ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La CEDU e i limiti alle intercettazioni dirette nei confronti di giornalisti (a proposito di Corte edu, 1 aprile 2021, Sedletska contro Ucraina)
di Marina Castellaneta
Sommario: 1. Premessa – 2. La ricostruzione della vicenda all’origine della sentenza Sedletska contro Ucraina - 3. Il giusto bilanciamento tra i diritti in gioco - 4. L’eccezionalità di intercettazioni dirette a danno di giornalisti: bisogni sociali imperativi e onere della prova.
1. Premessa
Se sul piano nazionale, in diversi Stati, anche europei, sono in atto limitazioni alla libertà di stampa, con mezzi diretti e indiretti, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo arriva una sentenza che, almeno in via generale, “blinda” il diritto del giornalista a beneficiare della confidenzialità delle fonti[1]. In realtà, per Strasburgo non si tratta di un privilegio, ma di un elemento indispensabile per assicurare effettività al diritto alla libertà di stampa, da maneggiare con cura perché ogni restrizione, anche quando funzionale a garantire il segreto di Stato, può compromettere la democraticità di un Paese. Ultima in ordine di tempo è la sentenza Sedletska contro Ucraina (ricorso n. 42634/18), depositata il 1° aprile 2021. Strasburgo ha dato torto allo Stato in causa accogliendo il ricorso di una giornalista, molto nota in patria, che era stata vittima di un provvedimento delle autorità giudiziarie nazionali con il quale era stato disposto l’accesso ai suoi tabulati telefonici. Tra i principi affermati dalla Corte, l’obbligo per gli Stati, in base all’articolo 10 della Convenzione, di garantire la protezione delle fonti dei giornalisti in quanto “chiave di volta della libertà di stampa” che permette l’accesso a notizie riservate di interesse pubblico che la collettività ha bisogno di conoscere. Se la segretezza delle fonti non fosse assicurata, almeno in via generale, alcune persone potrebbero non rivelare notizie scottanti, con la conseguenza che al giornalista arriverebbero unicamente notizie ufficiali o che lo stesso giornalista potrebbe decidere di non pubblicarle, per timore di conseguenze penali, con effetti negativi sul tasso di democrazia di un Paese e sul ruolo di “public watchdog” dei reporter. Va ricordato, tra l’altro, che sono in aumento le segnalazioni alla Piattaforma per la protezione del giornalismo e la sicurezza dei giornalisti, istituita dal Consiglio d’Europa, proprio per l’ingerenza nel diritto dei giornalisti alla confidenzialità delle fonti, con casi che hanno riguardato anche l’Italia[2].
2. La ricostruzione della vicenda all’origine della sentenza Sedletska contro Ucraina
La vicenda al centro della nuova pronuncia della Corte di Strasburgo riguardava l’accesso ai dati telefonici di una giornalista di “Radio Free Europe”, con sede a Kiev, che curava, dal 2014, un programma televisivo sulla corruzione. L’Autorità nazionale anticorruzione aveva avviato un procedimento nei confronti di un procuratore, disponendo l’intercettazione dei dispositivi di telefonia, con ciò captando anche le conversazioni private con la partner dell’uomo intercettato. Un sito web aveva pubblicato un articolo nel quale affermava che il capo dell’Autorità anticorruzione aveva tenuto un incontro con alcuni giornalisti, svelando informazioni riservate sulle indagini e, probabilmente, permettendo ai rappresentanti dei media di ascoltare alcune registrazioni tra il procuratore e la sua compagna, che includevano questioni relative alla vita privata della coppia. La donna aveva presentato una denuncia ed era stata avviata un’indagine durante la quale era stato disposto anche l’accesso ai tabulati telefonici della cronista ucraina ricorrente. La Corte distrettuale aveva autorizzato le intercettazioni per 16 mesi nei confronti di alcuni giornalisti e attivisti dei diritti umani. Sul piano interno, malgrado la giornalista avesse cercato di fare cessare le intercettazioni, queste erano state confermate, seppure limitate, in appello, a determinati luoghi e, successivamente l’autorizzazione era stata circoscritta alla geolocalizzazione. Così, la giornalista si è rivolta a Strasburgo che, per la prima volta, ha anche adottato, con decisione del 18 settembre 2018, misure provvisorie – in genere riservate ai casi di estradizione verso Paesi in cui c’è il rischio di pena di morte o di trattamenti disumani o degradanti - chiedendo al Governo ucraino di fermare le intercettazioni fino alla decisione sul merito, arrivata con la sentenza del 1° aprile con la quale è stato accolto il ricorso della giornalista. Va sottolineato che l’accoglimento della richiesta di misure provvisorie quali lo stop alle intercettazioni è una prima assoluta in questo campo e potrebbe aprire la strada a una simile richiesta anche in altre occasioni.
3. Il giusto bilanciamento tra i diritti in gioco
Prima di passare ad esaminare il nuovo apporto della Corte europea alla tutela della segretezza delle fonti che - conviene sottolinearlo - riguardava un caso di intercettazione diretta della giornalista, va ricordato che l’articolo 10 della Convenzione europea riconosce “la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera”, non prevedendo espressamente il diritto di cercare informazioni incluso invece nell’articolo 19 del Patto sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966 in base al quale “ogni individuo ha il diritto alla liberà di espressione; tale diritto comprende la libertà di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere”. La mancata previsione del diritto di cercare informazioni, che è alla base di quello a non svelare le fonti, avrebbe potuto fare pensare a una lacuna del sistema convenzionale e a una diminuzione della tutela della libertà di espressione. Tuttavia, sul punto è venuta in soccorso la Corte europea stabilendo che l’art. 10 include il diritto di cercare informazioni, che costituisce una fase essenziale per la successiva divulgazione. Correttamente, la Corte ha accantonato un’interpretazione letterale a vantaggio di una lettura dell’articolo 10 volta a garantire l’effettiva realizzazione del diritto attivo di informare e passivo di ricevere le informazioni. È opportuno ricordare il leading case a cui è collegato il diritto alla segretezza delle fonti rappresentato dalla sentenza Goodwin contro Regno Unito del 27 marzo 1996 (ricorso n. 17488/90). In quell’occasione, Strasburgo ha stabilito che vanno garantiti alcuni “privilegi” ai giornalisti che, divulgando notizie di interesse generale, spesso scottanti, svolgono il ruolo di watchdog che è centrale per la democrazia, a sua volta essenziale per l’effettiva realizzazione di ogni diritto convenzionale. È evidente che il diritto di informare presuppone quello di cercare informazioni per lo più da fonti non ufficiali che possono condizionare la comunicazione al giornalista alla garanzia di anonimato. In caso contrario, non solo il giornalista non potrebbe svolgere la sua attività, ma la collettività non sarebbe informata su questioni di interesse generale. Pertanto, per la Corte, la protezione delle fonti giornalistiche ha un’importanza capitale per l’esercizio effettivo della libertà di espressione. Si può pensare, a tal proposito, ai casi in cui un giornalista riceva informazioni sulla corruzione di uomini politici da fonti che vogliono mantenere l’anonimato: se le divulgasse, senza la possibilità di avvalersi del diritto di non svelare la fonte, correrebbe il rischio di gravi conseguenze sulla sua attività, che potrebbero spingerlo a non rivelare fatti danneggiando l’intera collettività. La tutela della confidenzialità delle fonti è stata poi confermata in numerose sentenze e ha incluso sia le ingerenze dirette (come ad esempio la richiesta del nome della fonte al giornalista) sia ingerenze indirette come il sequestro di dispositivi elettronici o documenti.
Per citare solo le più importanti, basti ricordare la pronuncia del 22 novembre 2007, Voskuil contro Paesi Bassi, ricorso n. 64752/01, con la quale la Corte europea ha ritenuto che fosse stato violato il diritto del ricorrente alla libertà d’informazione garantito dall’art. 10, in quanto il giornalista era stato arrestato per essersi rifiutato di svelare la fonte – che serviva agli inquirenti per individuare gli autori di un grave reato - all’origine di un articolo riguardante un’inchiesta sul traffico d’armi. Già in quell’occasione, la Corte ha precisato che non hanno rilievo le modalità con le quali la fonte abbia ottenuto le informazioni, non chiedendo così al giornalista di distinguere nell’acquisizione delle notizie (si vedano anche le sentenze Financial Times Ltd e altri contro Regno Unito, del 15 dicembre 2009, ricorso n. 821/03; Sanoma Uitgevers B.V. contro Paesi Bassi, del 14 settembre 2010 ricorso n. 38224/03; Görmüs e altri contro Turchia, del 19 gennaio 2016, ricorso n. 49085/07; Becker contro Norvegia, del 5 ottobre 2017, ricorso n. 21272/12). Non manca poi una pronuncia della Grande Camera come la sentenza del 14 settembre 2010, nel caso Sanoma Uitgevers B.V. contro Paesi Bassi, ricorso n. 38224/03[3].
Ricostruendo in breve gli approdi della Corte europea, si può sottolineare che Strasburgo considera come regola generale la protezione delle fonti del giornalista sia da ingerenze dirette – come nei casi di interrogatorio o di intercettazioni delle utenze – sia indirette, attraverso il sequestro di materiale e documentazione in possesso del giornalista, inclusi i dispositivi informatici (si veda il caso Tillack contro Belgio, sentenza del 27 novembre 2007, ricorso n. 20477/05). La Corte ha affermato il carattere eccezionale degli interventi delle autorità giudiziarie volte a ottenere informazioni sull’identità delle fonti, con il riconoscimento di un privilegio che non può essere diminuito solo perché il giornalista ricorre a stratagemmi per ottenere notizie di interesse collettivo. Così, con la sentenza del 12 aprile 2012 nel caso Martin e altri contro Francia (ricorso n. 30002/08), la Corte europea ha stabilito che la protezione delle fonti “è una delle pietre angolari della libertà di stampa” in quanto l’assenza di protezione “potrebbe dissuadere le fonti dei giornalisti dall’aiutare la stampa a informare il pubblico su questioni di interesse generale”. Anche la protezione delle fonti ha così, nella visione della Corte, un duplice rilievo: per il giornalista che svolge la sua funzione e per la collettività che viene a conoscenza di informazioni di interesse generale.
4. Intercettazione diretta dei giornalisti ed onere della prova sulle autorità nazionali
Resta da chiedersi cosa ha aggiunto la Corte nella pronuncia del 1° aprile 2021, nella quale, accertata l’esistenza di un’ingerenza, prevista dalla legge e dallo stesso articolo 10 poiché funzionale a un fine legittimo come la prevenzione di un reato e la tutela della reputazione altrui, ha rilevato che la misura non era necessaria in una società democratica. La Corte, da un lato, non fa che confermare i precedenti approdi rilevando che la protezione delle fonti riveste un’importanza fondamentale e che eventuali limitazioni devono essere trattate con la massima attenzione e ammesse solo in presenza di un bisogno sociale imperativo. Per la Corte, infatti, il diritto del giornalista a non rivelare le fonti e a godere della loro segretezza “non può essere considerato come un mero privilegio da concedere o togliere sulla base della legittimità o illegittimità delle fonti, ma esso è una parte e un segmento del diritto ad informare, da trattare con la massima attenzione”. La Corte, dall’altro lato, aggiunge un ulteriore elemento che va a rafforzare la tutela delle fonti perché sottolinea che non è il raggiungimento del risultato voluto dalle autorità inquirenti ad essere in contrasto con la Convenzione, ma proprio lo strumento perché, anche nei casi in cui le autorità non arrivino a individuare la fonte, l’accesso a materiale essenziale per il giornalista comporta una violazione del diritto alla libertà di stampa. Spetta poi alle autorità nazionali dimostrare la proporzionalità della misura. E su questo punto ci sembra che la Corte abbia tenuto a sottolineare il rilievo dell’onere della prova che grava sulle autorità nazionali che intervengono incidendo sulla protezione delle fonti. Così, la Corte ha evidenziato che i rischi si verificano quando sono disposti controlli sulle utenze telefoniche dirette del giornalista perché gli inquirenti potrebbero individuare numerose fonti, non solo quelle necessarie a un particolare caso. E’ posto, così, un freno quasi generale nell’utilizzo di misure, come le intercettazioni, che non permettono di delimitare a una singola fattispecie rilevante l’acquisizione di dati, fornendo uno scudo alle ingerenze di questo tipo. In questo modo si concretizza una forte presunzione verso la protezione delle fonti dei giornalisti e la necessità che limiti a detta protezione possano essere ammissibili solo tenendo conto del fine delle misure ossia l’esistenza di un bisogno sociale imperativo accompagnato da misure di salvaguardia per limitare all’essenziale l’ingerenza ed evitare che le informazioni attinte dall’utenza del giornalista finiscano nelle mani di più persone.
C’è in ultimo da chiedersi se una differenza possa essere fatta tra ingerenze dirette sul giornalista o che si realizzino in via indiretta, ad esempio intercettando altri. A nostro avviso, va tenuto conto che la limitazione alla libertà di stampa, con mezzi diretti o indiretti, è un’eccezione da interpretare sempre in modo restrittivo. Se, però, nel caso dell’intercettazione diretta la presunzione sulla classificazione di tale misura come limitazione della libertà di stampa è quasi assoluta, nei casi di intercettazione di altri rimane un maggiore margine di intervento degli Stati, fermo restando l’onere della prova su dette autorità. Questo si desume, a nostro avviso, dalla sentenza Big Brothers Watch e altri contro il Regno Unito depositata il 13 settembre 2018, ricorso n. 58170/13 e altri (oggi dinanzi alla Grande Camera) nella quale la Corte ha rilevato che la serietà dell’ingerenza va valutata tenendo conto della circostanza che l’intercettazione abbia riguardato direttamente il cronista o piuttosto terzi. In questi casi, la serietà dell’ingerenza diminuisce, ma gli Stati devono comunque adottare misure per impedire che le fonti dei giornalisti siano divulgate, con la conseguenza che, seppure implicitamente, la Corte chiede sempre alle autorità nazionali la previsione di misure per tutelare i giornalisti nell’esercizio delle proprie attività. In questa direzione ci sembra vada anche la decisione del 29 giugno 2006, Weber e Saravia contro Germania, ricorso n. 54934/00, nella quale, con riguardo a un sistema di monitoraggio non rivolto a una specifica persona, la Corte ha sottolineato che nel caso in esame “Surveillance measures were, in particular, not directed at uncovering journalistic sources” e, quindi, “The interference with freedom of expression by means of strategic monitoring cannot, therefore, be characterised as particularly serious”.
Invece, nella sentenza del 1° aprile 2021, a fronte di un’intercettazione diretta e prolungata di una giornalista, la Corte ha concluso che la misura era sproporzionata rispetto al fine perseguito - che era quello di individuare l’autore della fuga di notizie su un caso di corruzione - e che i giudici ucraini non hanno utilizzato i parametri di Strasburgo, non dimostrando in che modo la geolocalizzazione servisse a combattere gravi crimini e neppure fornendo elementi per provare di aver fatto ricorso ad altri mezzi meno invasivi. Un punto così ci sembra consolidato anche guardando alla sentenza del 6 ottobre 2020 nella causa Jecker contro Svizzera (ricorso n. 35449/14): la sola circostanza che l’ordine di divulgazione della fonte serva per individuare l’autore del reato non può giustificare la mancata protezione delle fonti[4].
Pertanto, per Strasburgo, le autorizzazioni alle intercettazioni del telefono della giornalista e l’acquisizione dei tabulati telefonici sono state gravemente lesive della libertà di stampa e misure ampliamente sproporzionate. Accertata la violazione dell’articolo 10, la Corte ha anche condannato lo Stato in causa a pagare 4.500 euro per i danni non patrimoniali subiti dalla giornalista e 2.350 euro per le spese processuali.
[1] Cfr. M. Castellaneta, Segretezza delle fonti giornalistiche nel quadro della CEDU. Una nuova pronuncia della Corte di Strasburgo, in questa Rivista, 2020, https://www.giustiziainsieme.it/it/europa-e-corti-internazionali/1367-articolo-ceduarticolo-cedu; D. Banisar, Silencing Sources: an International Survey of Protections and Threats to Journalists’ Sources, reperibile nel sito http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1706688; G.E. Vigevani, La libertà di manifestazione del pensiero, in G.E. Vigevani - O. Pollicino - C. Melzi d’Eril - M. Cuniberti - M. Bassini (a cura di), Diritto dell’informazione e dei media, Torino, 2019, p. 3 ss.; Id., L’informazione e i suoi limiti: il diritto di cronaca, ivi, p. 25 ss.; R. Chenal, Il rapporto tra processo penale e media nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Diritto penale contemporaneo, 2017, n. 3, p. 37 ss., reperibile nel sito http:///www.penalecontemporaneo.it; M. Oetheimer, A. Cardone, Articolo 10, in Commentario breve alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole, P. De Sena, V. Zagrebelsky, Padova, 2012, p. 397 ss.; G. Resta, La giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla libertà d’informazione e la sua rilevanza per il diritto interno: il caso dei processi mediatici, in Dir. inf. e inf., 2012, p. 163 ss.; Id., Trial by Media as a Legal Problem, Napoli, 2009; M. Lemonde, Justice and the media, in European Criminal Procedures, a cura di M. Delmas-Marty, J.R. Spencer, Cambridge, 2002, p. 688 ss.
[2] Nel sito è riportata anche la segnalazione sulle intercettazioni disposte nel corso di un’indagine della Procura di Trapani sul ruolo di alcune organizzazioni non governative nel traffico di migranti. Seppure non in via diretta, stando a quella che risulta fino ad oggi, l’intercettazione di alcuni attivisti ha portato anche alla trascrizione di comunicazioni con i giornalisti. Si veda l’alert presente nella piattaforma https://www.coe.int/en/web/media-freedom/.
[3] Per un esame delle sentenze della Corte di Strasburgo rinviamo a M. Castellaneta, La libertà di stampa nel diritto internazionale ed europeo, Bari, 2012.
[4] V. M. Castellaneta, Segretezza delle fonti giornalistiche nel quadro della CEDU. Una nuova pronuncia della Corte di Strasburgo, in questa Rivista, 2020, https://www.giustiziainsieme.it/it/europa-e-corti-internazionali/1367-articolo-ceduarticolo-cedu.
Patrick George Zaki, l’Egitto e noi
di Aldo Schiavello
Sommario: 1. “Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti” - 2. L’età dei diritti - 3. La crisi dell’età dei diritti.
1. “Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti”
La vicenda è nota[1]. Il 7 febbraio 2020 Patrick George Zaki, studente di un master internazionale in studi di genere e diritti umani presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna nonché attivista presso la ong Egyptian Initiative for Personal Rights (EIPR), è arrestato all’aeroporto del Cairo, dove era atterrato per una breve vacanza in Egitto, e viene sottoposto a detenzione preventiva su richiesta dei pubblici ministeri del tribunale di Mansoura, sua città natale. L’accusa è di istigazione a proteste e propaganda di terrorismo attraverso la pubblicazione sui social network di notizie false finalizzate a turbare la pace sociale e a rovesciare il regime egiziano. Anche l’ultima udienza per decidere sulla scarcerazione dello studente bolognese, il 28 febbraio scorso, ha dato esito negativo, nonostante l’attesa e le pressioni del mondo occidentale e, in primo luogo, dell’Italia.
Il caso Zaki non è diverso da numerosi altri casi di grave violazione dei diritti umani in Egitto. A differenza della maggioranza di tali casi, la vicenda Zaki si caratterizza per l’attenzione, sia istituzionale sia mediatica, del mondo occidentale. Le università italiane, a partire da una mozione dell’università di Bologna, hanno sottoscritto un appello di preoccupazione per la vicenda di Zaki all’indomani del suo arresto; un appello di Amnesty International che chiede la liberazione immediata dello studente egiziano è al momento stato sottoscritto da più di centocinquantamila persone; il senato accademico dell’Università di Palermo, di cui faccio parte, ha deliberato di attribuire a Patrick Zaki e alla memoria di Giulio Regeni il titolo di benemerito della nostra università; al fine di mantenere alta l’attenzione sul caso, numerose trasmissioni televisive italiane hanno sostituito gli spettatori, la cui presenza è inibita dalla pandemia in corso, con sagome di Patrick Zaki; i servizi e le inchieste giornalistiche e televisive sul caso Zaki non si contano; le città italiane sono invase da cartelloni stradali che invocano la liberazione di Patrick Zaki; la street artist Laika ha presentato – prima a Roma, vicino all’ambasciata egiziana e, poi, a Bologna, vicino al Rettorato dell’Università – un’opera toccante in cui Giulio Regeni abbraccia Patrick Zaki rassicurandolo che nel suo caso andrà tutto bene, e si potrebbe continuare a lungo. Che tutto questo favorisca la scarcerazione di Zaki è discutibile. Basti pensare che il 3 dicembre scorso tutti i dirigenti dell’Eipr sono stati liberati mentre Zaki continua a essere ristretto in carcere. Ciononostante, ritengo che, quando sono in ballo violazioni così gravi di diritti, non sia moralmente lecito tacere nemmeno per ragioni tattiche o di opportunità. Si tratta di casi in cui bisogna farsi guidare dall’etica dei principi e non dall’etica della responsabilità, per usare le categorie di Max Weber.
L’indignazione per la continua violazione dei diritti umani perpetrata dal regime egiziano di Abdel Fatah al-Sisi è pienamente giustificata. Al riguardo, si suggerisce la lettura del Report sull’Egitto di Amnesty International, pubblicato nel 2019, con l’emblematico titolo Permanent State of Exception. Abuses by the Supreme State Security Prosecution. L’esergo del rapporto riproduce una frase pronunciata da al-Sisi a seguito dell’uccisione di Hisham Barakat, procuratore che, dopo la caduta a seguito di un colpo di stato militare del Presidente Mohamed Morsi nel 2013, ha perseguito numerosi islamisti: «The hand of prompt justice is shakled by laws»[2]. Proprio per evitare che le garanzie processuali e il rispetto dei diritti umani potessero rallentare il perseguimento dei crimini perpetrati da terroristi sono stati ampliati a dismisura i poteri della Supreme State Security Prosecution (SSSP) sino a trasformarla, questa è l’accusa principale di Amnesty International, in un modo per reprimere qualsivoglia opposizione al regime di al-Sisi. I centotrentotto casi approfonditi nel rapporto lasciano poco adito a dubbi e la raccomandazione di Amnesty International alla comunità internazionale di fare tutto il possibile affinché tale stato di eccezione permanente venga sostituito da un ritorno alla legalità e dal rispetto dei diritti umani è ineccepibile. Insomma, l’Egitto attuale è senz’altro uno di quegli stati che John Rawls definisce fuorilegge[3]; tali stati rappresentano una minaccia per i popoli liberali e decenti e, proprio per questo, non dovrebbero essere tollerati da questi ultimi.
