimento di sequestro. (In motivazione, la Corte ha precisato che non è comunque applicabile la disciplina del sequestro di corrispondenza di cui all'art. 254 cod. proc. pen., la cui nozione implica un'attività di spedizione in corso o almeno avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito)”. In dottrina si vedano, tra i vari approfondimenti sul punto, le considerazioni di: W. Nocerino, L’acquisizione della messaggistica su sistemi criptati: intercettazioni o prova documentale? in Cass. pen., 2023, 9, 2786 ss., che, pur condividendo gli approcci della giurisprudenza maggioritaria quanto all’utilizzo dell’art. 234-bis cod. proc. pen., sollecita, però, il legislatore ad introdurre un nuovo mezzo di ricerca della prova che consenta, in maniera tipizzata e con le dovute garanzie, agli investigatori di accedere ed acquisire i cd. big data nei nuovi spazi virtuali, nonché P. Corvi, Le modalità di acquisizione dei dati informatici trasmessi mediante posta elettronica e applicativi di chatting: un rebus non ancora del tutto risolto, in Proc. pen. e giust., 2023, 1, 216 ss.
[5] Una parte della dottrina ritiene che la tutela della riservatezza delle comunicazioni necessiti di un controllo giurisdizionale in senso stretto, ossia da parte del giudice, in quanto il pubblico ministero non avrebbe nel processo la terzietà del giudice, essendo parte processuale, come ricavabile dall’art. 111, comma 2, Cost. In tal senso si veda F.R. Dinacci, I modi acquisitivi della messaggistica chat o e-mail: verso letture rispettose dei principi, in Arch. Pen. Web, 1, 2024.
[6] Sul concetto di prova incostituzionale si veda in dottrina G.M. Baccari – C. Conti, La corsa tecnologica tra Costituzione, codice di rito e norme sulla privacy: uno sguardo d'insieme, in Dir.Pen.Proc., 2021, n.6, pag. 711 ss., che affronta funditus il tema dell’inutilizzabilità della prova che va a ledere diritti fondamentali della Costituzione, tra cui rientrano quelli tutelati dall’art. 15 Cost.
[7] Edita su Cass. pen., 2023, n.7-8, p.2279 ss., con nota di C.Marinelli, Non sono utilizzabili neppure in sede di giudizio abbreviato i dati di geolocalizzazione relativi a cellulari, contenuti in tabulati telefonici, acquisiti dalla polizia giudiziaria in assenza del decreto di autorizzazione dell’autorità giudiziaria.
[8] Di recente Conf. Sez.6, n.17312 del 15/02/2024, Corsico, Rv. 286358-03, che evidenzia il contenuto che dovrebbe avere la motivazione del decreto di sequestro probatorio del pubblico ministero per osservare i criteri di proporzionalità della misura sia nella fase genetica sia in quella esecutiva.
[9] Per approfondimenti sul DdL n.806/2023 si veda C.Parodi, Signori, si cambia: la nuova disciplina sul sequestro di PC e device, in IUS del 13 marzo 2024.
[10] Per un primo commento si veda L. Filippi, La CGUE mette i paletti all’accesso ai dati del cellulare, in Il Quotidiano Giuridico, del 10 marzo 2024; C.Parodi, Accesso ai dati presenti sul cellulare: quando, come e perché, in Il diritto vivente, del 11 ottobre 2024; F.Agnino, Accesso ai dati del cellulare, da parte della polizia, in IUS del 15 ottobre 2024.
Immagine: Patrick Caulfield, La lettera, 1967, serigrafia, cm 48×76, Tate, Londra
Il DDL Sicurezza e il carcere
Audizione del 22.10.2024 Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato in relazione all’esame del disegno di legge n. 1236 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica)
Sommario: 1. Brevi considerazioni generali. - 2. Detenute madri e mancata tutela dell’interesse superiore del minore. - 3. Misure per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari. - 4. In materia di dotazione di videocamere. - 5. Ulteriori disposizioni in materia di ordinamento penitenziario.
Ringrazio vivamente per l’opportunità di interloquire con la Commissione. Svolgo le funzioni di magistrato di sorveglianza da diciotto anni. Concentrerò quindi il mio breve intervento sulle disposizioni del disegno di legge, che incidono più direttamente sulla materia dell’esecuzione penale e del carcere.
1. Brevi considerazioni generali.
Non posso però esimermi da un, seppur succinto, riferimento più ampio ai complessivi contenuti del DDL Sicurezza proprio in rapporto alla attuale, grave, condizione in cui versano gli istituti penitenziari. Dal mio, pur limitato, osservatorio, riscontro una condizione di sovraffollamento che non accenna a diminuire e il cui impatto grave sulla capacità degli istituti penitenziari di sviluppare percorsi risocializzanti, necessari per integrare il precetto costituzionale dell’art. 27 terzo comma della Costituzione, e utili alla sicurezza della collettività, è purtroppo evidente nel clima di tensioni interne, suicidi, e crescente fatica di lavoratori e persone detenute, nell’intravedere lo scopo della detenzione e una prospettiva. C’è un problema di spazi, ma c’è soprattutto una assoluta carenza di risorse umane: non solo polizia penitenziaria, ma di educatori, mediatori culturali, psicologi e medici.
In un quadro come questo gli interventi contenuti nel d.l. 92/2024 non hanno portato, e non sono destinati a portare, un sollievo effettivo, ed in tempi rapidi, al quadro descritto.
Viceversa, il ddl “Sicurezza” introduce una serie piuttosto numerosa di nuove fattispecie di reato, o di circostanze aggravanti, che inevitabilmente si tradurranno, nel futuro immediatamente successivo all’entrata in vigore della legge, in un ampliamento ulteriore della platea dei soggetti attinti dalla penalità. In ultima analisi si produrrà ancora più esecuzione penale e ancora più carcere, a risorse del carcere invariate. La scelta cade ancora una volta su un uso vasto del diritto penale e, tra le opzioni sanzionatorie, ancora una volta su pene detentive, senza di fatto immaginare pene diverse dal carcere, ad eccezione di quelle pecuniarie.
La ricetta del carcere viene proposta rispetto a fattispecie molto diverse, in larga parte però relative a persone attinte a vario titolo da profili di marginalità sociale. È una utenza nota al mondo penitenziario, che però fa una enorme fatica ad offrire percorsi di integrazione, che sarebbero necessari, e che spesso deve limitarsi ad offrire branda e un po’ di vitto, in un contesto di crescente difficoltà di contrasto rispetto a degrado delle strutture.
2. Detenute madri e mancata tutela dell’interesse superiore del minore.
Passando alle specifiche disposizioni rivolte all’esecuzione penale, viene in primo piano l’art. 15, che prevede l’abrogazione di due commi dell’art. 146 cod. pen. e cioè le fattispecie di differimento obbligatorio della pena per donne incinte o madri di prole di età inferiore a un anno. Le stesse ipotesi vengono trasfuse nell’art. 147, divenendo perciò ipotesi di differimento facoltativo della pena, soggetto ad una valutazione discrezionale della magistratura di sorveglianza, che dovrà bilanciare il favor nei confronti del minore con la pericolosità sociale dell’interessata.
Per questa opzione è inserito un quinto comma che afferma che l’esecuzione penale non può essere differita sa dal rinvio derivi una situazione di “pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti”. Si tratta di una formula sostanzialmente mutuata dalla corrispondente fattispecie cautelare, in ordine alla quale una giurisprudenza della cassazione ritiene che le esigenze ricorrano anche “in presenza di comportamenti seriali nel compiere reati contro il patrimonio, documentati da precedenti penali e polizia e nella professionalità manifestata da alcune modalità della condotta, in assenza di redditi e fonti di sostentamento” cfr. cass. 48999/2019.
La disposizione prevede ancora che, dove non possa aver luogo il differimento, l’esecuzione deve aver luogo presso un Istituto a custodia attenuata (Icam) se la donna è incinta o madre di prole di età inferiore a un anno, e può avervi luogo, a meno che esigenze di eccezionale rilevanza non lo consentano, nell’ipotesi della madre di prole di età superiore ad un anno e inferiore a tre anni.
A fronte di un sistema normativo che negli anni, anche grazie agli interventi della Corte Costituzionale, ha progressivamente costruito un quadro di importanti tutele per la detenuta madre, in funzione dei “best interests of the child” secondo la definizione dell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, l’intervento oggi proposto si pone in decisa controtendenza e segna inevitabilmente un arretramento rispetto al modello normativo sin qui proposto.
La Consulta ha per altro già riconosciuto come il meccanismo del differimento obbligatorio della pena ex art. 146 cod. pen. nei confronti della donna incinta o madre di prole di età inferiore ad un anno abbia un preciso e solido fondamento costituzionale negli art. 27 co. 3, sotto il profilo del senso di umanità, e dell’art. 31 Cost., che assegna alla Repubblica il compito di proteggere la maternità e l’infanzia, favorendo gli istituti necessari a tale scopo e che il legislatore sia stato mosso dall’esigenza di evitare che “l’inserimento in un contesto punitivo e normalmente povero di stimoli possa nuocere al fondamentale diritto tanto della donna di portare a compimento serenamente la gravidanza, quanto del minore di vivere la peculiare relazione con la figura materna in un ambiente favorevole per il suo adeguato sviluppo psichico e fisico” (cfr. ord. Corte Cost. 145/2009).
Dal punto di vista tecnico, anche a normativa vigente, è possibile intervenire rispetto al differimento obbligatorio, prevedendo che lo stesso sia surrogato da una detenzione domiciliare, con ciò quindi tenendosi conto della necessità di contenere una pericolosità sociale della donna incinta o madre di prole di età inferiore a un anno. In nessun caso però può prevedersi la permanenza in carcere, sia pure presso un Icam. Si tratta di una previsione che affonda le radici nel codice penale scritto in epoca fascista, e che ha costituito fino ad oggi un baluardo culturale importante, qualificante, dei principi e dei valori che l’ordinamento tutela.
