ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Responsabilità (contrattuale) della pubblica amministrazione e tutela del terzo (a proposito di CGARS 15 dicembre 2020 n. 1136)
di Giulia Mannucci
Sommario: 1. Premessa – 2. Il caso – 3. I passi in avanti della pronuncia… – 4. …e le battute d’arresto: il caso dei terzi. – 5. Terzi-parte e terzi-chiunque – 6. Conclusioni
1. Premessa.
La pronuncia del Consiglio di giustizia per la regione siciliana (15 dicembre 2020, n. 1136) si occupa di responsabilità dell’amministrazione: un tema classico, eppure, come dimostra la stessa rimessione all’Adunanza Plenaria, ancora foriero di dubbi interpretativi. Questo perché l’approccio al tema è condizionato dal modo di intendere l’interesse legittimo e, più in generale, il rapporto tra amministrazione e privati. Dunque, dipende da come si leggono i mutamenti che, a livello sostanziale e processuale, hanno riguardato il diritto amministrativo negli ultimi anni. L’interesse per la sentenza nasce così, prima ancora che dalla soluzione adottata, dai presupposti che la sorreggono e dagli argomenti che il giudice utilizza per supportarla, specificamente concernenti la natura dell’interesse legittimo e la fisionomia del rapporto giuridico amministrativo.
Osservata da questa angolatura, la pronuncia, che a una prima lettura sembra proporre una soluzione innovativa e condivisibile, rivela alcune criticità nell’impianto argomentativo: per quanto, infatti, presupponga l’idea che il diritto amministrativo oggi non serva più (soltanto) a controllare il potere pubblico, ma abbia anche (innanzitutto) a oggetto la tutela di posizioni individuali, sono visibili gli echi di impostazioni di segno diverso che, per un verso, minano la coerenza del disegno complessivo e, per l’altro, dimostrano capacità di resistenza anche di fronte al mutato assetto dei rapporti nel diritto pubblico.
Nel commento che segue, anziché analizzare nel dettaglio i quesiti proposti all’Adunanza plenaria e le conseguenze dell’adesione alla tesi della natura contrattuale della responsabilità[1], si vorrebbe riflettere su alcune di quelle contraddizioni. Dopo un rapido excursus sui fatti che stanno alla base della decisione, ci si soffermerà sul focus della pronuncia relativo al cd. rapporto pubblico, esaminato dalla prospettiva dei soggetti terzi, cui la stessa pronuncia, in un passaggio rapido ma carico di significati, fa riferimento. L’esistenza di ‘terzi’, come noto, è non di rado considerata fonte della vera specialità del diritto amministrativo, perché la loro tutela imporrebbe una torsione delle logiche sottese alla tutela soggettiva dei rapporti: secondo un’opinione diffusa, che sembra trovar riscontro anche nella sentenza, la (piena) ricostruzione delle relazioni amministrative in termini obbligatori rischierebbe “di privare di rilevanza la posizione dell’eventuale soggetto terzo”[2], finendo per riespandere l’area delle scelte sottratte a ogni sindacato. Il terzo continuerebbe così a rappresentare il baluardo della specificità del diritto amministrativo, fungendo da freno alla transizione del diritto (e del processo) amministrativo dall’atto al rapporto.
Ma è proprio così? La logica obbligatoria che oggi connota il rapporto con il destinatario è davvero incompatibile con la figura del terzo? Oppure è giunto il momento di mettere in discussione anche questo segmento del rapporto amministrativo?
2. Il caso.
Nel caso in esame, un’impresa aveva ottenuto il rilascio di una autorizzazione unica ambientale soltanto dopo che il giudice di primo grado aveva ordinato all’amministrazione di pronunciarsi sul silenzio illegittimamente serbato di fronte all’istanza privata. Lo stesso Tar aveva nondimeno dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento del danno, che viene riproposta davanti al Consiglio di giustizia siciliano, sia sotto forma di danno emergente, sia sotto forma di lucro cessante: nelle more del procedimento era infatti stata modificata la disciplina degli incentivi pubblici, rendendo così impossibile l’effettivo esercizio della attività, che avrebbe finito per svolgersi “in condizioni di costante perdita […] non potendo i ricavi remunerare gli elevati costi della tecnologia da impiantare”[3].
Il giudice di secondo grado, a differenza del Tar, apre alla possibilità di una responsabilità dell’amministrazione e chiede all’Adunanza plenaria se la sopravvenienza occorsa debba effettivamente considerarsi interruttiva del nesso causale, così escludendosi la responsabilità dell’amministrazione, o se non sia invece applicabile la teoria dello scopo della norma violata. In base a esso, la causa dell’effetto lesivo è “un evento che costituisce concretizzazione dello specifico rischio che la norma incriminatrice mirava a prevenire”[4], con la conseguenza che il ritardo dell’amministrazione andrebbe considerato la causa del pregiudizio prodottosi in capo all’impresa, indipendentemente dalla sopravvenienza.
Ciò non dipenderebbe, secondo il giudice, soltanto dal fatto che, su un piano generale, “il passare del tempo” inevitabilmente aumenta “il rischio del fallimento dell’operazione programmata”, ma discenderebbe, prima ancora, dalla logica cui si ispira l’art. 2 della legge sul procedimento amministrativo. Siffatta norma, secondo il giudice, non rappresenta “un mero canone generale dell’attività amministrativa”, bensì è stata introdotta dal legislatore a tutela del “valore economico del tempo e dei rischi al medesimo connessi”[5] ed è dunque apprezzabile in termini di diritto alla certezza. Una conferma giungerebbe dalla connotazione “patologica” e “fortemente negativa” che il silenzio riveste nella triplice prospettiva “eurounitaria, costituzionale e sistematica”, nonché dalla parallela centralità progressivamente assunta nel nostro ordinamento dal principio di trasparenza[6].
Sulla base di questi presupposti il giudice compie una articolata (ancorché “largamente sovrabbondante”[7]) ricostruzione della responsabilità civile della amministrazione, riconducendola nell’alveo della responsabilità contrattuale[8], con effetti a cascata sulla configurazione del rapporto amministrativo. Proprio a questi due punti chiave (la responsabilità contrattuale e il rapporto amministrativo), in riferimento ai quali la sentenza si rivela particolarmente innovativa, è necessario volgere l’attenzione.
3. I passi in avanti della pronuncia…
Secondo il giudice siciliano, l’interesse legittimo è una posizione sostanziale, consistente nella chance di ottenere il bene finale cui il privato aspira[9]. Il rapporto tra privati e amministrazione è improntato, si aggiunge, al rispetto del principio di legalità-garanzia: del resto, è stata proprio “l’imposizione di limiti agli ambiti di intervento pubblico e di regole”[10] a consentire l’evoluzione dell’interesse legittimo da mera soggezione a posizione soggettiva. Così, se è vero che il “potere pubblico costituisce l’unica risorsa a disposizione del privato per ottenere soddisfazione piena e in forma specifica”[11], è altrettanto vero che l’interesse legittimo non ha per oggetto soltanto le prerogative procedimentali collegate all’esercizio di quello stesso potere. Le facoltà procedimentali sono, infatti, strutturalmente “inidonee a offrire soddisfazione all’esigenza del privato, che può, invece, trovare (non sempre ma potenzialmente) soddisfazione […] nell’agire pubblico”[12]. L’interesse legittimo non è dunque una posizione (soltanto) dinamica, visibile nel procedimento, ma è innanzitutto una posizione statica, che ha come oggetto la chance, appunto, di ottenere il bene della vita cui il privato aspira[13]. La titolarità dell’interesse legittimo non assicura il bene finale, proprio perché l’amministrazione ha il potere di scegliere, tra più opzioni tutte legittime, ma è tutelato “nei limiti delle regole di condotta dell’agire pubblico”[14].
Il riconoscimento all’interesse legittimo di una struttura creditoria ben si lega all’idea che la responsabilità dell’amministrazione debba inquadrarsi negli schemi della responsabilità contrattuale[15].
Nella logica del giudice siciliano, la responsabilità dell’amministrazione dovrebbe essere assimilata alla responsabilità da inadempimento di una obbligazione, con applicazione del relativo regime: ai sensi dell’art. 1173 del codice civile, sono “fonti delle obbligazioni […] non soltanto il contratto e il fatto illecito ma altresì il fatto idoneo a produrle secondo l’ordinamento giuridico”[16]. Fin dall’apertura del procedimento amministrativo, il privato assume la titolarità di una serie di diritti collegati ad altrettanti obblighi in capo all’amministrazione, espressione del necessario rispetto delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione[17], “delineandosi così una relazione che non si connota per la sua episodicità, essendo, essa, necessitata”. Un utilizzo scorretto del potere pubblico va letto esclusivamente all’interno della relazione amministrativa e dunque si riverbera “senza soluzione di continuità” sull’interesse legittimo del destinatario[18].
Ciò implica che quando viola “le regole dell’azione amministrativa e del provvedimento amministrativo, la parte pubblica ignora norme ben più precise e circostanziate del generico dovere di neminem laedere”, cosicché “il rapporto che si instaura fra Amministrazione e privato si rivela distante dalla modalità tipica della responsabilità del passante, emblema del contatto casuale e occasionale, e quindi della responsabilità ex art. 2043 c.c.”.
Benché questo assunto strida con la prevalente giurisprudenza amministrativa, tutt’oggi ancorata al modello della responsabilità aquiliana, esso, come lo stesso Consiglio di giustizia afferma, appare coerente con la graduale emersione di un tipo di responsabilità speciale. In alcuni ambiti, si riconosce infatti che la responsabilità dell’amministrazione non sorga in assenza di un rapporto, ma si fondi su una relazione tra soggetti “che nasce prima e a prescindere dal danno”[19], dando vita a una ibridazione tra le due forme di responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale)[20].
Così, la piena dignità all’interesse legittimo nel panorama delle posizioni soggettive, il riconoscimento di una relazione giuridica tra amministrazione e privati e la riconduzione della responsabilità dell’amministrazione allo schema contrattuale sono i punti chiave del ragionamento del giudice siciliano. Un ragionamento che evoca un cambio di paradigma nel diritto amministrativo[21]: da diritto sugli atti a diritto dei rapporti, da insieme di regole sul potere a regole relazionali che collocano al centro l’individuo.
4. …e le battute d’arresto: il caso dei terzi
Il cerchio però non sembra chiudersi. Resta infatti aperto il nodo dei soggetti altri, diversi dal destinatario, i cd. terzi. La sentenza dedica loro un passaggio tanto breve quanto significativo, dal quale si coglie una (ultima?) difficoltà nel trarre pienamente e coerentemente le conseguenze da quel cambio di paradigma cui la pronuncia aspira.