È invece sul comportamento degli stati “decenti” che è opportuno fare qualche considerazione. Si può davvero dire che le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate in Egitto siano state prese sul serio e combattute con intransigenza dai paesi che dovrebbero avere a cuore i diritti umani? La risposta a tale domanda è purtroppo negativa. Le azioni ufficiali intraprese nei confronti dell’Egitto non sono andate oltre la petitio principii e l’esortazione a rispettare i diritti umani.
La Risoluzione del parlamento europeo del 18 dicembre 2020, dopo aver posto l’accento sulle gravi violazioni dei diritti umani in Egitto, ribadisce: a) l’esigenza che la cooperazione nei settori dell’emigrazione e del terrorismo non dovrebbe comportare un affievolimento delle pressioni per il rispetto dei diritti umani e la rendicontabilità per le violazioni dei diritti umani; b) l’invito agli stati membri a sospendere le licenze di esportazione in Egitto di qualsiasi attrezzatura che possa essere utilizzata a fini di repressione interna nonché a sospendere tutte le esportazioni verso l’Egitto di armi, tecnologie di sorveglianza e altre attrezzature in grado di facilitare gli attacchi contro i difensori dei diritti umani; c) l’invito all’Unione europea di dare piena attuazione ai controlli sulle esportazioni in Egitto di beni che potrebbero essere utilizzati a fini repressivi o per infligger torture o la pena capitale.
Il 25 gennaio 2021 il Consiglio degli affari esteri dell’UE si è anche occupato brevemente del caso Regeni e, in generale, della situazione dei diritti umani in Egitto, esortando il paese africano a cooperare con l’Italia affinché venga fatta giustizia.
Il 12 Marzo 2021 il Comitato dei diritti umani dell’Onu ha approvato una Dichiarazione congiunta sottoscritta da 31 paesi, tra i quali l’Italia, in cui si si stigmatizzano per l’ennesima volta le gravi violazioni dei diritti umani in Egitto e si esortano le autorità di questo paese a cooperare con il Comitato al fine di migliorare la situazione egiziana in relazione alla tutela dei diritti umani.
A fronte di queste pur flebili prese di posizione, il 7 dicembre 2020 il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron ha conferito ad al-Sisi la gran Croce della Legion d’onore, la massima onorificenza della Repubblica. Alle critiche veementi che sono seguite a questa decisione, Macron ha replicato laconicamente: «È più efficace avere una politica di dialogo esigente anziché un boicottaggio che ridurrebbe solo l’efficacia di uno dei nostri partner nella lotta al terrorismo»[4]. La Realpolitik prima di tutto! Un comportamento non dissimile peraltro da quello tenuto dal governo italiano presieduto da Paolo Gentiloni che nel 2017 ha stipulato un accordo con la Libia – il cosiddetto Memorandum di intesa tra Italia e Libia – attraverso il quale si è perseguito l’obiettivo di una drastica riduzione degli sbarchi di migranti in Italia al prezzo di chiudere entrambi gli occhi sulle gravi violazioni dei diritti delle persone migranti da parte della cosiddetta guardia costiera libica e nei centri di detenzione libici.
L’Italia, pur apparentemente in prima fila per la tutela dei diritti in Egitto a causa dei casi di Giulio Regeni e Patrick Zaki, è tra i principali esportatore di armamenti in Egitto. E questo nonostante non manchino leggi e direttive che vietino l’esportazione di armamenti verso paesi i cui governi siano responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in tema di diritti umani[5]. Inoltre, il nostro paese potrebbe compiere un passo concreto rispetto al caso Zaki attribuendo a quest’ultimo la cittadinanza italiana. In questo modo, le richieste di scarcerazione provenienti dall’Italia acquisirebbero ben altra forza e non potrebbero essere rispedite al mittente da parte delle autorità egiziane con l’argomento – comunque pretestuoso – che Zaki è un cittadino egiziano e, dunque, la comunità internazionale non ha titolo per intromettersi nei fatti interni dell’Egitto. Benché la richiesta di conferire a Zaki la cittadinanza italiana sia pervenuta da più parti, anche attraverso una mozione bipartisan presentata in Senato, è purtroppo facile prevedere che essa resterà lettera morta.
Volendo tirare le somme, il caso Zaki ci interroga più su noi stessi che sull’Egitto. Possiamo ancora dire che la cultura dei diritti umani – per usare l’espressione del filosofo argentino Eduardo Rabossi – sia ancora egemone nel nostro mondo? Rispondere a questa domanda non è semplice. In ogni caso, bisogna partire da una breve presentazione della cultura dei diritti che si è sviluppata nel mondo dopo il secondo dopoguerra.
2. L’età dei diritti
Per un lungo tratto della nostra storia recente la centralità dei diritti umani non può essere negata[6]. Non a caso Norberto Bobbio denomina l’epoca contemporanea l’età dei diritti. Egli spiega con chiarezza ciò che tale espressione connota: «dal punto di vista della filosofia della storia, l’attuale dibattito sempre più ampio, sempre più intenso, sui diritti dell’uomo, tanto ampio da aver ormai coinvolto tutti i popoli della terra, tanto intenso da essere messo all’ordine del giorno delle più autorevoli assise internazionali, può essere interpretato come un “segno premonitore” (signum prognosticum) del progresso morale dell’umanità»[7]. L’idea del “segno premonitore”, Bobbio la riprende espressamente da Immanuel Kant, che a sua volta individua nella Rivoluzione francese l’esperienza, l’evento, in grado di mostrare la disposizione e la capacità del genere umano «… a essere la causa del suo progresso verso il meglio e (poiché ciò dev’essere l’azione di un essere dotato di libertà) il suo autore»[8]. L’età dei diritti è l’esito di quella che Bobbio, sempre seguendo la lezione di Kant, definisce una rivoluzione copernicana che consiste nel considerare il rapporto tra governanti e governati non più dalla prospettiva dei primi ma da quella dei secondi, a partire dalla consapevolezza della priorità dell’individuo.
L’età dei diritti è dunque l’esito di una rivoluzione che parte dall’illuminismo, che ha messo al centro della riflessione politica l’individuo, non considerando più quest’ultimo come una mera parte del tutto rappresentato dalla società e dallo stato. Prendendo ancora in prestito le parole di Bobbio, si può esprimere questo concetto dicendo che “lo stato è fatto per l’individuo e non l’individuo per lo stato”. Una emblematica vignetta del 1950 raffigura i componenti della commissione dei diritti umani che redasse la Dichiarazione universale come scolari che ascoltano la maestra, Eleanor Roosevelt, nella realtà presidentessa della commissione, la quale, con la bacchetta in mano li indottrina: «allora, bambini, tutti insieme: “i diritti degli individui sono superiori ai diritti dello stato”».
Dell’illuminismo, l’età dei diritti incorpora anche la fiducia nella ragione ed enfatizza il ruolo di quest’ultima nella costruzione di una cosmopoli di individui che hanno diritto a pari dignità e rispetto.
Da un punto di vista storico, l’età dei diritti designa il periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale sino (quasi) ai giorni nostri. Essa intende marcare una radicale rottura rispetto ai totalitarismi e alle atrocità che hanno caratterizzato il periodo antecedente ed è espressione della fiducia dell’umanità nella possibilità di un reale progresso morale universale, che presuppone la condivisione di alcuni valori, il rispetto degli individui e dei loro diritti, il rifiuto della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie. La fiducia e la scommessa in un futuro migliore sono, senza dubbio, la cifra dell’età dei diritti.
Si può anche dire che l’età dei diritti è la risposta dell’umanità all’orrore della Shoah. Per usare le parole di Isaiah Berlin, ciò che caratterizza la prima metà del novecento è «la divisione dell’umanità in due gruppi – gli uomini propriamente detti e un qualche altro ordine di esseri di rango più basso, razze inferiori, culture inferiori, creature, nazioni o classi subumane, condannate dalla storia […] Questo nuovo atteggiamento permette agli uomini di guardare a molti milioni di loro simili come ad esseri non completamente umani, e di massacrarli senza scrupoli di coscienza, senza che avvertano il bisogno di salvarli o di metterli in guardia»[9].
Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo, pubblicato all’indomani della seconda guerra mondiale, individua il limite dei diritti umani, sino a quel momento, nel non garantire effettivamente tutti gli esseri umani ma solo i cittadini di uno stato sovrano. Scrive Arendt: «Anche i nazisti, nella loro opera di sterminio, hanno per prima cosa privato gli ebrei di ogni status giuridico, della cittadinanza di seconda classe, e li hanno isolati dal mondo dei vivi ammassandoli nei ghetti e nei Lager; e, prima di azionare le camere a gas, li hanno offerti al mondo constatando con soddisfazione che nessuno li voleva. In altre parole, è stata creata una condizione di completa assenza di diritti prima di calpestare il diritto alla vita»[10].
Significativo a questo proposito il racconto che Primo Levi fa del suo incontro ad Auschwitz con il dottor Pannwitz, capo del reparto di chimica. L’aspetto dell’incontro che più colpisce Levi è che non sembra un incontro tra esseri umani ma tra «… due esseri che abitano mezzi diversi» e che si scambiano sguardi «…come attraverso la parete di vetro di un acquario»[11]. Si può ricordare in relazione alla divisione dell’umanità in due parti anche il celebre dialogo tra la zia Sally e Huckleberry Finn[12]. Quest’ultimo, per trarsi d’impaccio, giustifica così il proprio ritardo: «non è stato perché ci siamo incagliati...quello ci ha fatto perdere poco tempo. È scoppiata la testa di un cilindro». La zia Sally, preoccupata, domanda: «Santo cielo! S’è fatto male qualcuno?». La risposta di Huck è perentoria: «Nossignora. È morto un negro». «Be’, è una fortuna, perché a volte la gente si ferisce», commenta sollevata la zia Sally.
I diritti umani, dunque, rappresentano un baluardo contro ciò che è insopportabilmente sbagliato o, ricorrendo ancora a Berlin, contro l’idiozia morale. Tutto questo può essere riassunto dicendo che i diritti umani tutelano la dignità di tutti gli esseri umani; impediscono che alcuni esseri umani possano guardarne altri come attraverso il vetro di un acquario. In definitiva, il progresso morale promesso dai diritti umani consiste nel rendere le nostre comunità sempre più inclusive.
L’ideologia dei diritti umani ha anche contribuito al passaggio dallo stato di diritto allo stato costituzionale. Se la “sovranità” è il segno distintivo dello stato moderno, la “crisi della sovranità” lo è dello stato contemporaneo. Negli stati costituzionali contemporanei la sovranità viene duplicemente limitata. All’interno, la potestas legibus soluta e superiorem non recognoscens degli stati è negata mediante «…l’invenzione […] della rigidità delle costituzioni quali norme superiori alle leggi ordinarie e [la] conseguente penetrazione nel diritto positivo, in aggiunta all’originaria razionalità puramente formale e procedurale, di una razionalità assiologica o sostanziale»[13].. All’esterno (cioè nei confronti degli altri stati), la fine della sovranità «è sanzionata […] dalla Carta dell’Onu varata a San Francisco il 26 giugno 1945 e poi dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite»[14].
Riguardo a quest’ultimo aspetto della limitazione della sovranità, mi limito qui ad alcuni brevissimi cenni esplicativi. Il fatto che ogni stato nazionale fosse titolare, prima del 1945, di una sovranità assoluta implicava che l’ordine giuridico mondiale si presentasse come uno stato di natura hobbesiano i cui soggetti, anziché gli individui, erano gli Stati. Come rileva Ferrajoli, infatti, l’attributo principale della sovranità esterna degli stati era lo ius ad bellum.
Questa situazione comincia a mutare nel 1945 quando viene varata la Carta dell’Onu la quale, nel preambolo e nei primi due articoli, introduce il divieto della guerra.
La sovranità esterna degli Stati nazionali viene ulteriormente limitata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, attraverso la quale i diritti umani vengono trasformati «…in limiti non più solo interni ma anche esterni alla potestà degli Stati»[15].
Non stupisce che Bobbio individui tre condizioni necessarie dell’età dei diritti: riconoscimento e protezione dei diritti dell’uomo, democrazia e pace. «[S]enza diritti dell’uomo riconosciuti ed effettivamente protetti», scrive Bobbio, «non c’è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti che sorgono tra individui, tra gruppi e tra quelle grandi collettività tradizionalmente indocili e tendenzialmente autocratiche che sono gli Stati, anche se sono democratiche coi propri cittadini»[16].
Quest’ultima osservazione di Bobbio fa comprendere con chiarezza come l’idea soggiacente alla cultura dei diritti sia l’indisponibilità a considerare questi ultimi come fini da perseguire tra gli altri fini. I diritti sono bilanciabili, sì, ma solo con altri diritti. Essi rappresentano la precondizione imprescindibile di un mondo che aspiri a che non si ripetano le tragedie della prima parte del secolo breve. Si può affermare che questa idea sia ancora in auge?
3. La crisi dell’età dei diritti
I diritti umani sono in crisi? Se si osserva la realtà da un certo angolo visuale e, aggiungerei, pervasi da uno stato d’animo incline all’ottimismo, la risposta non può che essere negativa. Amartya Sen ritiene che vi sia «…qualcosa di profondamente seducente nell’idea che ogni persona in ogni parte nel mondo, a prescindere dalla sua cittadinanza e dalla legislazione del suo paese, sia titolare di alcuni diritti fondamentali che gli altri devono rispettare»[17]. Stefano Rodotà, in uno dei suoi ultimi libri (il cui titolo, non a caso, riprende un’espressione di Arendt), osserva non senza soddisfazione: «Oggi assistiamo a pratiche comuni dei diritti. Le donne e gli uomini dei paesi dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente si mobilitano attraverso le reti sociali, occupano le piazze, si rivoltano proprio in nome di libertà e diritti, scardinano regimi politici oppressivi; lo studente iraniano o il monaco birmano, con il loro telefono cellulare, lanciano nell’universo di Internet le immagini della repressione di libere manifestazioni, anche rischiando feroci punizioni, i dissidenti cinesi, e non loro soltanto, chiedono l’anonimato in rete come garanzia della libertà politica; le donne africane sfidano le frustate in nome del diritto di decidere liberamente come vestirsi, i lavoratori asiatici rifiutano la logica patriarcale e gerarchica dell’organizzazione dell’impresa, rivendicano i diritti sindacali, scioperano; gli abitanti del pianeta Facebook si rivoltano quando si pretende di espropriarli del diritto di controllare i loro dati personali, luoghi in tutto il mondo vengono “occupati” per difendere i diritti sociali. E si potrebbe continuare»[18].
È innegabile che la rivendicazione di diritti soggettivi e, più in generale, l’uso massiccio del linguaggio dei diritti permeino il dibattito pubblico contemporaneo e la cultura giuridica. Questo lo abbiamo visto anche in relazione al caso Zaki: quanti appelli, quante iniziative in nome dei diritti umani! È anche del tutto evidente che il processo di costituzionalizzazione dei nostri ordinamenti giuridici sia compiuto. Le costituzioni, ed i diritti da esse riconosciuti, infatti, non rappresentano più soltanto – né principalmente – un argine all’esercizio discrezionale del potere (legislativo, in primo luogo); a seguito di un radicale mutamento di prospettiva, la funzione primaria del potere legislativo è divenuta quella di sviluppare i principi costituzionali. Ma questo è sufficiente a rassicurarci? Il fatto che i diritti vengano evocati ad ogni piè sospinto è una prova decisiva circa la buona salute del costituzionalismo?
Come si è detto (par. 2), un tassello cruciale dell’età dei diritti è la fiducia nel fatto che i diritti umani rappresentino una tappa importante del progresso morale dell’umanità. Non si tratta tuttavia di una fiducia ingenua, né della fiducia inerte di chi attende la manna dal cielo. E neanche della fiducia impaziente di chi vuole tutto e subito. Sempre Bobbio ci mette in guardia dai facili ottimismi: «la storia dei diritti dell’uomo, meglio non farsi illusioni, è quella dei tempi lunghi. Del resto, è sempre accaduto che mentre i profeti di sventure annunciano la sciagura che sta per avvenire e invitano a essere vigilanti, i profeti dei tempi felici guardano lontano»[19].
Casi come, tra gli altri, quelli di Giulio Regeni e Patrick Zaki minano la fiducia che caratterizza l’età dei diritti. Si deve ricordare, tuttavia, riprendendo le parole di Bobbio, che “la storia dei diritti umani è quella dei tempi lunghi”. Il monito di Bobbio ci aiuta a non cedere alla tentazione di decretare con troppa fretta e superficialità la fine dell’età dei diritti. Piuttosto, è il caso di domandarsi se il discorso dei diritti possegga o meno le risorse per superare gli ostacoli che incontra sul suo cammino recuperando così il proprio ruolo di signum prognosticum del progresso morale dell’umanità.
Pur non ambendo ad essere annoverato tra i “profeti di sventura”, temo che la forza propulsiva della cultura dei diritti sia agli sgoccioli; ormai, infatti, il linguaggio dei diritti è l’idioletto attraverso il quale avanzare pretese e rivendicazioni nell’arena pubblica se si desidera che le une e le altre abbiano delle chance di essere accolte. Non è forse troppo azzardato sostenere che l’uso retorico e spregiudicato del linguaggio dei diritti al fine di incrementare la forza delle proprie rivendicazioni politiche sia uno degli esiti pressoché inevitabili della costituzionalizzazione degli ordinamenti giuridici. È indicativo al riguardo che John Rawls, autore la cui influenza sul dibattito filosofico-politico contemporaneo difficilmente può essere sovrastimata, consideri la ragione pubblica – che non è altro che il “distillato” della cultura dei diritti – non come uno “sbarramento” ma, piuttosto, come un “linguaggio comune” o come un “traduttore” degli argomenti e delle ragioni che vengono presentati nel dibattito pubblico. La ragione pubblica richiede cioè che la discussione pubblica sugli elementi costituzionali essenziali e sulle questioni di giustizia fondamentale venga condotta entro i limiti della concezione politica della giustizia, ma non presuppone che vi sia un’unica concezione politica della giustizia condivisa da tutti.
La retorica dei diritti è particolarmente odiosa in relazione ai migranti che, oggi, presentano alcune analogie con gli ebrei nella Germania nazista. Osserva Gustavo Zagrebelsky che «le Convenzioni internazionali e, spesso, le Costituzioni nazionali non fanno differenze tra cittadini e stranieri, quando si tratta della protezione minima essenziale della dignità delle persone. Ma questa tutela, chiara dal punto di vista giuridico estratto, è oscura dal punto di vista della realtà concreta»[20].
È possibile che la situazione sia ancora peggiore di come la prospetti Zagrebelsky; almeno in alcuni casi, infatti, è già sul piano normativo che, a dispetto di un generico tributo al rispetto dei diritti fondamentali, si prevede in realtà una violazione degli stessi. Un rapporto di Amnesty International pubblicato qualche anno fa, ad esempio, denuncia in modo circostanziato numerosi casi di violazioni dei diritti dei migranti da parte delle forze dell’ordine all’interno degli hotspot, dove si identificano i migranti al momento del loro primo ingresso nel territorio europeo. Come era prevedibile, alla pubblicazione del rapporto hanno fatto seguito polemiche e smentite. La questione rilevante tuttavia è che la normativa europea sugli hotspot a fatica può essere ritenuta compatibile con la cultura dei diritti. Il Consiglio dell’UE individua una serie di pratiche per “costringere” i migranti a…cooperare (un bell’esempio di ossimoro!). Tra queste è previsto, in casi estremi, anche l’uso della forza, in misura del “minimo necessario” e nel rispetto della dignità e dell’integrità fisica del migrante. Ora, nonostante questi caveat, quasi delle formule di stile, è evidente che l’assenza di norme che disciplinino in modo dettagliato e pignolo i limiti all’uso della forza negli hotspot, apra le porte all’arbitrio e sia potenzialmente criminogena e contraria alla cultura dei diritti, assimilando il migrante ad un potenziale nemico. È significativo che, come sottolinea uno studio, il termine hotspot sia utilizzato, in tempi di guerra, per indicare le zone in cui sono attivi i combattimenti, nonché, in tempi di pace, le zone di guerriglia urbana[21].
Il passaggio ulteriore, che il caso Zaki, tra gli altri, mostra non essere così impensabile, consiste nel rinunciare anche a tributare un rispetto formale e di facciata ai diritti umani, considerando questi ultimi sacrificabili anche per esigenze di Realpolitik[22]. Si tratta di un passaggio senza ritorno rispetto al quale è opportuno opporre tutta la resistenza possibile.
Riferimenti bibliografici
Rapporto annuale amnesty international italia 2017. Come le politiche dell’unione europea portano a violazioni dei diritti di rifugiati e migranti.
Amnesty International Report 2019. Permanent State of Exception. Abuses by the Supreme State Security Prosecution.
Arendt H. 2009, Le origini del totalitarismo (1951), Torino, Einaudi.
Belardelli G. 2020. Ma per Macron al-Sisi è degno della Legion d’onore, in “Huffington Post”, 10/12/2020.
Berlin I. 1990. Il legno storto dell'umanità. Capitoli di storia delle idee, Adelphi, Milano.
Bobbio N. 1992. L’età dei diritti, Einaudi, Torino.
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Di Meo R. 2020. Il caso Zaki e i diritti umani in Egitto, in “Opinio Juris”, https://www.opiniojuris.it/il-caso-zaky-e-i-diritti-umani-in-egitto/
Ferrajoli L. 1997. La sovranità nel mondo moderno, Laterza, Roma-Bari.
Kant I. 1965. Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio (1798), in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino.
Levi P. 1992. Se questo è un uomo (1958), Einaudi, Torino.
Liverani L. 2021. Caso Regeni. Le Ong a Di Maio: l’Italia può bloccare le armi all’Egitto da tutta l’Europa, in “Avvenire”, 25/01/2021.
Neocleous M. & Kastrinou M. 2016. The EU hotspot. Police war against the migrant, in «Radical Philosophy 200», 2016, pp. 3-9.
Rawls J. 2001. Il diritto dei popoli (1999), Comunità, Milano.
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Schiavello A. 2016. Ripensare l’età dei diritti, Mucchi, Modena.
Sen A. 2004. Elements of a Theory of Human Rights, in “Philosophy & Public Affairs”, 32, n. 4, pp. 315-356.
Twain M. 2007. Le avventure di Huckleberry Finn (1884), Rizzoli, milano.
Zagrebelsky G. 2017. Diritti per forza, Einaudi, Torino, p. 86.
[1] Per una ricostruzione più articolata, si rinvia a Di Meo 2020.
[2] «La mano di una giustizia immediata è incatenata dalle leggi» (trad. mia).
[3] Cfr. Rawls 2001.
[4] Belardelli 2020.
[5] Cornet 2020 e Liverani 2021.
[6] Per una analisi più articolata delle questioni brevemente presentate in questo paragrafo mi permetto di rinviare a Schiavello 2016.