Da un esame della giurisprudenza formatasi in materia cautelare, quindi, c’è da attendersi dalla modifica normativa, se interverrà, che un certo numero di donne incinte o madri di prole di età inferiore a un anno faranno accesso ai nostri istituti penitenziari, aumentando il numero di bambini che vi nasceranno o vi trascorreranno i primi anni di vita. Non credo ci sia bisogno di dilungarsi sulle gravissime conseguenze che questo comporta rispetto al superiore interesse del minore, che in nessun caso può mai essere quello di permanere all’interno di una struttura penitenziaria.
Occorre per altro rappresentare che gli ICAM sono pochissimi nel territorio nazionale. Ciò significa che la permanenza in carcere inevitabilmente distaccherà le madri dai loro territori, e questo distacco significherà anche distacco dai nuclei familiari presenti, e da eventuali altri minori, seppur di età più adulta, che resteranno privati di una madre da loro fortemente allontanata. Vi è il rischio di far vivere alla donna detenuta drammatici conflitti, anche psicologici, tra prosecuzione della gravidanza e cura del minore neonato e inevitabile allontanamento dal nucleo familiare e dagli altri affetti sul territorio.
Vi è la certezza di far sobbarcare al dolente mondo carcerario il peso di persone che avranno uno speciale bisogno di assistenza psicologica e di supporto medico specialistico, con aggravio importante degli obblighi conseguenti in capo a tutti gli operatori coinvolti.
La misura della detenzione domiciliare si è appalesata in questi anni efficacissima per contemperare le contrapposte esigenze in campo. Un grave problema è stato piuttosto costituito dalla assenza di domicili idonei per alcune donne incinte o madri. In tal senso si dovrebbe potenziare il ricorso a case famiglia protette, già previste dalla legge, ma di fatto scarsissime sui territori (credo di conoscere l’esistenza di due sole case del genere in tutta Italia).
Segnalo che, dal punto di vista tecnico, come anche evidenziato nel dossier elaborato dal Senato, la previsione contenuta nel nuovo art. 147 co. 5 può dare adito a dubbi circa la possibilità di provvedere a surrogare il differimento con la detenzione domiciliare, prima che prevedere l’ingresso in ICAM. Andrebbe chiarito che vi è comunque sempre la possibilità di accedere, ove possibile, a quella diversa forma di esecuzione della pena (ai sensi dell’art. 47-ter co. 1-ter ord. penit.).
3. Misure per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari.
Qualche rapida considerazione sull’introduzione dell’art. 415-bis in materia di rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari. Per quanto concerne la rubrica dell’articolo mi permetto di osservare che alcune possibili azioni per la maggior sicurezza degli istituti penitenziari sarebbero senz’altro immaginabili, ma le stesse appartengono soprattutto al novero degli interventi di potenziamento delle risorse umane e di quelle materiali, anche attraverso la dotazione di moderni e sicuri sistemi che schermino gli stessi rispetto alle comunicazioni via telefono cellulare, attraverso moderni scan personali come quelli in uso negli aeroporti, mediante la dotazione di elettricità idonea nelle camere detentive, per la sostituzione dei pericolosi fornelli a gas con fornelli elettrici etc. etc.
L’intervento qui immaginato ruota, invece, soprattutto sull’introduzione del reato autonomo di rivolta all’interno di un istituto penitenziario, che sanziona con pene molto elevate le condotte di chi vi partecipa. Molto si è già detto sulla parte della disposizione che fa riferimento anche a “condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. Mi permetto di aggiungere la mia voce critica su questa previsione che, intanto, appare di difficile interpretazione e foriera di dubbi applicativi, anche per la scarsa determinatezza di espressioni utilizzate come il “contesto”, nozione decisamente troppo vaga per una previsione penale. Più in generale mi pare che la criminalizzazione della resistenza passiva, al pari di quella attiva, con distinguo tecnici difficilmente percepibili dall’utenza, possa creare effetti di paradossale escalation e possa rivelarsi un boomerang. Il momento in cui vi è infatti in atto una forma anche collettiva di resistenza passiva è quello del dialogo, quello in cui le migliori forze dell’amministrazione penitenziaria, in primis i Direttori, possono risolvere tutto senza danni più gravi. Lo scivolamento nell’area della penalità, invece che nell’ambito già segnato dalle sanzioni disciplinari, è a mio avviso grave dal punto di vista culturale ma anche assai controproducente dal punto di vista operativo.
È inoltre previsto l’inserimento di queste fattispecie: art. 415 e 415 – bis nel disposto dell’art. 4 bis ord. penit., seppure nella c.d. seconda fascia. Ciò significa l’accesso inevitabile al carcere, a prescindere dal quantum di pena irrogata, e più elevate quote per poter accedere ad alcuni benefici penitenziari. Da tempo la dottrina ha posto mente alla necessità di uno snellimento dei cataloghi di reati contenuti nell’art. 4-bis ord. penit., in particolare per quelli che non hanno riferimento alla criminalità organizzata. Il legislatore ha tenuto conto di questo invito, in questi anni, soltanto con la lege 199/2022 di conversione del decreto legge c.d. “anti rave”, ma lo ha fatto esclusivamente per gli autori di reati contro la pubblica amministrazione (i c.d. colletti bianchi). La disposizione normativa si muove in senso distonico rispetto a questo obbiettivo di snellimento, determinando un effetto carcerogeno che, per come detto, è piuttosto drammatico a fronte dell’attuale condizione del mondo penitenziario. Indipendentemente dal quantum di pena irrogata, infatti, per chi ha commesso questi reati le porte del carcere si schiuderanno per un nuovo ingresso, o più probabilmente faranno prorogare il tempo di permanenza.
La strada già tracciata da alcuni anni di incremento delle fattispecie di reato proprio della persona detenuta tende a trasformare sempre di più il carcere in un luogo violento, dal quale si rischia di non uscire, perché si può incorrere in ulteriori reati, oltre quello per cui ci si è entrati. L’esperienza maturata con riguardo alla criminalizzazione del possesso e uso di un telefono cellulare ha per altro evidenziato come possa accadere che siano condannati per questi reati i soggetti più deboli, cui altri detenuti addossano la responsabilità dei fatti, con accertamenti molto difficili per l’autorità giudiziaria. È un meccanismo che potrebbe ripetersi anche qui, coinvolgendo in prima linea persone con disagio psichico, purtroppo largamente presenti nei nostri istituti penitenziari. Io credo che, invece, al carcere dovremmo guardare come a un luogo che, attraverso la valorizzazione delle individualità, non butta la chiave, ma cerca di trovarla. La chiave per restituire all’esterno persone migliori di quelle che sono entrate.
4. In materia di dotazione di videocamere.
Nell’art. 21 del d.d.l. è contenuta una disposizione relativa alla dotazione di videocamere al personale delle Forze di polizia. Si tratta di una disposizione senz’altro condivisibile. Tuttavia mi permetto di sottolineare la necessità di maggiore chiarezza rispetto ai contenuti del comma 2, secondo il quale “nei luoghi e negli ambienti in cui sono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale possono essere utilizzati dispositivi di videosorveglianza”. Il perimetro della disposizione, come per altro già sottolineato nel corso di audizioni che mi hanno preceduto, sembra riferibile a luoghi diversi dall’istituto penitenziario. E tuttavia la genericità della previsione imporrebbe di comprendere meglio. Da un lato infatti è stato segnalato da alcuni anni come per tutta una serie di spazi all’interno del penitenziario sia necessaria la presenza delle telecamere a garanzia di lavoratori e persone detenute. La Commissione Ruotolo nel 2021, istituita presso il Ministero della Giustizia, sottolineava l’urgenza di provvedere al più capillare completamento della dotazione, ancora carente in alcune carceri. Dall’altro occorre mettere in conto come una continua videosorveglianza, per persone detenute all’interno delle loro camere, ove non giustificata da peculiari ragioni, finirebbe per avere, a lungo protratta nel tempo, gravi effetti psicologici (andrebbe quanto meno aggiunto un riferimento alla necessità che l’uso della videocamera avvenga nel rispetto della dignità delle persone detenute o internate, affinché le stesse siano collocate in modo da non ritrarne le parti intime, ad esempio nel locale adibito ai servizi igienici). Sembra quindi necessario che la materia sia affrontata con maggior dettaglio. Soprattutto, appare fondamentale che la possibilità di utilizzare le videocamere non sia mai letta come facoltà di non utilizzarle, perché questo finirebbe per risolversi in un arretramento di tutela rispetto a un luogo, come il carcere, che è necessario sia trasparente a garanzia di tutti.
5. Ulteriori disposizioni in materia di ordinamento penitenziario.
Soltanto per completezza meritano un cenno le disposizioni che si vogliono introdurre in materia di lavoro penitenziario e di apprendistato professionalizzante, rispetto alle quali, al di là di formulazioni particolarmente tecniche, e quindi di difficile lettura, può cogliersi un indirizzo positivo, che tuttavia merita di essere coltivato in concreto, sia mediante le modifiche regolamentari cui si rinvia, sia soprattutto attraverso un incremento significativo delle risorse, a fronte di un lavoro intramurario che continua a vedere impegnato un numero troppo esiguo di detenuti, per un numero troppo esiguo di ore settimanali ed in attività che non hanno orizzonti professionalizzanti.
In tema di DDL Sicurezza si veda anche Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria.
Il DDL Sicurezza e il carcere
Audizione del 22.10.2024 Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato in relazione all’esame del disegno di legge n. 1236 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica)
Sommario: 1. Brevi considerazioni generali. - 2. Detenute madri e mancata tutela dell’interesse superiore del minore. - 3. Misure per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari. - 4. In materia di dotazione di videocamere. - 5. Ulteriori disposizioni in materia di ordinamento penitenziario.
Ringrazio vivamente per l’opportunità di interloquire con la Commissione. Svolgo le funzioni di magistrato di sorveglianza da diciotto anni. Concentrerò quindi il mio breve intervento sulle disposizioni del disegno di legge, che incidono più direttamente sulla materia dell’esecuzione penale e del carcere.