Secondo il giudice siciliano, il diritto pubblico non conosce, a differenza del diritto privato, “la nozione di terzo”[22], dal momento che “l’Amministrazione è tenuta a considerare tutti gli interessi coinvolti dalla sua azione nell’ambito del procedimento amministrativo”, vista anche “l’attitudine di quest’ultimo a coinvolgere tutti gli interessi possibili”. Ciò emergerebbe chiaramente quando, come nel caso in esame, “l’istanza del privato sia volta alla soddisfazione di un interesse pretensivo, con la conseguenza che l’aspetto autoritativo del provvedimento finale si apprezza in particolar modo nei confronti dei non destinatari”. D’altra parte, chiosa la sentenza, proprio l’indeterminatezza degli interessi che l’amministrazione può compromettere con la propria azione relegherebbero la stessa autorità in una “posizione difficile”, esponendola “a un rischio elevato di violare situazioni giuridiche soggettive”[23], così giustificandosi una limitazione della sua responsabilità per danni.
Il quadro che emerge è il seguente. Per un verso, l’interesse legittimo del destinatario del provvedimento, a lungo ridotto a una dimensione meramente processuale, ha progressivamente assunto contenuti sostanziali, fino a conseguire una tendenziale equiparazione al diritto soggettivo, almeno in termini di effettività della tutela, consentendo al destinatario di essere riconosciuto come polo “attivo” di un rapporto con l’amministrazione. Per altro verso, però, la posizione dei terzi (dei titolari cioè di interessi altri) continua a vivere in un limbo giuridico, a connotarsi per i contorni incerti[24], a non essere inquadrabile in una relazione obbligatoria e, così, a rappresentare un elemento di insopprimibile differenza tra il diritto amministrativo e il diritto civile[25].
La posizione del terzo è evidentemente rimasta imprigionata nelle più risalenti concezioni dell’interesse legittimo, che il singolo “non ha alcun modo di soddisfare se non facendo valere una pretesa che si collega all’interesse generale o collettivo, a garanzia del quale è posta la norma che disciplina l’esercizio dell’attività amministrativa”[26] e che deve la sua rilevanza all’esistenza del potere pubblico e all’esigenza di controllo che a quello si collega (la cd. dimensione autoritativa dell’attività pubblica richiamata dalla sentenza) [27]: in breve, un interesse che è l’“essenza stessa del potere”, attribuito per garantire situazioni “che eccedono le sfere giuridiche del soggetto dell’atto [...] e del suo destinatario”[28] .
Il risultato è una posizione dei terzi sospesa tra rilevanza e irrilevanza giuridica: rilevante, se toccata dall’attività amministrativa e utile ad attivare il sindacato del giudice sulla legittimità di quell’attività; irrilevante, invece, nella sua dimensione individuale, perché l’eventuale titolarità di un diritto non conta, essendo ritenuta sufficiente l’imputazione al terzo di una frazione dell’interesse pubblico. Poiché, a differenza del destinatario, non ha una pretesa sufficientemente definita da contrapporre all’obbligo della amministrazione, il terzo si vede attribuire una posizione collegata all’interesse pubblico e in quello riflessa, che gli offre una centralità sconosciuta nel diritto comune, sorreggendola nondimeno su un’idea dell’interesse legittimo ormai difficilmente sostenibile.
5. Terzi-parte e terzi-chiunque
Mentre le relazioni pubbliche sono sempre più spesso caratterizzate da schemi multipolari (basti pensare alle fattispecie regolatorie), il superamento della dialettica bipolare autorità-libertà non ha portato con sé un adeguamento del modello teorico necessario per spiegare la più ricca trama di relazioni nella quale il diritto amministrativo tende a muoversi, così determinandosi una empasse nella teoria delle situazioni soggettive, ben visibile dal versante dei terzi.
Per superare simile empasse, è necessario tenere distinti due casi: quello in cui il terzo è titolare di una posizione giuridica qualificata e differenziata, e che perciò diventa la terza parte di un rapporto multipolare insieme all’amministrazione e al destinatario (diretto) dell’atto[29]; e quello in cui invece quella posizione soggettiva manca e il terzo può considerarsi titolare (al più) di una mera aspettativa al rispetto della legalità da parte della amministrazione, indistinguibile da quella del chiunque[30].
L’emancipazione dell’interesse legittimo del terzo non può così che prendere le mosse da una indagine rigorosa sui requisiti della qualificazione e della differenziazione della sua posizione sostanziale. Possono essere considerati terzi meritevoli di tutela soltanto i titolari di una posizione qualificata (ossia, protetta da una norma) e singolarmente considerata, (ossia, differenziata, sempre da parte di una norma, dalla posizione della generalità dei consociati). Soltanto operando questa distinzione si può, ad avviso di chi scrive, tentare di fare chiarezza nella crescente propensione del diritto amministrativo a produrre schemi multipolari, senza ricorrere a concezioni dell’interesse legittimo ormai obsolete, che la stessa sentenza in commento tenta, per il resto, di accantonare.
Accedendosi a questa prospettiva, tutte le volte in cui una disciplina non preveda una norma “investitiva”[31], cioè una disposizione che qualifichi e differenzi la posizione del terzo, tale posizione resta equiparata a quella del ‘chiunque’, cioè di colui che, anche se più intensamente toccato, sul piano fattuale, dall’azione (o inazione) amministrativa, non è titolare di un interesse meritevole di tutela.
D’altra parte, ciò non esclude che quella posizione, ancorché giuridicamente irrilevante (non protetta), non possa trovare spazio nella ponderazione degli interessi e quindi non possa far ingresso nel procedimento amministrativo. Vanno infatti tenuti distinti, a differenza di quanto sembra fare la pronuncia, i piani del procedimento e del processo: mentre il procedimento può e deve essere aperto all’acquisizione di un’ampia gamma di interessi, proprio nell’ottica della accurata ponderazione e massimizzazione dell’interesse pubblico, il processo, per contro, per la funzione che gli è propria, non può che avere a oggetto (soltanto) posizioni soggettive, ossia situazioni giuridicamente qualificate e differenziate.
La distinzione proposta, tra terzi-parte di un rapporto (titolari di posizioni qualificate e differenziate) e terzi-chiunque (confinati nell’irrilevante giuridico), ha un evidente impatto sul sistema delle posizioni soggettive. Liberata la posizione dei terzi (dopo quella del destinatario) dal fardello ‘oggettivante’ dell’interesse pubblico, la transizione dal modello (della tutela) della legalità al modello (della tutela) dei diritti può giungere a compimento: alla logica provvedimentale si sostituisce quella relazionale, rendendosi possibile il pieno e corretto esplicarsi della tutela soggettiva emergente dalla Costituzione[32].
L’impostazione suggerita, oltre a essere dettata da esigenze di coerenza teorica, consentirebbe il superamento di non secondarie problematiche applicative.
Si pensi al regime della notificazione del ricorso e a quello, speculare, della legittimazione. Di fronte alla indeterminatezza della categoria dei terzi, la notificazione continua a essere affidata in via principale alle indicazioni provenienti dal provvedimento impugnato, secondo una prospettiva rigidamente formalista. La presenza in processo non dipende così dall’effettivo coinvolgimento in una vicenda giuridica, ma dalla completezza dell’istruttoria procedimentale[33]: pur di non rendere troppo gravoso il compito del ricorrente e, poi, del giudice, si ammette così un ‘contraddittorio amputato’. Per converso, ma per ragioni coincidenti, il regime della legittimazione a ricorrere è caratterizzato, come noto, da un approccio particolarmente estensivo della giurisprudenza, che slabbra le maglie dell’accesso al processo sul presupposto che garantire una legittimazione ampia consenta un ampliamento di tutela. L’effetto, però, è per un verso contraddittorio e per l’altro paradossale.
E’ contraddittorio perché uno stesso soggetto potrebbe essere considerato legittimato a ricorrere eppure non essere destinatario della notificazione del ricorso in un processo iniziato da altri[34]: i vicini di casa, per esempio, pur legittimati a ricorrere, non sono normalmente considerati controinteressati in senso tecnico, non essendo indicati nel provvedimento impugnato; avrebbero così una posizione soggettiva quando sono dal lato attivo, ma non anche quando si trovano dal lato passivo (poiché non sono annoverati tra i litisconsorti necessari e se vogliono partecipare al processo devono intervenire autonomamente).
L’effetto è altresì paradossale perché all’ampliamento della legittimazione non corrisponde un rafforzamento della tutela, visto che ciò che viene garantito non assurge a ‘vera’ posizione soggettiva e finisce per coincidere con la legalità obiettiva. La legittimazione, di conseguenza, da strumento per la tutela di un interesse individuale, è piegata a un disegno giudiziale di espansione del proprio controllo sull’amministrazione.
6. Conclusioni
E’ vero che dietro l’opportunità di un complessivo cambio di paradigma vi è una resistenza di fondo, che connota la posizione di chi, come il giudice siciliano, ha saputo cogliere le più recenti evoluzioni del diritto amministrativo, pur senza riuscire a tirare tutti i fili che compongono la trama: come è possibile coniugare l’esigenza di garanzia soggettiva emergente dal dato costituzionale con la naturale tendenza del potere pubblico a produrre effetti su una platea spesso indefinita di soggetti? Può il diritto (e il processo) amministrativo servire ‘soltanto’ a offrire tutela alle posizioni individuali oppure vi sono delle esigenze di garanzia dell’interesse pubblico che non possono essere dimenticate?
Non v’è dubbio che mantenere elastica la categoria dei terzi consenta di ampliare le occasioni di controllo di potere e che rinunciare al modello pubblicistico dei rapporti (anche) sul versante dei terzi comporterebbe un ripensamento della funzione del processo e dello stesso giudice amministrativo. E ciò soprattutto in un contesto caratterizzato, da un lato, da un potere che si ritrae per effetto delle misure di semplificazione e liberalizzazione e che perciò accresce il bisogno di controllo sulla legalità e, dall’altro, dalla scarsa pregnanza che ancora oggi hanno, nel nostro ordinamento, i rimedi interni quali i controlli o la responsabilità dirigenziale.
Epperò, viene al contempo da chiedersi se queste ragioni siano sufficienti a perpetuare una certa concezione del diritto amministrativo, che tiene in vita attraverso i terzi l’idea dell’interesse occasionalmente protetto, e se sia ancora accettabile una caratterizzazione oggettiva del nostro processo.
[1] Si tratta di profili esaustivamente esaminati da M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria, in Questa Rivista, 2021.
[2] F. Merloni, Funzioni amministrative e sindacato giurisdizionale. Una rilettura della Costituzione, in Dir. pubb., 2011, 497.
[3] Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136, punto 13.3.
[4] Punto 17.4 della sentenza in commento.
[5] Punto 17.4 della sentenza in commento.
[6] Punto 17.4 della sentenza in commento.
[7] M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile, cit.
[8] Si tratta della seconda questione posta all’Adunanza plenaria. Di conseguenza il giudice chiede se la sopravvenienza normativa, escluso che possa determinare una rottura del nesso di causalità, debba essere inquadrata nel modello dell’art. 1223 c.c. (ossia ai fini della quantificazione del danno) ovvero del 1225 c.c. (ossia ai fini della prevedibilità).
[9] Punto 29 della sentenza in commento.
[10] Punto 29, lett. d) della sentenza in commento.
[11] Punto 29, lett. f) della sentenza in commento.
[12] Punto 29, lett. g) della sentenza in commento.