[7] Bobbio 1992, p. 49.
[8] Kant 1965, p. 218.
[9] Berlin 1990, p. 253.
[10] Arendt 2009, p. 409, corsivo aggiunto
[11] Levi 1992, p. 95.
[12] Twain 2007, p. 277.
[13] Ferrajoli 1997, p. 33.
[14] Ferrajoli 1997, p. 39.
[15] Ferrajoli 1997, p. 40.
[16] Bobbio 1992, p. 258-259.
[17] Sen 2004, p. 315.
[18] Rodotà 2012, p. 5.
[19] Bobbio 1992, p. 269.
[20] Zagrebelsky 2017, p. 86.
[21] Neocleous & Kastrinou 2016,.
[22] Ringrazio Alessandra Sciurba per avermi indotto a riflettere su questo ulteriore passaggio della crisi dei diritti umani.
EDITORIALE
“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante nel davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione a rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”.
Giuseppe Impastato
Rieducare nella bellezza.
E’ questa la parola d’ordine del Tribunale di Torre Annunziata che ha creato un inedito connubio tra il fascino delle rovine di Pompei e l’istituto della messa alla prova.
Il suo Presidente, il dott. Ernesto Aghina, il prof. Massimo Osanna, direttore generale p.t. dell’ente Parco Archeologico di Pompei, e la dott.ssa Giuseppina Forte, in rappresentanza dell’U.E.P.E. (Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna) per la Campania, hanno sottoscritto una convenzione per lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità presso il Parco archeologico di Pompei, i siti di Oplontis e Boscoreale, gli scavi di Stabiae e il museo archeologico di Castellammare.
L’iniziativa si colloca nella più generale e positiva tendenza, di avvalersi dell’arte nella rieducazione intramuraria, trasponendo tale buona pratica anche al di fuori degli istituti penitenziari ed infrangendo la sequenza cognizione-esecuzione della pena collegando la risocializzazione alla manutenzione ed al recupero di un luogo emblema della cultura e della storia a livello mondiale.
Questa esperienza ha il pregio di aver deciso di impiegare le energie riparatrici del reo in luoghi aventi una specifico valore.
I siti archeologici interessati hanno indubbiamente una propria identità irripetibile e universale, ma essi sono anche e soprattutto riconoscibili ed identificabili nella loro valenza simbolica.
Il suggerimento del Tribunale torrese è evidentemente quello di optare per un “ente simbolo” quale beneficiario del lavoro di pubblica utilità.
Suggerimento di grande utilità ed evocativo di nuove prospettive di fruizione dell’istituto della messa alla prova, destinate a qualificarne la natura.
È infatti evidente che qualora il destinatario del lavoro fosse un ente in qualche modo collegato all’interesse giuridico tutelato dalla norma violata, la particolare forma di messa alla prova costituita dalla prestazione del lavoro di pubblica utilità apparirà maggiormente assimilabile a quella consistente nella prestazione riparatoria di tipo risarcitoria, poiché, la condotta sarà destinata alla riparazione del bene giuridico violato, a prescindere dal contatto con la ipotetica vittima.
Sarà interessante monitorare nel tempo le applicazioni concrete del protocollo di cui si è data notizia, verificando ad esempio, se sarà attuato anche in caso di reati contro i beni culturali.
In ogni caso credere nella possibilità di recuperare soggetti che hanno violato le regole mettendoli a contatto con un’area monumentale in cui ancora si cercano, e si trovano, tracce di un passato apparentemente perduto è sicuramente una scommessa per la quale fare il tifo.
*
In allegato la convenzione per lo svolgimento dei lavori di p.u. presso l'area archeologica di Pompei.
TRIBUNALE DI TORRE ANNUNZIATA
COMUNICATO STAMPA
Oggi presso il Tribunale di Torre Annunziata, il suo presidente dott. Ernesto Aghina, il prof. Massimo Osanna direttore generale p.t. dell’ente Parco Archeologico di Pompei, e la dott.ssa Giuseppina Forte, in rappresentanza dell’ U.E.P.E. (Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna) Campania, diretto dalla dott.ssa Patrizia Calabrese, hanno sottoscritto una convenzione per lo svolgimento dei lavori di pubblica utilità presso l’area del Parco Archeologico.
Viene in rilievo l’istituto della “messa alla prova”, previsto dall’art. 168 bis c.p. che prevede, per reati di limitata gravità, che l’imputato possa formulare richiesta di svolgere una prestazione (non retribuita) di pubblica utilità, con sospensione del procedimento penale e, laddove l’esito sia positivo, l’estinzione del reato.
Con la convenzione viene conferita la possibilità, per venti imputati che chiederanno di essere ammessi alla “messa alla prova”, di svolgere un’attività (gratuita) con vari tipi di mansioni presso il Parco archeologico di Pompei, comprensivo oltre che l’area degli scavi, anche i siti di Oplontis e Boscoreale, gli scavi di Stabiae, il museo archeologico di Castellammare, ecc.
Si tratta della prima convenzione stipulata sin qui in Italia da un Parco archeologico, e consentirà l’acquisizione di prestazioni lavorative funzionali ad un utile pubblico, alternative alle tradizionali sanzioni penali, in un contesto di peculiare valenza culturale, auspicabilmente idoneo ad accentuare la finalità rieducativa della pena prevista dalla Costituzione.
Tre rivoluzioni in una: l’Europa, il debito, la rinascita possibile
di Elvio Fassone
Sommario: 1. Premessa - 2. Lo sapevamo oscuramente, ora è chiaro - 3. La globalizzazione e vasi comunicanti - 4. L'homo inutilis - 5. Ma l' “esubero” non consuma più - 6. La stagnazione stabile - 7. Cose note e cose meno note sul debito pubblico - 8. Un'inondazione di nuovo tipo - 9. Due grandezze che non si incontrano mai - 10. I nuovi bond targati Unione Europea - 11. Non si investe più? Allora lo fa l'UE - 12. Non sarà, per caso, un helicopter money? - 13.“... e credetemi, sarà sufficiente!”.
1. Premessa
Nel giro di sei mesi (marzo - agosto 2020) l'Europa, nelle sue varie articolazioni, (Banca Centrale [BCE], Parlamento dell'UE, Consiglio dell'UE, Banca Europea per gli investimenti [BEI]) ha messo in campo 2.637 miliardi di euro, di cui 503 a beneficio dell'Italia (1).
Una simile somma non solo non si era mai vista, ma esulava addirittura dal pensabile. E contrasta in modo stridente con il volto arcigno che la stessa UE aveva mostrato solo pochissimi anni prima (2015) nei confronti della Grecia, per poche decine di miliardi di disavanzo.
L'entusiasmo ha oscurato ogni riflessione approfondita e gran parte delle perplessità. Al più, si legge qualche preoccupazione per il peso accollato alle generazioni future, ma è molto secondaria rispetto alla corsa mentale a come e quanto accaparrarsi di questa pioggia di risorse.
Soffermiamoci un attimo.
2. Lo sapevamo oscuramente, ora è chiaro
Se il secolo scorso è stato il “secolo breve”, secondo la fortunata definizione di Eric Hobsbauwm, che lo circoscrivette ai ¾ compresi tra i due grandi traumi del 1914 e del 1989, il presente 1/5 di secolo, che abbiamo appena lasciato alle spalle, accenna ad essere anche più concentrato e più tellurico di quello.
I due decenni passati hanno messo in crisi alcune convinzioni profondamente radicate nel pensiero comune. La resistenza ad abbandonarle ha prodotto un profondo choc quando la realtà ne ha messo a nudo la fallacia e, dopo molte esitazioni, l'UE ha imboccato strade mai percorse, che però suscitano ancora non pochi interrogativi.
Provo ad enunciare i nuovi fenomeni via via consolidati, accettando il rischio di ogni semplificazione.
La prima consapevolezza, che non può più essere rifiutata, ci avverte che è nato un nuovo tipo di “umano”: l’uomo inutile, l'uomo che non serve all'apparato produttivo. E poiché questa nuova specie, quasi una “mutazione”, assume dimensioni crescenti e socialmente pericolose, detta “mutazione” deve essere contrastata, a prescindere dalle considerazioni umanitarie.
La seconda insinua una zeppa in un meccanismo che sembrava indistruttibile: quella organizzazione complessiva dell'economia, cui siamo avvezzi a pensare come ottimale, si incardina sulla figura dell'uomo consumatore e sul connesso circuito “produzione/aumento dei beni a disposizione/aumento del reddito/ulteriore aumento della produzione/ciclo indefinito: ebbene, questa figura, specie dopo gli anni della pandemia, non basta più a far funzionare adeguatamente l'apparato produttivo, e deve essere integrata con un'altra figura.
La terza intuizione è, appunto, la scoperta del terzo ruolo, complementare ai precedenti: il soggetto investitore. Non che tale figura fosse sconosciuta, al contrario: ma si è dovuto constatare che la sudditanza al modello sopra sintetizzato ne ha stravolto il ruolo, e si è dovuto prendere coscienza che l'investitore privato richiede l'affiancarsi ad esso, con ruolo prevalente, di un soggetto collettivo e istituzionale (in questo frangente: l'Unione Europea, investitore istituzionale mediato dagli Stati beneficiari dei soccorsi).
Tralascio gli altri fenomeni che sono nel pensiero di tutti - la malattia pandemica che in questo momento sta affliggendo l'homo sapiens; la malattia ecologica, che sta rivelando un pianeta gravemente ammalato; e la malattia demografica, con l'estendersi forzato di nuove terre disabitate e il conseguente sovraffollamento di aree per effetto di movimenti migratori di dimensioni eccezionali - perché questi fenomeni sono parte intrinseca dei macro-fenomeni sopra accennati.
3. La globalizzazione e i vasi comunicanti
Fino a data recente il conflitto sociale intrinseco all'umanità poteva essere ricondotto a due categorie fondamentali di individui, secondo una consolidata lettura di matrice marxiana: gli sfruttatori e gli sfruttati. Abbandoniamo pure, se dà fastidio, questa nomenclatura, e usiamo altre figure: gli oppressi ed i persecutori, i forti e i deboli; se si preferisce, i bene-stanti e i male-stanti, quelli che hanno un peso nel configurare le sorti dell'umanità e quelli che sono condannati a subirne la volontà; e via contrapponendo.
Le possibilità descrittive sono infinite, ma un dato le accomuna: quelli che stanno in basso sono (erano) se non altro necessari a quelli che stanno in alto: gli sfruttatori (possiamo continuare a usare questa terminologia? sì, possiamo) non potrebbero godere della loro posizione privilegiata, se non ci fossero altri umani da sfruttare, se non ci fosse un plus-valore di cui ciascuno è artefice quando opera, e che ai soggetti deboli viene in parte sottratto a beneficio di altri.
Insomma: l'imprenditore non si arricchirebbe senza il lavoro dei dipendenti; il finanziere senza il piccolo risparmio dei risparmiatori; i produttori senza l'ottundimento delle intelligenze dei cittadini ridotti a consumatori; i governanti senza la sudditanza dei sudditi.
Se poi ci focalizziamo sulla catena produttiva in senso proprio, constatiamo che il soggetto debole del conflitto ha via via elaborato una sua tecnica di contrasto (l'unità e la solidarietà di classe: insisto sul linguaggio consueto) e, col contributo delle istituzioni, ha costruito un supporto sociale e normativo (tipico esempio è il diritto del lavoro, branca autonoma del diritto civile) che gli ha permesso un non trascurabile elevamento della sua condizione economica e sociale.
Ma la fine del secolo scorso ed i due decenni di quello presente hanno modificato profondamente quell'equilibrio, attraverso il fenomeno che si conviene di chiamare globalizzazione. Per effetto di spinte di dimensione planetaria (l'emersione di economie vogliose di svilupparsi), combinate con la circolazione dei capitali e delle conoscenze (per cui oggi tutti sanno fare tutto, e molti lo sanno fare costando meno); e per la virulenza di questi fenomeni, non controllati da istituzioni di pari dimensioni, si è verificato un gigantesco scorrimento globale di ricchezza dall'Occidente, già egemone, a un'ampia parte del resto del mondo, che se ne è molto avvantaggiata, ma ha inevitabilmente impoverito di altrettanto la nostra parte di mondo.
Si è realizzato, in sostanza, il fenomeno dei vasi comunicanti, quando si rimuove la paratia che separa i livelli diversi del liquido. Saggezza avrebbe voluto che sin dall'inizio, o almeno dal manifestarsi delle conseguenze più gravi del fenomeno, si fosse applicato il principio dei vasi comunicanti anche all'interno del bacino che veniva impoverito (il nostro Occidente) e si fosse trasmessa la spinta del mondo ansioso di sviluppo anche alle parti del mondo che stava, per così dire, nella parte alta del bacino superiore, e che non avrebbe potuto continuare a restarci senza il concorso degli di altri.
Così non è stato e si è lasciata la briglia lunga alla dinamica naturale, fiduciosi nel postulato per cui la libertà dei commerci ha in sé la capacità di produrre maggior ricchezza per tutti. Questa convinzione si è fortificata ad opera della contemporanea rivoluzione scientifica e tecnologica: l'una, grazie alla circolarità delle conoscenze tecniche, ha spostato altrove una parte imponente della manodopera impiegata a produrre il necessario; l'altra ha progressivamente ridotto il numero delle persone richieste per produrre la stessa quantità di beni e servizi.
4. L'homo inutilis
L'impoverimento era nell'ordine delle cose. Una parte cospicua del nostro benessere è trasmigrato al di fuori dell'Occidente. Il lavoro polverizzato ha distrutto l'unità della classe subalterna e la sua capacità di contrasto. E' venuta meno la tutela del soggetto debole ad opera del terzo braccio, cioè la legislazione del lavoro, poiché il contratto individuale, cioè il mero rapporto di forza, ha preso sempre più il posto della legge a tutela del debole. La protezione normativa si è rivelata impotente contro il trasferimento dell'impresa o parte di essa; contro la soppressione di interi segmenti della produzione; contro l'ingresso in campo della robotica (segmento alto) e della immigrazione (segmento basso), l'una capace di distruggere posti di lavoro assai più di quanti ne crea, l'altra che offre braccia a basso costo e distrugge la forza di contrasto, essendoci sempre e comunque un disgraziato sull'uscio, disposto ad accettare qualsiasi condizione.
Ha trionfato il sillogismo di corta veduta (“se prima, per fare una certa attività, venivano impiegate dieci unità, ora la si può fare con cinque, e questo è un risparmio”); ed è stato messo a tacere il sillogismo saggio (“quel risparmio non può andare a beneficio solamente di taluni, ma ne devono fruire anche i soggetti espulsi, i quali devono comunque vivere dignitosamente: altrimenti diventano un costo sociale per assistenza e un fattore di turbolenza per l'ordine pubblico”).
Sul piano sociale-psicologico è tramontata la convinzione che è alla base dell'accettazione almeno provvisoria del proprio stato (“i nostri figli staranno meglio di noi”). Questa convinzione è un fattore potente di coesione e di dinamismo sociale, ed il suo appannamento collettivo ha minato la compattezza delle comunità, dando vita alla “società liquida” di Bauman ed ai vari fenomeni di perdita delle idee capaci di dare orientamento e stabilità, ormai ampiamente descritti.
Tralascio la constatazione che quel modello di produzione metteva sotto il tappeto i guasti arrecati ai beni pubblici (la terra, le acque, la spoliazione del pianeta). Tralascio gli effetti di disgregazione e di contrapposizione, evidenziati sul piano elettorale dai fenomeni Brexit, Trump e sovranisti vari. Quel che ha fatto saltare il coperchio posto sulla pentola del pensiero ortodosso è stata la vera e propria nemesi in termini brutalmente economici: l'uomo consuma di meno quando il portafogli è vuoto”, e quando troppi portamonete sono magri il circuito si inceppa.
In sintesi, il meccanismo ha divorato se stesso: la domanda complessiva, erosa per espunzione di una sua parte, non è più adeguata a sostenere lo sviluppo della produzione.
Fin che si è continuato a ripetere che “l'1% della popolazione - o il 5 o il 10, poco importa, possiede l'80 o il 90% di tutta la ricchezza del Paese, mentre l'80% degli individui ecc. deve accontentarsi del ...” , ci si indignava nobilmente e si scriveva qualche saggio in proposito. Ma ad un certo punto ci si è dovuti convincere che non si era più in presenza di una mera variazione quantitativa di un fenomeno noto, bensì di una mutazione qualitativa: il nascere e il moltiplicarsi a dismisura dell'uomo superfluo (come immagine antropologica si può parlare, appunto, di homo inutilis) dell'uomo che non è più l'avversario, l'antagonista, magari duro però indispensabile, ma è diventato un'autentica pietra negli ingranaggi della macchina produttiva. Oggi, di fronte alle esigenze della produzione vista nel suo complesso, questo tipo di uomo è diventato semplicemente indifferente. Invisibile, inutile; anzi, uno sfrido, uno scarto di lavorazione, un costo. Chiedere conferma al disagio giovanile se non sia questa la vera causa di una depressione generazionale collettiva.
5. Ma l'“esubero” non consuma più
Però la macchina si è inceppata. A forza di limare i costi, di risparmiare sulle risorse umane, di esultare per la robotica e i vari business plan, c'è ormai qualche miliardo di esseri umani in esubero permanente. Non è solo il pianeta ad essere malato, anche una delle specie non si sente molto bene: la nostra, la più nobile secondo la vulgata. Succede quando talune specie predatorie vedono assottigliarsi gli esemplari delle specie predate: qui la specie umana produce più individui di quante siano le braccia e le menti utili a mantenerle; e di riflesso la produzione genera più prodotti di quanti siano gli acquirenti possibili.
Per qualche tempo l'ansia di trovare un rimedio ha escogitato palliativi persino puerili nel loro rifiuto della realtà.
A lungo si è pensato di sostituire la produzione di ricchezza materiale con il turismo, la ristorazione, la moda, i servizi: tutte cose degnissime, ma complementari; pronte ad andare in frantumi quando una banale pandemia ha ridotto gli stili di vita a consumi più essenziali. A perpetuare l'esigenza provvederà tra breve il pianeta esausto, incapace di mantenere un ulteriore aumento della popolazione.
Poi ci si è addomesticati con l'illusione della distruzione creativa, che in parte avviene, ma con un residuo negativo comunque drammatico (il tasso di sostituzione dei lavori soppressi dal progresso tecnologico, per taluni è di 1 a 8, per i più ottimisti 1 contro 3-4).
Dopo ancora si è inventato il lavoro di sostituzione, l'economia dei lavoretti, il rider, la consegna a domicilio, il dog walking, il sostituto nel fare le code agli sportelli, il fattorino e lo spiccia-faccende, l'aiuto domestico alla bisogna, il cameriere/a supplente dei fine settimana, il precario di giornata: in sostanza, il ripristino della schiavitù in forma civile e occasionale, in forza della quale una parte privilegiata del consorzio umano è sollevata dalle “seccature” connesse al proprio stile di vita, che vengono scaricate sull'altra quota della comunità, sempre più ampia e sempre meno dotata di strumenti di resistenza.
Per un breve tratto si è persino escogitato il lavoro del cercare lavoro, la figura del collocatore (“navigator”) che mette in contatto una realtà che c'è con una che non c'è: è l'artificio del chiamare lavoro ciò che ne è un simulacro, un espediente che corrisponde al vecchio uso gesuitico di battezzare come carpa cioè che era agnello, per sgusciare tra le maglie del venerdì di magro.
Il mirare sempre fuori bersaglio ha prodotto, alla fine, ciò che fino a qualche anno addietro era impensabile: il crollo del muro antagonista alla pars maior, che a taluni sembrava fastidioso, ma puntellava la casa del consumo forzato.
Se non si vuole dare retta ai filantropi, a quelli che “predicano moralità e non si intendono di economia”, basterebbe ascoltare gli attori medesimi dell'economia: i produttori, come Ford (quello delle automobili) a detta del quale i principali acquirenti delle macchine che produceva dovevano essere i suoi dipendenti, cui bisognava fornire le risorse per comperarle; e persino i teorici della mano invisibile del mercato, come Adamo Smith, attento a ricordare che il mercato funziona finché rimane ampio, il più aperto possibile, in modo che gli eventuali squilibri siano compensati da nuovi equilibri in un campo aperto. Invece no.
Siamo cresciuti avendo nelle orecchie e nella mente il mantra dell'uomo moderno: “consuma! produci! avrai più danaro per poter consumare di più e produrre di più ...”. In taluni momenti di flessione è stato persino invocato il maggior consumo come manifestazione di amor patrio (ricordiamo le invocazioni di G. Bush dopo l'attacco alle Torri del 2001). E' stato beatificato il ciclo senza fine, il moto perpetuo, l'iperbole auto-alimentata.
Ma alla fine la grande bugia è stata erosa per linee interne. Nemmeno la seduzione del consumo crescente basta più ad alimentare il mostro della macchina produttiva: è impressionante la quantità di risorse, di intelligenze, di tempo e di vita (attiva per inventarla, passiva per doverla subire) che vengono spese nella pubblicità, per stimolare un desiderio che ormai ha raggiunto e superato la propria sazietà naturale, e non risponde più a sufficienza per nutrire il mostro (non è infondato il richiamo ad una analoga sazietà sessuale, causata anche dalla pornografia dilagante).
Da circa 15 anni il Pil non cresce, o cresce di pochissimo. La Cina famelica fa eccezione, ma l'Occidente (dicono gli esperti) è entrato in una fase di stagnazione stabile, che potrebbe essere secolare, o comunque indefinita. Come è possibile che il giocattolo si sia rotto? sembrava tutto così oliato e così inoppugnabile!
Il “fare una cosa con sempre minor manodopera” (l'ultimo esempio, demenziale e frustrante per il cittadino medio, è quello di scaricare sull'utente di qualsiasi servizio tutta una serie di attività fastidiose: “...premi uno, … premi due …, rivolgiti a …, procùrati il biglietto prima di…, vai su …, consulta il quadro ...”) si ritorce contro i suoi idolatri: l'impresa o l'ufficio si alleggeriscono del personale che prima compiva quelle operazioni con maggior sagacia e minor fatica dell'utente, ma questo non solo genera frustrazione e perdita di tempo in altri cittadini-lavoratori anch'essi; ma soprattutto colloca fuori mercato gli espulsi.
6. La stagnazione stabile
Il film ha incominciato ad avvolgersi a rovescio. Se la ricchezza si polarizza, si consuma di meno a causa dell'indigenza, quindi si vende di meno, si produce di meno, si investe di meno, si licenzia di più, e il ciclo si avvita sulla sua egoistica cecità.
Il fortunato club dei benestanti (sia esso individuato nell'Olimpo del 3%, o nella terrazza dei 15%) non può ingozzarsi a dismisura: più di tre o quattro automobili il nucleo familiare possidente non può acquistare; dopo 30 vestiti o 30 paia di scarpe anche la signora più ambiziosa si placa; una volta abbellito il proprio tempo libero con un paio di abitazioni al mare e altrettante ai monti, non si può sostenere l'edilizia solo con il superfluo.