1. Brevi considerazioni generali.
Non posso però esimermi da un, seppur succinto, riferimento più ampio ai complessivi contenuti del DDL Sicurezza proprio in rapporto alla attuale, grave, condizione in cui versano gli istituti penitenziari. Dal mio, pur limitato, osservatorio, riscontro una condizione di sovraffollamento che non accenna a diminuire e il cui impatto grave sulla capacità degli istituti penitenziari di sviluppare percorsi risocializzanti, necessari per integrare il precetto costituzionale dell’art. 27 terzo comma della Costituzione, e utili alla sicurezza della collettività, è purtroppo evidente nel clima di tensioni interne, suicidi, e crescente fatica di lavoratori e persone detenute, nell’intravedere lo scopo della detenzione e una prospettiva. C’è un problema di spazi, ma c’è soprattutto una assoluta carenza di risorse umane: non solo polizia penitenziaria, ma di educatori, mediatori culturali, psicologi e medici.
In un quadro come questo gli interventi contenuti nel d.l. 92/2024 non hanno portato, e non sono destinati a portare, un sollievo effettivo, ed in tempi rapidi, al quadro descritto.
Viceversa, il ddl “Sicurezza” introduce una serie piuttosto numerosa di nuove fattispecie di reato, o di circostanze aggravanti, che inevitabilmente si tradurranno, nel futuro immediatamente successivo all’entrata in vigore della legge, in un ampliamento ulteriore della platea dei soggetti attinti dalla penalità. In ultima analisi si produrrà ancora più esecuzione penale e ancora più carcere, a risorse del carcere invariate. La scelta cade ancora una volta su un uso vasto del diritto penale e, tra le opzioni sanzionatorie, ancora una volta su pene detentive, senza di fatto immaginare pene diverse dal carcere, ad eccezione di quelle pecuniarie.
La ricetta del carcere viene proposta rispetto a fattispecie molto diverse, in larga parte però relative a persone attinte a vario titolo da profili di marginalità sociale. È una utenza nota al mondo penitenziario, che però fa una enorme fatica ad offrire percorsi di integrazione, che sarebbero necessari, e che spesso deve limitarsi ad offrire branda e un po’ di vitto, in un contesto di crescente difficoltà di contrasto rispetto a degrado delle strutture.
2. Detenute madri e mancata tutela dell’interesse superiore del minore.
Passando alle specifiche disposizioni rivolte all’esecuzione penale, viene in primo piano l’art. 15, che prevede l’abrogazione di due commi dell’art. 146 cod. pen. e cioè le fattispecie di differimento obbligatorio della pena per donne incinte o madri di prole di età inferiore a un anno. Le stesse ipotesi vengono trasfuse nell’art. 147, divenendo perciò ipotesi di differimento facoltativo della pena, soggetto ad una valutazione discrezionale della magistratura di sorveglianza, che dovrà bilanciare il favor nei confronti del minore con la pericolosità sociale dell’interessata.
Per questa opzione è inserito un quinto comma che afferma che l’esecuzione penale non può essere differita sa dal rinvio derivi una situazione di “pericolo, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti”. Si tratta di una formula sostanzialmente mutuata dalla corrispondente fattispecie cautelare, in ordine alla quale una giurisprudenza della cassazione ritiene che le esigenze ricorrano anche “in presenza di comportamenti seriali nel compiere reati contro il patrimonio, documentati da precedenti penali e polizia e nella professionalità manifestata da alcune modalità della condotta, in assenza di redditi e fonti di sostentamento” cfr. cass. 48999/2019.
La disposizione prevede ancora che, dove non possa aver luogo il differimento, l’esecuzione deve aver luogo presso un Istituto a custodia attenuata (Icam) se la donna è incinta o madre di prole di età inferiore a un anno, e può avervi luogo, a meno che esigenze di eccezionale rilevanza non lo consentano, nell’ipotesi della madre di prole di età superiore ad un anno e inferiore a tre anni.
A fronte di un sistema normativo che negli anni, anche grazie agli interventi della Corte Costituzionale, ha progressivamente costruito un quadro di importanti tutele per la detenuta madre, in funzione dei “best interests of the child” secondo la definizione dell’art. 3 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, l’intervento oggi proposto si pone in decisa controtendenza e segna inevitabilmente un arretramento rispetto al modello normativo sin qui proposto.
La Consulta ha per altro già riconosciuto come il meccanismo del differimento obbligatorio della pena ex art. 146 cod. pen. nei confronti della donna incinta o madre di prole di età inferiore ad un anno abbia un preciso e solido fondamento costituzionale negli art. 27 co. 3, sotto il profilo del senso di umanità, e dell’art. 31 Cost., che assegna alla Repubblica il compito di proteggere la maternità e l’infanzia, favorendo gli istituti necessari a tale scopo e che il legislatore sia stato mosso dall’esigenza di evitare che “l’inserimento in un contesto punitivo e normalmente povero di stimoli possa nuocere al fondamentale diritto tanto della donna di portare a compimento serenamente la gravidanza, quanto del minore di vivere la peculiare relazione con la figura materna in un ambiente favorevole per il suo adeguato sviluppo psichico e fisico” (cfr. ord. Corte Cost. 145/2009).
Dal punto di vista tecnico, anche a normativa vigente, è possibile intervenire rispetto al differimento obbligatorio, prevedendo che lo stesso sia surrogato da una detenzione domiciliare, con ciò quindi tenendosi conto della necessità di contenere una pericolosità sociale della donna incinta o madre di prole di età inferiore a un anno. In nessun caso però può prevedersi la permanenza in carcere, sia pure presso un Icam. Si tratta di una previsione che affonda le radici nel codice penale scritto in epoca fascista, e che ha costituito fino ad oggi un baluardo culturale importante, qualificante, dei principi e dei valori che l’ordinamento tutela.
Da un esame della giurisprudenza formatasi in materia cautelare, quindi, c’è da attendersi dalla modifica normativa, se interverrà, che un certo numero di donne incinte o madri di prole di età inferiore a un anno faranno accesso ai nostri istituti penitenziari, aumentando il numero di bambini che vi nasceranno o vi trascorreranno i primi anni di vita. Non credo ci sia bisogno di dilungarsi sulle gravissime conseguenze che questo comporta rispetto al superiore interesse del minore, che in nessun caso può mai essere quello di permanere all’interno di una struttura penitenziaria.
Occorre per altro rappresentare che gli ICAM sono pochissimi nel territorio nazionale. Ciò significa che la permanenza in carcere inevitabilmente distaccherà le madri dai loro territori, e questo distacco significherà anche distacco dai nuclei familiari presenti, e da eventuali altri minori, seppur di età più adulta, che resteranno privati di una madre da loro fortemente allontanata. Vi è il rischio di far vivere alla donna detenuta drammatici conflitti, anche psicologici, tra prosecuzione della gravidanza e cura del minore neonato e inevitabile allontanamento dal nucleo familiare e dagli altri affetti sul territorio.
Vi è la certezza di far sobbarcare al dolente mondo carcerario il peso di persone che avranno uno speciale bisogno di assistenza psicologica e di supporto medico specialistico, con aggravio importante degli obblighi conseguenti in capo a tutti gli operatori coinvolti.
La misura della detenzione domiciliare si è appalesata in questi anni efficacissima per contemperare le contrapposte esigenze in campo. Un grave problema è stato piuttosto costituito dalla assenza di domicili idonei per alcune donne incinte o madri. In tal senso si dovrebbe potenziare il ricorso a case famiglia protette, già previste dalla legge, ma di fatto scarsissime sui territori (credo di conoscere l’esistenza di due sole case del genere in tutta Italia).
Segnalo che, dal punto di vista tecnico, come anche evidenziato nel dossier elaborato dal Senato, la previsione contenuta nel nuovo art. 147 co. 5 può dare adito a dubbi circa la possibilità di provvedere a surrogare il differimento con la detenzione domiciliare, prima che prevedere l’ingresso in ICAM. Andrebbe chiarito che vi è comunque sempre la possibilità di accedere, ove possibile, a quella diversa forma di esecuzione della pena (ai sensi dell’art. 47-ter co. 1-ter ord. penit.).
3. Misure per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari.
Qualche rapida considerazione sull’introduzione dell’art. 415-bis in materia di rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari. Per quanto concerne la rubrica dell’articolo mi permetto di osservare che alcune possibili azioni per la maggior sicurezza degli istituti penitenziari sarebbero senz’altro immaginabili, ma le stesse appartengono soprattutto al novero degli interventi di potenziamento delle risorse umane e di quelle materiali, anche attraverso la dotazione di moderni e sicuri sistemi che schermino gli stessi rispetto alle comunicazioni via telefono cellulare, attraverso moderni scan personali come quelli in uso negli aeroporti, mediante la dotazione di elettricità idonea nelle camere detentive, per la sostituzione dei pericolosi fornelli a gas con fornelli elettrici etc. etc.
L’intervento qui immaginato ruota, invece, soprattutto sull’introduzione del reato autonomo di rivolta all’interno di un istituto penitenziario, che sanziona con pene molto elevate le condotte di chi vi partecipa. Molto si è già detto sulla parte della disposizione che fa riferimento anche a “condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. Mi permetto di aggiungere la mia voce critica su questa previsione che, intanto, appare di difficile interpretazione e foriera di dubbi applicativi, anche per la scarsa determinatezza di espressioni utilizzate come il “contesto”, nozione decisamente troppo vaga per una previsione penale. Più in generale mi pare che la criminalizzazione della resistenza passiva, al pari di quella attiva, con distinguo tecnici difficilmente percepibili dall’utenza, possa creare effetti di paradossale escalation e possa rivelarsi un boomerang. Il momento in cui vi è infatti in atto una forma anche collettiva di resistenza passiva è quello del dialogo, quello in cui le migliori forze dell’amministrazione penitenziaria, in primis i Direttori, possono risolvere tutto senza danni più gravi. Lo scivolamento nell’area della penalità, invece che nell’ambito già segnato dalle sanzioni disciplinari, è a mio avviso grave dal punto di vista culturale ma anche assai controproducente dal punto di vista operativo.