[13] L. Ferrara, Statica e dinamica nell’interesse legittimo: appunti, in Aa.Vv., Colloquio sull’interesse legittimo. Atti del convegno in memoria di Umberto Pototschnig. Milano 19 aprile 2013, Napoli, 2014, 105 ss.
[14] Punto 29 lett. q) della sentenza in commento
[15] L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 2003; ma anche Id. L’interesse legittimo alla riprova della responsabilità patrimoniale, in Dir. pubbl., 2010, 650.
[16] Punto 26 della sentenza in commento.
[17] Punto 33 della sentenza.
[18] Punto 34 della sentenza.
[19] Punto 25 della sentenza.
[20] Soprattutto in ordine al regime probatorio, al termine della prescrizione, all’elemento soggettivo, al danno risarcibile: punto 30 della sentenza.
[21] A. Pajno, Il codice del processo amministrativo tra “cambio di paradigma” e paura della tutela, in Giorn. dir. amm., 2010, 885 ss.
[22] Punto 29, lettera m) della sentenza.
[23] Punto 37 della sentenza in commento.
[24] Sulla assenza di una “autonoma nozione di terzo nel diritto amministrativo” v. L. De Lucia, Provvedimento amministrativo e diritti dei terzi. Saggio sul diritto amministrativo multipolare, Torino, 2005, 3.
[25] P. Carpentieri, La razionalità complessa dell’azione amministrativa come ragione della sua irriducibilità al diritto privato, in Foro amm./Tar, 2005, p. 2673; sulla nozione di terzo nel diritto amministrativo e sulle differenze col diritto privato v. pure: B.G. Mattarella, Il provvedimento, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Parte generale, I, Milano, 823 s.
[26] S. Piraino, L’interesse diffuso nella tematica degli interessi giuridicamente protetti, in Riv. dir. proc., 1979, 209.
[27] Per M. Ramajoli, La s.c.i.a. e la tutela del terzo, in Dir. proc. amm., 2012, 352 “il terzo può avvantaggiarsi del rispetto della disciplina sostanziale che si compone di norme pubblicistiche, visto che tali norme non hanno un destinatario unico, ma prendono in considerazione tutti gli interessi coinvolti”.
[28] G. Corso, L’efficacia del provvedimento amministrativo, Milano, 1969, 362 s.
[29] Secondo S. Civitarese Matteucci, La forma presa sul serio. Formalismo pratico, azione amministrativa ed illegalità utile, Torino, 2006, 475, quando un terzo diventa titolare di pretese in un determinato rapporto, questi “non è più terzo”, ma diventa parte.
[30] Si tratta di una prospettiva sviluppata in un lavoro più ampio: sia consentito il rinvio a G. Mannucci, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo. Dalla legalità ai diritti, Sant’Arcangelo di Romagna, Maggioli, 2016.
[31] N. Maccormick, Children’s Rights: A Test-Case for Theories of Rights, ora in Id.., Legal Right and Social Democracy. Essays in Legal and Political Philosophy, Oxford, Clarendon Press, 1984, pp. 154 ss.
[32] A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello stato di diritto. Per una giustizia non amministrativa (Sonntagsgedanken), Milano, Giuffrè, 2005, 46.
[33] Si veda, per es., Cons. Stato, Sez. IV, 15 dicembre 2011, n. 6066.
[34] A. Corpaci, La comunicazione dell’avvio del procedimento alla luce dei primi riscontri giurisprudenziali, in Le Regioni, 1994, 307.
Arte e diritto. Il diritto nell’arte e il diritto come arte
di Carlo Vittorio Giabardo*
[In copertina, Abraham Solomon, Waiting for the Verdict, ca. 1859, J.Paul Getty Museum, Los Angeles]
Sommario: 1. Diritto, scienza, “techne” e “ars” (con un pensiero di Francesco Carnelutti) - 2. Diritto nell’arte. Diritto e arte come “esperienza” – 2.1. (Segue). Iconografie della giustizia. Le Virtù e la Legge di Raffaello – 3. Diritto come arte. Riflessioni sparse sullo “sguardo artistico” sul diritto – 4. Conclusione. Diritto, interpretazione e musica (Bach non è il miglior interprete di Bach).
1. Diritto, scienza, “techne” e “ars” (con un pensiero di Francesco Carnelutti)
È opinione assai diffusa che il diritto sia, in primo luogo, una tecnica. Nel linguaggio corrente, si definisce tecnico quell’agire che è basato su una scienza, su un sapere scientifico; e difatti è affermazione altrettanto comune quella per la quale il diritto è una scienza (si parla di “scienza del diritto”, appunto). Scientifico, a sua volta, è quel sapere che pretende di essere obiettivo, che esige per sé una validità generale e universale, che vada al di là di che è soggettivo, di ciò che deriva dall’esperienza o dai valori del singolo. Il diritto inteso come scienza e quindi come tecnica è pertanto oggettivato, reso un dato di indagine razionale - proprio come è la natura per il fisico o la cellula per il biologo. Se lo guardiamo da questo angolo visuale, il diritto è un congiunto di istituti, norme, concetti e nozioni; compito del giurista è quello innanzitutto di constatarne l’esistenza e poi di misurarli e ordinarli secondo relazioni e rapporti. Le categorie così individuate e i loro nessi sono poi descritti mediante affermazioni, enunciati, proposizioni di cui è possibile predicare la verità o falsità[1]. Il diritto dal punto di vista tecnico-scientifico è quindi ordinamento, struttura logica formale ordinata, e basta.
Kelsen è stato senza dubbio il maggior esponente di questo atteggiamento neutrale e l’importante tradizione della filosofia analitica ne ha raccolto – almeno in certe parti - l’eredità, ramificandola in nuove direzioni di indagine. Certamente aver studiato il diritto in questo modo ha condotto a risultati fondamentali. Sappiamo molto di ciò che il diritto è, e il nostro intendimento della sua struttura e del suo funzionamento è aumentato considerevolmente. È quindi senza dubbio merito di questa svolta scientifico-tecnica il grande progresso fatto nella conoscenza sia delle caratteristiche generali dell’ordinamento (la cd. “teoria generale del diritto”, la jurisprudence in senso anglosassone) sia, a scendere, dei meccanismi dei singoli istituti (la proprietà, il contratto, la responsabilità civile, il processo, e via dicendo, cioè la “filosofia applicata del diritto”). Il progresso dovuto all’aver trattato il diritto come scienza non è qui in discussione.
Ma – la domanda sorge con forza - è questo tutto quello, e solo quello, che c’è da sapere sul diritto? In altri termini: la conoscenza tecnico-scientifica esaurisce tutto ciò che possiamo dire sensatamente sul diritto e quindi tutto ciò che vale la pena conoscere? Questa riduzione del diritto a tecnica non tralascia forse altri aspetti dell’esperienza giuridica?
Facciamo un passo indietro.
La parola “tecnica” deriva del greco antico techne, un vocabolo che ha assunto col tempo un significato centrale nel pensiero occidentale. Techne originariamente designava in via del tutto generale e atipica il saper fare, il creare, il modellare, il plasmare un oggetto o una certa realtà usando maestria, al fine di ottenere altro: tanto il pittore quanto il calzolaio, tanto il medico o il generale dell’esercito quanto il musicista, tanto il panettiere come il poeta erano tecnici nel senso greco del termine (ricordiamo, tra parentesi, che poesia, poiesis, deriva da ποιέω, poieo, che indica il semplice verbo “fare, produrre”: la poesia è pertanto “ciò che è fatto”, la produzione umana per eccellenza). I romani tradussero techne con la parola ars, da cui la nostra arte. La techne greca e l’ars latina quindi non veicolavano tanto l’idea dell’impersonalità delle regole “tecniche”, l’obbiettività dei principi generali che presiedono all’azione (il significato odierno di tecnica) ma incorporavano, comprendevano e anzi presupponevano ed esaltavano la singolarità dell’esperienza, la soggettività, l’umanità di “colui che faceva”, dell’artista. Se noi oggi distinguiamo rigorosamente tra tecnica e arte, all’origine le due parole identificavano una cosa sola.
Tutto questo – credo – è estremamente rilevante per capire il diritto nella sua pienezza, e cioè non solo come scienza ma come esperienza (v. infra, sul senso di questo termine), al fine di recuperare cioè la dimensione artistica, in senso lato, e quindi creativa, soggettiva, esperienziale della giuridicità.
In questo senso antico, dire che il diritto è un’arte è lo stesso che dire che il diritto è un saper fare, un saper produrre creativamente qualcosa. Non è un caso che una delle più antiche definizioni del diritto che possediamo è formulata in termini di arte: ius est ars boni et aequi, il diritto è l’arte del bene e del giusto, affermava Celso nel II secolo d. C. (poi ripreso dai commentatori giustinianei)[2]. Il diritto è quindi un saper fare artigianale, una prassi nella quale si esprime, normativamente, l’esperienza del soggetto, nella quale si manifesta il suo sentire e il suo vissuto.
Uno sguardo solo tecnico (nel senso riduttivo moderno) ci dice quindi sì molto sul diritto, ma non ci dice tutto. Lascia fuori ciò che è più significativo per l’uomo, per la sua vita, per la sua esistenza. Se anche conoscessimo tutto scientificamente e tecnicamente del diritto – immaginiamoci un notaio espertissimo di codici e commi, un giudice assai preparato su sentenze e precedenti, un professore capace di maneggiare e ordinare i concetti del diritto – ancora non sapremmo cosa è il diritto per la nostra esperienza soggettiva ed esistenziale. E indagare questa dimensione umana, spesso drammatica, è anch’essa autentica conoscenza del diritto, così come l’arte è autentica forma di conoscenza (è esperienza di verità, come dicono i filosofi). Non diremo nulla di nuovo, né di particolarmente stravagante, sostenendo questa tesi[3]. Noi, ad es., conosciamo qualcosa del sole sia attraverso le informazioni che ci vengono date dallo scienziato, dall’astrofisico, sia anche ammirando un quadro che rappresenta un tramonto o che raffigura il lavoro nei campi in agosto; e così - con ancor più evidenza - apprendiamo molto di più sull’amore o sulla sofferenza leggendo Dante o una poesia di Neruda invece che chiedendo informazioni a un esperto di neuroscienze o a uno psicologo.
L’immenso giurista Francesco Carnelutti intitolò L’arte del diritto un suo volume del 1946, composto negli anni della sua maturità. Qui egli, mentre viaggiava in nave verso l’America Latina (tra una lettura e l’altra del filosofo e scrittore spagnolo Miguel de Unamuno, come egli stesso racconta) mise per iscritto alcune sue originali meditazioni sui concetti di diritto, legge, fatto, giudizio, sanzione e dovere da questa prospettiva che possiamo definire consapevolmente antiscientifica e artistica. La scienza del diritto - per l’ultimo Carnelutti, quello più mistico - è impotente, non coglie l’essenza del diritto; il linguaggio tecnico nasconde la verità delle cose, più che esprimerla. Non il concetto preciso, non la logica, ma la parola poetica, musicale, sfumata, emotiva, libera, artistica, in breve, è quella più adatta a cogliere il senso misterioso del diritto. Rileggiamo allora questo suo brano che risuonano in tutta la sua forza:
«Questo è dunque il diritto? E questi è il giurista, il quale pretende di sapere come è il diritto? Non sa, al fine, niente di preciso. Si esprime, insomma, piuttosto che come un dotto, come un poeta. Proprio in ciò sta la differenza tra la mia giovinezza e la mia vecchiezza di giurista. Il giovane aveva fede nella scienza; il vecchio l’ha perduta. Il giovane credeva di sapere; il vecchio sa di non sapere. E quando al sapere si aggiunge il sapere di non sapere, allora la scienza si converte in poesia. Il giovane si accontentava col concetto scientifico del diritto; il vecchio sente che in questo concetto si perde il suo impeto e il suo dramma e, pertanto, la sua verità. Il giovane cercava i contorni decisi della definizione; il vecchio preferisce le sfumature di un paragone. Il giovane non credeva se non in quello che si vede; il vecchio non crede più se non in quello che non può vedere. […]. Il giurista vorrebbe esser musico per fare che gli uomini possano sentirne l’incanto»[4].