Insomma, lo stomaco dei pochi può essere anche avido di pasticcini, ma il forno che li cuoce ha bisogno di sfornarne molti di più. E più sono gli stomaci messi fuori gioco, più, alla fine, patisce il fornaio stesso.
Inevitabile il terzo capitolo. C'è molta più ricchezza di ieri, ma essa si è troppo polarizzata (il che turba il senso di giustizia sociale) e soprattutto non viene più investita a sufficienza (il che è grave proprio per il fatidico mercato). La distribuzione delle risorse ha aspirato troppo e pompato in modo squilibrato. Il consumo non basta e l'investimento è troppo poco per la buona salute dell'insieme. Le statistiche sono impietose (2 ). Aumenta il risparmio, ma cala la produzione (e non solo per il Covid). Le inchieste descrivono il fenomeno della impresa dei nonni, secondo la quale oggi gli impresari di rilievo appartengono in larga misura alla c.d. terza età.
È l'ora delle esequie della celebrata globalizzazione: non perché abbia smesso di operare, sia chiaro, ma perché se ne stanno scorgendo i frutti malati.
Se ne era avuta una avvisaglia quando la pandemia aveva spezzato le catene produttive e indotto un pensiero sull'opportunità di richiamare in patria i tentacoli planetari. Ma adesso è peggio. Il ricordato fenomeno dei vasi comunicanti, mal governato, ha prodotto un forte accrescimento di ricchezza in capo ad una fascia ristretta di cittadini, e un forte impoverimento nella restante parte della società, in particolare del ceto medio.
Tutto arcinoto. Ma ora nei benestanti l'accumulo eccede la possibilità del consumo necessario. Nei secondi è cresciuta la propensione al risparmio (beninteso, in chi può permettersi di risparmiare) perché è molto aumentato il timore per il futuro, anche in capo ai soggetti moderatamente benestanti. Di qui la stagnazione. Siamo di fronte (dicono taluni) ad una stagnazione congenita, non più medicabile dall'alternanza dei cicli. Una stagnazione secolare.
7. Cose note e cose meno note sul debito pubblico
E' a questo punto che si inserisce il fatto nuovo della pioggia di quattrini decisa dall'Unione Europea. Ma prima di proseguire, analizzando questo evento, conviene riflettere ancora un momento sul fenomeno del debito pubblico in generale, non guardando solamente alla nostra economia nazionale.
In tutti gli Stati è cresciuta di molto la domanda ad essi rivolta per ottenere maggiori prestazioni di welfare (soccorso a situazioni di bisogno o debolezza, anche come strumento di perequazione e di pace sociale) ed è aumentata anche la domanda di investimenti cui l'iniziativa privata non provvede a sufficienza. Ma parallelamente è costretta a crescere la pressione del prelievo fiscale, e quindi la resistenza ad una sua espansione.
Come conseguenza tutti gli Stati con economie e welfare sviluppati, essendo pressati da queste sollecitazioni antagoniste, sono spinti a ricorrere al debito per fronteggiare le richieste.
Nell'antichità il mutuo oneroso (cioè con interessi) era fortemente condannato. Con lo sviluppo dell'economia, anche l'etica si adattò: venne ritenuto lodevole che l'individuo non consumasse tutto il danaro che guadagnava, ma ne accantonasse una quota per i casi infausti della vita (elogio della sobrietà); venne apprezzato il gesto del mettere una parte del proprio risparmio a disposizione di un altro individuo che avesse attitudine ad investirlo in opere utili alla comunità (elogio della fruttificazione dei talenti); e non venne più biasimato, e tanto meno punito, il prestito “usurario”, ma considerato giusto che il primo ricevesse un equo compenso alla sua frugalità, e che il secondo glielo versasse come parte del guadagno che traeva dall'impiego. Convergenza di interessi, convergenza di codici morali.
Oggi il debito pubblico è in crescita in tutti gli Stati. Varia è l'ampiezza dell'aumento, ma costante il fenomeno, anche negli Stati sedicenti virtuosi. L'ammontare di questo debito varia, ma è per lo più nell'ordine di grandezza del PIL, e in molti casi superiore.
Questo produce un primo effetto sociale distorsivo.
Lo Stato - si è anticipato - adempie ormai ai suoi compiti attraverso l'uso congiunto dei due strumenti anzidetti: il prelievo fiscale e il debito. Se provvedesse solamente attraverso le imposte, il peso susciterebbe forti resistenze, soprattutto da parte dei soggetti più abbienti, e per questo tutti gli Stati dirottano una parte del carico sul debito. Il che produce una distorsione diversa e taciuta: infatti il prelievo è (almeno teoricamente, impregiudicato ogni discorso sull'evasione) soggetto al criterio della progressività, e quindi deve assolvere a compiti di perequazione; invece il debito, cui si accompagna il pagamento di interessi agli acquirenti dei titoli, genera un trasferimento di ricchezza dai “tutti” (i contribuenti, che sono tenuti ad offrire le risorse necessarie a tutte le spese pubbliche, inclusi gli interessi) ai “pochi” (i possidentes, che cedono il loro surplus e lucrano un'ulteriore quota di reddito, costituita dalle cedole): cioè agisce in direzione contraria a quella perequazione cui dovrebbe mirare il prelievo fiscale. Poiché la distorsione è diluita, ma intanto opera in danno delle classi meno abbienti, la protesta è poco avvertita, quindi blanda.
Tuttavia la disinvoltura dei vari Stati (tra i quali il nostro) a un certo punto è diventata molto pericolosa per tutti, pertanto sono stati introdotti dei correttivi, cioè i parametri di Maastricht, del 1992. Essi possono sintetizzarsi come segue: 1 ) la quota massima di scostamento dal pareggio di bilancio, ovvero il deficit annuale (il disavanzo di quello specifico esercizio) non può superare il 3% del Pil; 2 ) è fissato un limite al debito complessivo, ovvero alla somma dei vari deficit accumulati nel tempo, e questo non deve essere superiore al 60% del Pil [valore poi mitigato]; infine 3) nell'ipotesi che questo rapporto debito/Pil superi detto valore, lo Stato deve esercitare un rientro virtuoso, del quale sono previste le cadenze annuali. Purtroppo anche questo richiamo alla virtù ha sortito effetti perversi, perché si è bensì ottenuto un quasi pareggio, cioè uno scostamento più moderato, ma lo si è realizzato soprattutto attraverso una riduzione degli investimenti, mentre è stata mantenuta elevata la spesa corrente: e di questo hanno sofferto i servizi essenziali, soprattutto la scuola e la sanità, come abbiamo dovuto constatare. E si sa che dei servizi pubblici hanno necessità e beneficio soprattutto i ceti meno abbienti.
Agli effetti già detti, antitetici alla finalità redistributiva del meccanismo fiscale, si aggiunge un altro fenomeno: il crescere della situazione debitoria di uno Stato indebolisce la sua valuta e dà origine alle note svalutazioni competitive, delle quali abbiamo fatto ampia esperienza sino all'entrata in campo dell'euro. La moneta nazionale, resa debole dalle svalutazioni, produce un doppio effetto: avvantaggia le nostre esportazioni e penalizza le importazioni. Purtroppo i due riflessi non sono speculari, perché il vantaggio per le esportazioni va a beneficio del ceto produttore, ma aggrava la condizione di chi, essendo solo un consumatore, subisce il maggior costo dei beni importati che vanno a comporre una larga parte del suo paniere.
In sintesi, l'ampio ricorso al debito pubblico (a prescindere dall'ulteriore aspetto morale, del caricare un peso sulle generazioni future) è un pesante fattore negativo in termini di equità sociale.
Su questa realtà poco meditata abbiamo vissuto sino a poco tempo fa.
8. Un'inondazione di tipo nuovo
Ad un certo punto, come sempre accade, l'eccesso ha provocato un tracollo, con effetti drammatici: la crisi finanziaria esplosa negli Usa nel 2007 e presto propagatasi in Europa nel 2008.
Dapprima il Presidente della FED (Jerome Powell), sotto l'incalzare del brusco rallentamento di tutta l'economia, ha azzerato il costo del danaro negli Stati Uniti ed ha immesso nel circuito una quantità impressionante di moneta; questo ha fatto sfidando il dogma classico del contenimento dell'inflazione, perché tra i compiti della Banca centrale Usa rientra per statuto non solo la salvaguardia della moneta, ma anche la tutela dell'occupazione.
La mossa ha prodotto inevitabili effetti in Europa. L'indebolimento del dollaro si è ripercosso in un rafforzamento dell'euro, e questo ha reso più care le nostre esportazioni sui mercati retti dal dollaro, pilastro delle economie europee. La risposta è stata necessariamente laboriosa, in forza del più ristretto quadro dei poteri della BCE, che non ha autorità in materia di politica economica, ma solo monetaria: tuttavia alla fine la risposta si è tradotta a sua volta nella fatidica frase pronunciata da Mario Draghi nel 2012, il “Whatever it takes” scandito nel 2012, e rafforzato da un'assicurazione perentoria (“and believe me, it will be enough”, e credetemi, sarà sufficiente). Da quel momento le manovre speculative si sono viste opporre a wall of money, un muro di moneta, e in effetti non si sono più manifestate con la virulenza del 2007.
Ma con il 2020 si è registrato l'altro fatto tuttora in corso, rappresentato dalla pandemia che ha messo in ginocchio l'economia mondiale. Le dimensioni del fenomeno, sottolineate dalla distruzione di una quantità inaudita di posti di lavoro, non più recuperabili nella loro integralità, hanno fatto sì che l'azione della BCE non fosse più sufficiente: non si è più trattato di ergere un baluardo, per quanto prezioso, contro le manovre della finanza internazionale, ma di agire sui meccanismi intrinseci ad una economia inceppata, e quindi è dovuto intervenire il livello propriamente politico dell'Unione Europea.
Nella nota posta all'inizio di questo scritto sono elencati i vari momenti del grandioso piano complessivo licenziato dai vari organismi, secondo le proprie competenze. E' tempo di comprenderne la logica interna, esaminando i vari passaggi del programma più vicino a noi e più significativo, il “Next Generation EU” (in seguito NGEU).
In sintesi:
a) L'UE emette dei bond con i quali intende raccogliere il risparmio presente sul mercato, e con questo finanziare le economie dei vari Stati dell'Unione. I bond sono obbligazioni proprie dell'UE, concettualmente affini ai nostri Bot o Cct, ma garantite dall'insieme di tutta l'UE, e quindi più affidabili per i sottoscrittori. Va sottolineato che la messa in comune, cioè la garanzia, riguarda solo il debito nascente, non quello contratto in passato dai singoli Stati.
b) Il danaro destinato ad essere erogato ai singoli Paesi non proviene, però, esclusivamente dai sottoscrittori dei bond europei, ma anche da risorse proprie dell'UE, cioè da imposte, sanzioni, o prelievi di qualsiasi natura (si parla di digital tax, di tasse ecologiche, di sanzioni a Stati inadempienti a direttive europee). L'insieme dei due flussi, in entrata e in uscita, configura un primo fenomeno di bilancio europeo. Il fatto è significativo perché, per la prima volta, ci saranno dei cittadini europei disposti a pagare delle tasse a beneficio di altri cittadini europei. L'annosa riluttanza a costruire strumenti tipici di un assetto federale dell'UE è stata messa (almeno per ora) a tacere dalla irresistibilità della crisi, e questo deve essere giudicato molto positivamente.
c) Il danaro raccolto viene erogato dall'UE ai singoli Paesi dell'Unione, affinché sia investito secondo un piano di sviluppo elaborato e vigilato dalla UE. Va sottolineato che sarà la stessa UE a decidere comunitariamente come spendere il danaro raccolto (investitore mediato). Il complesso della decisione è tipico delle comunità politiche che hanno un bilancio federale, il quale in tal modo sta laboriosamente delineandosi, anche nell'Unione Europea, che una federazione non è ancora. Per effetto di queste politiche significative, il bilancio dell'UE (oggi di circa l'1% del Pil europeo) dovrà aumentare significativamente.
9. Due grandezze che non s'incontrano mai
È importante, tuttavia, farsi carico di alcune inquietudini e soffermarsi su alcuni concetti.
a) La pioggia di miliardi non deve farci pensare di essere in presenza di un helicopter money, cioè di un incosciente lancio di danaro a pioggia, in un paesaggio di Bengodi o in un'allegria da paese dei balocchi. L'UE non stampa moneta e non crea inflazione, si limita a far circolare la moneta che già esiste ed è dormiente. Gli euro che verranno elargiti ai singoli Stati (tra i quali il più beneficiato è il nostro) non si aggiungono alla moneta esistente: entrano nell'economia come investimento, non entrano nel mercato come strumento per il consumo (anche se l'investimento genera pure il consumo come effetto secondo).
b) Anche le quantità di danaro che vengono affidate a fondo perduto ai singoli Paesi sono bensì esenti dall'obbligo di restituzione, ma questo non si risolve in una regalia (vulgo in uno spensierato stampar moneta), in quanto le somme elargite dovranno essere coperte dalla dotazione dell'Unione stessa, e quindi da un maggior contributo dei singoli Paesi dell'Unione al bilancio comune. In sostanza, questa quota dell'intervento dell'UE sarà un contributo circolare, nel quale il prelievo non sarà corrispondente alla quota erogata a fondo perduto al singolo Stato, ma alla sua capacità contributiva nel dare, alla sua condizione di bisogno nel ricevere, quindi ispirato al principio di solidarietà.
c) Il danaro che viene messo in circolazione non è totalmente affidato ai singoli Stati beneficiari, nemmeno con la garanzia usuale della verifica a posteriori; in questo caso il suo impiego è a priori verificato come corrispondente alle finalità dell'UE.
d) Quanto alla destinazione delle risorse, essa si presenta finalmente ispirata all'ambizione di porre fine ad una aporia presente nel mondo, tanto vistosa quanto dannosa e passivamente subita. Esiste nel mondo un'immensa quantità di cose da fare, che nessuno fa. Esiste, per converso, un'immensa quantità di persone che vorrebbero fare (cioè lavorare) e non riescono a svolgere neppure quelle cose che sarebbero alla loro portata e andrebbero fatte per imperiosa necessità (soccorre al riguardo la parabola dei seminatori che, sollecitati a giorno inoltrato sul perché siano ancora inoperosi, rispondono con semplicità “nessuno ci ha ingaggiati” (Mt. 20, 7): e, messi all'opera, saranno retribuiti con la stessa dignità di quelli che hanno lavorato tutto il giorno.
L'elenco delle cose che dovrebbero assolutamente essere realizzate è sterminato e ognuno lo ha in mente. C'è il capitolo immenso della “manutenzione del mondo”, con il necessario governo delle acque, delle terre incolte, degli smottamenti, dei boschi, delle inondazioni periodiche e delle terre aride, delle terre rivierasche che sono sotto la minaccia dei livelli crescenti delle acque e delle zone terremotate che esigono costruzioni antisismiche, e altro. C'è il capitolo di un'edilizia in gran parte da ammodernare all'insegna del risparmio energetico; quello delle terre alte da ripopolare, non con il turismo ma con i residenti e la creazione di un contesto vivibile; quello delle città, soprattutto le megalopoli, da alleggerire per contrastare un'urbanizzazione soffocante e criminogena.
Urge un intervento a beneficio di un immenso patrimonio artistico da salvare e manutenere, non solo quanto ai monumenti e alle opere d'arte, ma anche quanto a salvezza di miriadi di borghi e abitati di pregio e di memoria, ed a tutela di interi territori. Le insufficienze della scuola e il bisogno crescente di formazione sono cose note. I treni dei pendolari lenti e inadeguati, la congestione delle metropoli, l'esigenza di cinture no entry e il bisogno di aree di interscambio e di accessi vicari per ridurre il fenomeno delle polveri sottili. Un'intera edilizia, anche pubblica, da allineare con le esigenze del risparmio energetico. Una quota crescente di umanità che abbisogna di altra umanità per la sua condizione di incolpevole debolezza (vecchi, disabili, malati, bambini mal curati o male allevati) o di fragilità comunque curabile (tossico-dipendenza, devianza penale). E poi un'amministrazione pubblica talora pletorica, ma più spesso carente nei servizi necessari; una sanità la cui insufficienza non è stata abbastanza supplita neppure dall'abnegazione degli operatori. Gli Ispettorati sempre in affanno e la devianza impunita dei reclutatori, nonostante lo schiavismo sia evidente e il lavoro maltrattato al di là di ogni sopportazione.
Insomma, urge tutto ciò la cui mancanza è sotto gli occhi di tutti, con la sua domanda reale di cura e di benessere, ma che non è soddisfatto da una risposta. Come è possibile che queste due grandezze (le cose da fare e le braccia che chiedono di poter fare) fatte per incrociarsi non riescano a combinarsi e continuino a generare un doppio crescente malessere? La risposta è brutale: quel lavoro ha un costo e l'interesse privato non è disposto a sostenerlo, e quindi a farle incontrare. La “sapienza del mercato” è disposta a far consumare miliardi nella riparazione delle periodiche inondazioni, ma non a risparmiarli facendosi carico delle retribuzioni degli uomini che dovrebbero manutenere in salute i corsi d'acqua che le producono periodicamente.
È a questo punto che si colloca la cucitura da parte dell'UE dei vari fenomeni sconvolgenti che abbiamo preso in considerazione, e cioè: a) l'incapacità dell'economia odierna di creare spontaneamente possibilità di lavoro per tutta l'umanità; b) l'insufficienza dell'economia di solo consumo a soddisfare la potenzialità produttiva del complesso; c) la pigrizia degli investimenti privati e, di riflesso, il dilagare dell'accantonamento improduttivo; d) la speculare necessità di combinare in modo equilibrato il fattore consumo con il fattore investimento, e quindi la creazione di un investitore istituzionale supplente; e) il ruolo di convergenza che, per l'effetto, dovranno assumere le due grandezze, che possiamo continuare ad indicare con le immagini delle cose da fare e delle braccia per farle.
10. I nuovi bond targati Unione Europea
L'operazione deve essere salutata con favore, ma non si possono ignorare alcune domande e le preoccupazioni che esse suscitano.
La prima. I vari finanziamenti dovranno essere sostenuti attraverso l'emissione di bond europei: ebbene, come si conta di collocare quella massa immensa di obbligazioni? Prescindendo dalla parte di risorse (modeste rispetto al totale) che dovranno provenire da tasse europee, il grosso del capitale necessario dovrà essere fornito dai sottoscrittori privati e pubblici di tali bond: che cosa ci fa confidare che questo avvenga?
La risposta risiede nella prima parte della manovra (che quando è iniziata non poteva prevedere che sarebbe stata seguita da una seconda, imposta dalla pandemia, ma i cui effetti sono comunque presenti): e cioè la massiccia immissione di moneta sul mercato per fare ripartire l'economia mondiale, resa stagnante dalla crisi finanziaria del 2007-2008 (v. il par. 7).
Per l'effetto esiste oggi una quantità di danaro dormiente quale mai si è registrata in precedenza. L'UE si rivolge a questa massa inerte, e quindi non crea ulteriore moneta, foriera di inflazione, ma sollecita quella già esistente e non attiva.
In questo rivolgersi al risparmio già esistente, l'UE propone ai detentori di acquistare le sue obbligazioni, che reputa appetibili in quanto: 1) hanno una durata trentennale; 2) offrono un rendimento, sia pure minimo; 3) sono garantite da tutti i Paesi dell'Unione. Sembrano finezze tecniche, ma nel contesto della turbolenza finanziaria possono rivelarsi determinanti.
La garanzia collettiva è la forza tranquilla delle istituzioni di tipo federale. La Grecia o l'Italia, o anche la stessa Francia, possono andare in default: l'Unione nel suo complesso, no. I sottoscrittori dei bond sono tranquilli in ordine alla preoccupazione primaria, il debitore non fallirà.
La durata trentennale è lunga, ma sono molte anche le istituzioni che hanno non tanto la necessità di moltiplicare le risorse, quanto quella di conservarle nei tempi lunghi, al riparo da possibili sconquassi dell'economia: i fondi pensione, le assicurazioni, i trust funzionali al “dopo di noi” e altre situazioni tarate sul lungo periodo. L'UE e gli Stati beneficiari non avranno l'affanno di dover mettere a bilancio ogni anno un fardello pesante come il costo degli interessi e la scadenza delle singole tranches, e questo per un'intera generazione.
L'interesse corrisposto è bassissimo: questo giova all'UE, che non potrebbe sostenere uno sforzo così gigantesco se avesse i costi usuali. A rovescio, questo non eccita le brame dei sottoscrittori, ma sulla piazza non c'è di meglio per chi non voglia correre i rischi della finanza speculativa, né quelli di un investimento in proprio. La grande quantità di circolante impedisce alle banche di tenere alto il costo del danaro, e quindi anche il rendimento che potrebbe presentarsi come alternativo all'offerta dell'UE. Il potere contrattuale del mondo del lavoro è, per ora, molto basso e la forzata stagnazione salariale non sospingerà per lungo tempo una spinta inflazionista.
Ma soprattutto si è verificato un evento con il quale non c'era familiarità. Il rendimento del danaro è diventato negativo, cioè il possessore paga la custodia del danaro affidato a terzi: spesso il costo non è visibile, ma si esprime attraverso le commissioni e altri pesi. Il danaro è divenuto non solo inerte nelle mani del possessore, ma penalizzante. Avvezzi a rendimenti talora a due cifre, lo choc è stato pesante e lo è tuttora. Anche perché in molti casi è una necessità statutaria o istituzionale quella di investire il danaro posseduto, il quale invece fatica a trovare impieghi appetibili e non rischiosi. Per questo l'offerta di un pur minimo rendimento appare già preferibile sia alla “custodia sotto il materasso”, sia a quanto offre il mercato.
In conclusione i bond dell'UE si propongono di scremare la fisiologica eccedenza delle risorse rispetto alle personali esigenze del risparmiatore, e di incanalare quel danaro inerte verso una crescita intelligente (cioè verso investimenti produttivi) riducendo anche il circolante a disposizione delle manovre speculative.
In conclusione si può confidare che l'offerta dell'UE sia accettata dal mercato. E' una prognosi, fallibile come tutte le previsioni del futuro, ma l'insieme delle circostanze la rende affidabile.
11. Non si investe più? Allora lo fa l'UE
Rimane tuttavia il dubbio radicato nelle convinzioni primitive inestirpabili: se c'è un debito, prima o poi qualcuno lo dovrà pagare. Convinzione saggia, affiancata da prudenze ataviche (mai fare il passo più lungo della gamba) e sorretta da esperienze collettive molto pesanti, quando non la si è rispettata.
Tutto vero, ma continuiamo nell'osservazione della realtà.