È inoltre previsto l’inserimento di queste fattispecie: art. 415 e 415 – bis nel disposto dell’art. 4 bis ord. penit., seppure nella c.d. seconda fascia. Ciò significa l’accesso inevitabile al carcere, a prescindere dal quantum di pena irrogata, e più elevate quote per poter accedere ad alcuni benefici penitenziari. Da tempo la dottrina ha posto mente alla necessità di uno snellimento dei cataloghi di reati contenuti nell’art. 4-bis ord. penit., in particolare per quelli che non hanno riferimento alla criminalità organizzata. Il legislatore ha tenuto conto di questo invito, in questi anni, soltanto con la lege 199/2022 di conversione del decreto legge c.d. “anti rave”, ma lo ha fatto esclusivamente per gli autori di reati contro la pubblica amministrazione (i c.d. colletti bianchi). La disposizione normativa si muove in senso distonico rispetto a questo obbiettivo di snellimento, determinando un effetto carcerogeno che, per come detto, è piuttosto drammatico a fronte dell’attuale condizione del mondo penitenziario. Indipendentemente dal quantum di pena irrogata, infatti, per chi ha commesso questi reati le porte del carcere si schiuderanno per un nuovo ingresso, o più probabilmente faranno prorogare il tempo di permanenza.
La strada già tracciata da alcuni anni di incremento delle fattispecie di reato proprio della persona detenuta tende a trasformare sempre di più il carcere in un luogo violento, dal quale si rischia di non uscire, perché si può incorrere in ulteriori reati, oltre quello per cui ci si è entrati. L’esperienza maturata con riguardo alla criminalizzazione del possesso e uso di un telefono cellulare ha per altro evidenziato come possa accadere che siano condannati per questi reati i soggetti più deboli, cui altri detenuti addossano la responsabilità dei fatti, con accertamenti molto difficili per l’autorità giudiziaria. È un meccanismo che potrebbe ripetersi anche qui, coinvolgendo in prima linea persone con disagio psichico, purtroppo largamente presenti nei nostri istituti penitenziari. Io credo che, invece, al carcere dovremmo guardare come a un luogo che, attraverso la valorizzazione delle individualità, non butta la chiave, ma cerca di trovarla. La chiave per restituire all’esterno persone migliori di quelle che sono entrate.
4. In materia di dotazione di videocamere.
Nell’art. 21 del d.d.l. è contenuta una disposizione relativa alla dotazione di videocamere al personale delle Forze di polizia. Si tratta di una disposizione senz’altro condivisibile. Tuttavia mi permetto di sottolineare la necessità di maggiore chiarezza rispetto ai contenuti del comma 2, secondo il quale “nei luoghi e negli ambienti in cui sono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale possono essere utilizzati dispositivi di videosorveglianza”. Il perimetro della disposizione, come per altro già sottolineato nel corso di audizioni che mi hanno preceduto, sembra riferibile a luoghi diversi dall’istituto penitenziario. E tuttavia la genericità della previsione imporrebbe di comprendere meglio. Da un lato infatti è stato segnalato da alcuni anni come per tutta una serie di spazi all’interno del penitenziario sia necessaria la presenza delle telecamere a garanzia di lavoratori e persone detenute. La Commissione Ruotolo nel 2021, istituita presso il Ministero della Giustizia, sottolineava l’urgenza di provvedere al più capillare completamento della dotazione, ancora carente in alcune carceri. Dall’altro occorre mettere in conto come una continua videosorveglianza, per persone detenute all’interno delle loro camere, ove non giustificata da peculiari ragioni, finirebbe per avere, a lungo protratta nel tempo, gravi effetti psicologici (andrebbe quanto meno aggiunto un riferimento alla necessità che l’uso della videocamera avvenga nel rispetto della dignità delle persone detenute o internate, affinché le stesse siano collocate in modo da non ritrarne le parti intime, ad esempio nel locale adibito ai servizi igienici). Sembra quindi necessario che la materia sia affrontata con maggior dettaglio. Soprattutto, appare fondamentale che la possibilità di utilizzare le videocamere non sia mai letta come facoltà di non utilizzarle, perché questo finirebbe per risolversi in un arretramento di tutela rispetto a un luogo, come il carcere, che è necessario sia trasparente a garanzia di tutti.
5. Ulteriori disposizioni in materia di ordinamento penitenziario.
Soltanto per completezza meritano un cenno le disposizioni che si vogliono introdurre in materia di lavoro penitenziario e di apprendistato professionalizzante, rispetto alle quali, al di là di formulazioni particolarmente tecniche, e quindi di difficile lettura, può cogliersi un indirizzo positivo, che tuttavia merita di essere coltivato in concreto, sia mediante le modifiche regolamentari cui si rinvia, sia soprattutto attraverso un incremento significativo delle risorse, a fronte di un lavoro intramurario che continua a vedere impegnato un numero troppo esiguo di detenuti, per un numero troppo esiguo di ore settimanali ed in attività che non hanno orizzonti professionalizzanti.
In tema di DDL Sicurezza si veda anche Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria.
Interrogatorio preventivo: istruzioni per l’uso
(dieci soluzioni pratiche per sopravvivere al nuovo articolo 291 c.p.p.)
Sommario: premessa: Il nuovo istituto e gli operatori del diritto: dalla fase dello sconcerto a quella dell’applicazione. Dieci questioni pratiche. 1. Il regime applicabile alle richieste di misura cautelare pendenti al 25 agosto 2024. 2. Pluralità di imputazioni e pluralità di indagati: il conflitto di norme tra regola ed eccezione e la disciplina da applicare. A) Pluralità di reati. B) Pluralità di indagati. C) Coesistenza di esigenze cautelari. D) Coesistenza di richieste cautelari eterogenee. E) Il conflitto di norme derivante dall’intervento del giudice della cautela. 3. Le soluzioni possibili. 4. Trattazione congiunta della misura cautelare: precedenti e criticità applicative. 5. Lo sdoppiamento delle ordinanze cautelari e le difficoltà di gestione. 6. Il rigetto della richiesta cautelare e il regime delle impugnazioni. 7. Il termine per l’invito a comparire. 8. La notificazione dell’invito a comparire. 9. Presenza del difensore e legittimo impedimento. 10. Termine a difesa ed effettività del contraddittorio.
Premessa. Il nuovo istituto e gli operatori del diritto: dalla fase dello sconcerto a quella dell’applicazione.
Da lungo tempo il legislatore ci ha abituato a continui assalti all’impianto del codice di procedura penale, sempre più simile ad un cantiere perenne e sempre meno a quell’insieme di regole certe e dotate di sistematicità che sarebbe logico attendersi.
Gli interventi di modifica dell’impianto del processo si susseguono a cadenza quasi mensile, dettati da emergenze spesso legate a singoli casi eclatanti del momento, ciò che si riverbera fatalmente sulla qualità delle leggi: si tratta di norme connotate da respiro corto e mancanza di attenzione per l’architettura generale del sistema in cui sono inserite.
Comprensibilmente, la reazione degli operatori del diritto chiamati ad applicare le novelle norme sembra ricalcare un medesimo, triste copione: si passa dall’iniziale sconcerto nel leggere articoli e commi che sembrano dettati dall’unico scopo di ostacolare la ricerca della verità processuale alla desolata constatazione delle difficoltà operative di calare tali norme nella realtà dei processi.
Si tratta infatti di prescrizioni scritte in modo sempre più incompleto ed a volte così avulse dal corpus normativo in cui - con operazione di infelice ortopedia - sono inserite da essere parzialmente inapplicabili, non senza rivelarsi spesso all’atto pratico controproducenti per gli scopi avuti di mira dal legislatore.
È quanto accade oggi per le modifiche al codice di procedura penale conseguenti all’introduzione del cosiddetto “interrogatorio preventivo”, di cui si approfondiranno in questa sede alcune problematiche operative alla ricerca di soluzioni (più o meno) convincenti nel tentativo di mantenere una funzionalità di massima al sistema delle misure cautelari personali[1].
Dieci questioni pratiche.
1. Il regime applicabile alle richieste di misura cautelare pendenti al 25 agosto 2024.
La prima questione da affrontare, quantomeno in ordine logico, riguarda la disciplina da applicare per le richieste depositate dal Pubblico Ministero al 25 di agosto del 2024 e non ancora esitate dal Giudice delle Indagini preliminari.
Il G.I.P. dovrà applicare la norma vigente al momento del deposito della richiesta o quella nuova e procedere dunque, nei casi previsti, ad interrogatorio preventivo?
La seconda soluzione è imposta sia dal principio secondo cui per ciascun atto è disciplinato dalla legge vigente al momento della sua emanazione (tempus regit actum) sia dalla necessità di adottare la disciplina più favorevole all’indagato (favor rei), sicuramente da individuare nella nuova formulazione dell’articolo 291 c.p.p..
Conseguentemente, per tutte le richieste pendenti nei propri uffici i G.I.P. dovranno procedere, nei casi previsti dalla nuova legge, all’interrogatorio preventivo degli indagati.
Naturalmente, se il Pubblico Ministero dovesse realizzare che questa discovery anticipata provoca pericoli all’indagine, potrà revocare la richiesta di misura cautelare pendente prima della notifica dell’invito a comparire per rendere interrogatorio.
In proposito, non si può non rilevare che uno dei paradossi di questa nuova normativa, acutamente messo in rilievo dal parere dell’ANM, è che la modifica apportata al sistema delle misure cautelari è essa stessa foriera, potenzialmente, di un aumento del periculum libertatis: “In ipotesi, l’interrogatorio anticipato può quasi rendere concreto il pericolo di inquinamento probatorio anche laddove tale esigenza non sussista nella fase delle indagini: la conoscenza delle dichiarazioni rese da persone informate sui fatti da parte dell’indagato in una fase preliminare all’adozione della misura potrebbe esporre questi ultimi a interventi finalizzati alla ritrattazione o alla modifica delle dichiarazioni, soprattutto in contesti ad alta densità criminale; rende, inoltre, possibile condotte elusive laddove vi siano circostanze non emerse in sede di indagine e di cui l’indagato sia comunque a conoscenza“.