2. Diritto nell’arte. Diritto e arte come “esperienza”
Ora, intendo affrontare questo aspetto non tecnico del diritto declinando il suo rapporto con l’arte secondo due linee direttrici: il diritto nell’arte e il diritto come altre. Queste due prospettive getteranno luce su due dimensioni diverse eppure intrecciate tra loro. Entrambe sono infinitamente debitrici dei risultati ai quali è giunto il movimento di law and literature che - come noto – si propone di indagare i molteplici punti di contatto tra esperienza giuridica e letteratura, estendendone i confini.
Nel primo sguardo – quello più immediato e, se vogliamo, più intuitivo, più facile – cioè quello del diritto nell’arte, lo scopo è di portare più a fondo l’indagine sulla comprensione del diritto prendendo in considerazione le grandi opere artistiche in quanto autentiche fonti di conoscenza della giuridicità intesa come esperienza esistenziale.
Di cosa parla infatti l’arte? Qual è il suo oggetto? L’arte tratta fondamentalmente dell’esperienza eterna dell’uomo, delle esperienze di vita che egli fa in ogni tempo e in ogni luogo. L’arte antica ci parla tuttora e non abbiamo motivo per non credere (anche se non lo possiamo verificare) che l’arte moderna e quella contemporanea parlerebbero all’uomo antico con la stessa intensità con la quale comunicano all’uomo d’oggi. Vi è insomma questa trascendenza dell’arte, questa capacità di andare oltre il qui e ora, oltre la contingenza.
E, d’altro canto, l’esperienza giuridica che tutti noi facciamo quotidianamente (il «vivere giuridicamente» di cui parlava Salvatore Satta[5]) non è forse anch’essa una esperienza eterna? Non ci confrontiamo forse oggi noi con gli stessi problemi e drammi (giuridici) dell’uomo antico o dell’uomo di altre tradizioni?
Uso qui l’espressione “esperienza giuridica”, e non semplicemente “diritto”, per enfatizzare proprio questa portata soggettiva, interiore, vissuta, quasi intima, della giuridicità. Giuseppe Capograssi è il grande punto di riferimento di questa visione, il quale come noto, parlava di dottrina dell’esperienza giuridica[6]: individuo, persona, vita concreta, azione (e quindi volontà), prassi, immediatezza, soggettività necessariamente frammentaria, eppure capace di generalizzarsi, sono al centro delle sue riflessioni, lontanissime dalle costruzioni dogmatiche, sistematiche, pure, scientifiche nel senso corrente. Dirà, ancora, Salvatore Satta, a proposito di Capograssi, da lui definito come il «cantore dell’individuo»: egli «ha visto l’azione dell’uomo, e tutto quello che indica la sua azione, e quindi ha visto nel diritto, la storia. Che questa sia impurità è indiscutibile: il giurista che si ponga rispetto al diritto nella stessa posizione del biologo di fronte alla vita (e questa è in sostanza la singolare rivendicazione fatta da un suo critico in difesa di Kelsen) non può che scandalizzarsi di questa intrusione dell’uomo nel diritto, e chiamare impuro chi lo professa. Vedere nel diritto l’uomo, vedere la storia, significa riconoscere che il diritto è un’esperienza…»[7].
Che cosa è l’esperienza? È senza dubbio una forma di conoscenza, quella specifica che si acquisisce a contatto con la realtà vissuta, con il pianto, con il riso, con il dolore, con tutta la gamma fisica delle emozioni che ci toccano da vicino. Ed è evidente come questa esperienza, che è conoscenza, sia sì individuale, intraducibile (la mia esperienza, la tua esperienza), ma abbia anche al tempo stesso un valore generale, condiviso, com-partecipato. Non rimaniamo indifferenti davanti alle esperienze altrui. In qualche modo le capiamo, le facciamo nostre. L’esperienza singola, puntuale è sempre anche umana, generale: qui sta tutto il paradosso. La rappresentazione artistica, alla medesima maniera, è da sempre caratterizzata da questo dualismo, che è il suo situarsi tra particolare e generale, tra frammento e totalità, tra istante ed eternità; l’arte rappresenta quindi sì una azione, o una emozione, individuale, ma che suscita una com-passione, una partecipazione piena, un sentire comune da parte di coloro che ne fruiscono[8].
Ora, è certo che nei grandi capolavori letterari e artistici si agitano questioni giuridiche, depurate e ripulite dal tecnicismo contingente, e che vengono assunte a modello, a forma pura di tutti i problemi umani. Questo già a partire dai Greci. Essi hanno riflettuto profondamente sul diritto, da Omero, con l’Iliade e l’Odissea, al mito, nelle opere di Esiodo, nelle grandi tragedie (l’Antigone di Sofocle, una su tutte, la più celebre[9]), e poi nella riflessione filosofica e razionale affidata da Platone a quella forma letteraria che è il dialogo[10]. I Greci quindi non si affidarono, per la loro comprensione del diritto, alla scienza e alla tecnica, ma bensì all’arte. Anzi, essi non avevano nemmeno una classe, una élite di tecnici del diritto. Non c’era il giurista di professione, né l’avvocato, né la dottrina; c’era semmai il retore, l’oratore. La riflessione giuridica greca era perciò una riflessione esistenziale, che partiva dalle opere artistiche, che sole consentono quella meditazione sul dramma e sul mistero del diritto. La loro non fu mai una scienza, ma bensì una co-scienza condivisa sul diritto.
Riscoprire quindi il senso greco del diritto, questa l’ambizione. L’arte è guardata e penetrata attraverso l’occhio del giurista, che ne trae qualcosa di significativo da dire giuridicamente. Questo lo si ottiene leggendo le grandi opere attraverso questa lente: Dante, Kafka, Shakespeare, Manzoni, la Bibbia, Dostoevskij, Borges, Dürrenmatt, Saramago, e via dicendo, cioè tutti quelli che definiamo i classici, nel senso dato da Italo Calvino nella sua famosissima definizione (la sesta): «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire»[11].
Peraltro, questo approccio si è rivelato ben fecondo anche per la comprensione del diritto processuale civile e i processualcivilisti italiani si sono cimentati con grande originalità di risultati: dal riferimento necessario all’opera di Kafka[12], passando per Lewis Carroll, Rabelais, Dickens, Carlo Collodi[13], fino a giungere alla recente analisi processuale del Lohengrin di Richard Wagner[14].
Questa ricchezza inesauribile di conoscenza esperienziale giuridica non la si trova naturalmente solo nella narrativa, ma in tutte le forme d’arte, nella poesia, nel cinema[15], nel teatro, nell’opera lirica[16], nonché nelle arti figurative, nella pittura, nella scultura, persino nell’architettura (v. infra). Il recentissimo volume, curato dal costituzionalista Orlando Roselli, va in questa direzione[17], così come l’opera collettanea che raccoglie i contributi dell’ultimo Convegno della Italian Society for Law and Literature, a cura della professoressa di filosofia del diritto Paola Chiarella[18]. La tendenza e l’invito insomma è quello di andare al di là della letteratura, per abbracciare le espressioni artistiche nella loro totalità.
Certo, nel caso dell’arte figurativa l’intersezione col diritto si fa, forse, meno evidente, ma una volta che la si sappia scovare, si presenta con egual potenza conoscitiva. L’immagine dipinta veicola infatti con immediatezza un episodio, un frammento di un contesto più ampio (storico, sociale) che spesso ha implicazioni giuridiche. A partire da quel segmento di vita immortalato su una tela, e ripercorrendone le fila, si può dire quindi qualcosa di molto importante sul diritto, qualcosa che valga la pena esser detto. Così non manca chi abbia visto un accostamento tra un capolavoro di Caravaggio, la Vocazione di San Matteo, e la storia del diritto tributario (il quadro raffigura l’Apostolo Matteo, esattore delle tasse, che si converte e abbandona il suo lavoro per seguire Gesù)[19]. O ancora, il dipinto, altamente allegorico, la Calunnia di Sandro Botticelli, conservato alla Galleria degli Uffizi di Firenze, ci rivela molto sulla drammaticità e l’inquietudine di una scena processuale e sul ruolo cruciale e la valenza sociale della verità nel processo.[20]
2.1. (Segue). Iconografie della giustizia. Le Virtù e la Legge di Raffaello
A questo proposito va detto che l’iconografia della giustizia, specialmente quella presente nelle aule dei tribunali e negli edifici istituzionali, è stata fatta oggetto recentemente di penetranti indagini da parte di Judith Resnik, professoressa di Civil Procedure alla Yale Law School e una delle maggiori autorità al mondo nel campo della giustizia civile, e Dennis Curtis, Professore Emerito di Diritto anch’egli a Yale e studioso autorevole dei meccanismi di funzionamento delle corti[21] (per sfatare, semmai ce ne fosse bisogno, la falsa credenza che i processualisti siano interessati solo a scadenze, fascicoli e atti). Come si è evoluta l’immagine della Giustizia nei secoli? Cosa ci comunica, culturalmente, la raffigurazione della giustizia come una dea bendata? Da dove deriva questo elemento visuale?
Non solo la pittura e la scultura, ma anche l’architettura è poi un elemento rivelativo. Il modo in cui i tribunali sono costruiti e in cui lo spazio pubblico delle aule d’udienza è strutturato è politicamente significativo e indicativo di un certo modo di intendere il ruolo del giudice, la figura dell’accusato, la funzione degli spettatori del pubblico, la posizione della pubblica accusa e in generale la valenza “catartica” della scena processuale. Nel mondo anglosassone si parla di legal architecture, di politics of courtrooms. Linda Mulcahy, professoressa di Diritto dell’Università di Oxford, tra gli altri, ha dedicato a questo variegato rapporto tra arte, spazio, architettura e diritto preziosi studi[22]. Il giurista positivo che volesse approfondire il tema quasi certamente rimarrebbe stupito di fronte alla quantità e alla qualità delle ricerche a ciò rivolte[23].
Queste traiettorie d’indagine tardano a farsi strada nell’ambiente continentale. Troppo spesso sono ancora viste con un occhio se non proprio ostile quantomeno sospettoso o di superficialità da parte dell’operatore del diritto “duro e puro” (anche se le cose sono di molto cambiate negli ultimi anni). E pensare che proprio in Italia, più che altrove, potremmo attingere a una ricchezza sterminata.