Da molto tempo il debito pubblico dei vari Stati non viene mai estinto, ma sempre rinnovato, a ripetizione. Inoltre, da parecchio tempo in qua, nessuno Stato ha ridotto il suo debito, la gran parte lo ha aumentato. E' un'anomalia, ma è così.
Alle scadenze delle varie tranches lo Stato emittente dei nuovi titoli li colloca presso istituti legittimati a collocarli sul mercato, e questi li piazzano presso i nuovi acquirenti. Una larga quota di costoro è offerta dagli stessi detentori della tranche che ha esaurito il suo ciclo, poiché per loro continua a porsi l'esigenza di collocare il proprio risparmio, e quindi va bene continuare l'accantonamento nelle stesse forme. Alla quota, normalmente esigua, dei non-rinnovanti sono pronti a subentrare i nuovi sottoscrittori, perché nel frattempo si è accumulato altro risparmio, come evidenziato dalle varie aste, che spesso non accontentano neppure tutti i richiedenti, allettati da piccole oscillazioni sui rendimenti o da altra lusinga.
Inoltre, guardando allo specifico italiano, si osserva che mentre esiste un debito pubblico mostruoso, il debito privato è molto più contenuto che in altri Paesi sedicenti “virtuosi” (si colloca fra i più bassi dell'area euro, e assai vicino a quello della Germania): banalizzando, ma neppure troppo, non si fanno follie in proprio, le si fa fare alla collettività esigendo una politica di servizi pubblici sottopagati. Infine va rilevato che una quota considerevole dei nostri titoli di Stato è detenuta da cittadini italiani.
Questo significa che una parte notevole del nostro debito pubblico è costituita, già oggi, da una partita di giro, cioè lo Stato fa fronte a una parte dei suoi impegni attraverso i risparmi delle famiglie. Esso potrebbe ottenere tutto quanto gli è necessario attraverso l'imposizione fiscale, ma questo sarebbe macchinoso, incerto e soprattutto impopolare per la politica. E' vero che il ricorso al debito comporta un costo per gli interessi, ma anche quelli si diluiscono e si nascondono nella fiscalità complessiva; e poi l'apparato necessario per un'esazione ancora più esigente costerebbe, e non poco. La differenza sostanziale risiede dunque (per questa quota non lieve) tra l'obbligo e la spontaneità, e la seconda è reputata più vantaggiosa. Dunque una quota sostanziosa delle risorse necessarie viene acquisita in modo indolore attraverso il prestito che i cittadini fanno dei loro accantonamenti. Se poi l'onere degli interessi viene quasi del tutto meno (come propone l'Europa, stabilendo rendimenti prossimi a zero, e creando le condizioni perché ciò avvenga), la partita di giro può funzionare e accrescersi, senza sollevare grosse tensioni politiche.
In fondo la carta-moneta è un simbolo: fino a che giace in qualche cassaforte, essa assolve una funzione di mero sedativo per le insicurezze del futuro; se invece viene investita, non cessa di svolgere tale funzione, ma ne assume una seconda, quella di aumentare la ricchezza collettiva che fa da garanzia di una eventuale restituzione.
Quanto ciò sia utile si comprende guardando ancora allo specifico dell'Italia: a) lo Stato, come si è visto, già assolve ad una parte dei suoi doveri istituzionali utilizzando il risparmio privato; b) però fino ad ora il nostro Stato ha utilizzato la quota delle sue risorse, ottenute attraverso il debito, non per investimenti, ma per la spesa corrente; c) questo ha devitalizzato in gran parte l'effetto leva di quel debito che si conviene di definire “buono”, cioè il debito contratto per impieghi che giovano non tanto al consumo in sé, quanto al benessere collettivo; d) per ottenere un impiego più corretto della leva del debito, l'UE ha istituto se stessa come investitore istituzionale, prima promuovendo l'accumulo di capitale che, essendo fermo, non ha prodotto inflazione; poi facendosi attore dell'utilizzo produttivo della massa circolante, destinandola non a spese correnti ma ad investimenti ed a riforme di struttura.
Ma il sospetto, e il complottismo elevato a scienza, non demordono. Fino a ieri il rigore dei “conti in ordine” era un dogma; oggi, stranamente, di fronte al “sovranismo” e ai venti di disgregazione dell'Unione, si spalancano non solo le borse, ma i cancelli che custodiscono il tesoro. Se questo non è “helicopter money” - si dubita - è almeno il giardino dalle mele d'oro.
Torniamo allora a riflettere. La crescita dell'economia non deve essere divinizzata, ma neppure bandita da ogni orizzonte. Il fatto oggettivo che la popolazione sia in costante crescita rende incontestabile che la quantità complessiva dei beni prodotti (non i ninnoli di lusso, ma il pane e i vari companatici, i vestiti le scarpe le medicine e i servizi) tutto questo insieme deve aumentare per necessità oggettiva.
Qualsiasi economia regge se versa in un equilibrio tra i beni prodotti e il consumo dei medesimi, perciò l'espansione dei secondi richiede un aumento dei primi. Il prototipo idealizzato del primo fornaio, che sfamava la sua piccola comunità di cento anime con il forno capace di cento chili di pagnotte, si trovò a sognare un forno capace di duecento chili, che le sue sostanze non gli permettevano di acquistare. Il forno impossibile al nostro eroe divenne alla portata sua e di tutti mettendo insieme i risparmi propri ed altrui, realizzando il primo modello di investimento. Il fornaio si accollò il peso del debito, gli altri il rischio del prestito, l'esito fu l'arrivo di un secondo forno più grande. I prestiti furono restituiti dal fornaio attraverso l'aumento delle sue vendite e tutti furono contenti e sfamati. Il fornaio non era un bieco capitalista (non è escluso che lo sia diventato in seguito, esagerando con i prezzi e col suo profitto, ma questa è un'altra storia) : resta che in quella fase fu, a suo modo, un benefattore.
Oggi l'immagine del forno può essere correttamente sostituita dalle infrastrutture materiali (le famose “case, scuole, strade e ospedali” del gergo della ricostruzione post-bellica) e da tutto il contorno moderno che fa da companatico (formazione, servizi, cura, “green”, tecnologia, occupazione, manutenzione, relazioni e via elencando). Ma il concetto-cardine non è mutato nella sostanza: se oggi non c'è o non circola il danaro detenuto degli altri consumatori di pane della comunità, è comunque indispensabile alla loro fame acquisire il secondo forno. A questo punto il danaro occorrente viene stanato dai suoi giacimenti inerti, e viene chiamato a produrre la ricchezza supplementare, capace di bilanciare e rendere innocua la massa monetaria aggiunta.
12. Non sarà per caso un helicopter money?
C'è ancora un'altra resistenza psicologica, della quale occorre farsi carico, perché prima o poi potrà diventare un fronte di contrasto. E' il mai sopito timore dell'inflazione causata dalla speculazione, che in alcune aree dell'UE (Germania in particolare) può diventare autentico terrore, in forza della memoria storica.
Prima o poi - è il pensiero di molti - questa massa enorme di danaro entrerà in circolazione e saranno dolori per la stabilità dei prezzi: come ci si regolerà allora? torneremo ad avere l'inflazione a due cifre e i capitali ridotti ogni anno del 10-15% reale, come negli anni '70? come se la caveranno, in una società che sta invecchiando a vista d'occhio, le moltitudini degli anziani che sopravvivono grazie ai risparmi, e anche i meno anziani che saranno soffocati dai costi crescenti dei mutui?
Qualche sintomo viene già sin d'ora segnalato. Si sta risvegliando il prezzo del petrolio, dei minerali preziosi (come il cobalto, il palladio, il nickel) e, a quanto si legge, anche quello del riso e del frumento. La moderazione salariale, che al momento è imposta dalla morsa della pandemia e dal malessere di molte imprese, oggi comporta il contenimento dei consumi, ma è probabile che si capovolga quando le strettezze saranno diminuite. È legittimo il timore di un aumento incontrollato a beneficio dei profittatori che manovrano i prezzi alla distribuzione, come abbiamo sperimentato in seguito all'ingresso dell'euro.
Questo timore è giustificato, ma non è un effetto inevitabile della strategia adottata.
Al rialzo ingiustificato dei prezzi soccorrono i controlli che nel 2002 mancarono del tutto. Al possibile rialzo conseguente all'espandersi effettivo del circolante potranno e dovranno provvedere gli strumenti classici del rialzo dei tassi, e/o della (eventuale) riserva obbligatoria imposta alle banche. A quel punto il collocare le proprie risorse nei bond europei cesserà di essere conveniente, ma proprio per quello i bond attuali hanno una durata molto lunga.
Tuttavia alcuni spettri vengono egualmente agitati, non si sa quanto disinteressatamente.
Le Borse (soprattutto quelle Usa, ma le altre seguono o seguiranno per contagio) hanno ripreso a galoppare, e i vari indici segnano livelli molto alti, preludio di probabili “ bolle” e conseguenti crolli e propagazioni di catastrofi.
Ebbene, è utile ricordare alcuni capisaldi delle acquisizioni in questa materia. Uno di questi ci ammonisce che le Borse sono in larga misura indipendenti dall'economia.
I topi corrono dove c'è il formaggio. L'immissione sul mercato di un'ingente quantità di moneta e la sua combinazione con l'azzeramento dei tassi (se non addirittura con il fenomeno dei tassi negativi) ha provocato una grande appetibilità delle azioni che promanano da aziende di normale affidabilità imprenditoriale: l'effetto combinato è stato che un'azione di queste imprese viene a costare molto, ma offre un dividendo positivo, via via più elevato del rendimento di qualsiasi obbligazione che, al pari dei titoli di Stato, ha un rendimento addirittura negativo. Dunque l'azione rende molto, ma la ricchezza collettiva non aumenta di un euro, semplicemente si sposta come i barili non bloccati nella stiva del naviglio, sino a che qualcuno decide che è tempo di innescare le vendite, per comprare di nuovo a prezzi crollati, e gli altri rimangono con il fatidico “cerino in mano”.
Trump si eccitava guardando i bollettini della Borsa, il suo Nasdaq schizzato in alto del 140%. Ma in realtà il Pil del suo Paese è cresciuto meno del 2% annuo, mentre la Borsa di Francoforte in pari tempo è aumentata meno del 20%. Gestire l'economia di una o più aziende è cosa diversa che condurre l'economia di un complesso di Paesi.
13.“... e credetemi, sarà sufficiente”
Possiamo provare a trarre qualche prudente conclusione.
Il debito pubblico non è un “male in sé”, ma un rapporto (improprio) tra due grandezze correlate: da una parte la moneta circolante, dall'altra la ricchezza prodotta dall'insieme delle relazioni sociali e produttive di quella comunità. Quando queste grandezze si discostano troppo l'una dall'altra, i prezzi salgono se la domanda eccede i prodotti disponibili (inflazione), ovvero scendono se la domanda langue (deflazione, che può diventare stagnazione quando si stabilizza).
Perciò se nella frazione, che idealmente esprime il loro rapporto, cresce il denominatore (debito) ma cresce anche il numeratore (beni a disposizione, in senso ampio) la relazione rimane immutata, e non si versa in una condizione patologica o comunque temibile.
In ultima analisi, il cuore del problema, e dell'impegno comune che verrà da questa politica, è destinare le risorse in arrivo a impieghi così intelligenti da fungere da moltiplicatore della ricchezza reale (resta da intenderci su che cosa possa definirsi Pil, e cioè sul contenuto della nozione di “ricchezza sociale”; ma per ora non dilatiamo troppo il contendere). Quel che può essere utile è il cogliere che la prospettiva del piano dell'UE, a dispetto della sua tecnicità marcatamente “capitalistica”, sottende una profonda natura etica: l'UE deve chiedere un atto di fiducia, per collocare i suoi bond; i detentori legali della ricchezza dormiente compiranno questo gesto confidando nel come essa sarà utilizzata una volta affidata all'UE; i registi (sia quelli nazionali, sia quelli europei) della futura ricchezza devono progettare come se essa fosse già nelle rispettive casse, e confidare - secondo ragione e in forza di conoscenze solide - che ogni euro sarà come il seme del buon seminatore della parabola, che frutta ora il 10, ora il 30, ora persino il 100 per uno.
Per una volta, almeno, è necessario fidarsi, l'alternativa è lo stagno.
Divertiamoci ad immaginare. Cento o cinquecento milioni di euro vengono impiegati per arginare e disciplinare, ad esempio, un insieme di fiumare calabresi, causa di inondazioni periodiche, spesso disastrose: tradotti in investimento UE possono significare (in ipotesi) cento o cinquecento posti di lavoro del tutto nuovi per qualche anno (manodopera esecutiva), e altri mille posti-attività già presenti sul mercato vengono alimentati dalla domanda continua delle loro prestazioni (tipo: imprese e automezzi di movimento terra, progettisti, produttori e venditori di materiale da costruzione e simili).
Ognuno di coloro che svolgeranno il proprio compito sarà adeguatamente retribuito, e sugli stipendi opererà un'imposta (Irpef e/o affini) che rifluirà nelle casse dello Stato, un versamento che darà ossigeno all'Inps, un'Iva sulla quota di prodotti che il consumatore e la sua famiglia potranno acquistare con maggior larghezza, un minor peso a carico dei vari istituti a sostegno della inoccupazione (Cassa integrazione, ristori e altro).
Ogni posto di lavoro nuovo genererà un volume di acquisti superiore a quello cui l'individuo sarebbe costretto dalla sua condizione di povertà o comunque di basso reddito; e questa addizione (di alimenti, di vestiario, di generi di conforto, di elettrodomestici, di loisirs, di libri e di tecnologie varie) sarà fattrice a sua volta di un incremento della rispettiva produzione, e quindi di nuova Iva, Inps, Ires, e soprattutto di nuove assunzioni, come effetto non più diretto ma indotto.
E non si conteggia - perché non tutti gli esempi ipotizzabili lo consentono, ma molti lo lasciano prevedere - l'incremento di ricchezza dovuto alla riduzione dei fattori negativi, come le spese per le ricostruzioni e gli indennizzi dei danni prodotti dalle inondazioni; ovvero, in àmbiti diversi, il minor consumo di carburante e il minor volume di polveri sottili, se si agisce per fluidificare e ridurre il traffico con interventi sulle infrastrutture; o i minori costi della sanità per il miglioramento della salute collettiva; o il potenziamento del sapere collettivo del Paese per effetto della minore fuga dei cervelli, e simili.
La gran parte degli investimenti ipotizzati può in effetti presentare sia il capitolo della ricchezza emergente (beni che non ci sarebbero e che invece verranno ad esistenza), sia quello del danno cessante (la minor criminalità giovanile per quanti possono trovare un'occupazione dignitosa; il minor costo da sostenere per l'energia acquistata dall'estero, se diminuiscono i consumi per effetto di un'edilizia corretta; una minor fuga degli investitori, soprattutto dall'estero, se i potenziali investitori constatano l'esistenza di una rete efficiente di infrastrutture ed un contesto sociale più pacificato e laborioso. E cento altre situazioni.
Il nodo, dunque, risiede nella volontà e nella capacità di organizzare l'impiego delle risorse in forme capaci di moltiplicare la ricchezza reale del Paese. Non assistenza, ma sviluppo della comunità; non finanziamenti a luminarie locali buone per una politica clientelare, ma aumento delle infrastrutture materiali e sociali di una comunità.
Si può concludere con una prudente fiducia in quella ragione trascendente che spesso sembra ottundersi, ma che ha talora astuzie impreviste. Un evento tragico come la pandemia ha generato il risveglio di una coscienza europea nei cittadini e nelle istituzioni, proprio quando essa era al punto più basso e più vicino all'auto-soppressione. Il capovolgimento della strategia dell'UE può essere il frutto di una di quelle “astuzie della storia” che nascono dalla comprensione vera degli equilibri profondi e necessari tra gli egoismi dell'agire e la loro correzione etica. Sarebbe grave non operare di conseguenza.
(1) Il 18 marzo 2020 la Banca Centrale Europea (BCE) ha approvato un nuovo programma di acquisto dei titoli di Stato dei Paesi europei (“Pandemic Emergency Purchase Programme”) per 750 miliardi di euro, poi implementato di 600 miliardi il 4 giugno 2020.
Il 30 marzo2020 il Parlamento europeo e il Consiglio dell'UE hanno approvato il “Coronavirus Response Investimenti Initiative”, inteso a mobilizzare tutti i fondi strutturali e di investimento non ancora utilizzati per gli esercizi finanziari 2020-21.
Il 20 maggio 2020 gli stessi soggetti (Parlamento e Consiglio) hanno istituito il SURE (Strumento europeo di sostegno a seguito di un'emergenza) con dotazione di 100 miliardi.
Il 24 agosto 2020 la Commissione Europea ha concesso un sostegno finanziario pari a 81,4 miliardi, dei quali 27,4 a favore dell'Italia, e di essi una parte già concretamente erogata.
La Banca Europea per gli investimenti (BEI) ha istituito un fondo di garanzia, con dotazione di 25 miliardi, per garantire alle piccole e medie imprese l'accesso ai finanziamenti bancari.
Il 23 aprile 2020 il Consiglio Europeo ha approvato l'istituzione di una nuova linea di credito di 200 miliardi, nell'ambito del meccanismo europeo di stabilità (MES) per finanziare le misure necessarie nei settori medici e correlati, al fine di rafforzare i sistemi sanitari nazionali impegnati nella lotta alla pandemia Covi-19.
Per l'Italia si stima un importo di 36 miliardi di euro.
I tassi di interesse applicati saranno dello -0,07% (tasso negativo) per un prestito settennale; e dello 0.08% per un prestito decennale (nota del Capo dell'Ufficio finanziario del Mes). L'accesso alla linea di credito, rispetto al tasso di interesse praticato per i propri titoli di Stato, comporterebbe per l'Italia un risparmio per interessi di circa 5 miliardi di euro a fronte di un esborso di 36 miliardi in sette mesi.
Il 23 aprile 2020 i Capi di Stato e di Governo dell'UE hanno istituito uno strumento straordinario, collegato al bilancio pluriennale europeo, finanziato con l'emissione di obbligazioni comuni (“Recovery bonds” e risorse proprie dell'Unione) inteso a finanziare politiche a sostegno della ripresa economica, finanziando i settori e i Paesi maggiormente colpiti dalla pandemia.
Il 27 maggio 2020 la Commissione Europea ha presentato davanti al Parlamento Europeo il “Recovery Plan for Europe”che prevede un bilancio a lungo termine dell'UE rinnovato, pari a 1.100 miliardi di euro, e un suo rafforzamento temporaneo (“Next Generation EU”) pari a 750 miliardi, di cui 500 a fondo perduto e 250 come prestiti agevolati, per un totale di 1.850 miliardi di euro.
Dopo vari aggiustamenti il NGEU prevede 390 miliardi di trasferimenti a fondo perduto e 260 di prestiti agevolati. All'Italia è stata riconosciuta la quota maggiore di finanziamenti, per un totale di 209 miliardi, di cui 81,4 per aiuti a fondo perduto e 127,4 di prestiti agevolati.
(la presente rassegna è ricavata sulla base delle indicazioni contenute in “L'Unità Europea” - Rivista del
Movimento Federalista Europeo, settembre-ottobre 2020).
Va specificato che quando si legge che un certo quantitativo di euro viene stanziato “a fondo perduto”, la somma viene assegnata senza obbligo di restituzione, ma essa grava pur sempre sul bilancio europeo, il quale viene costituito e alimentato dai contributi di tutti gli Stati dell'UE, e quindi anche con quelli dello Stato beneficiario.
(2) Secondo il Bollettino presentato dall'ABI a fine 2020, i depositi bancari in Italia, a tale data, ammontavano a 1.682 miliardi di euro, con un incremento di 126 miliardi nel corso dell'anno (+7,5%). A rovescio, il reddito medio delle famiglie nel corso dell'anno era diminuito del 5,8%. La quota di persone che dichiaravano di avere risparmiato nel corso dell'anno ammontava al 55% degli interpellati, mentre la richiesta di prestiti era cresciuta del 4,8%.
Su scala europea, Eurostat informa che i risparmi della zona Euro all'inizio del 2020 corrispondevano al 16,6% del prodotto interno, e alla fine dell'anno erano saliti al 24%.. A rovescio, gli investimenti erano passati dall'8,9% al 7,9%.
Energia, ambiente e semplificazione amministrativa(nota a T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, 24 novembre 2020, n. 12464)
di Marco Calabrò
Sommario: 1. La vicenda. – 2. La disciplina degli incentivi in materia energetica. - 3. Analisi critica delle ragioni poste a fondamento della pronuncia del T.A.R. del Lazio n. 12464/2020: la non perentorietà del termine per il rilascio della concessione degli incentivi. – 3.1. (segue): la riconducibilità del profilo del riconoscimento degli incentivi energetici alla materia “ambiente”. – 3.2. (segue): la sussistenza di un obbligo comunitario di concludere il procedimento con una decisione espressa. – 4. Riflessioni conclusive.
1. La vicenda.
Con una recente pronuncia il T.A.R. Lazio, Roma ha affrontato il tema della applicabilità degli istituti di semplificazione – con specifico riferimento al silenzio assenso – ai procedimenti in materia energetica. La vicenda da cui origina il contenzioso si inquadra nell’ambito dell’eterogeneo sistema di incentivazione alla produzione di energia da fonti rinnovabili, la cui disciplina ha conosciuto negli ultimi anni una notevole evoluzione, anche in ragione del necessario adeguamento alle disposizioni dell’UE che si sono avvicendate in materia. In particolare, nella fattispecie in esame, la società ricorrente aveva presentato al GSE (Gestore Servizi Energetici) una richiesta di concessione della tariffa incentivante riconosciuta, a determinate condizioni, ai produttori di energia elettrica da fonti rinnovabili ai sensi del d.m. 5 maggio 2011 (c.d. Quarto Conto Energia). Dopo più di un anno, il GSE riscontrava la suddetta istanza invitando la società ad integrare la documentazione presentata, attraverso la produzione di una dichiarazione del Comune sede dell’attività di produzione energetica, attestante l’idoneità della d.i.a. alla esecuzione dei lavori per la realizzazione dell’impianto. A fronte della mancata presentazione della suddetta dichiarazione, il GSE concludeva il procedimento con l’emanazione di un atto di rigetto.
Il ricorso presentato dalla società di produzione di energia si fonda, essenzialmente, su due ordini di motivi. Con il primo, che non sarà oggetto di approfondimento in questa sede, parte ricorrente contesta la legittimità della richiesta istruttoria, diretta ad ottenere la produzione di un documento attestante l’idoneità del titolo edilizio. In tal modo, infatti, il GSE avrebbe trasceso le proprie competenze (non contemplanti profili di ordine edilizio), generando un indebito aggravio procedimentale, contrastante con l’istituto stesso della d.i.a., peraltro regolarmente prodotta dal ricorrente e mai oggetto di provvedimenti inibitori[1].