Il titolare delle indagini potrebbe dunque valutare che, alla luce del mutato quadro normativo, non è più conveniente l’adozione di una misura cautelare preceduta da un momento – conseguente alla citazione per rendere interrogatorio preventivo – in cui l’indagato è avvertito del rischio per la sua libertà derivante dall’indagine in corso…. E conseguentemente richiedere il fascicolo revocando la richiesta pendente.
2. Pluralità di imputazioni e pluralità di indagati: il conflitto di norme tra regola ed eccezione e la disciplina da applicare.
Il problema più spinoso che la nuova normativa pone da un punto di vista pratico nasce dalla possibile coesistenza nella medesima ordinanza di custodia cautelare tra posizioni (oggettive e soggettive) che richiedono l’interrogatorio preventivo e posizioni che non lo richiedono.
La nuova disciplina introdotta dalla legge Nordio appare tarata sull’eventualità di una richiesta di misura cautelare da emettere nei confronti di un indagato accusato di un reato.
Il comma 1 quater dell’articolo 291 del codice di procedura impone infatti di procedere ad interrogatorio preventivo prima dell’emissione di una ordinanza cautelare e prevede alcune ipotesi, in guisa di eccezioni, in cui tale adempimento deve essere omesso.
In queste ipotesi si adotterà la procedura tradizionale dettata dall’articolo 294 del codice di rito (interrogatorio da svolgersi immediatamente dopo l’esecuzione della misura).
Il sistema previsto è rigidamente binario: o si applica la regola generale (interrogatorio preventivo) o si rientra in una delle eccezioni (interrogatorio differito).
Nulla è stabilito per l’eventualità di un’ordinanza che riguardi una pluralità di reati e/o una pluralità di indagati, ipotesi peraltro statisticamente preponderante in tutti i casi in cui l’indagine preliminare supera un livello minimo di complessità.
È invero assai raro, nella pratica quotidiana del lavoro di Pubblici Ministeri e Giudici, che si intervenga con la privazione della libertà personale come risposta alla commissione di un singolo reato, per quanto grave (basti pensare ad un omicidio o a un reato di stalking, che sono solitamente accompagnati dalla contestazione di uno o più reati-satellite); l’esperienza insegna altresì che il campo di azione tipico delle misure cautelari personali è quello dei reati commessi da più persone in concorso, se non addirittura associate per delinquere.
È dunque evidente che nella maggior parte dei casi il giudice della cautela non si troverà di fronte alla semplicistica alternativa binaria prevista dalla novella legislativa tra l’applicazione della regola generale ed una delle sue eccezioni, ma dovrà fare i conti con una molteplicità di situazioni, alcune delle quali ricadenti sotto una o più delle eccezioni ed altre nella regola generale, da applicare contemporaneamente con conseguente conflitto di norme.
Per alcuni reati/indagati dovrà infatti procedersi ad interrogatorio preventivo, per altri no.
La sorprendente lacuna del legislatore (il “bug” nel nuovo articolo 291 c.p.p.) è probabilmente conseguenza di un intervento normativo pensato su una tipologia specifica di intervento cautelare: l’ipotesi di reato monosoggettivo compiuto da soggetto non aduso a delinquere e con assenza di pericolo di reiterazione di delitti.
In altri termini, il classico delitto contro la Pubblica Amministrazione, categoria cui sono dedicate non a caso tutte le altre norme della legge Nordio, dalla mutilazione del traffico di influenze all’abrogazione dell’abuso di ufficio alla limitazione dell’uso di intercettazioni in determinati casi.
Per questo tipo di reati, non essendo possibile eliminare del tutto il ricorso allo strumento cautelare (anche per non incorrere nelle ire degli organismi internazionali, già da tempo critici sull’approccio nostrano alla lotta alla corruzione e fenomeni assimilabili), sono stati introdotti dalla nuova legge limiti ed ampliate le garanzie in favore dell’indagato, cui è data la possibilità di fornire la sua versione dei fatti anche a scapito delle esigenze di segretezza ed efficacia delle indagini, e di neutralizzare l’intervento cautelare fornendo elementi per escludere il pericolo di reiterazione (come ad esempio le dimissioni dalla carica pubblica ricoperta che ha costituito occasione per delinquere).
È del resto questa la ratio legis conclamata dell’articolo 289, secondo comma del codice di rito, unica ipotesi in cui era fino ad oggi previsto l’interrogatorio preventivo: per la richiesta di misura cautelare interdittiva della sospensione da un pubblico servizio, l’interrogatorio deve essere eseguito prima dell’esecuzione dell’ordinanza del giudice, a tutela del prestigio e della funzionalità della Pubblica Amministrazione.
Il nuovo articolo 291 del codice di procedura penale, però, si applica indiscriminatamente a tutti i reati per i quali è necessario agire con misura cautelare e non ad una singola categoria.
La complessità della realtà criminale e dei tipi di intervento cautelare, trascurata dal legislatore, viene dunque a ricadere sugli operatori del diritto, chiamati a dirimere in via interpretativa le numerose ipotesi di possibile conflitto tra regola ed eccezioni, che di seguito si vanno ad elencare.
A) Pluralità di reati.
Come si diceva in precedenza, la stragrande maggioranza delle richieste di misura cautelare, anche nei confronti di un singolo indagato, contiene una pluralità di imputazioni, essendo assai raro il caso in cui la privazione della libertà personale sia richiesta per una singola violazione di legge.
Si pensi al caso di soggetto accusato di evasione dagli arresti domiciliari per commettere una rapina, o ad indagini riguardanti una serie di cessioni di sostanza stupefacente di cui solo una di ingente quantità.
Nel primo caso (rapina ed evasione) l’interrogatorio preventivo è necessario solo per uno dei due reati contestati, nel secondo (più cessioni ordinarie ed una di ingente quantità) per tutti i reati tranne uno.
B) Pluralità di indagati
Molto spesso le richieste di applicazione di una misura cautelare sono poi avanzate dal Pubblico Ministero all’esito di indagini complesse e rivolte verso una pluralità di indagati, cui sono contestati i diversi reati emersi (nell’impostazione accusatoria sottoposta al vaglio del Giudice) durante gli accertamenti e le indagini preliminari.
Conseguentemente, è da considerarsi fisiologica l’ipotesi in cui nella medesima richiesta di misura cautelare vi siano indagati per cui si richiede al G.I.P. un’ordinanza per reati per i quali occorrerà, secondo la nuova formulazione dell’articolo 291 c.p.p., procedere ad interrogatorio preventivo ed altri, accusati di reati ricompresi nel nutrito novero delle eccezioni, per cui tale adempimento non sarà necessario.
Si pensi al caso di una richiesta di misura cautelare in cui è contestata ad alcuni indagati la partecipazione ad un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (art. 74 t.u. 309/90) e ad altri il semplice concorso in una o più condotte di cessione (art. 73 t.u. 309/90), o ad una misura nei confronti di un soggetto accusato di rapina aggravata e di un suo coindagato al quale è contestato di aver riciclato il provento della stessa.
Nel primo degli esempi, l’interrogatorio preventivo non sarà necessario per tutti gli indagati accusati di essere intranei all’associazione ma dovrà essere effettuato per gli altri indagati per i quali è stata chiesta la misura cautelare; nel secondo, l’interrogatorio preventivo dovrà essere eseguito solo per il soggetto accusato di riciclaggio e non per quello accusato di rapina.
C) Coesistenza di esigenze cautelari
Ancora, può capitare che per alcuni indagati la misura cautelare sia sollecitata per il pericolo di inquinamento delle prove o per il pericolo di fuga e per altri per il pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie di quelli per i quali si procede: anche in questo caso, l’interrogatorio preventivo sarà necessario solo per una parte dei destinatari della richiesta mentre per gli altri il GIP potrà decidere inaudita altera parte, essendo l’incombente anticipato previsto solo per le richieste motivate sulle esigenze cautelari indicate dalla lettera c dell’articolo 274 c.p.p..
D) Coesistenza di richieste cautelari eterogenee
Infine, non è affatto raro il caso in cui nella stessa richiesta il Pubblico Ministero chieda per alcuni indagati la custodia cautelare in carcere e per altri, coinvolti in modo meno grave, una misura meno afflittiva: in questo caso, secondo una diversa norma destinata ad entrare in vigore nel 2026, scatterà addirittura una diversa competenza, essendo chiamati a decidere addirittura tre Giudici per la sola custodia in carcere con conseguente deviazione “in corsa” della competenza funzionale (che tornerà ad essere monocratica per le sole misure minori).
Ma di questa (ed altre) implicazioni della norma sul Giudice collegiale converrà occuparsi a tempo debito.
E) Il conflitto di norme derivante dall’intervento del giudice della cautela.
Tutte le ipotesi sopra descritte riguardano situazioni già presenti nel momento in cui la richiesta è posta all’attenzione del Giudice per le indagini preliminari.
Ma a queste vanno aggiunte, specularmente, tutte quelle che possono scaturire dall’analisi degli atti compiuta dal giudice della cautela al momento della sua decisione.
Questi potrà infatti, a fronte di una richiesta di misura cautelare per rapina nei confronti di due indagati, decidere di riqualificare l’accusa nei confronti di uno dei due nel meno grave delitto di favoreggiamento (con conseguente obbligo di procedere, solo per il presunto favoreggiatore, con interrogatorio preventivo).
Parimenti il giudice potrà, a fronte di una richiesta basata sul pericolo di fuga e di reiterazione di delitti nei confronti di due indagati, ravvisare il pericolo di fuga solo nei confronti di uno dei due; anche in questo caso, prima di emettere misura cautelare, dovrà procedere ad interrogatorio preventivo ma solo nei confronti dell’indagato per cui ha ravviato esclusivamente il pericolo di reiterazione di delitti (274 lettera c c.p.p.).