Per esempio, molto si potrebbe capire sul diritto studiando quanto magistralmente raffigurato da Raffaello Sanzio in una delle pareti della Stanza della Segnatura dei Musei Vaticani, nell’affresco Le Virtù e la Legge (del 1511; il pittore, si noti, aveva 28 anni). Questo dipinto – di un incanto da togliere il respiro - è un vero e proprio trattato di filosofia del diritto. In basso a sinistra è raffigurata la consegna da parte di Triboniano (giurista bizantino) all’Imperatore Costantino (482 – 565) del Digesto, la base del diritto civile medioevale in tutta Europa, fino alle codificazioni e oltre. In basso a destra, in ideale complemento ed equilibrio con quanto dipinto dal lato opposto, è rappresentato Papa Gregorio IX (1170 – 1241) mentre approva le Decretali, la base del diritto canonico fino alla codificazione avvenuta nel 1917. Alla radice ci sono quindi i due fondamenti di tutto l’ordine giuridico medievale. Ed ecco poi che nella parte superiore sono raffigurate le entità che devono presiedere e governare tutte le leggi: le Virtù Cardinali (Forza, Prudenza e Temperanza) aventi sembianza di donna, e le Virtù Teologali (Fede, Speranza, Carità) aventi figura di fanciullo. Infine, l’immagine della Giustizia sovrasta ancora più in alto, nel medaglione della volta superiore, dipinta seduta su un trono di nubi mentre tiene in mano la bilancia e la spada. Dietro, la scritta «ius suum unicuique tribuit» (il diritto dà a ciascuno il suo).
Vi è in questa opera d’arte immortalata l’idea di giustizia, l’esigenza della forza, il bisogno dell’equità, la contrapposizione tra diritto naturale e diritto positivo: non esagero quindi se dico che il suo esame ben potrebbe servire per aprire un corso di filosofia del diritto.
3. Diritto come arte. Riflessioni sparse sullo “sguardo artistico” sul diritto
Ma andiamo più oltre. Vi è poi un secondo modo, più radicale, di guardare alle interazioni tra diritto e arte, e cioè quello concepire il diritto stesso come arte. Questo sguardo è certamente più difficile, meno evidente, ancora più profondo e problematico, di quello del diritto nell’arte. Quello che si vuol dire è che non solo possiamo comprendere il diritto attraverso l’arte, ma possiamo direttamente interpretare il diritto stesso in quanto tale come forma d’arte, e cioè come una prassi creativa, e persino visionaria, fantastica, immaginaria, visuale, illusoria, fittizia, e via dicendo. Una forma creativa d’arte, certo, che ha regole sue proprie, che ha una sua grammatica peculiare, ma pur sempre una forma d’arte, una impresa collettiva che è, in qualche modo, comprensibile e descrivibile con le categorie proprie dell’arte.
Innanzitutto partiamo dalla constatazione di come il diritto sia, oltre che un insieme generalizzato di comportamenti, un linguaggio e quindi una narrazione. I modi di comunicazione e di creazione di storie comuni, di racconti condivisi, che sono poi modi reali di costruire una realtà, sono cruciali per comprendere il diritto in questa sua prospettiva che possiamo definire narrata[24]. Si parla infatti di narrativismo giuridico, come parte di quel più ampio movimento che si suole identificare con la “svolta narrativa” (narrative turn) nelle scienze sociali, secondo la quale quasi tutto, nella realtà attorno a noi, è narrazione o prodotto da essa[25]. Lo aveva già detto benissimo Robert Cover, che così apriva il suo più celebre articolo, Nomos and Narrative: «Noi abitiamo un nomos. […]. Nessun insieme di istituzioni o di comandi esiste a prescindere dalle narrazioni che li situano e danno loro significato. Dietro ogni costituzione c’è un racconto epico; dietro ogni decalogo, una sacra scrittura. Una volta compreso il diritto nel contesto delle narrazioni che gli danno significato, esso diviene non soltanto un sistema di regole da osservare, ma un mondo nel quale viviamo»[26]. Il diritto è un luogo, una casa che abitiamo, sostenuta e essa stessa costruita e cementificata da racconti.
Questa è una consapevolezza che è entrata a far parte stabile del patrimonio comune del giurista solo negli ultimi trenta anni. Jerome Bruner (1915 – 2016), il grande psicologo cognitivo statunitense che è stato anche giurista (fu professore alla New York University School of Law) ha ben messo in luce questo potere creativo della parola narrata, autentico potere di costruire la realtà (uno dei suoi più saggi più belli in assoluto si intitola The Narrative Construction of Reality, la costruzione narrativa della realtà[27]) e la realtà giuridica in maniera emblematica. Lo story-telling, la capacità di raccontare (e raccontarci!) storie è costitutivo della giuridicità. Due volumi, in particolare, di questo Autore vengono in rilievo: Minding the Law (edito dalla Harvard University Press, nel 2000, con il sottotitolo assai indicativo How Courts Rely on Storytelling, and How Their Stories Change the Ways We Understand the Law - And Ourselves), scritto insieme all’avvocato Anthony Amsterdam, e Making Stories: Law, Literature, Life (sempre edito dall’Università di Harvard nel 2003 e tradotto successivamente in italiano con il titolo La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita). Poco prima, nel 1996, il critico letterario Peter Brooks e il giurista di Yale Paul Gewirtz avevano curato insieme il volume Law’s Stories: Narrative and Rhetoric in the Law, dove avevano dimostrato che il saper raccontare (bene) una storia, nel diritto, è tutto. Siamo distantissimi dall’immagine della piramide kelseniana o dalla dogmatica giuridica, dalle grandi costruzioni architettoniche sistematiche che avevano l’ardire di ingabbiare e recintare il diritto dentro categorie tagliate col coltello, dentro confini disegnati col righello.
Ora, se il diritto è narrazione, è storia, è argomentazione, è discorso, è retorica, è racconto che forma il nostro immaginario[28], allora il passo non è troppo lungo per dire che il diritto è arte.
Qui non è più il giurista che guarda alle creazioni artistiche con i suoi occhi e ne trae ciò che è giuridicamente rilevante, ma tutto all’opposto è l’artista che guarda al diritto con gli occhi dell’artista, traendone ciò che è artisticamente significativo (e che nondimeno è importante per il giurista sapere). Non il diritto nell’arte, ma vedere ciò che c’è di arte nel diritto. È il capovolgimento ultimo.
È forse negabile, per fare un esempio assai banale, che le argomentazioni giuridiche hanno una dimensione estetica molto forte e niente affatto secondaria? Una soluzione a un problema, un articolo di dottrina, una sentenza, una arringa, una spiegazione, un atto processuale, non possono forse essere descritti anche in termini di bello o brutto, elegante o grossolano, oltre che di corretto, giusto, ineccepibile? Una bellezza che è sia formale sia contenutistica. Senza dubbio. D’altronde, già da molto si discorre di stile della sentenza continentale o di quella francese, inglese, etc.[29] In Inghilterra la dimensione estetica delle decisioni giudiziali è notevolissima; le sentenze sono caratterizzate da un linguaggio emotivo, letterario e alcune di esse sono trattate come veri capolavori della letteratura. Dalla loro lettura traspare chiaramente l’autore: ogni grande giudice inglese ha il proprio linguaggio personale. Spesso, a questo proposito, si ricorda l’incipit assai poetico del leggendario giudice della High Court londinese, Lord Denning (un vero e proprio maestro della lingua inglese) nel caso Hinz v Berry: «It happened on April 19, 1964. It was bluebell time in Kent»[30].
È evidente che lo stile è un concetto squisitamente artistico, che è meglio indagato con gli strumenti della critica letteraria piuttosto che con quelli del giurista. Ma se è così, allora l’artista può dare un grande contributo alla comprensione del diritto.
Ma attenzione a seguire troppo a lungo le tracce di questo cammino. Si rischia di dissolvere la dura realtà del diritto, di ridurla a nient’altro che a un insieme di parole, a un vociare senza consistenza, di togliere qualsiasi capacità referenziale ai concetti giuridici, aprendo la strada alla destabilizzazione nichilistica e senza rimedio. È l’accusa che si muove alle cd. “teorie postmoderne” del diritto. Tutto il diritto, per queste teorie, sarebbe alla fine nient’altro che un grande testo – secondo il criptico detto di Jacques Derrida, il filosofo della déconstruction: «il n'y a pas de hors-texte», non esiste un “all’infuori” del testo, o «il n’y a rien hors du texte», non c’è nulla fuori del testo[31]. Testo è ciò che deve essere interpretato. Se diciamo così, allora stiamo sostenendo che nulla precede l’interpretazione; non c’è realtà storica, politica, istituzionale, economica, giuridica al di fuori dalle pratiche interpretative che assegnano e costantemente ri-assegnano i significati. Senza questa serie ininterrotta di interpretazioni, di prassi discorsive continuamente riprodotte e ripetute, il diritto semplicemente cesserebbe di esistere, perderebbe qualsiasi consistenza. Le parole, i concetti, le nozioni, non si riferiscono a nessuna realtà; sono loro a crearla. Come in un gioco di prestigio, alzato il velo, scopriamo che sotto non c’è nulla. Ma è davvero tutto una grande finzione?
Sicuramente questa è una esagerazione. Anzi, di più: è una esagerazione cattiva. Ma qualcosa di buono da tutto questo è comunque possibile ricavare. Ci permette quantomeno di de-sacralizzare l’oggettività neutrale del diritto, un esercizio che a volte può essere benefico.
Ecco un esempio. Il processo è sì quell’istituto regolato minuziosamente dai codici di procedura, che vede impegnate figure istituzionali, ognuna con una precisa funzione, con specifici poteri, doveri e facoltà assegnate e disciplinate dalla legge, dove si interpretano e si applicano le norme giuridiche, etc., ma è anche, al contempo, un grande rituale simbolico, una sorta di liturgia nella quale gli attori tutti recitano (inconsapevolmente) una parte, e che si snoda attraverso pratiche retoriche presiedute da canoni accettati, esattamente come in una pièce teatrale, davanti a un pubblico di spettatori, che si svolge in uno spazio sociale sacro, ben delimitato (il tribunale, come fosse un tempio), nel più generale contesto di una visione del mondo coerente con queste premesse[32]. Fra mille, duemila anni, forse, i nostri processi verranno studiati così, antropologicamente e simbolicamente, come d’altronde abbiamo fatto noi quando abbiamo studiato altri metodi di risoluzione delle controversie da noi lontanissimi[33].
Il quesito ritorna: non è forse, allora, il processo (e più in generale il diritto tutto) una performance – una performance serissima, certo, e che va presa terribilmente sul serio, ma pur sempre una performance?[34]
4. Conclusione. Diritto, interpretazione, musica (Bach non è il miglior interprete di Bach)
Diritto, rappresentazione artistica, arti performative. I parallelismi sono molteplici e ben noti. Non dirò quindi nulla di nuovo. Particolarmente esplorati sono quelli tra diritto e musica, due contesti solo all’apparenza lontani, ma tra i quali, anzi, gli studiosi più aperti hanno riconosciuto parentele ravvicinate[35].