Il secondo motivo di ricorso, sul quale si concentreranno le riflessioni che seguono, si fonda sull’affermazione secondo cui – al di là dei profili di merito – il GSE non avrebbe potuto chiedere alcuna integrazione documentale, essendosi ormai formato il silenzio assenso sull’istanza presentata dal ricorrente. La disciplina procedimentale relativa al riconoscimento delle tariffe incentivanti di cui al d.m. 5 maggio 2011, infatti, prevede che entro quindici giorni dalla data di entrata in esercizio dell’impianto il soggetto responsabile faccia pervenire al GSE la richiesta di concessione della pertinente tariffa incentivante, e che il GSE, “verificato il rispetto delle disposizioni del presente decreto, determina e assicura al soggetto responsabile l’erogazione della tariffa spettante entro centoventi giorni dalla data di ricevimento della medesima richiesta”. Secondo parte ricorrente, pertanto – essendo decorso più di un anno dalla presentazione dell’istanza e trattandosi di un procedimento ad istanza di parte rispetto al quale nulla è espressamente previsto per le ipotesi di inerzia dell’amministrazione – troverebbe applicazione l’istituto generale del silenzio assenso di cui all’art. 20, l. n. 241/1990.
Il T.A.R. Lazio, tuttavia, nel rigettare il ricorso, conclude per la non formazione, nel caso di specie, degli effetti del silenzio assenso sull’istanza presentata dalla società di produzione energetica, e ciò sulla base delle seguenti motivazioni: a) il carattere non perentorio del termine procedimentale di 120 giorni riconosciuto al GSE per riscontrare la domanda di concessione degli incentivi; b) la non invocabilità del regime del silenzio assenso, dovendo trovare piuttosto applicazione la deroga di cui al co. 4 dell’art. 20, l.n. 241/1990 in quanto l’incentivazione della produzione di energia da fonti rinnovabili rientrerebbe nella materia “ambiente”; c) la sussistenza di un obbligo di concludere il procedimento con l’emanazione di un provvedimento espresso, derivante dalla corretta attuazione della normativa europea di settore[2].
2. La disciplina degli incentivi in materia energetica.
Prima di procedere all’esame delle ragioni che hanno indotto il T.A.R. Lazio a ritenere non formatasi la fattispecie del silenzio assenso, appare opportuno inquadrare brevemente il tema della incentivazione energetica, anche al fine di individuarne la ratio. Come noto, le c.d. energie rinnovabili rappresentano quelle fonti di energia – non esauribili o, comunque, in grado di rigenerarsi velocemente – alternative alle tradizionali fonti fossili. Lo sviluppo di tali forme di produzione – strumentale ad incrementare la sicurezza dell’approvvigionamento energetico, a stimolare la competitività del sistema produttivo ed a ridurre le emissioni inquinanti in atmosfera[3] – ha imposto l’introduzione di strumenti di incentivazione, atteso il costo di produzione più elevato rispetto all’uso delle fonti energetiche tradizionali[4].
Le principali forme di incentivazione, introdotte negli anni dal legislatore statale (spesso su stimolo dell’UE) sono rappresentate non da semplici sussidi, bensì da strumenti di mercato volti ad incoraggiare gli investimenti green[5], quali i Certificati verdi[6], i Certificati bianchi[7], la Tariffa omnicomprensiva[8] ed il c.d. Conto energia. Quest’ultimo, in particolare – oggetto della pronuncia in commento e relativo ai soli impianti fotovoltaici – configura un modello incentivante feed in premium che – a differenza del modello di prezzo amministrato feed in tariffs[9] – si concretizza nell’erogazione di un incentivo aggiuntivo rispetto al prezzo di mercato[10]: permane, quindi, un margine di rischio in capo al produttore, nella misura in cui, a fronte della formazione di un prezzo di mercato molto basso, la parte incentivante potrebbe risultare insufficiente a rendere remunerativa l’operazione nel suo complesso[11].
Il sistema di incentivazione Conto energia nasce a seguito dell’emanazione della Direttiva 2001/77/CE, recepita con il d. lgs. n. 387/2003, il cui sistema di implementazione contemplava la successiva approvazione di decreti interministeriali (Ministero dello Sviluppo Economico e Ministero dell’Ambiente) che – definendo i criteri soggettivi ed oggettivi per poter beneficiare dell’incentivazione, nonché i relativi itinera procedimentali – hanno introdotto negli anni a seguire il I° Conto energia (d.m. 28/7/2005 e d.m. 6/2/2006), il II° Conto energia (d.m. 19/2/2007) ed il III° Conto energia (6/8/2010). Mediante tali strumenti, dal 2005 al 2011 si è registrato in Italia un notevole incremento della quota di elettricità prodotta da impianti alimentati mediante la conversione fotovoltaica della fonte solare, reso possibile proprio in ragione di adeguati investimenti pubblici, programmati e a lungo termine, presupposto indispensabile per garantire la necessaria convenienza economica agli operatori privati[12].
Nel 2009, il legislatore europeo è nuovamente intervenuto in materia di promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili, con l’emanazione di una nuova direttiva europea (dir. 2009/28/CE), mediante la quale si è inteso integrare il quadro regolatorio sottolineando, tra l’altro, la rilevanza della previsione di procedure trasparenti, semplici e celeri. In attuazione di tale direttiva è stato, quindi, emanato il d.lgs. n. 28/2011, che – volto a promuovere “l’efficacia, l'efficienza, la semplificazione e la stabilità nel tempo dei sistemi di incentivazione” (art. 23) – ha rappresentato il quadro regolatorio di riferimento per il IV° Conto energia (d.m. 5/5/2011) e per il V° Conto energia (d.m. 5/7/2012)[13]. Quest’ultimo, infine – avendo condotto al raggiungimento del tetto massimo di incentivazione prevista per il settore (6,7 miliardi di euro) – ha segnato la conclusione dell’applicazione del modello incentivante rappresentato dal Conto energia[14].
Attualmente il sistema di incentivazione della produzione di energia da fonti rinnovabili da parte del GSE prevede strumenti ulteriori, quali il sistema GRIN (Gestione Riconoscimento Incentivo) in sostituzione dei Certificati verdi, il c.d. Ritiro dedicato, lo Scambio sul posto[15]. La normativa di riferimento resta, tuttavia, il d.lgs. n. 28/2011, in attuazione del quale è stato di recente approvato il c.d. Decreto FER 1 (d.m. 4 luglio 2019), contenente la disciplina principale degli incentivi alle fonti rinnovabili per il triennio 2019-2021 e volto ad agevolare – in vista degli obiettivi di decarbonizzazione fissati al 2030[16] – la diffusione dei piccoli impianti fotovoltaici, eolici on-shore, idroelettrici e a gas di depurazione[17]. É bene sottolineare come proprio il d.lgs. n. 28/2011 – dal quale ha origine anche il IV° Conto Energia, oggetto della pronuncia in commento – abbia condotto ad un notevole contenzioso, essenzialmente dovuto alle incertezze applicative emerse fin da subito[18], il che ha spinto il legislatore ad intervenire in diverse occasioni in chiave semplificatrice e chiarificatrice[19]. Da ultimo, si segnala la recente riforma introdotta ad opera del d. l. n. 76/2020, convertito in l. n. 120/2020 (c.d. decreto Semplificazioni), con il quale – al fine di incrementare il livello di certezza delle posizioni acquisite da parte delle imprese in buona fede – è stato stabilito che la decadenza dei benefici ottenuti in termini di incentivi può essere comminata dal GSE solo in presenza dei presupposti di cui all’art. 21-noniesdella l. n. 241/1990[20].
3. Analisi critica delle ragioni poste a fondamento della pronuncia del T.A.R. del Lazio n. 12464/2020: la non perentorietà del termine per il rilascio della concessione degli incentivi
Come già precisato, la pronuncia in esame concerne l’applicazione del d.m. 5 maggio 2011 (IV° Conto energia), il cui art. 10 prevedeva che l’operatore economico avrebbe dovuto, entro 15 giorni dall’avvio dell’esercizio dell’impianto, comunicare l’inizio dell’attività al GSE, il quale entro i successivi 120 giorni avrebbe provveduto a “determinare e assicurare la tariffa”, ovvero a pronunciarsi sulla riconoscibilità dell’incentivo. Prima di affrontare l’esame dei diversi profili di interesse della decisione in commento occorre una premessa di merito: nelle pagine che seguono si cercherà di dimostrare come il Collegio abbia erroneamente ritenuto non applicabile alla fattispecie de qua il regime del silenzio assenso, ma questo non perché si ritenga che tale istituto rappresenti un modello decisionale particolarmente efficace e preferibile rispetto all’emanazione del provvedimento espresso, tutt’altro. Si è pienamente consapevoli delle criticità che connotano l’attuale regime del silenzio assenso, tuttavia – anticipando quanto meglio si chiarirà nelle conclusioni – ciò che occorre assolutamente rifuggire è l’incertezza della “regola del caso”, il che si verifica proprio quando (come nel caso di specie) il giudice amministrativo (seppur perseguendo intenti anche condivisibili) effettui una forzata interpretazione della norma estendendo illegittimamente l’ambito di operatività della deroga al modello generale del silenzio assenso, frustrando così le legittime aspettative del privato.
Ciò premesso, la prima delle ragioni poste a fondamento della decisione giudiziaria che si commenta – con la quale, si ricorda, si è ritenuto di non poter considerare operativo il meccanismo del silenzio assenso nella fattispecie de qua – consiste nella affermazione secondo la quale il suddetto termine di 120 giorni riconosciuto al GSE per riscontrare l’istanza non avrebbe avuto carattere perentorio.
Il percorso argomentativo seguito dal T.A.R. Lazio appare, invero, viziato dal punto di vista logico, prima ancora che giuridico, laddove pretende di giustificare la propria affermazione dando per presupposto proprio ciò che egli stesso si prefigge di dimostrare: nel ragionamento condotto dal Collegio, infatti, la premessa maggiore è che “il termine non è perentorio”, la premessa minore è che “nelle ipotesi di silenzio assenso il termine è perentorio”, mentre la conclusione è che “non si tratta di una fattispecie di silenzio assenso”. Ma la premessa maggiore, in questo caso, non è dimostrata e, come è noto, affinché un sillogismo categorico sia valido occorre che entrambe le premesse siano incontestabilmente vere[21]. In altre parole, il Collegio avrebbe prima dovuto dimostrare la non applicabilità del silenzio assenso e solo in seguito avrebbe potuto conseguentemente affermare la natura ordinatoria del termine procedimentale; è evidentemente errato, dal punto di vista logico, ritenere di poter escludere che ci si trovi di fronte ad un’ipotesi di silenzio assenso affermando (ma non dimostrando) che il termine procedimentale non sia perentorio.
Sul punto della asserita non perentorietà del termine, i giudici – preso atto che la disposizione nulla dice su tale profilo – si limitano a richiamare il principio generale in base al quale “la perentorietà del termine di conclusione del procedimento sussiste solo quando vi sia una norma che espressamente lo qualifichi come tale, ovvero sancisca che allo spirare del termine si producano effetti giuridici incompatibili con la possibilità per l’Amministrazione di provvedere”[22]. In realtà, se è vero che, salve specifiche deroghe previste dalla legge, il termine procedimentale ha carattere ordinatorio e la sua scadenza non incide sulla sussistenza del potere di provvedere[23], ciò che è almeno opinabile è la circostanza che nel caso di specie non ci si trovi proprio di fronte ad una delle suddette ipotesi derogatorie. Il fatto che il d.m. 5 maggio 2011 non chiarisca la natura del termine non esclude ex se la perentorietà dello stesso, nella misura in cui – ribaltando la (indimostrata) premessa di partenza del Collegio – è il combinato disposto di cui agli artt. 2 e 20 della l.n. 241/1990 che conduce a ritenere perentorio il termine per tutte le ipotesi in cui operi il regime del silenzio assenso.
Come noto, a seguito della recente riforma dell’art. 2 cit. ad opera della l.n. 120/2020 (c.d. decreto Semplificazioni), nelle fattispecie di silenzio assenso l’emanazione di un provvedimento oltre i termini procedimentali legislativamente prescritti per la sua adozione determina l’inefficacia del provvedimento stesso, il che impone evidentemente di affermare la natura per l’appunto perentoria del termine stesso[24]. In realtà, anche prima della suddetta riforma si sarebbe potuto/dovuto sostenere la natura perentoria del termine finale nelle ipotesi di silenzio significativo: solo ritenendo non più esercitabile il potere di amministrazione attiva, una volta decorso il termine per provvedere, rinviene una sua coerente giustificazione il formarsi “silenzioso” degli effetti provvedimentali ex lege[25].
In conclusione, sul punto, la mera affermazione assiomatica della natura ordinatoria del termine finale, non pare poter legittimamente fungere da supporto alla dimostrazione della non applicabilità del regime del silenzio assenso alla fattispecie procedimentale de qua. Tra l’altro considerare quel termine come non perentorio si rivela palesemente contraddittorio con quanto previsto nella direttiva di riferimento e nello stesso d.lgs. n. 28/2011, laddove si valorizza l’esigenza che la disciplina attuativa relativa allo sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili sia connotata da procedure semplici, celeri e certe[26].
3.1. (segue): la riconducibilità del profilo del riconoscimento degli incentivi energetici alla materia “ambiente”
Il secondo e principale argomento sul quale si fonda la decisione in commento è rappresentato dall’affermazione secondo la quale nella fattispecie de qua troverebbe applicazione la deroga all’istituto del silenzio assenso prevista al co. 4 dell’art. 20 della l.n. 241/1990 “per atti e procedimenti riguardanti l’ambiente, materia nella quale, come la giurisprudenza ha già avuto modo di precisare, rientra a pieno titolo la disciplina invocata riferibile al settore degli incentivi per il risparmio energetico e al rispetto degli impegni internazionali sui cambiamenti climatici”. Secondo il Collegio, in altri termini, i procedimenti concernenti lo sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili andrebbero inquadrati nella materia della tutela dell’ambiente e, di conseguenza, sarebbe esclusa nei loro confronti l’operatività del regime del silenzio significativo.
La pronuncia richiama, al riguardo, un orientamento del giudice amministrativo teso a leggere in chiave unitaria i due profili (ambiente ed energia) e, di conseguenza, (per quanto maggiormente rileva in questa sede) a sottrarre dall’applicazione del silenzio assenso di cui all’art. 20 cit. alcuni procedimenti in materia di energia. Invero, mentre le decisioni aventi ad oggetto procedimenti autorizzatori relativi alla realizzazione di un impianto FER giustificano l’esclusione dell’operatività del regime del silenzio assenso in ragione dell’impatto della realizzazione dei nuovi volumi “sull’ambiente, la salute ed il patrimonio paesaggistico”[27], con specifico riferimento ai procedimenti volti a riconoscere incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili, le pronunce esaminate si limitano ad affermare che l’istituto delle tariffe incentivanti debba farsi rientrare nella materia “ambiente”, senza in alcun modo argomentare l’assunto[28].
La sola pronuncia che si sofferma su tale profilo[29], a ben vedere, chiarisce innanzitutto che il procedimento in questione non ha ad esclusivo oggetto la tutela dell’ambiente, il che “non rende il detto meccanismo di per sé incompatibile con l’utilizzo del silenzio assenso”; essa, quindi, conclude comunque per l’applicazione della deroga di cui all’art. 20, comma 4, della l. 241/1990 anche alle ipotesi di concessione di tariffe energetiche incentivanti, ma solo sulla base della (opinabile) considerazione secondo la quale dovrebbe “privilegiarsi un’esegesi che consenta di giungere all’adozione di un provvedimento esplicito”, in quanto il meccanismo del silenzio assenso “porterebbe a sacrificare in modo eccessivo quegli interessi sensibili di natura ambientale e derivazione europea che il procedimento intende perseguire”.
In realtà, secondo l’impostazione tradizionale, il rapporto tra le materie “energia” e “ambiente” non avrebbe una connotazione di tipo armonico, fondandosi piuttosto su una “dialettica conflittuale”[30]: da un lato, la sempre maggiore necessità di sfruttamento delle risorse energetiche rappresenta una costante minaccia per la tutela delle risorse naturali; dall’altro lato, l’energia, intesa come bene economico, trova nel sistema vincolistico delle politiche ambientali un forte limite al proprio sviluppo.
La netta separazione tra ambiente ed energia rinviene conferma nell’attuale versione dell’art. 117 Cost., ove – a seguito della riforma del Titolo V – la materia “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” non solo è indicata come autonoma rispetto alla materia “tutela dell’ambiente”, ma è anche posta in un elenco diverso, essendo inserita tra le materie per le quali è prevista la competenza concorrente tra Stato e regioni[31]. Il medesimo assetto è evincibile anche a livello Europeo, laddove l’energia configura una materia autonoma rispetto all’ambiente, con riguardo alla quale all’UE è riconosciuto una specifica sfera di intervento ai sensi dell’art. 194 TFUE[32].
Certo, nell’occuparsi del particolare settore della produzione di energia da fonti rinnovabili, la descritta relazione di sostanziale autonomia è destinata in parte a mutare, ma, a ben vedere, anche in tale contesto non mancano profili di sostanziale conflittualità, se solo si pensa, ad esempio, al noto contrasto tra istanze di tutela dell’ambiente/paesaggio e politiche di sviluppo dell’energia eolica e fotovoltaica[33]. In una significativa pronuncia del 2011, la Corte di Giustizia UE – chiamata a decidere sulla legittimità di una disciplina interna che vietava l’installazione di impianti eolici in zone protette dalla normativa europea in materia di conservazione degli habitat naturali – ha chiarito come non sussista affatto un rapporto di coessenzialità, né, talvolta, di compatibilità, tra esigenze di tutela dell’ambiente e istanze di sviluppo di “energia pulita”[34]. Come è stato osservato, il giudice europeo ha in quella occasione fatto emergere come l’interesse ambientale possa trovarsi in conflitto con quello energetico “non soltanto nell’ipotesi più tradizionale di energie esauribili vs. ambiente ma anche in un’ipotesi, in verità più complessa, quale energie rinnovabili vs. ambiente”[35].
A conferma della suddetta autonomia giuridico/concettuale, la Corte costituzionale ha in più occasioni sottolineato come la realizzazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili – pur indubitabilmente interferendo con la materia della tutela dell’ambiente – appartenga in via primaria alla materia “energia”[36] e si innesti nel più ampio contesto di favor nei confronti delle FER, volto all’eliminazione della dipendenza dalle fonti fossili di energia. Da ciò ne consegue che “il bilanciamento tra le esigenze connesse alla produzione di energia e gli interessi ambientali impone una preventiva ponderazione concertata in ossequio al principio di leale cooperazione” tra Stato e Regioni[37].
In effetti, dall’analisi dei numerosi documenti dell’UE in materia, si evince chiaramente come l’incentivazione dell’utilizzo di fonti di energia rinnovabile risponda ad un fine primario diverso da quello della tutela dell’ambiente, consistente piuttosto nell’esigenza di limitare la dipendenza dell’Unione Europea dallo sfruttamento e dalle importazioni di combustibili fossili: l’incremento della popolazione mondiale ed il contestuale innalzamento della domanda di energia impongono il ricorso a forme di produzione alternative a quelle tradizionali, fondate su risorse esauribili. Lo sviluppo della produzione di energia “pulita” è volta, pertanto, in primo luogo, a rendere sostenibile nel suo complesso l’intero settore energetico, attraverso una maggiore sicurezza negli approvvigionamenti e una netta riduzione delle importazioni di fonti energetiche tradizionali[38].
Posti tali obiettivi primari, non si intende certo negare che il processo di valorizzazione della c.d. green energy comporta conseguenze anche in chiave di tutela dell’ambiente – in ragione della riduzione delle emissioni nocive generate dal consumo e dalla produzione di energia da fonti tradizionali – nonchè in termini di vantaggi economici, derivanti, da un lato, dal risparmio sul costo dell’acquisto di combustibili tradizionali e, dall’altro lato, dall’incremento delle esportazioni e dell’occupazione[39]. A ben vedere, tuttavia, pur essendo evidenti gli impatti che gli interventi in materia di energia pulita hanno sulle politiche di protezione ambientale, si intende rimarcare come ciò non esaurisca affatto il proprium di una politica di sviluppo (e incentivazione) di energie rinnovabili, ponendosi piuttosto come una delle conseguenze, insieme a quelle di carattere economico. Di qui l’erroneità dell’operazione ricostruttiva condotta dal T.A.R. del Lazio, tesa a prospettare l’esistenza di una automatica endiadi tra energia e ambiente.
E che il procedimento in esame non debba essere inquadrato all’interno della materia ambiente, lo si desume a contrario anche dall’analisi del d.lgs. n. 222/2016 (c.d. SCIA 2), la cui Tabella A, come noto, indica i regimi amministrativi dei procedimenti in diverse materie, tra le quali quella ambientale[40]. Ebbene, nella suddetta tabella, i procedimenti di incentivazione tariffaria non sono contemplati (trattandosi, evidentemente di materia “energia”) mentre i procedimenti volti al rilascio dei titoli autorizzatori necessari per la realizzazione e l’esercizio di impianti alimentati da fonti rinnovabili non sono elencati all’interno della sezione “Ambiente”, bensì nella sezione “Edilizia”.
Insomma, se è vero che è ormai pacifico che politiche ambientali efficaci debbano necessariamente fondarsi sul principio di integrazione, ovvero superare una prospettiva settoriale optando piuttosto per una logica sistemica che tenga conto, in un unico processo decisionale, dei diversi interessi emergenti[41] (tra i quali, evidentemente, le politiche energetiche nazionali), ciò non legittima affatto operazioni volte a rendere l’ambiente una “super-materia” nella quale far confluire interessi differenti e dotati di autonomia giuridica oltre che concettuale.
Tra l’altro, spostando l’attenzione dal profilo dell’inquadramento formale del procedimento de quo a quello della sua portata sostanziale, può osservarsi come nel caso di specie il GSE non sia chiamato a valutare l’impatto sull’ambiente dell’attività oggetto di concessione della tariffa incentivante, come invece accade nelle fattispecie decisorie aventi ad oggetto gli effetti della realizzazione fisica di un impianto alimentato da fonti rinnovabili. Il riconoscimento di incentivi alla produzione di energia “pulita” ha di per sé un effetto positivo sulle politiche di protezione ambientale: il GSE deve unicamente verificare la sussistenza o meno di presupposti per l’attribuzione di un beneficio implicitamente consonante con l’interesse alla tutela ambientale, il che conferma la piena compatibilità della fattispecie in esame con il regime del silenzio assenso.