Ancora più frequente il caso in cui, a fronte di una richiesta di custodia in carcere per due o più indagati, il Giudice decida in senso conforme per uno e di applicare una misura meno afflittiva per un altro (con conseguente attribuzione della ordinanza alla composizione collegiale di cui si è detto solo per una parte della misura).
3. Le soluzioni possibili.
Alla luce di quanto fin qui esaminato, appare evidente che nella maggior parte delle ipotesi al vaglio dei giudici, ci si troverà di fronte alla coesistenza di regola ed eccezioni, con conseguente necessità di procedere ad interrogatorio preventivo per una parte dell’ordinanza da emettere e di mantenere invece il procedimento inaudita altera parte per altra parte.
Verranno dunque in conflitto due esigenze contrapposte: quella di segretezza delle indagini, che impone la compressione della libertà personale dell’indagato prima che questi sappia che ci sono accertamenti in corso sul suo conto (è per questo che fino all’introduzione della legge Nordio l’interrogatorio di garanzia era svolto dopo l’adozione della misura cautelare) e il diritto dell’indagato di fornire la sua versione dei fatti prima degli effetti devastanti della privazione della sua libertà.
Nei casi di coesistenza di posizioni oggettive e soggettive cui il legislatore assegna prevalenza all’una e ipotesi in cui prevale l’altra delle due esigenze descritte, è di fatto demandato all’operatore del diritto – nel colpevole silenzio del legislatore – la scelta di quale delle due esigenze andrà sacrificata.
In alternativa, si potrà procedere ad una separazione delle posizioni eterogenee con emissione di due distinte tipologie di atti: l’ordinanza di custodia cautelare per i reati per i quali non occorre interrogatorio preventivo e un invito a comparire per quelli per i quali tale atto è necessario.
Tuttavia, è innegabile che uno spacchettamento dell’ordinanza in due parti, una immediatamente eseguita e l’altra da scrivere ed emettere eventualmente all’esito dell’interrogatorio preventivo comporta un appesantimento (sia per il giudice che scrive che per le cancellerie, costrette a duplicare gli atti e a moltiplicare gli avvisi) che inevitabilmente verrà ad incidere su una situazione di gestione degli affari penali notoriamente in cronica difficoltà per ragioni che in questa sede non è possibile approfondire.
Senza contare la difficoltà di frazionare un compendio indiziario che le indagini hanno fatto emergere come unitario e che unitario si presenta nella ricostruzione accusatoria, tanto da avere indotto il Pubblico Ministero a presentare un’unica richiesta di misura cautelare.
Per tali ragioni, la trattazione congiunta delle varie posizioni deve essere considerata prioritaria, laddove possibile.
4. Trattazione congiunta della misura cautelare: precedenti e criticità applicative.
Occorre dunque chiedersi se sia possibile considerare le ipotesi per le quali occorrerebbe procedere ad interrogatorio preventivo sub valenti rispetto a quelle per le quali la misura può essere emessa de plano.
Esiste, in altri termini, ed a quali condizioni, un principio di prevalenza della segretezza del procedimento a scapito delle garanzie difensive?
Può essere utile ricordare che, nella corrente interpretazione giurisprudenziale, si ritiene che in caso di pluralità di reati (e di persone) che sottostanno a norme regolatrici differenti, la norma che disciplina il reato più grave viene comunemente applicata anche a tutti gli altri reati, prevalendo l’opportunità di una gestione unitaria del fascicolo.
Così, in tema di intercettazioni, laddove siano iscritti nel registro degli indagati soggetti per reati di criminalità organizzata (sottoposti alla disciplina speciale dettata dall’articolo 13 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152) e soggetti indagati per reati comuni (per i quali vigono termini e condizioni dettati dall’articolo 267 c.p.p.), si applicheranno per tutti gli indagati intercettati i termini di quaranta giorni per la durata del decreto di intercettazione e le successive proroghe avranno vigore per venti giorni (in luogo dei 15 giorni sia iniziali che per i decreti di proroga previsti per le fattispecie ordinarie).
In merito, la Corte di Cassazione ha più volte affermato che “in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni la valutazione del reato per il quale si procede, da cui dipende l'applicazione della disciplina ordinaria ovvero di quella speciale per la criminalità organizzata di cui al d.l. 13 maggio 1991, n. 151, convertito dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, va fatta in relazione all'indagine nel suo complesso e non con riguardo alla responsabilità di ciascun indagato” (cass. Pen., sez. II, n. 31440 del 24 luglio 2020, rv. 280062).
Ciò che rileva, ai fini dell’applicazione di questo principio, è che tra i reati vi sia una connessione “quantomeno probatoria”: “La valutazione sul reato per il quale si procede con conseguente applicazione della disciplina ordinaria ovvero di quella speciale (per la "criminalità organizzata") va fatta con riferimento alla indagine complessiva, quindi per tutti reati per i quali vi sia quantomeno connessione probatoria (vale, al riguardo, quanto elaborato in tema di identità o diversità di procedimento ai sensi dell'articolo 270 cod. proc. pen. ) e non certo con riferimento ad ogni singolo indagato. Del resto, si rammenta, il concetto di gravità o sufficienza degli indizi ai fini degli artt. 266 e ss cod. proc. pen. è riferito alla esistenza del reato e non alla responsabilità di ciascun singolo.” (Cass. Pen., sez. VI, 6 aprile 2017, n. 28252, rv 270565).
Il richiamo contenuto nella pronuncia all’elaborazione giurisprudenziale sulla nozione di procedimento diverso ai fini della inutilizzabilità prevista dall’articolo 270 c.p.p. porta all’applicazione dei principi contenuti in altra massima: “In tema di intercettazione di conversazioni, ai fini del divieto di utilizzazione previsto dall'art. 270, comma primo, cod. proc. pen., la nozione sostanziale di "diverso procedimento" va desunta dal dato dell'alterità o non uguaglianza del procedimento instaurato non nell'ambito del medesimo filone investigativo, ma in relazione ad una notizia di reato, che deriva da un fatto storicamente diverso da quello oggetto di indagine nell'ambito di altro, differente, anche se connesso, procedimento” (Cass. Pen. Sez. II, n. 19730 del 1 aprile 2015, rv 263527).
Ad analoghe conclusioni si arriva esaminando le norme sulla proroga delle indagini preliminari.
Come noto, nel caso di richiesta di proroga delle indagini per reati ricompresi nelle ipotesi di cui all’articolo 406 comma 5 bis del codice di procedura penale non occorre la notifica della richiesta all’indagato né la fissazione dell’udienza camerale con instaurazione del contraddittorio, potendo il GIP decidere de plano poiché prevale l’esigenza di segretezza delle indagini in casi di particolare allarme sociale su quella di instaurazione del contraddittorio.
Ebbene, per prassi unanime di tutti i Tribunali, nel caso in cui un fascicolo sia iscritto per reati sottoposti alla speciale disciplina menzionata ed altri reati comuni, non occorre la notifica della proroga per questi ultimi reati, poiché la disciplina dettata dalla legge speciale prevale su quella generale.
Da quanto sopra evidenziato emerge dunque che, in determinati casi, le congiunte esigenze di segretezza delle indagini e di trattazione unitaria del procedimento consentono il differimento delle garanzie difensive.
Il principio sembra applicabile anche al caso in esame; l’interpretazione in questo senso dipenderà ovviamente dal bilanciamento degli interessi in gioco che, in assenza di una previsione di legge, compiranno i giudici caso per caso.
È auspicabile naturalmente un’interpretazione conforme tra i magistrati, per evitare difformità di trattamento in caso analoghi.
In attesa di un verosimile intervento interpretativo della Corte di cassazione, molti uffici stanno adottando linee ermeneutiche comuni tra i giudici che li compongono.
L’Ufficio GIP di Roma a seguito di riunione tra i suoi componenti, ha adottato delle linee guida (non vincolanti per i singoli giudici) scegliendo di distinguere tra le varie ipotesi fin qui menzionate.
In particolare, per le misure cautelari riguardanti una pluralità di reati ( alcuni dei quali richiedenti l'interrogatorio preventivo, altri no) con unico indagato, sarà adottata un’unica misura cautelare senza procedere all'interrogatorio preventivo, prevalendo la disciplina ora speciale rispetto a quella neo-introdotta ora generale che richiede l'interrogatorio preventivo.
Nelle ipotesi di misure cautelari che riguardano invece soggetti diversi, per alcuni dei quali occorre procedere ad interrogatorio preventivo e per altri no, è stata scelta una linea prudenziale, dandosi prevalenza alle esigenze di garanzia difensiva e non ritenendosi le medesime sacrificabili per l’occasionale connessione con posizioni soggettive meno garantite.
Si procederà dunque ad eseguire la misura "a sorpresa" per coloro per i quali l'interrogatorio preventivo non è dovuto, con le correlative operazioni di perquisizione e sequestro, e contemporaneamente, o successivamente , a notificare gli inviti a presentarsi per gli interrogatori preventivi.
5. Lo sdoppiamento delle ordinanze cautelari e le difficoltà di gestione.
La soluzione adottata presenta diverse evidenti criticità.
In primo luogo, viene meno l’effetto sorpresa che è connaturato alle misure cautelari e che consente al Pubblico Ministero di compiere alcuni degli atti di indagine più delicati ed importanti potendo contare sulla mancanza di reazione dell’indagato, che tende naturalmente a neutralizzare l’efficacia degli atti medesimi.
Per minimizzare gli effetti della discovery e contemperare le garanzie difensive ritenute prevalenti dal legislatore per gli indagati per i quali non è previsto l’interrogatorio preventivo con le esigenze di indagini, ritenute invece prevalenti per quegli indagati per i quali permane il differimento di tale adempimento, l’unico strumento sembra essere di prevedere che l’invito a comparire per rendere interrogatorio preventivo non preceda l’esecuzione della misura de plano, e che le notifiche dei primi avvengano contestualmente all’esecuzione delle ordinanze per i secondi.