Il primo punto di contatto – il più evidente – è che in entrambi l’interpretazione è centrale[36]. Il violoncellista Mario Brunello e il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky si sono cimentati proprio in un dialogo di questo tipo, che si è dimostrato assai fruttuoso[37]. Ma i precedenti sono altrettanto illustri: l’accostamento era ben noto a Emilio Betti[38], a Salvatore Pugliatti[39], agli esponenti del Realismo Giuridico Americano (soprattutto Jerome Frank[40]). Nella musica abbiamo semplicemente dei segni (le note) scritti dal compositore su un supporto; essi non dicono nulla. C’è silenzio. Giunge però un interprete che dà loro vita, che li fa suonare. C’è musica; e differenti esecutori danno luogo a differenti performance (i cultori di musica classica sanno bene che Le Sonate e Partite per violino solo composte da Bach e interpretate da Yehudi Menuhin sono diversissime da quelle suonate da Henryk Szeryng). Esiste una interpretazione giusta? Direi di no - anche se ne esiste, senza dubbio, una sbagliata. Se Bach potesse tornare in vita, nemmeno lui stesso potrebbe indicarci l’interpretazione corretta, autentica, avendo dopo tutto scritto lui la partitura? Parimenti direi di no. Un’opera d’arte non ha padroni. Una volta fatta nascere essa è consegnata all’eternità, al suo divenire storico che, esattamente come quello di un figlio, è indipendente dalle volontà e dalle intenzioni del suo genitore (simbolico). Così non solo Bach non potrebbe dirci quale è l’interpretazione corretta delle sue opere, ma nemmeno Platone, resuscitato, potrebbe dirci come devono essere interpretati i suoi dialoghi, o Kafka, che cosa davvero avesse inteso dire nelle sue opere oniriche. L’opera si oggettivizza, si astrae, diviene ontologicamente e contemporaneamente la totalità delle sue interpretazioni, staccandosi irrimediabilmente e perdendo ogni legame con il creatore. Ciò significa – e non è affatto paradossale! - che Bach non è il miglior interprete di Bach, Hegel non è il miglior interprete di Hegel, Montale non è il miglior interprete di Montale, e via dicendo (è chiarissima la radice ermeneutica di Hans-Georg Gadamer in queste mie parole[41]).
Trasferiamo tutto ciò nel campo nel diritto. Anche qui, parallelamente, abbiamo dei segni linguistici su un supporto (le parole in un codice, in un regolamento, in una sentenza) che non ci dicono nulla senza l’intermediazione di un interprete (il giudice, certo, ma anche il notaio, l’avvocato, lo studioso, il poliziotto, l’amministratore d’azienda, il burocrate, etc.). E parimenti, l’intenzione soggettiva del legislatore, del singolo parlamentare che ha redatto la disposizione, non è affatto vincolante quanto alla sua interpretazione (almeno normalmente, a meno che non intervenga a sua volta un atto normativo di interpretazione cd. autentica); anche l’enunciato normativo, come la partitura, vive di vita propria, è consegnato una volta per tutte e per sempre alla comunità dei giuristi-esecutori, i quali ne ricaveranno, con creatività e secondo i criteri interpretativi e le tecniche argomentative ammesse e legittime, differenti norme.
Un secondo punto di contatto è che spesso, nella musica, (emblematicamente nel jazz, ma non solo: si pensi alla Cadenza nei concerti per strumento solo di musica classica), l’interprete è chiamato in certi momenti a improvvisare. Ora, i musicisti sanno bene che l’improvvisazione è sì un esercizio di creatività ma, contrariamente a quanto si crede, non è affatto sregolata, arbitraria, capricciosa, bensì è governata da regole (armoniche, ritmiche, di contesto, etc.) molto precise. C’è insomma una improvvisazione musicale sensata e una cattiva. E ugualmente possiamo dire che anche il giudice, in un certo senso, qualche volta, è chiamato a improvvisare, a fare cioè un uso intelligente delle proprie doti creative, ma non in maniera né capricciosa né arbitraria, ogniqualvolta gli è permesso o addirittura imposto, ad esempio nel caso delle clausole generali o, con ancora più evidenza, in caso di lacune, dinnanzi a ipotesi non regolate e che pure non può sottrarsi dal decidere, oppure ancora nella tradizione di common law, qualora si trovi a dover risolvere una controversia nuova, innovando creativamente la tradizione a lui precedente[42].
I parallelismi sono molti, e non ancora del tutto esplorati. La potenzialità del dialogo è pertanto molto vasta.
In conclusione, deve però essere chiaro che tutto questo non è affatto un vezzo per giuristi stanchi del diritto positivo, un divertissement colto dovuto in gran parte al tedio del confronto sfiancante con i codici, i fascicoli e la dura realtà poco poetica dei tribunali. Al contrario: esplorare le convergenze (o le difformità) strutturali tra diritto e arte - o meglio tra esperienza giuridica e esperienza artistica - permette non solo di uscire dalle sacche del particolare, del settoriale, di alzare lo sguardo, ma, più radicalmente, di giudicare con senso critico il riduzionismo dato per scontato del diritto alla tecnica, per cogliere invece la sua anima esistenziale e, in ultima analisi, profondamente umana.
*Lo scritto riproduce, con varie modifiche e con l’aggiunta delle note, il testo della relazione tenuta presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, 30 gennaio 2021, nella Giornata di studi dedicata a “Creatività e Diritto”.
[1] Sul problema di trattare il diritto come scienza, v., per tutti, M. Jori, Oggetto e metodo della scienza giuridica, in U. Scarpelli (a cura di), La teoria del diritto. Problemi e tendenze attuali. Studi dedicati a Norberto Bobbio, Milano, 1983, 177, con molti riferimenti a N. Bobbio, Teoria della scienza giuridica, Torino, 1950.
[2] Sul punto v. l’originale volume di F. Gallo, Celso e Kelsen, Torino, 2010 dove il grande romanista esamina la portata delle definizioni (così distanti tra loro, l’una in chiave appunto artistica, e l’altra scientifica) di questi due giuristi del passato.
[3] La valenza conoscitiva dell’arte ha radici antiche e importanti (Hegel, ma non Kant, per il quale, invece, il giudizio estetico non è né vero o falso, né giusto o sbagliato; Adorno, ma non Benedetto Croce, e poi Heidegger e soprattutto Hans-Georg Gadamer, nonché l’italiano Luigi Pareyson) ed è argomentata con particolare radicalità dal filosofo statunitense Nelson Goodman (1906 – 1998), per il quale la finzione dell’arte non solo apre e dischiude, ma fa, costruisce mondi, al pari della scienza; cfr. N. Goodman, Vedere e costruire il mondo, Laterza, 2008 (ed. or., Ways of Worldmaking, 1978); Id., I linguaggi dell’arte, Laterza, 2017 (ed. or., Languages of Art, 1976).
[4] F. Carnelutti, Arte del diritto, a cura di D. Cananzi, con prefazione (Avant-propȏs) di Claudio Consolo, Torino, rist. 2017 (ed. or. italiana, 1949), 18 – 19. Peraltro, è interessante notare come Carnelutti dimostri questo attaccamento alla parola poetica e musicale anche in un altro scritto della sua maturità, Matematica e diritto (in Riv. Dir. Proc., 1951, 201): «[…] bisogna capire gli uomini per capire il diritto. Ma questa è materia ribelle ai numeri e anche alle parole. Anche alle parole. […] La parola [nel processo, nda] ha da essere parlata affinché se ne esprime la musicalità. E con l’oralità affiora l’eloquenza […]. Ma l’eloquenza combina la musica con la poesia. E il segreto della musica è la pausa; mediante i suoni essa riesce a far gustare il silenzio».
[5] «Tutti viviamo giuridicamente anche senza aver mai aperto il codice, e vivendo continuamente creiamo diritto e nell’atto stesso del porlo lo conosciamo»; così S. Satta, La vita della legge e la sentenza del giudice (1952), in Il mistero del processo, Milano,1994, 39, a 45.
[6] Ci riferiamo in particolare, tra gli altri, ai due lavori di G. Capograssi, Analisi dell’esperienza comune (1930) e Studi sull’esperienza giuridica (1932), ora in Mario D’Addio-Enrico Vidal (a cura di), Opere, Vol. II, Milano, 1959.
[7] S. Satta, Il giurista Capograssi, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1960, 785, a 790 – 791 (enfasi nostra).
[8] Questo paradosso è ben messo in luce da Massimo Cacciari nella sua conferenza Arte e terrore (23 febbraio 2019) disponibile online in Cacciari - Arte e terrore. L’arte, aristotelicamente, pur nella individualità e singolarità dell’episodio rappresentato, suscita éleos, mit-leid in tedesco, cioè con- (mit) sofferenza (leid), compartecipazione umana nel dolore.
[9] Di recente, M. Cartabia, L. Violante, Giustizia e mito (Con Edipo, Antigone e Creonte per indagare i dilemmi del diritto continuamente riafforanti nelle nostre società), Bologna, 2018.
[10] Su questa evoluzione, profondissimo il saggio di W. Jaeger, Elogio del diritto, ora ristampato a cura di Massimo Cacciari e Natalino Irti (con saggi a commento dei due Curatori), Elogio del diritto, Milano, 2019. Su questo, mi permetto di rinviare al mio Trascendenza della Giustizia, immanenza del diritto Alcune meditazioni a proposito della recente ristampa di “Elogio del diritto” di Werner Jaeger (con saggi di Massimo Cacciari e Natalino Irti), in Iustitia, 2021, https://www.iustitiaugci.org/trascendenza-della-giustizia-immanenza-del-diritto-alcune-meditazioni-a-proposito-della-recente-ristampa-di-elogio-del-diritto-di-werner-jaeger-con-saggi-di-massimo-cacciari-e-nat/
[11] I. Calvino, Perché leggere i classici, 1991 (op. postuma).
[12] B. Cavallone, Il processo come contagio, in Riv. Dir. Proc., 2002, 581; Id., La Lezioni di Titorelli, pittore e giurista (Kafka e la teoria del giudicato), ivi, 2011, 633; B. Capponi, Condanna senza giudizio, esecuzione senza condanna (una riflessione sul non- processo di Franz Kafka), in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2013, 541.
[13] Il riferimento è a tutti gli eclettici studi di Bruno Cavallone, ora raccolti in La borsa di Miss Flite. Storie e immagini del processo, Milano, 2016.
[14] A. Tedoldi, Il processo in musica nel Lohengrin di Richard Wagner, Pisa, 2017; v. anche, tra i filosofi del diritto, F. Cavalla, La struttura processuale nell’opera di Wagner, in 12, ISLL papers, 2019, http://amsacta.unibo.it/6229/1/Cavalla_ISLLPapers_2019_Vol12.pdf
[15] O. Rosselli (a cura di), Cinema e diritto. La comprensione della dimensione giuridica attraverso la cinematografia, Torino, 2020.
[16] F. Annunziata, G. Colombo (a cura di), Law and Opera, Springer, 2018.