In definitiva, in relazione ai procedimenti volti al riconoscimento di forme di incentivazione alla produzione di green energy manca (nella sostanza) l’esigenza di escludere l’applicazione del regime semplificato e (nella forma) la sussumibilità della materia energia nella materia ambiente: come si è dimostrato, infatti, queste ultime – seppur necessariamente correlate in numerose loro espressioni[42] – mantengono una sostanziale autonomia dal punto di vista regolativo, organizzativo e funzionale[43].
3.2. (segue): la sussistenza di un obbligo comunitario di concludere il procedimento con una decisione espressa
Quale terzo, ed ultimo, elemento posto dal Collegio a fondamento del proprio convincimento circa la non applicabilità del regime del silenzio assenso al procedimento de quo, viene indicata la presunta “necessità che il procedimento debba concludersi con un atto espresso in base al diritto europeo”.
Come noto, in diversi contesti il legislatore Europeo richiede che un procedimento si concluda necessariamente con l’emanazione di un provvedimento espresso al fine di assicurare l’effettività delle previsioni comunitarie[44]. Ciò avviene, in sostanza, ogniqualvolta, un’autorizzazione tacita non possa considerarsi compatibile con le prescrizioni di una direttiva, o perché non in grado di consentire la realizzazione di controlli successivi per i quali occorrono parametri di riferimento indicati nel titolo, ovvero in quanto l’attività oggetto di autorizzazione necessita di prescrizioni evincibili unicamente dal provvedimento espresso[45].
A sostegno del proprio convincimento, il Collegio richiama alcuni precedenti giurisprudenziali. Il primo fra questi, tuttavia, non appare conferente, avendo ad oggetto un procedimento diverso, ovvero la realizzazione di un impianto di produzione di energia da fonti rinnovabili e non il riconoscimento di incentivi tariffari alla produzione[46]. Come già osservato, le due fattispecie non sono affatto assimilabili: mentre la realizzazione di nuovi volumi a destinazione industriale può ovviamente avere un impatto sulle risorse ambientali, la semplice acquisizione di un beneficio avente carattere meramente economico è, rispetto a quelle risorse, del tutto indifferente. La pronuncia in commento richiama, poi, un secondo precedente, nel quale, in effetti, si afferma che tanto la direttiva di riferimento quanto la disciplina nazionale di attuazione imporrebbero l’adozione di un provvedimento espresso in materia di concessione degli incentivi “in quanto l’unico coerente con le finalità programmatorie e finalistiche in ambito nazionale […], con le garanzie di origine dell’elettricità prodotta […], nonché in grado di soddisfare le necessità di coordinamento della produzione dell’energia con le esigenze e le necessità dei gestori delle reti”[47].
A ben vedere, la stessa giurisprudenza richiamata non afferma affatto (né avrebbe potuto) che la normativa eurounitaria preveda espressamente l’obbligo di concludere il procedimento de quo con un provvedimento formale, bensì si limita a sostenere che tale conclusione sarebbe l’unica “coerente” con l’assetto regolativo generale. I giudici, in altri termini, effettuano una non condivisibile operazione deduttiva laddove ritengono di poter trarre da una interpretazione di tipo sistematico ciò che la normativa eurounitaria non dice; il tutto a fronte del chiaro tenore dell’art. 20 cit., il cui co. 4 consente di derogare alla regola generale dell’applicazione del regime del silenzio assenso unicamente nei casi “in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali”. Il che, nel caso di specie, non è.
La direttiva n. 2009/28/CE, infatti, nel disciplinare le procedure amministrative relative alle misure di sostegno alla produzione di energia da fonti rinnovabili, si limita a disporre che gli Stati membri assicurino l’adozione di procedure proporzionate e necessarie, semplificate ed accelerate (cfr. art. 13). In altri termini, il legislatore europeo non solo non impone affatto l’adozione di un provvedimento formale, ma – nell’individuare i principi di riferimento ai quali gli Stati membri sono tenuti ad adeguarsi nel definire l’iter funzionale alla concessione di incentivi per impianti da fonte rinnovabile – sembra indicare una netta preferenza per la previsione di procedimenti idonei a giungere ad una conclusione in forma semplificata, certa e celere, il che, evidentemente, appare compatibile con l’applicazione del regime del silenzio significativo, molto meno con la presunta imposizione di una decisione espressa da adottare anche oltre il termine procedimentale[48].
Come noto, tra l’altro, il d.lgs. n. 59/2010, attuativo della Direttiva Bolkestein, nell’ambito di un più ampio intervento di liberalizzazione[49], dispone all’art. 17 che ai procedimenti autorizzatori o concessori concernenti l'esercizio delle attività di servizi economici “si segue, ove non diversamente previsto, il procedimento di cui all'articolo 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241”, chiarendo, altresì che solo “qualora sussista un motivo imperativo di interesse generale, può essere imposto che il procedimento si concluda con l'adozione di un provvedimento espresso”[50]. Nel caso di specie, pertanto, in assenza di una disposizione eurounitaria che chiarisca il motivo imperativo di interesse generale che imporrebbe la decisione espressa, non può che trovare applicazione l’istituto acceleratorio del silenzio assenso.
Del resto, a ben vedere, anche la normativa italiana attuativa della direttiva del 2009 contempla un regime procedimentale semplificato, senza affatto prevedere l’obbligo di concludere il procedimento con l’emanazione di un provvedimento formale. In particolare, l’art. 4 del d.lgs. n. 28/2011 dispone, in via generale, che “la costruzione e l'esercizio di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili sono disciplinati secondo speciali procedure amministrative semplificate, accelerate, proporzionate e adeguate”[51]. Come è stato osservato, dunque, contrariamente a quanto avviene per gli “istituti del diritto ambientale, in cui tradizionalmente l’applicazione degli istituti di semplificazione risulta recessiva rispetto alla esigenza di garantire un completo sviluppo dell’iter procedimentale, nella materia in esame sembra prevalere il principio di non aggravamento procedurale al fine di assicurare l’efficacia dell’azione amministrativa”[52].
Con specifico riferimento ai procedimenti relativi al riconoscimento di misure di incentivazione, l’art. 28 dello stesso d.lgs. n. 28/2011 rinvia a successivi decreti interministeriali per l’individuazione delle modalità con le quali il GSE provvede ad erogare gli incentivi. Come già osservato, il d.m. 5 maggio 2011 – contenente la disciplina del regime incentivante oggetto della pronuncia in commento – dispone che gli impianti accedono direttamente (o previa iscrizione ad un registro) alla tariffa incentivante, fatto salvo l’onere di comunicazione al GSE dell’avvenuta entrata in esercizio entro 15 giorni dalla stessa (art. 6) e che il GSE, verificato il rispetto delle disposizioni del decreto, “determina e assicura l’erogazione della tariffa” (art. 10), riconosciuta a decorrere dalla data di entrata in esercizio dell’impianto (art. 12). Il soggetto che ne ha diritto, quindi, ottiene l’incentivo alla sola condizione che comunichi per tempo l’avvio della produzione di energia da fonte rinnovabile, e l’attività che il GSE è chiamato a porre in essere (determinazione e assicurazione dell’erogazione della tariffa) non richiede affatto l’emanazione di un provvedimento formale, consistendo nella mera applicazione di criteri predeterminati. Il GSE, in altri termini, è chiamato semplicemente ad effettuare una attività di controllo (circa la sussistenza dei requisiti necessari) e di definizione tariffaria, il tutto senza spendere alcun potere a carattere discrezionale, tanto da far legittimamente ritenere che l’unico ostacolo alla liberalizzazione della fattispecie sia rappresentato dalla previsione di un “contingente complessivo” massimo incentivabile, atto ad escludere l’applicazione del regime della s.c.i.a.
La natura vincolata della funzione esercitata dal GSE è stata più volte ribadita dalla giurisprudenza amministrativa, ove – nel ricostruire il regime degli incentivi concernenti la produzione di energia da fonti rinnovabili – ha affermato che esso si fonda sulle dichiarazioni che il soggetto titolare dell’impianto, sotto la propria responsabilità, fa pervenire al GSE e in base alle quali quest’ultimo determina la sussistenza, o meno della possibilità di accedere o di mantenere gli incentivi (salvi i controlli ex post)[53]. Il GSE, pertanto, “eserciterebbe un immanente potere di accertamento e controllo che, essendo volto essenzialmente a verificare quanto dichiarato dal beneficiario dell’incentivo, sarebbe privo di spazi di discrezionalità, avendo anzi, natura doverosa ad esito vincolato”[54]. Tale ricostruzione trova ulteriore conferma sia nella affermata applicabilità al procedimento de quo dell’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241/1990, atteso il “carattere vincolato della valutazione operata dal GSE”[55], sia nella qualificazione dei poteri di controllo ad esito negativo esercitati dallo stesso GSE non in termini di attività sanzionatoria o di autotutela, bensì di mera “decadenza, intesa quale vicenda pubblicistica estintiva […] per il carattere vincolato del potere”[56].
Ebbene, il carattere vincolato dell’attività esercitata dal GSE avvalora ulteriormente la possibile fine “silenziosa” del procedimento. È nota la tesi avanzata da una parte della dottrina e della giurisprudenza secondo la quale – al di fuori delle deroghe espresse di cui al co. 4 dell’art. 20 cit. – il regime del silenzio assenso non troverebbe comunque applicazione in relazione a fattispecie connotate da un ampio grado di discrezionalità, per le quali si ritengono imprescindibili le garanzie derivanti dalla cristallizzazione della decisione in un provvedimento formale[57]. Pur volendo aderire a tale (discutibile) indirizzo, il carattere sostanzialmente vincolato del procedimento volto al riconoscimento della tariffa energetica incentivante ne attesterebbe la piena compatibilità con il regime del silenzio assenso, non venendo in essere alcun elemento di criticità in merito all’eventuale mancata adeguata ponderazione degli interessi[58].
Un ulteriore elemento che collide con la prospettata inammissibilità di una conclusione “silenziosa” del procedimento volto al riconoscimento degli incentivi energetici tariffari è rappresentato dalla circostanza che l’eventuale decisione espressa del GSE non avrebbe, in ogni caso, alcun contenuto conformativo, limitandosi a concedere la tariffa incentivante alla luce dei controlli effettuati. Come noto, una delle principali ragioni che non consentono l’applicazione del regime del silenzio assenso alle autorizzazioni in materia ambientale è che queste ultime sono connotate da un contenuto complesso, in quanto non si limitano a permettere l’esercizio di un’attività, ma contengono anche una serie di prescrizioni relative a come tale attività debba essere svolta, ai limiti da rispettare, agli accorgimenti da predisporre, ecc. Si tratta del c.d. carattere conformativo dell’atto, che discende dall’esigenza di “controllare” il privato non solo al principio (verifica dei requisiti), ma nel corso dell’intera durata dell’attività, obbligandolo a rispettare standard e modalità di esercizio necessari per garantire la sostenibilità ambientale dell’iniziativa[59]. Ebbene, nella fattispecie in esame tale esigenza non sussiste: l’atto con il quale si riconosce la tariffa incentivante si limita – una volta verificata la sussistenza dei presupposti richiesti – ad attestare che quella determinata impresa ha diritto a ricevere il sostegno economico per il quale ha presentato istanza, senza contenere alcuna specifica prescrizione pro futuro, il che conferma la piena compatibilità del regime del silenzio assenso.
Non secondaria, infine, la considerazione secondo cui sarebbe davvero paradossale sostenere che mentre per la realizzazione di un impianto FER (attività indubbiamente impattante sull’ambiente) è in alcuni casi contemplato un regime liberalizzato, assimilabile s.c.i.a., denominato Procedura abilitativa semplificata (PAS)[60], per accedere al sistema di incentivo tariffario (profilo puramente economico, privo di alcun impatto diretto) sarebbe inapplicabile il regime del silenzio assenso e sempre necessario il rilascio del provvedimento espresso.
4. Riflessioni conclusive
La conclusione cui perviene la pronuncia in commento, laddove esclude che al procedimento volto al riconoscimento di una tariffa incentivante in materia di produzione di energia da fonti rinnovabili possa applicarsi il regime del silenzio assenso, non convince sotto molteplici profili. Come si è cercato di dimostrare, nel caso di specie ci si trova innanzi ad un procedimento ad istanza di parte, avente ad oggetto una materia (l’energia) non rientrante tra quelle per le quali opera la deroga di cui all’art. 20, co. 4 cit., e rispetto alla quale la normativa eurounitaria non impone espressamente l’emanazione di una decisione formale. Di talchè, decorso il termine di 120 giorni, la corretta applicazione della disciplina generale di cui all’art. 20 cit. avrebbe dovuto far concludere per l’avvenuta formazione “silenziosa” degli effetti del provvedimento ad esito positivo, con la conseguenza che il GSE avrebbe potuto al massimo intervenire in sede di riesame[61].
Non può tacersi, tuttavia, come il non condivisibile assetto di interessi determinato dal T.A.R. del Lazio sia il frutto di un contesto di grave incertezza regolativa[62] – derivante dalla assenza di un elenco tassativo dei procedimenti per i quali non opera il regime generale del silenzio assenso[63] – incertezza la cui rilevanza è evidente in un settore, quale quello degli incentivi energetici, per il quale la prevedibilità delle decisioni pubbliche assume un ruolo determinante in termini di stabilità e tutela delle legittime aspettative degli investitori privati[64]. Nella vicenda in esame, operandosi nella materia energia, l’impresa aveva in perfetta buona fede (e correttamente) escluso dovesse trovare applicazione la deroga di cui all’art. 20, co. 4 cit. e giammai avrebbe potuto immaginare che il giudice amministrativo avrebbe frustrato il suo legittimo affidamento[65] ritenendo legittimo un provvedimento del GSE emanato oltre un anno dallo spirare del termine procedimentale, senza, tra l’altro, configurare alcun tipo di responsabilità per il tardivo esercizio della funzione[66].
Tra l’altro, appare ancora più paradossale la scelta del giudice di interpretare estensivamente la deroga di cui all’art. 20, co. 4 cit., a fronte della recente evoluzione che è possibile registrare nel bilanciamento tra semplificazione e tutela dell’ambiente[67]: tralasciando ogni ordine di valutazione di merito, è noto come sia ormai caduto il dogma della iper-tutela procedimentale degli interessi c.d. sensibili, se solo si pensa all’estensione del regime del silenzio assenso nei rapporti tra amministrazioni (c.d. silenzio assenso orizzontale) anche alle decisioni in materia ambientale[68], il che ha indotto la dottrina a parlare significativamente di “desacralizzazione” dell’ambiente[69].
In conclusione, l’analisi della pronuncia in commento conferma ulteriormente il sostanziale fallimento della scelta legislativa di rendere l’art. 20 cit. norma a carattere generale[70] e ciò non solo in ragione della conseguente dequotazione dell’esercizio della funzione pubblica[71], ma anche a causa dei molteplici profili di incertezza ai quali l’applicazione di tale istituto conduce[72]. Se da un lato, quindi, appare comprensibile una tendenza di tipo restrittivo da parte di una certa giurisprudenza, preoccupata dalle derive di una semplificazione “a tutti i costi”, dall’altro lato, non è ammissibile che le criticità evidenziate vengano risolte dal giudice amministrativo attraverso una perimetrazione dell’ambito di applicazione del silenzio assenso compiuta mediante un’interpretazione a dir poco forzata della norma, pena, come si è cercato di dimostrare, l’ulteriore aggravarsi del livello di incertezza regolativa cui deve far fronte il cittadino.
Urge, piuttosto, un “ritorno al passato”, in termini di abbandono del modello della generalizzazione del silenzio assenso – introdotto nel 2005 e confermato nel 2010 con l’inserimento del silenzio assenso nel novero dei livelli essenziali delle prestazioni – restituendo a tale istituto il suo carattere derogatorio rispetto al generale dovere di concludere il procedimento con un provvedimento espresso di cui all’art. 2, l. n. 241/1990. In tale ottica, del resto, sembra essersi già mosso il legislatore statale. Come è noto, l’art. 5 della l. n. 124/2015 (c.d. Legge Madia) ha delegato il Governo, tra l’altro, ad adottare uno o più decreti legislativi per la precisa individuazione dei procedimenti oggetto di silenzio assenso ai sensi dell’art. 20, l. n. 241/1990, in tal modo (almeno in apparenza) preludendo ad un ritorno alla tipizzazione delle fattispecie incluse nell’ambito di applicazione dell’istituto in esame[73]. La delega è stata in parte attuata con il d.lgs. n. 222/2016 (c.d. SCIA 2), cui è allegata una Tabella A dove sono indicate le diverse attività private assoggettate ad autorizzazione espressa, a silenzio assenso, a s.c.i.a. o a semplice comunicazione nei settori delle Attività commerciali, dell’Edilizia e dell’Ambiente[74].
E’ auspicabile che tale processo di tipizzazione delle fattispecie assoggettate al regime del silenzio assenso interessi quanto prima anche la materia dell’Energia, tenendo anche conto del ruolo centrale dello sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili all’interno del più ampio processo di transizione energetica previsto nel recente Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC)[75], nonché nel Piano per la ripresa dell’Europa (c.d. Recovery Fund)[76]. L’obiettivo è quello di scongiurare che – nonostante negli ultimi anni si siano avvicendati (sia a livello internazionale che nazionale) atti di regolazione, atti di programmazione, linee guida, tutti convergenti verso la centralità della promozione della green energy – il tutto finisca per essere frustrato da decisioni amministrative (e giudiziarie) poco in linea con la programmata transizione ecologica[77].
[1] Sul tema si rinvia a G. Giordano, Il sindacato sui titoli autorizzativi: il potere del g.s.e. S.p.A. tra controllo formale e sostanziale, in Giustamm, 2019.
[2] In senso analogo anche due successive pronunce dello stesso T.A.R. del Lazio, Sez. Terza Stralcio, 14 dicembre 2020, n. 13460 e 14 dicembre 2020, n. 13462.
[3] Cfr. il Libro Verde UE: Una Strategia Europea per Energia Sostenibile, Competitiva e Sicura, COM (2006) 105 dell’8 marzo 2006 e la Comunicazione della Commissione 2010/639 del 10.11.2010 (Energia 2020: strategia per un’energia competitiva, sostenibile e sicura).
[4] “Innegabile che la transizione del mercato energetico verso un sistema a basso tasso di CO2 richieda un intervento economico pubblico per promuovere gli investimenti nella produzione di energia e per la sicurezza delle forniture”, L. Ammannati, La transizione energetica nell’Unione Europea. Il nuovo modello di governance, in G. De Maio (a cura di), Introduzione allo studio del diritto dell’energia. Questioni e prospettive, Napoli, 2019, 11. Sul tema v. anche G. Landi, C. Scarpa, Il livello ottimale degli incentivi verso la grid parity, in G. Napolitano, A. Zoppini (a cura di), Annuario di diritto dell’energia. Regole e mercato delle energie rinnovabili, Bologna, 2013, 80 ss.
[5] M. Clarich, La tutela dell’ambiente attraverso il mercato, in Dir. pubbl, 1/2007, 219 ss.; L. Ammanati, Le politiche di efficienza energetica nel quadro del pacchetto europeo clima-energia, in Amministrazione in cammino, 2013, 1 ss.; F. Fracchia, Introduzione allo studio del diritto dell’ambiente. Principi, concetti, istituti, Napoli, 2013, 75 ss.
[6] Mediante i certificati verdi il legislatore ha imposto ai produttori di energia l’obbligo di immissione di una certa quota di “energia verde”, obbligo ottemperabile sia riorientando parte della propria produzione verso le fonti di energia rinnovabile, sia acquistando certificati da un produttore terzo che ha prodotto energia rinnovabile in eccedenza rispetto a quanto impostogli. V. Colcelli, La natura giuridica dei certificati verdi, in Riv. giur. ambiente, 2/2012, 179 ss.
[7] I certificati bianchi sono titoli di efficienza energetica che certificano il conseguimento di risparmi energetici e che i distributori di energia elettrica e di gas naturale sono obbligati ad acquisire, o promuovendo progetti di efficienza energetica, o acquistando i titoli dagli altri soggetti ammessi al meccanismo. E. Tedeschi, La regolazione dell’efficienza energetica, in Riv. amm. Rep. It., 2015, 261 ss.
[8] Si tratta di una remunerazione ulteriore, calcolata sulla base della quota di energia elettrica prodotta da fonte rinnovabile immessa in rete, destinata agli impianti qualificati come Impianti alimentati a fonti rinnovabili (IAFR) dal GSE. E. Manassero, Il passaggio dai certificati verdi alla tariffa onnicomprensiva, in Ambiente e sviluppo, 7/2013, 657 ss.
[9] Tariffe incentivanti con cui il Gestore garantisce il ritiro dell’energia rinnovabile prodotta ad un prezzo prefissato che tenga conto della componente dell’incentivo e, pertanto, più elevato di quello di mercato. E’ stato osservato che “benché tale sistema garantisca certezza circa il ritorno dell’investimento, questo meccanismo presenta tuttavia il profilo critico per cui la fissazione di un prezzo predefinito in via amministrativa sottrae la sua formazione al mercato” (M. Cocconi, Gli incentivi alle fonti rinnovabili e i principi di proporzionalità e di tutela del legittimo affidamento, in Munus, 1/2014, 53).
[10] Sulla applicabilità del regime degli aiuti di Stato alle diverse tipologie di incentivi alla produzione di energia da fonte rinnovabile v.Corte Giust UE, 13 Settembre 2017, C-329/15, nonchè la comunicazione (2014/C 200/01) della Commissione europea recante “Disciplina in materia di aiuti di Stato a favore dell’ambiente e dell’energia 2014-2020”. Sul tema si rinvia anche a F.M. Salerno, F. Macchi, Recenti sviluppi della giurisprudenza europea su meccanismi di supporto della produzione di energia da fonti rinnovabili e disciplina europea degli aiuti di Stato, in Rivista della Regolazione dei mercati, 1/2018, 160 ss.
[11] A. Marzanti, Semplificazione delle procedure e incentivi pubblici per le energie rinnovabili, in Riv. giur. ambiente, 5/2012, 499 ss.
[12] M. D’Auria, La finanza pubblica e le energie rinnovabili, in Riv. giur. ambiente, 6/2009, 879 ss.
[13] M. Ragazzo, Il d.lgs. n. 28/2011: promozione delle fonti energetiche rinnovabili o…moratoria de facto?, in Urb. e app., 2011, 638 ss.
[14] Cfr. Pagina web istituzionale del GSE, nella parte dedicata al Conto Energia, disponibile al link: https://www.gse.it/servizi-per-te/fotovoltaico/conto-energia.
[15] Una analitica descrizione di tali modelli di incentivazione energetica è presente in https://www.gse.it/chi-siamo/attivit%C3%A0/gse-per-le-energie-rinnovabili#Meccanismi.