Viene dunque a gravare sull’ufficio GIP un onere organizzativo aggiuntivo a tutela della salvaguardia dell’efficacia delle indagini preliminari svolte dal Pubblico Ministero.
Va anche rilevato che tale onere, non essendo prescritto formalmente, non è nemmeno sanzionato in alcun modo, sicché il GIP potrebbe semplicemente ignorarlo e privilegiare proprie esigenze organizzative o di ufficio.
Ulteriore criticità è ravvisabile nella difficoltà per il giudice emittente di redigere un’ordinanza di misura cautelare parziale.
A fronte di una richiesta di misura del Pubblico Ministero che ricostruisce fatti complessi e connessi tra loro, il magistrato della cautela dovrebbe emettere un provvedimento in cui si approfondiscono gli elementi indiziari a carico di alcuni indagati e non di altri (quelli per i quali occorrerà attendere l’esito dell’interrogatorio preventivo).
Non sempre tale scissione tra posizioni che in fatto - e nella richiesta del magistrato inquirente – si presentano unite sarà agevole.
Si pensi alle difficoltà di motivare sulla sussistenza di un’associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti senza poter approfondire alcuni – o tutti – gli episodi di spaccio che dell’associazione costituiscono i reati-fine.
Solo dopo l’espletamento degli interrogatori preventivi nei confronti dei coindagati accusati dei singoli episodi di spaccio il Giudice potrà emettere una seconda ordinanza, dedicata questa volta ai reati-fine e che avrà per presupposto (questa volta, spendibile) l’esistenza di un’associazione i cui componenti sono già stati attinti dalla prima misura.
In alternativa a quella che potrebbe diventare una sorta di slalom ermeneutico tra gli elementi indiziari, si potrebbe pensare ad un’unica ordinanza cautelare che prenda in considerazione la valenza indiziaria di tutti gli elementi a carico di tutti gli indagati, ma che nelle conclusioni ordini la cattura dei soli indagati per i quali non occorre l’interrogatorio preventivo, riservando al momento successivo l’eventuale completamento della parte dispositiva con integrazione dei soggetti interrogati (sempre che le loro dichiarazioni non convincano il GIP della necessità di non procedere alla misura nei loro confronti).
Questa soluzione sembra contrastare intuitivamente con la ratio del nuovo comma 1 quater del codice di procedura penale: se il GIP è così convinto della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico di tutti gli indagati, tanto da scrivere anche la parte dell’ordinanza che li riguarda, l’anticipazione dell’interrogatorio finisce col ridursi ad un vuoto simulacro.
Tale perplessità, tuttavia, a ben vedere non coglie nel segno: il nuovo articolo 291 del codice di rito prevede che il Giudice proceda ad interrogatorio preventivo solo quando deciderà di emettere la misura (e non vi proceda dunque in caso decida di rigettare la richiesta cautelare).
Da ciò discende che per inviare l’invito a comparire egli deve avere maturato la convinzione di emettere ordinanza cautelare.
Si tratta ovviamente di una decisione allo stato degli atti e il magistrato deve essere pronto a modificarla, nel caso in cui dalle dichiarazioni rese in sede di interrogatorio emergano elementi scagionanti o ridimensionanti i gravi indizi di colpevolezza.
Ma, di fatto, fino al momento dell’interrogatorio il giudice deve avere - lo richiede l’articolo 291 nel comma in esame - ben salda la decisione di procedere all’emissione del provvedimento, sicché non vi è alcuna indebita anticipazione di giudizio se espliciterà questa convinzione nella prima misura cautelare (quella dedicata ai soggetti per i quali l’interrogatorio preventivo non serve).
Potrà dunque essere emessa un’unica ordinanza in cui si esamineranno le posizioni di tutti gli indagati e nella parte dispositiva si ordini l’esecuzione della misura solo per una parte di essi; contestualmente si procederà ad interrogare gli altri indagati e all’esito dell’interrogatorio, se nulla è mutato, si emetterà la stessa misura cautelare – integrata dalla parte motiva che spieghi eventualmente le ragioni per cui gli elementi emersi nell’interrogatorio non hanno modificato l’originario convincimento – ma con la parte dispositiva dedicata all’ordine di esecuzione degli altri indagati.
In questo modo si attenuerà altresì l’indubbio aggravio organizzativo che graverà su giudici e cancellerie a causa dello sdoppiamento degli atti.
6. Il rigetto della richiesta cautelare e il regime delle impugnazioni.
Come si è osservato in precedenza, nel caso in cui il Giudice della cautela ritenga di non accogliere la richiesta di misura non dovrà procedere ad interrogatorio preventivo.
A questa conclusione porta la lettera della norma, poiché l'art. 291 comma 1-quater del codice di procedura penale dispone che l'interrogatorio preventivo debba essere fatto "prima di disporre la misura".
Il provvedimento di rigetto, alla luce delle modifiche apportate al sistema cautelare della legge Nordio, apre scenari inediti nel caso di impugnazione da parte del Pubblico Ministero: qualora la misura venga disposta dal Tribunale per il riesame, dovrà essere preceduta da interrogatorio preventivo? E da parte di quale organo?
Anche in questo caso il legislatore tace.
Un risalente intervento della Corte di cassazione in tema di misure interdittive ex art. 289, 2° comma c.p.p. sembra indicare nel Tribunale per il riesame l’organo deputato all’espletamento dell’incombente. La Corte ha infatti affermato che «in tema di richiesta di applicazione della misura cautelare interdittiva è illegittimo il diniego da parte del tribunale della libertà al quale il P.M. abbia avanzato appello avverso la reiezione da parte del G.i.p. della medesima misura, sul rilievo della mancata effettuazione da parte del G.i.p. dell'interrogatorio dell'indagato, nonostante la riconosciuta fondatezza dei motivi esposti a sostegno dell'applicazione della predetta misura, essendo in tal caso obbligo del Tribunale di procedere all'interrogatorio che sia stato omesso» (Cass. Pen., sez. V, 19 ottobre 2004 n. 14967, rv. 231623).
Tuttavia, appare più conferente fare riferimento ad un più recente pronunciamento delle Sezioni Unite in tema di interrogatorio di garanzia per le misure coercitive, sebbene riferito all’interrogatorio differito ex art. 294 c.p.p..
In questa occasione la Corte ha infatti precisato che «in caso di applicazione di una misura cautelare coercitiva da parte del tribunale del riesame in accoglimento dell'appello del pubblico ministero avverso la decisione di rigetto del p.m. avverso la decisione del g.i.p., non è necessario procedere all'interrogatorio di garanzia a pena di inefficacia della misura suddetta».» (Cass. Pe., SS.UU., n. 17274 del 26 marzo 2020).
Saranno questa volta i Tribunali del Riesame a dover scegliere tra le due interpretazioni, in attesa di un eventuale intervento specifico della giurisprudenza di legittimità.
7. Il termine per l’invito a comparire.
Un’interessante questione è stata posta dai primi commentatori della norma[2] con riferimento al comma 1 sexies dell’articolo 291 in tema di termine per l’invito a comparire.
La norma menzionata prevede infatti che il giudice notifichi l’invito all’indagato e al difensore “almeno cinque giorniprima dell’interrogatorio”, ma lascia al giudice la possibilità di abbreviare il termine in caso di urgenza.
In questo caso non è previsto un termine minimo, se non quello necessario (all’indagato) per comparire[3].
È stato giustamente osservato che la previsione della possibilità di elidere il termine di cinque giorni fino a ridurlo a poche ore (il tempo necessario per recarsi nell’ufficio del giudice) postula che ciò che conta è che sia assicurata la presenza dell’indagato e non che questi abbia la possibilità di studiare l’incartamento processuale e preparare un’adeguata difesa.
Un’interpretazione siffatta sembra tuttavia svuotare di significato l’intero istituto dell’interrogatorio preventivo e riportare al centro dell’attenzione l’esigenza di cautela e di salvaguardia delle indagini che sono alla base del tradizionale sistema delle misure cautelari personali e che hanno costituito (e costituiscono ancora oggi per le numerose ipotesi “eccezionali” in cui è prevista l’applicazione dell’articolo 294 c.p.p.) fondamento per il differimento del contraddittorio al momento successivo all’emanazione dell’ordinanza cautelare.
Verosimilmente, per evitare un’interpretazione draconiana della norma, il giudice dovrà dunque usare con molta prudenza la possibilità di abbreviare il termine di cinque giorni e in ogni caso ridurre il tempo del minimo indispensabile, in modo da evitare che l’incombente si riduca ad una mera formalità, non avendo l’indagato avuto possibilità di prepararsi per rispondere.
Ancora a proposito di termine per l’invito a comparire, va rilevato altresì che non è previsto un termine “massimo”, sicché il Giudice potrebbe teoricamente fissare l’interrogatorio anche a grande distanza temporale. Naturalmente anche in questo caso occorrerà agire con buon senso, contemperando esigenze di effettività della difesa (che potrebbero spingere ad una dilazione dei tempi) ed esigenze cautelari, che rischierebbero di rimanere frustrate in assenza di un intervento tempestivo.
8. La notificazione dell’invito a comparire.
L’ultima parte del comma 1 sexies si occupa dell’ipotesi in cui la notificazione dell’invito a comparire per rendere interrogatorio preventivo non vada a buon fine, prevedendo che il giudice possa emettere ordinanza senza procedere ad interrogatorio in caso di mancato rintraccio, ma solo dopo aver verificato che gli organi incaricati per la notificazione abbiano compiuto ricerche esaurienti “anche nei luoghi dell’articolo 159 c.p.p.”[4].
Non è questa la sede per una ricognizione della nutrita giurisprudenza sul concetto di “ricerche esaurienti” e sulle molteplici implicazioni pratiche delle ricerche nei luoghi indicati nella norma dell’articolo 159 del codice di rito.