[17] O. Roselli (a cura di), Le arti e la dimensione giuridica, Bologna, 2020.
[18] P. Chiarella (a cura di), Narrazioni del diritto, musica ed arti tra modernità e postmodernità, Napoli, 2020 (Atti del VIII Convegno Nazionale della ISLL, Italian Society for Law and Literature, Università degli Studi di Catanzaro, 2018, Le radici dell’esperienza giuridica).
[19] A. Salvati, La Vocazione di San Matteo: il peccato e le imposte, in Rivista di diritto delle arti e dello spettacolo, 2017, 103 (e anche online in 11, ISLL papers, 2018, http://amsacta.unibo.it/6017/1/Salvati_ISLL_Papers_2018_vol11.pdf).
[20] P. Moro, Forme del processo e figure della verità. Interpretazione retorica del dipinto La Calunnia di Sandro Botticelli, in L. Alfieri, M.P. Mittica (a cura di), La vita nelle forme. Il diritto e le altre arti. Atti del VI Convegno Nazionale ISLL (Urbino 3-4 Luglio 2014), 2015, 187 e seg., https://amsacta.unibo.it/5561/1/2015_ISLL_Dossier%20Atti_Urbino_2014.pdf
[21] J. Resnik, D. E. Curtis, Representing Justice, Yale, 2011; Id., Representing Justice: From Renaissance Iconography to Twenty-First-Century Courthouses, in 151 Proceedings of the American Philosophical Society, 2007, 139.
[22] L. Mulcahy, E. Rowden, The Democratic Courthouse: A Modern History of Design, Due Process and Dignity, London, 2019; L. Mulcahy, Back to the Future? The Challenge of the Past for Courthouses of Tomorrow, in J. Simon, N. Temple, R. Tobe (a cura di), Architecture and Justice: Judicial Meanings in the Public Realm, London, 2013; Id., Legal Architecture: Justice, Due Process and the Place of Law, London, 2011 (e la review di J. Scott, Legal Architecture Reimagined, in Law and Humanities, 2015, 2011, 415 e seg.); Id., Architects of Justice: the Politics of Courtroom Design, in 16 Social & Legal Studies, 2007, 383.
[23] J. Resnik, D. Curtis e A. Tait, Constructing Courts: Architecture, the Ideology of Judging, and the Public Sphere, in A. Wagner, R. Sherwin (a cura di), Law, Culture & Visual Studies, London, 2014; K. J. Bybee, Judging in Place: Architecture, Design, and the Operation of Courts, in 37, Law & Social Inquiry, 2012, 1014. N. W. Spaulding, The Enclosure of Justice: Courthouse Architecture, Due Process, and the Dead Metaphor of Trial, in Yale Journal of Law & the Humanities, 2012, 311.
[24] Fondamentali, a questo proposito, specie con riferimento alle storie narrate nel processo, i molteplici lavori della filosofa del diritto Flora di Donato; v., ex multis, The Analysis of Legal Cases: A Narrative Approach, London, 2020; La realtà delle storie. Tracce di una cultura (con prefazione di Jerome Bruner), Napoli, 2012; La costruzione giudiziaria del fatto. Il ruolo della narrazione nel processo, Bologna, 2008.
[25] Si veda il volume del compianto filosofo del diritto spagnolo, dell’Università di Malaga, uno dei maggiori esponenti della scuola spagnola di diritto e letteratura, José Calvo González, Proceso y Narración. Teoría y práctica del narrativismo jurídico, Lima, 2019 (ove anch’egli si occupa del tema soprattutto dalla prospettiva processuale).
[26] R. M. Cover, Nomos and Narrative, in 97, Harvard Law Review, 1983, 1 (e anche in Narrative, Violence and the Law: The Essays of Robert Cover, Ann Arbor, 1992). Trad. mia.
[27] J. Bruner, The Narrative Construction of Reality, in Critical Inquiry, 1991, 1.
[28] F. Ost, Raconter la loi. Aux sources de l’imaginaire juridique, Paris, 2004.
[29] Tra i molti, Monateri, Lo stile delle sentenze, in Pensare il diritto civile, Torino, 1995, 80. Sul linguaggio delle sentenze, v. da ultimo l’intervista, da parte del Professor Bruno Capponi, alla critica letteraria e scrittrice Gilda Policastro, https://www.giustiziainsieme.it/it/le-interviste-di-giustizia-insieme/1571-bruno-capponi-intervista-gilda-policastro
[30] [1970] 2 QB 40.
[31] J. Derrida, De la grammatologie, Paris, 1967, 227 e 233.
[32] Su questi aspetti, A. Garapon, Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, Milano, 2007.
[33] Cfr. O. G. Chase, Law, Culture, and Ritual: Disputing Systems in Cross-Cultural Context, New York, 2005, dove il processualcivilista americano (Professore di Civil Procedure alla New York School of Law) descrive il metodo per risolvere i conflitti utilizzato da una tribù dell’Africa centrale, gli Azande, incentrato sull’avvelenamento dei pulcini e dell’esame del loro comportamento successivo (v. tradotto in italiano, a cura di M.R. Ferrarese, Gestire i conflitti. Diritto, cultura, rituale, Roma – Bari, 2009).
[34] Riprendo la fortunata definizione di J. M. Balkin e S. Levinson, Law as Performance, in 2, Law and Literature: Current Legal Issues, 1999, 1729 (anche in https://jackbalkin.yale.edu/law-performance); v. anche Id., Law, Music and Other Performing Arts, in University of Pennsylvania Law Review, 1991, 1597.
[35] Da ultimo, Giorgio Resta (a cura di), L’armonia nel diritto. Contributi a una riflessione su diritto e musica, Roma, 2020, liberamente disponibile nella sua interezza in http://romatrepress.uniroma3.it/libro/larmonia-nel-diritto-contributi-a-una-riflessione-su-diritto-e-musica/
[36] Sul parallelismo classico tra interpretazione giuridica e musicale la letteratura è, oramai, sorprendentemente ricca. Senza pretesa di completezza, M.P. Mittica, Ragionevoli dissonanze. Note brevi per un possibile accostamento tra le intelligenze della musica e del diritto, in A.C. Amato Mangiameli, C. Faralli, M.P. Mittica (a cura di), Arte e Limite. La misura del diritto (Atti del III Convegno nazionale della Società Italiana di Diritto e Letteratura, 16-17 giugno 2012), Roma 2012, 47; G. Resta, Il giudice e il direttore d’orchestra. Variazioni sul tema: «diritto e musica», in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2011, 435; Id., Variazioni comparatistiche sul tema: “diritto e musica”, in Comparazione e diritto civile (online), 2010; G. Iudica, Interpretazione giuridica e interpretazione musicale, in Riv. Dir. Civ., 2004, 467; E. Picozza, L’interpretazione musicale ed il metronomo. Problemi di interpretazione tra diritto e musica, in Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica, 2004, 327.
[37] M. Brunello, G. Zagrebelsky, Interpretare. Dialogo tra un musicista e un giurista, Bologna 2016.
[38] E. Betti, Le categorie civilistiche dell’interpretazione, in Riv. It. Scienze Giur., 1948, 34; Id., Teoria generale della interpretazione, Milano, 1955, 760 e seg.
[39] Tra le molte opere dedicate al tema (egli era, oltre che giurista, esperto musicologo), S. Pugliatti, L’interpretazione musicale, Messina, 1940.
[40] J. Frank, Words and Music: Some Remarks on Statutory Interpretation, in 47 Columbia Law Review, 1947, 1259; Id., Say it with Music, in Harvard Law Review, 1948, 921 (cfr. E. Buono, «A moderate amount of cacophony». La funzione “sovversiva” della comparazione tra diritto e musica nel giusrealismo statunitense, in Cartografie sociali, 2018, 225).
[41] H-G. Gadamer, Verità e Metodo, trad. it. di Gianni Vattimo, Milano, 2000 (ed. or., 1960). Per chi volesse, anche G. Ripanti, Il problema ermeneutico in H. G. Gadamer, in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 1977, 492, spec. 498.
[42] Per la discussion di tutti questi temi, A. P. Buffo, Interpretation and Improvisation: The Judge and the Musician Between Text and Context, in International Journal of Semiotic and Law, 2018, 215; E. Buono, Diritto e improvvisazione. Cenni comparativi ed esercizi di demistificazione, in P. Chiarella (a cura di), Narrazioni del diritto, cit., 341; V. Nitrato Izzo, Diritto e musica: performance e improvvisazione nell’interpretazione e nel ragionamento giuridico, in Dossier: Diritto e Narrazioni, Temi di diritto, letteratura e altre arti (Atti del secondo convegno nazionale della ISLL, Bologna 3-4 Giugno 2010), https://www.lawandliterature.org/area/papers/Dossier%20Atti%20ISLL%202010%20S.pdf; Id., Interprétation, musique et droit: performance musicale et exécution de normes juridiques, in Revue Interdisciplinaire d’Études Juridiques, 2007, 99; T. Piper, The Improvisational Flavour of Law, the Legal Taste of Improvisation, in Critical Studies in Improvisation, 2010, 1.
La funzione nomofilattica della Corte di cassazione e l’indipendenza funzionale del giudice
di Aniello Nappi
Nel novembre del 2019 l’Università degli studi di Milano ospitò un seminario sull’indipendenza della magistratura oggi, che affrontò anche il tema della nomofilachia, sollecitando in particolare una verifica dell'ipotesi che ci possa essere una contraddizione o quanto meno un rapporto dialettico tra la nomofilachia e l'indipendenza funzionale del giudice.
Ripropongo qui il testo della mia relazione, già pubblicata con gli atti del seminario.
Ci si domandò dunque quale indipendenza del giudice possa esserci di fronte alla nomofilachia; e quale nomofilachia possa esserci nei confronti di un giudice indipendente.
Tuttavia si constatò che, se consideriamo l'evoluzione storica dell’idea di nomofilachia, la prospettiva muta significativamente.
In realtà la nomofilachia nasce come strumento di sanzione contro la ribellione del giudice alla legge[1], in un contesto culturale nel quale si bandisce l'interpretazione, vietata dalla rivoluzione francese[2]. In un contesto del genere intendere la nomofilachia come orientamento della giurisprudenza sarebbe stata una contraddizione in termini. Lo sguardo non si volgeva affatto al futuro, cui si guarda oggi quando si parla di nomofilachia. In quel contesto la nomofilachia ha solo lo scopo di sanzionare il giudice che oltrepassa i limiti della legge, perché tutto ciò che c'è da dire è detto già nella legge; e il giudice non deve dire nient'altro che quello che c'è scritto nella legge.
Questa idea di nomofilachia si avvia a un superamento quando si comincia a riconoscere il ruolo dell'interpretazione, perché si afferma allora l’idea della nomofilachia come orientamento della giurisprudenza, di una giurisprudenza che è il risultato dell’interpretazione della legge da parte del giudice. Infatti l’interpretazione della legge, oltre che dei fatti, è la principale manifestazione dell’indipendenza del giudice.
Allora non mi pare che si possa oggi parlare di tendenziale incompatibilità, ma si debba piuttosto parlare di implicazione tra nomofilachia e indipendenza, perché nessuno ha mai pensato che le corti supreme abbiano il monopolio dell'interpretazione.