[16] Cfr. il Clean energy for all Europeans package (Commissione Europea, 2016), https://ec.europa.eu/energy/topics/energy-strategy/clean-energy-all-europeans_en, in attuazione del quale l’Italia ha adottato il Piano Nazionale Integrato Energia Clima (PNIEC), ove sono individuati gli obiettivi da raggiungere per il 2030, tra i quali la copertura del 32% dei consumi energetici finali lordi da energia da fonti rinnovabili. Per un’ampia analisi del documento Europeo e delle successive azioni poste in essere dall’UE si rinvia a M. De Focatiis, Il Clean Energy for all Europeans, in in G. De Maio (a cura di), Introduzione allo studio del diritto dell’energia. Questioni e prospettive, Napoli, 2019, 39 ss.
[17] Non risulta ancora approvato, invece, il cd. Decreto FER 2, destinato a definire regole e incentivi relativamente alla produzione di energia attraverso fonti rinnovabili innovative, quali il biogas, il solare termodinamico e la geotermia.
[18] Per un’analisi delle criticità applicative di cui al IV° Conto energia v. G.F. Cartei, Ambiente e mercato nella disciplina delle energie rinnovabili, in Il diritto dell’economia, 3/2013, 614-615.
[19] Sottolinea come nel settore dell’incentivazione tariffaria degli impianti fotovoltaici, le modalità procedurali introdotte dai diversi decreti interministeriali si siano spesso rivelate in contrasto con i principi generali della normativa europea e nazionale di riferimento, ispirate ai principi della semplificazione e della celerità, M.A. Sandulli, La s.c.i.a. e le nuove regole sulle tariffe incentivanti per gli impianti di energia rinnovabile: due esempi di “non sincerità” legislativa. Spunti per un forum, in Federalismi.it, 6/2011, 18-19.
[20] G. La Rosa, La rideterminazione dei poteri del GSE nel d.l. semplificazioni e la (apparente) stabilità degli incentivi per l’energia da fonte rinnovabile, in Ambientediritto.it, 1/2021, 1 ss.
[21] N. Abbagnano, G. Fornero, La ricerca del pensiero, Milano, 2012, 330 ss.
[22] In termini v. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 1 luglio 2019, n. 3575, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 2 aprile 2019, n. 4308, ivi; Cons. Stato, Sez. V, 1 ottobre, 2015, n. 4599, ivi.
[23] G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, 2013, 236. Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 26 gennaio 2015, n. 313, in www.giustizia-amministrativa.it.
[24] Sul punto e, più in generale, sugli effetti della recente introduzione del regime dell’inefficacia del provvedimento tardivo ai sensi del nuovo co. 8-bis dell’art. 2, l.n. 241/1990, sia consentito rinviare a M. Calabrò, ll silenzio assenso nella disciplina del permesso di costruire. L’inefficacia della decisione tardiva nel d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni), in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[25] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 13 agosto 2020, n. 5034, in www.giustizia-amministrativa.it.; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 28 maggio 2018, n. 3493, in www.giustizia-amministrativa.it.
[26] G.F. Cartei, Ambiente e mercato nella disciplina delle energie rinnovabili, cit., 606.
[27] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 13 ottobre 2015, n. 4712, in www.giustizia-amministrativa.it, e T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 1 settembre 2015, n. 10980, ivi.
[28] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 5 giugno 2019, n. 7222; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, 7 giugno 2019, n. 7460; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, 18 febbraio 2019, n. 2169, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[29] Cons. Stato, Sez. IV, 14 maggio 2018, n. 2859 in www.giustizia-amministrativa.it.
[30] G.D. Comporti, Energia e ambiente, in G. Rossi (a cura di), Diritto dell’ambiente, Torino, 2015, 283.
[31] Su tale aspetto, invero, occorre ricordare come – al fine di evitare che in un settore strategico quale quello dell’energia, allo Stato fosse affidata unicamente la fissazione dei principi fondamentali – la Corte costituzionale abbia in diverse pronunce fatto ricorso all’istituto della chiamata in sussidiarietà per legittimare interventi statali maggiormente invasivi (cfr. Corte Cost., 13 gennaio 2004, n. 6, in Riv. corte conti, 3/2004, 283; Corte Cost., 14 ottobre 2005, n. 383, in Giur. cost., 2005, 5). Sul tema, si rinvia a A. Colavecchio, La materia “energia” tra “nuovo” e “nuovissimo” Titolo V della Costituzione, in Studi in onore di Francesco Gabriele, Bari, 2016, 358 ss.; F. De Leonardis, La Consulta tra interesse nazionale e energia elettrica, in Giur. cost., 2004, 146 ss.
[32] Ai sensi dell’art. 194 TFUE, la politica dell’UE nel settore dell’energia è finalizzata a: a)garantire il funzionamento del mercato dell'energia; b) garantire la sicurezza dell'approvvigionamento energetico nell'Unione; c) promuovere il risparmio energetico, l'efficienza energetica e lo sviluppo di energie nuove e rinnovabili; d) promuovere l'interconnessione delle reti energetiche. Per un’analisi della previsione di una autonoma base giuridica europea in materia energetica e sulle conseguenze circa il diritto di ciascuno Stato membro di determinare una propria politica energetica nazionale, v. G. De Maio, Cambiamento climatico ed energia rinnovabile decentrata: il ruolo delle politiche pubbliche in un’economia circolare, in G. De Maio (a cura di), Introduzione allo studio del diritto dell’energia. Questioni e prospettive, Napoli, 2019, 156-165.
[33] L. Ammanati, L’incertezza del diritto. A proposito della politica per le energie rinnovabili, in Riv. quad. dir. amb., 2011, 26 ss.; V. Molaschi, Paesaggio versus ambiente: osservazioni alla luce della giurisprudenza in materia di realizzazione di impianti eolici, in Riv. giur. ed., 5-6/2009, 171 ss.; S. Amorosino, Impianti di energia rinnovabile e tutela dell’ambiente e del paesaggio, in Riv. giur. ambiente, 6/2011, 753 ss., chiarisce come ambiente, energia e paesaggio – pur nella loro indiscutibile affinità – configurino comunque concetti dotati di piena autonomia. L’Autore parla, in particolare, di “tre prismi, cioè concetti polisensi e complessi”, che si intrecciano talvolta correlandosi, tal altra opponendosi.
[34] Corte Giust. UE, 21 luglio 2011, causa C-2/10, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 5/2011, 1264, con nota di G. Ligugnana, Corte di Giustizia, interessi ambientali e principio di proporzionalità. Considerazioni a margine della sent. 21 luglio 2011, C-2/10.
[35] M. Marletta, Il quadro giuridico europeo sulle energie rinnovabili, in Dir. dell’Unione Europea, 3/2014, 488.
[36] Corte Cost., 15 aprile 2019, n. 86, in Le Regioni, 3/2019, 837, con nota di C. Pellegrino, Ambiente ed Energia: la Corte costituzionale conferma i suoi orientamenti e il suo ruolo di supplenza ermeneutica. In termini cfr. Corte Cost., 6 dicembre 2012, n. 275, in Foro it., 2013, 1070; Corte Cost., 29 maggio 2009, n. 166, in Foro it., 2009, 2296; Corte Cost., 9 novembre 2006, n. 364, in Riv. giur. ambiente, 2007, 304.
[37] Corte Cost., 15 giugno 2011, n. 192, in Riv. giur. edilizia, 2011, 1140; Corte Cost., 3 marzo 2011, n. 67, in Giur. cost., 2011, 1025.
[38] Cfr. le Comunicazioni della Commissione europea 1997/599 del 26 novembre 1997 (Energia per il futuro: le fonti energetiche rinnovabili), 2001/69 del 16 febbraio 2001 (Attuazione della strategia e del piano di azione della Comunità sulle fonti energetiche rinnovabili), 2007/1 del 10 gennaio 2007 (Una politica energetica per l’Europa) nonché, più recentemente, le direttive 2009/28/CE e 2018/2001/UE.
[39] S. Quadri, L’evoluzione della politica energetica comunitaria con particolare riferimento al settore dell’energia rinnovabile, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 3-4/2011, 839 ss.
[40] L. Farronato, Il d.gs. 222/2016 c.d. “SCIA-2”, in Disciplina del commercio e dei servizi, 1/2017, 13 ss.; E. Boscolo, La Scia dopo la legge Madia e i decreti attuativi, in Giur. it., 12/2016, 2799 ss.
[41] Cfr. art. 11 TFUE “Le esigenze connesse con la tutela dell'ambiente devono essere integrate nella definizione e nell'attuazione delle politiche e azioni dell'Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”. Sul principio di integrazione v. B. Caravita, L. Cassetti, A. Morrone, Diritto dell’ambiente, Bologna, 2016, 89-90;.E. Frediani, Decisione condizionale e tutela integrata di interessi sensibili, in Dir. amm., 2017, 447 ss.
[42] P. Dell’Anno, Funzioni e competenze nella vicenda energetico-ambientale e loro coordinamento, in Rass. giur. en. el., 1987, 955 ss.
[43] F. De Leonardis, Il ruolo delle energie rinnovabili nella programmazione energetica nazionale, in G. Napolitano, A. Zoppini (a cura di), Annuario di diritto dell'energia 2013. Regole e mercato delle energie rinnovabili, Bologna, 2013, 131 ss.
[44] M. Lottini, Il mercato europeo: profili pubblicistici, Napoli, 2010, 306.
[45] Cfr. Corte Giust. UE, 19 settembre 2000, C-287/98; Corte Giust UE, 28 febbraio 1991, C-360/87; Cons. Stato, Sez. IV, 3 ottobre 2014, n. 4967, in Foro amm., 2014, 2530.
[46] Si tratta di Cons. Stato, Sez. IV, 13 ottobre 2015, n. 4712, in www.giustizia-amministrativa.it.
[47] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 2 aprile 2013, n. 3249, in www.giustizia-amministrativa.it.
[48] A conferma di tale opzione ermeneutica è possibile richiamare quelle pronunce della Corte Costituzionale con le quali è stata dichiarata l’illegittimità di disposizioni normative regionali che avevano introdotto ingiustificati aggravi per la realizzazione e l’esercizio di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, in ragione del “principio fondamentale di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabile, stabilito dal legislatore statale in conformità alla normativa dell’Unione Europea”, Corte Cost., 15 aprile 2019, n. 86, in Le Regioni, 3/2019, 837, con nota di C. Pellegrino, Ambiente ed Energia: la Corte costituzionale conferma i suoi orientamenti e il suo ruolo di supplenza ermeneutica. In termini v. anche Corte Cost., 30 gennaio 2014, n. 13, in Foro amm., 2014, 372; Corte Cost., 11 febbraio 2011, n. 44, in Giur. cost., 2001, 612.
[49] N. Longobardi, Attività economiche e semplificazione amministrativa. La «direttiva Bolkestein» modello di semplificazione, in www.amministrazioneincammino.it, 2009.
[50] V. Parisio, Direttiva «Bolkestein», silenzio-assenso, d.i.a., liberalizzazioni temperate, dopo la sentenza del Consiglio di Stato A.P. 29 luglio 2011 n. 15, in Foro amm.-TAR, 2011, 2978 ss.
[51] In generale, sul difficile bilanciamento, in materia energetica, tra tutela ambientale e iniziativa economica privata nell’ottica della semplificazione v. A. Moliterni, La regolazione delle fonti energetiche rinnovabili tra tutela dell’ambiente e libertà dell’iniziativa economica privata: la difficile semplificazione ammministrativa, in Federalismi, 18/2017.
[52] G.F. Cartei, Ambiente e mercato nella disciplina delle energie rinnovabili, cit., 606.
[53] T.A.R. Lazio, Sez. III-ter, 26 novembre 2020, n. 12631, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 11 agosto 2020, n. 9158 in www.giustizia-amministrativa.it.
[54] G. La Rosa, La rideterminazione dei poteri del GSE nel d.l. semplificazioni e la (apparente) stabilità degli incentivi per l’energia da fonte rinnovabile, cit., 8.
[55] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 9 aprile 2020, n.3856, in www.giustizia-amministrativa.it.
[56] Cons. Stato, Ad. Plen. 11 settembre 2020, n. 18, in www.giustizia-amministrativa.it. In termini anche T.A.R. Lazio, Roma, Lazio, sez. III, 23 marzo 2020, n.3569 in www.giustizia-amministrativa.it, ove si afferma che “La potestà esercitata dal GSE S.p.A., a seguito della verifica della non corrispondenza tra la situazione reale e quella dichiarata al momento della domanda di incentivazione (quale potere immanente di verifica della spettanza dei benefici previsti per la produzione di energia elettrica), non ha connotazioni sanzionatorie, trattandosi piuttosto di un atto vincolato di decadenza accertativa assunto in ragione della mancanza ab origine dei requisiti oggettivi per l’ammissione all’incentivo pubblico”. Per una ricostruzione del dibattito sulla natura dei poteri esercitati di controllo e revisione esercitati dal GSE v. G. La Rosa, La rideterminazione dei poteri del GSE nel d.l. semplificazioni e la (apparente) stabilità degli incentivi per l’energia da fonte rinnovabile, cit., 6-9.
[57] M. Andreis, La conclusione inespressa del procedimento, Milano, 2006, 61 ss.; P. Lazzara, I procedimenti amministrativi ad istanza di parte, Napoli, 2008, 326. In giurisprudenza v. Cons. Stato, Sez. V, 5 novembre 2019, n. 7557, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. V, 9 maggio 2017, n. 2109, ivi. Contra V. Parisio, Silenzio della pubblica amministrazione, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 5556; T.A.R. Veneto, Sez. III, 18 giugno 2008, n. 1799, in www.giustizia-amministrativa.it. Da ultimo, su tale profilo, v. G. Strazza, L’ambito di operatività del silenzio-assenso e le esigenze di certezza, in Riv. giur. edilizia, 4/2020, 864 ss.
[58] Al riguardo si osserva, per inciso, come il regime del silenzio assenso si configuri in ogni caso pienamente compatibile con l’esercizio di un potere discrezionale, nella misura in cui la previsione di una ipotesi di silenzio significativo non comporta affatto il riconoscimento in capo all’amministrazione della libertà di non porre in essere l’attività istruttoria necessaria e di non farsi carico di valutare gli interessi concorrenti a quello affidato all’autorità procedente. Su tale aspetto sia consentito rinviare a M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in Federalismi, 10/2020, 40-43.
[59] Sulle diverse ragioni che giustificano il carattere conformativo delle autorizzazioni ambientali e sulla portata nodale dei contenuti prescrittivi in un’ottica di maggiore efficacia delle politiche di tutela dei beni ambientali, si rinvia alle riflessioni di E. Frediani, La clausola condizionale nei provvedimenti ambientali, Bologna, 2019, 121 ss.
[60] Ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 28/2011, per la costruzione e l’esercizio degli impianti da fonti rinnovabili è previsto il rilascio di un’autorizzazione unica di competenza regionale. Il successivo art. 6 specifica, tuttavia, che tale disciplina generale non trova applicazione in relazione agli impianti con una capacità di generazione inferiore individuati nei paragrafi 11 e 12 delle linee guida adottate ai sensi dell'articolo 12, comma 10, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, per i quali è prevista l’applicazione della procedura abilitativa semplificata (PAS). Sul tema si rinvia a M.T. Rizzo, Le fonti rinnovabili e l’autorizzazione unica, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 5/2014, 1136 ss. Per un’analisi della giurisprudenza della Corte Costituzionale, tesa a dichiara l’illegittimità costituzionale di disposizioni regionali volte ad estendere l’ambito di applicabilità dei regimi semplificati, v. A. Colavecchio, Il “punto” sulla giurisprudenza costituzionale in tema di impianti da fonti rinnovabili, in Riv. quad. dir. amb., 1/2011, 106 ss.
[61] Di recente la Corte costituzionale è intervenuta nel settore degli incentivi energetici proprio per ribadire la necessità che gli interventi decadenziali ex post del GSE rispondano maggiormente ai canoni di adeguatezza e proporzionalità (cfr. Corte Cost., 13 novembre 2020, n. 237, in www.cortecostituzionale.it.
[62] F. Manganaro, Cenni sulla (in)certezza del diritto, in Dir. e proc. amm., 2/2019, 297 ss.; AA.VV., Annuario 2014. L’incertezza delle regole. Atti del convegno annuale, Napoli, 2015.
[63] Sul punto si segnala, invero, come il recente Regolamento operativo per l’accesso agli incentivi in materia energetica pubblicato dal GSE il 30 settembre 2020 chiarisca che – per quanto concerne i procedimenti di cui all’attuale sistema di incentivazione – è previsto il rilascio obbligatorio di un provvedimento formale, con espressa esclusione dell’operatività del regime del silenzio assenso (https://www.gse.it/documenti_site/Documenti%20GSE/Servizi%20per%20te/FER%20ELETTRICHE/NORMATIVE/DM%20FER%202019%20Regolamento%20Operativo%20per%20l%20Accesso%20agli%20incentivi%20con%20Allegati.pdf).
[64] “La necessità di tutelare l’affidamento del cittadino sulla certezza delle statuizioni giuridiche assume com’è noto, in relazione al fenomeno dell’incentivazione economica, ossia dell’azione pubblica con una funzione promozionale verso l’ottenimento di determinate finalità «sociali», profili assai delicati perché incide sull’esplicazione della libertà d’iniziativa economica privata alla luce dell’art. 41 Cost”, M. Cocconi,Gli incentivi alle fonti rinnovabili e i principi di proporzionalità e di tutela del legittimo affidamento, cit., 58, la quale si sofferma ampiamente sui diversi profili di incertezza nell’an e nel quantum che hanno caratterizzato i diversi Conti energia succedutisi negli anni. Sul tema del ruolo centrale rappresentato dalla certezza regolatoria in un’ottica di sviluppo del Paese si veda, da ultimo, M. Clarich, Riforme amministrative e sviluppo economico, in Riv. trim. dir. pubbl., 1/2020, 159 ss.
[65] F. Scalia, Incentivi alle fonti rinnovabili e tutela dell’affidamento, in Dir. econ., 1/2019, 229 ss. Sul rapporto tra perseguimento dell’interesse pubblico e affidamento del privato in materia di incentivi energetici si sofferma anche A. Travi, il quale, nel suo I poteri di revisione del g.s.e., in P. Biandino, M. De Focatiis (a cura di), Efficienza energetica ed efficienza del sistema dell’energia: un nuovo modello?, Torino, 2017, 119 ss., osserva che “la previsione di una incentivazione, che ha come obiettivo istituzionale quello di determinare condotte specifiche dell’operatore, introduce in modo più forte la necessità di una garanzia concreta dell’affidamento”, 135.
[66] Sulla possibilità di configurare profili di responsabilità in capo all’amministrazione che, a causa del ritardo con il quale ha rilasciato l’autorizzazione all’installazione di impianti di energia da fonti rinnovabili, abbia negato di fatto all’impresa la possibilità di accedere ai regimi di sostegno economico, v. Cons. giust. amm., sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136, annotata in questa Rivista da M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria.
[67] In generale, per una riflessione sui margini di compatibilità esistenti tra politiche di semplificazione amministrativa e adeguata tutela degli interessi ambientali si rinvia a F. Liguori, Tutela dell’ambiente e misure di semplificazione, in Riv. giur. ed., 1/2020, 3 ss.; M. Renna, Le semplificazioni amministrative (nel d. lgs. n. 152 del 2006), in Riv. giur. ambiente, 2009, 649 ss.; F. De Leonardis, Semplificazioni e ambiente, in AA.VV., Rapporto Italiadecide 2015, Bologna, 2015, 431 ss.; M. Renna, Semplificazione e ambiente, in Riv. giur. edilizia, 2008, 37 ss.
[68] Per una ampia analisi delle conseguenze derivanti dalla recente estensione – ai sensi della nuova formulazione dell’art. 14-bis e del nuovo art. 17-bis, l.n. 241/1990 – del c.d. silenzio assenso orizzontale anche alla materia ambientale si rinvia al lavoro monografico di R. Leonardi, La tutela dell’interesse ambientale, tra procedimenti, dissensi e silenzi, Torino, 2020, spec. 155 ss. e 185 ss. Sul tema del rapporto tra decisione silenziosa e interessi sensibili v. anche M. Brocca, Interessi ambientali e decisioni amministrative, Torino, 2018, 108 ss.; G. Mari, Primarietà degli interessi sensibili e relativa garanzia del silenzio assenso tra PP.AA. e nella conferenza di servizi, in Riv. giur. ed., 5/2017, 306 ss.; A. Moliterni, Semplificazione amministrativa e tutela degli interessi sensibili: alla ricerca di un equilibrio, in Dir. amm., 4/2017, 699 ss.; E. Zampetti, Note critiche in tema di silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni, in S. Tuccillo (a cura di), Semplificare e liberalizzare. Amministrazione e cittadini dopo la legge 124 del 2005, Napoli, 2016, 199 ss.
[69] E. Scotti, Semplificazioni ambientali tra politica e caos: la via e i procedimenti unificati, in Riv. giur. edilizia, 5/2018, 366, la quale dimostra come a tale “superamento dello statuto privilegiato dell’interesse ambientale” si accompagni la “dequotazione della tutela” dello stesso.
[70] S. Tuccillo, Contributo allo studio della funzione amministrativa come dovere, Napoli, 2016, 102 ss.; M.A. Sandulli, L’istituto del silenzio assenso tra semplificazione e incertezza, in Nuove autonomie, 2012, 453 ss.; M.R. Spasiano, Riflessioni sparse in tema di semplificazione amministrativa, in Nuove autonomie, 2009, 75 ss.
[71] M. R. Spasiano, Funzione amministrativa e legalità di risultato, Torino, 2003, 61 ss.
[72] Su tale aspetto sia consentito rinviare a M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere:
le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in Federalismi, 10/2020.
[73] G. Tropea, La discrezionalità amministrativa tra semplificazioni e liberalizzazioni, anche alla luce della legge n. 124/2015, in Dir. amm., 2016, 144; A. Scognamiglio, Rito speciale per l’accertamento del silenzio e possibili contenuti della sentenza di condanna, Dir. proc. amm., 2/2017, 452.
[74] Per una prima analisi della effettiva portata chiarificatrice di tale intervento normativo si rinvia a M. A. Sandulli, Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in Federalismi.it, 2019, 13-15.
[75] L. Pergolizzi, Il d.l. n. 76/2020 nel processo di attuazione del Piano nazionale integrato per l’energia e il clima, in Ambientediritto, 3/2020.
[76] https://ec.europa.eu/info/strategy/recovery-plan-europe_it.
[77] Da ultimo, sottolinea come si possa ancora oggi registrare un grave atteggiamento ostativo da parte del decisore pubblico nei confronti dello sviluppo di produzione energetica da fonti rinnovabili, in aperta contraddizione con il processo di valorizzazione della green energy in atto sia a livello internazionale che europeo S. Amorosino, «Nobiltà» (dei proclami politici) e «miseria» (dell’amministrazione ostativa) in materia di impianti di energia da fonti rinnovabili, in Analisi giuridica dell’economia, 1/2020, 255 ss.
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