Interessa tuttavia rilevare che il legislatore omette ancora una volta di considerare il caso – più che frequente, come si è detto – di misura cautelare avanzata nei confronti di una pluralità di indagati.
Cosa succede se solo alcuni degli interrogandi viene rintracciato nel brevissimo termine stabilito dal giudice per l’interrogatorio? Mentre le ricerche proseguono per gli altri fino a raggiungere lo status di “ricerche esaurienti” il giudice dovrà procedere agli interrogatori di quelli rintracciati o dovrà attendere per eseguire un interrogatorio il più possibile contestuale (anche per evitare che gli indagati si “lascino rintracciare” solo dopo aver letto le dichiarazioni di chi li ha preceduti)?
E cosa succederà se il Giudice svolgerà gli interrogatori man mano che gli indagati, magari a distanza considerevole di tempo gli uni dagli altri, saranno rintracciati e interrogati?
In tale eventualità il Giudice dovrà verosimilmente emettere un ‘ordinanza dedicata a ciascuna singola posizione via via “sbloccata” dall’espletamento dell’interrogatorio preventivo o dalla constatazione formale del mancato rintraccio, con moltiplicazione incontrollata di stralci o di duplicazione di atti.
9. Presenza del difensore e legittimo impedimento.
Un’apparente dimenticanza è poi evincibile dalla norma dedicata alla presenza delle parti all’interrogatorio contenuta nel comma 1 sexies dell’articolo 291: è infatti previsto che il Giudice notifichi l’invito a comparire all’indagato ed al difensore, ma che l’incombente possa essere rinviato per legittimo impedimento solo del primo.
La mancata previsione del rinvio per legittimo impedimento del difensore ha spinto gli operatori a chiedersi se la presenza di quest’ultimo fosse da ritenersi non necessaria, visto che a rigor di termini è richiesto che allo stesso l’atto sia notificato ma non che possa eccepire – come invece consentito all’indagato – un legittimo impedimento.
Tale interpretazione va senz’altro ritenuta non conforme alla sistematica del nostro processo penale, in cui non può essere svolto alcun atto pregiudizievole all’indagato senza la presenza del difensore.
L’interrogatorio preventivo è, per altro, stato introdotto per aumentare le garanzie difensive dell’indagato, sicché non avrebbe senso un suo svolgimento in condizioni deteriori rispetto al tradizionale interrogatorio differito previsto dall’articolo 294 del codice di rito, tanto più che quest’ultimo atto non sarà più necessario in caso di svolgimento dell’interrogatorio preventivo.
Deve dunque ritenersi che, pur in assenza di esplicito riferimento normativo, possa esservi spazio per il riconoscimento di un legittimo impedimento del difensore e che il Giudice debba valutare un’eventuale istanza di rinvio in tal senso, anche se tale valutazione dovrà essere fatta con particolar rigore per evitare di frustrare le esigenze della cautela.
In ogni caso, nell’ipotesi di rigetto della richiesta di rinvio o comunque di assenza del difensore, si procederà previa nomina di un difensore di ufficio nelle forme dell’articolo 97 del codice.
10. Termine a difesa ed effettività del contraddittorio.
Questione particolarmente delicata è, infine, quella che riguarda la possibilità per il difensore di chiedere un termine a difesa per essere messo in condizione di studiare il fascicolo.
È evidente infatti che proprio su questo tema si confronteranno da posizioni contrapposte le esigenze dell’accusa di procedere ad un intervento urgente a cautela dell’indagine o della collettività e quelle dell’accusa di rispondere alle domande con piena cognizione degli atti raccolti a suo carico.
Ancora una volta, si tratta di questione ignorata dal legislatore e su cui è dunque necessaria opera ermeneutica.
Il codice prevede una richiesta di rinvio per esaminare il materiale raccolto dal magistrato inquirente in fase cautelare davanti al Tribunale per il Riesame: l’articolo 309 comma 9 bis precisa infatti che “su richiesta formulata personalmente dall’imputato entro due giorni dalla notificazione dell’avviso, il Tribunale differisce la data dell’udienza da un minimo di cinque ad un massimo di dieci giorni se vi sono giustificati motivi”.
La previsione non sembra però applicabile al caso in esame: la richiesta di rinvio davanti al Tribunale per il Riesame proviene da soggetto che ha già subito una compressione della libertà personale, sicché l’accoglimento della sua istanza di rinvio non avviene a detrimento delle esigenze cautelari, poiché il periculum libertatis è stato eliso dall’applicazione della misura in atti.
Nel caso in esame, invece, il differimento avverrebbe a detrimento (potenzialmente) delle esigenze cautelari.
Ne consegue che, anche in questo caso, il Giudice dovrà valutare l’istanza con particolare rigore.
[1] Per un commento relativo alla prima fase della reazione, quella dello sgomento iniziale, ci si permette di rinviare a C.DE ROBBIO, “D.D.L. Nordio: l’interrogatorio prima della misura cautelare e l’elefante nella stanza”, in questa rivista, 25 giugno 2024.
[2] L. LUDOVICI, Le novità della legge Nordio in materia cautelare: i contenuti, i problemi, le (possibili) soluzioni, in Dir. Pen. E Processo, 2024, 9, 1139.
[3] Articolo 291, comma 1 sexies c.p.p.: “L’invito a presentarsi per rendere l’interrogatorio è comunicato al pubblico ministero e notificato alla persona sottoposta alle indagini preliminari e al suo difensore almeno cinque giorni prima di quello fissato per la comparizione, salvo che, per ragioni di urgenza, il giudice ritenga di abbreviare il termine, purché sia lasciato il tempo necessario per comparire”.
[4] “Il giudice provvede comunque sulla richiesta del pubblico ministero quando la persona sottoposta alle indagini preliminari non compare senza addurre un legittimo impedimento, oppure quando la persona sottoposta alle indagini preliminari non è stata rintracciata e il giudice ritiene le ricerche esaurienti, anche con riferimento ai luoghi di cui all’articolo 159, comma 1”.
Bobby McGee e me
Ricordo di Kris Kristofferson
Mickey Raphael e il chitarrista Merle Haggard accordavano gli strumenti.
Insieme a Jody Payne erano “The Family”, la band di Willie Nelson; e ora erano diventati la band degli Highwaymen.
Mentre sorseggiava il caffè in attesa del concerto, pensò che l’armonica di Mickey Raphael era la più dolce e serena che avesse mai sentito.
Ascoltarla gli ricordava quando, dopo l’uscita di John Wesley Harding, avevano suonato insieme I’ll Be Your, Baby Tonight, il primo vero pezzo country di Bob Dylan.
Era una canzone calda che assomigliava alla sua Help Me Make It Through The Night.
Come questa, parlava di una notte d’amore, invocata come una richiesta d’aiuto e immaginata così intensa da dover essere vissuta senza poter essere rimpianta.
Ma, a ben vedere, tutte le sue canzoni invocavano amore; un amore esaudente, più compassionevole che empatico, come Come Here Comes That Rainbow Again, dove la luce del giorno, resa pesante dal temporale, si colora dell’arcobaleno quando l’umanità esaudisce il desiderio di due bambini.
Come For The Good Times, ove si implora all’amore di essere allegro oltre la crisi, abbandonandosi sul cuscino dell’altro, nel sussurro delle gocce di pioggia sulla finestra, senza dire una parola sul domani o per sempre, in nome dei bei tempi.
I bei tempi erano quelli in cui la libertà era solo una parola per dire che non hai niente da perdere.
Avevano viaggiato dalle miniere del Kentucky al sole della California e lei indossava jeans sbiaditi e una bandana sgualcita; una volta, a Baton Rouge, la macchina si era rotta e lui, prima che iniziasse a piovere, aveva rimediato un passaggio fino a New Orleans; durante il tragitto, avevano suonato blues e lei, soffiando sull’armonica, aveva liberato i capelli al vento del Mississippi, rossi e sontuosi come le foglie dei faggi in autunno.
Ci pensava ancora alla ragazza rossa di Houston, una delle voci più belle che avesse mai sentito. Erano ragazzi e avevano condiviso i segreti delle anime; ma lei aveva voluto scambiare tutti i suoi domani per un solo ieri nella stanza fredda di un Hotel, mentre lui, sospinto dal dolore, aveva percorso una nuova strada, sempre ascoltando la stessa canzone.
Su quella strada una volta gli era capitato di baciare la più bella ragazza di Brooklyn. La ragazza che portava il nome di una poesia di Jacques Prévert: quella della pioggia incessante su Brest e di lui che parte per la guerra. Una poesia che invocava l’amore e biasimava la guerra, come le sue canzoni.
Poi aveva cavalcato con James Coburn nella Contea di Lincoln e insieme al menestrello di Duluth aveva bussato alle porte del Paradiso.
Le canzoni di Bob Dylan gli piacevano da sempre, ma non era vero che fosse stato lui a togliere l’ascia dalle mani di Pete Seeger quel 25 luglio 1965 a Newport.
Il 16 ottobre 1992, invece, era stato proprio lui ad accompagnare sul palco del Madison Square Garden lo Zio Bobby del trentennale, prima di una cavernosa Song To Woody e delle lacrime di Sinead O’Connor, che aveva asciugato con un abbraccio e un fazzoletto bianco della sua città, creando il mistero di Brownsville Girl e dei segreti che si sarebbe portato sino a Maoui, proprio mentre Lou Reed attaccava Foot Of Pride.
L’uomo del back stage gli portò un altro caffè.
Dopo essersi bagnato le labbra, prese la chitarra: gli Highwaymen stavano arrivando.
«Con che cominciamo?» Sussurrò Willie Nelson a Johnny Cash.
«Sunday Morning Comin’ Down», rispose Johnny.
Salendo sul palco, Bobby McGee rise: anche questa era una sua canzone; anche questa una invocazione d’amore.
Come il suono della domenica mattina, che incombe sui marciapiedi della città che dorme.
Immagine: photo of Kris Kristofferson, Michael Ochs Archives/Getty Images.
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