Orientare la giurisprudenza significa dunque proporre interpretazioni attendibili, riconoscibili come tali da qualunque giudice legittimato a interpretare. Sicché nel momento in cui si affida alla Corte di cassazione il compito di orientare la giurisprudenza, si riconosce un ruolo anche all’interpretazione dei giudici del merito. Ne è dimostrazione il fatto che in Francia l’adunanza plenaria della Corte di Cassazione, che è equivalente alle nostre sezioni unite, può intervenire per risolvere i contrasti anche tra la giurisprudenza della stessa Corte di cassazione e la giurisprudenza dei giudici del merito[3].
Ne risulta un'idea di giurisprudenza come discorso pubblico fondato sul confronto degli argomenti e aperto all’apporto anche della dottrina, perché ciò che conta sono appunto gli argomenti proposti da ciascun interprete; e anche la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione si fonda sugli argomenti che può esibire.
Si tratta allora di un confronto libero da condizionamenti esterni o gerarchici, diversamente da quanto avveniva un tempo, quando la nostra Corte di cassazione esercitava un controllo sulla carriera dei magistrati, determinandone una dipendenza istituzionale, destinata a favorire conformismo di atteggiamenti piuttosto che uniformità della giurisprudenza.
L’uniformità della giurisprudenza si ottiene con la condivisione degli argomenti proponibili a sostegno di un orientamento interpretativo. E questo, come vedremo, è nella natura stessa della giurisdizione.
A questa costruzione della giurisprudenza come discorso pubblico, fondato sul confronto degli argomenti, si potrebbe obiettare che è incompatibile con i sistemi di common law, nei quali i precedenti sono vincolanti. Ma come hanno dimostrato gli studi di Gino Gorla e Michele Taruffo, anche questo è un mito da ridimensionare[4]. Innanzitutto perché il precedente di common law è cosa ben diversa dalla nostra giurisprudenza per principi di diritto. Quel precedente si riferisce a un caso concreto e il giudice inglese, nel momento in cui deve riconoscere l'identità o quanto meno l'analogia tra i due casi posti a confronto, ha molte possibilità di distinguerli, assegnando rilevanza a determinati aspetti del suo caso che lo legittimano a non uniformarsi al caso già deciso. Come chiarisce Taruffo, è il secondo giudice che crea il precedente, non il primo, quello che pronuncia la sentenza che si candida a fare da modello.
Del resto negli Stati Uniti è riconosciuta la discrezionalità del giudice nel rapportarsi ai precedenti, cui si uniforma solo quando non è in grado di esibire ragioni per discostarsene.
Sicché, quand'anche volessimo per assurdo assimilare il ruolo del precedente vincolante al ruolo della legge, questo non risolverebbe il problema dell'interpretazione; non risolverebbe quella che Habermas chiama tensione tra la positività del diritto e l'indisponibilità dei valori: una tensione che è il fondamento del ruolo del giudice.
L’idea dell'uniformità della giurisprudenza come condivisione di argomenti è dunque un'idea che vale per i paesi di common law come per i paesi di civil law.
Sono pertanto convinto che non ci sia contraddizione ma piuttosto un rapporto di implicazione tra nomofilachia e indipendenza del giudice. Non ci può essere nomofilachia come orientamento della giurisprudenza se non c'è indipendenza del giudice, con il riconoscimento del suo ruolo di interprete.
La contraddizione tra nomofilachia e indipendenza c’è quando la nomofilachia opera come sanzione alla ribellione del giudice alla legge, in un contesto nel quale la legge dice tutto e il giudice non deve fare altro che ripeterlo.
Per concludere chiarirò quali sono le ragioni per cui a mio parere è nella natura stessa della giurisdizione che si manifesta questo rapporto di implicazione tra indipendenza e nomofilachia. Ma prima vorrei delimitare il campo della problematica del rapporto tra nomofilachia e indipendenza.
Innanzitutto, come ha chiarito la Corte costituzionale[5], non si pone un problema di nomofilachia né tanto meno di indipendenza nel caso della cassazione o dell'annullamento con rinvio con enunciazione del principio di diritto ai sensi dell'art. 384 c.p.c. o dell’art. 627 c.p.p., perché in questo caso si determina una preclusione a esaminare la questione decisa dalla Corte. Il giudice non è più legittimato a individuare il criterio di giudizio, in quanto quel criterio è già individuato, è già fissato per via processuale. Infatti, se il giudice del rinvio non si attiene al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, la sua sentenza non è censurabile per violazione della norma diritto sostanziale interpretata dalla Cassazione, ma è censurabile per violazione appunto degli art. 384 c.p.c. e 627 c.p.p. Non si pone quindi né un problema di nomofilachia, perché qui il vincolo non deriva da un precedente ma da una decisione assunta all’interno del medesimo processo; né si pone un problema di indipendenza del giudice, perché il giudice del rinvio è libero di decidere nell’ambito di quanto effettivamente devolutogli.
Un caso particolare è poi quello che ha affrontato il presidente Ernesto Lupo, quello che Taruffo chiama l'autoprecedente.
In realtà qualsiasi giudice, nel momento in cui decide una controversia secondo un certo criterio di giudizio, assume l'impegno anche morale ad adoperare il medesimo criterio in ogni caso analogo. E una Corte suprema che decidesse in modo difforme casi analoghi perderebbe di autorevolezza e di credibilità.
Tuttavia qui si tratta non di esercizio della nomofilachia ma di una condizione della nomofilachia, perché se una Corte suprema non è in grado di esprimersi con un indirizzo unitario e coerente, ovviamente non è in grado di esercitare la nomofilachia. Ma le corti supreme non esercitano la nomofilachia nei confronti di se stesse, perché le direttive interpretative in funzione nomofilattica sono quelle indirizzate ai giudici del merito.
La corte suprema deve esprimersi come ogni giudice in modo coerente innanzitutto per rispetto del principio di eguaglianza, ma questo non è esercizio della nomofilachia, anche se ne è condizione imprescindibile.
C'è quindi un’esigenza di credibilità delle corti supreme che induce a diffidare di cambiamenti inopinati di giurisprudenza.
Tuttavia fin dal 1966 la Corte Suprema inglese comunicò che non si sarebbe ritenuta necessariamente vincolata al rispetto dei suoi precedenti, benché operasse in un sistema a precedente vincolante. E negli Stati Uniti una delle ragioni che può giustificare la rimessione di un caso alla Corte Suprema è appunto l'esigenza di overruling, di un mutamento di giurisprudenza.
Una certa elasticità è dunque riconosciuta, per l'esigenza di adeguare la giurisprudenza ai mutamenti sociali e delle situazioni. Ma ovviamente rimane ferma l'esigenza che una Corte suprema, onerata di un ruolo di orientamento della giurisprudenza, abbia una prevedibile coerenza.
A questo scopo sono destinate le norme di cui ha parlato il presidente Lupo, che impongono alle sezioni semplici di investire le Sezioni unite quando dissentano dalla loro giurisprudenza.
Sono norme destinate a prevenire i contrasti, ma non hanno nulla a che vedere né con l'esercizio della nomofilachia, che non si esercita nei confronti della stessa corte, né con l'indipendenza del giudice, perché si tratta di norme sulla individuazione del collegio legittimato a pronunciarsi nell’ambito della stessa corte. Nessun giudice viene costretto a esprimere un'opinione diversa da quella che nutre. La sezione dissenziente argomenta la sua interpretazione diversa da quella delle Sezioni unite, ma non si pronuncia sul merito della controversia perché c'è una norma procedimentale di individuazione del diverso collegio legittimato a pronunciarsi. La garanzia dell’indipendenza esclude che la sezione semplice possa essere vincolata al precedente delle Sezioni unite che non condivide, ma non esclude che l’assegnazione degli affari possa essere regolata in modo da permettere alla Corte di cassazione, quale ufficio giudiziario unitario, di esprimere una giurisprudenza coerente. Né interferisce con l’indipendenza del giudice la sottrazione della decisione alla sezione semplice dissenziente: questa sottrazione potrebbe interferire con il principio del giudice naturale precostituito per legge, ma è evidente che in questa prospettiva l’obbligatorietà della rimessione alle sezioni unite è preferibile alla rimessione facoltativa.
D'altra parte una norma del tutto analoga vige in Germania[6].
Anche in Germania le Sezioni semplici sono tenute a rimettere al grande Senato, equivalente alle nostre sezioni unite, le questioni sulle quali c'è un dissenso tra la sezione semplice e lo stesso grande senato; anzi la rimessione è doverosa anche quando una sezione semplice intende dissentire da altra sezione semplice intenzionata a non mutare orientamento. Ma pare che le rimessioni al grande Senato delle questioni controverse tra le sezioni semplici siano rarissime, perché quasi sempre si raggiunge un accordo sull’interpretazione da ritenere corretta[7]. Cosa che io vedo utopistica nella nostra Corte di cassazione
In Francia non c'è in questi casi l'obbligo di rimessione alle sezioni unite, la rimessione è solo facoltativa com'era un tempo da noi, ma è ammessa in termini molto più ampi, perché tutto è destinato a prevenire i contrasti per tutelare quell'esigenza di autorevolezza e di credibilità della Corte suprema che è alla base dell'esercizio della nomofilachia.
Così delimitato il campo, è ora possibile concludere, chiarendo perché, a mio avviso, l’esercizio della nomofilachia non pone in discussione l’indipendenza dei giudici destinatari delle direttive interpretative della Corte di cassazione, ma piuttosto la presuppone. Ritengo infatti che sia nella natura stessa della giurisdizione l’esigenza di tener conto di tutti i punti di vista rilevanti.
Oggi abbiamo superato quel contesto culturale per cui tutto ciò che c'è da dire è già scritto nella legge. Tuttavia nella concezione della giurisdizione dei sistemi liberali, sia di common law sia di civil law, permane l'idea della funzione ricognitiva della giurisdizione. Il giudice riconosce, trova (to find dicono gli inglesi), il diritto, non lo crea. E ciò che distingue la giurisdizione dalle altre funzioni pubbliche è il tipo di argomento che deve essere esibito a giustificazione delle decisioni: il giudice assume che la sua decisione corrisponde, se non a una norma positiva già scritta, a un sistema di valori universalmente condiviso. Come chiarisce Luhmann, la giurisdizione risponde a programmi normativi condizionali, che esigono l'accertamento di condizioni predeterminate per giustificarne le decisioni; non può rispondere, come l’amministrazione, a programmi normativi di scopo, che esigono la scelta dei mezzi più idonei al raggiungimento dei finì prefissati.
Insomma può essere ribadita la costruzione dell'attività giurisdizionale come applicazione di una regola precostituita o, comunque, desumibile da un sistema di norme e di valori precostituito, perché il concetto di valore viene così assunto in un senso in qualche misura formale, come ciò che è indiscusso o, comunque, può essere considerato universalmente condiviso nel contesto sociale in cui il giudice opera. E se il giudice nel momento in cui decide deve assumere che ci sia un consenso universale sui valori che egli pone a fondamento della propria attività di ricostruzione di una norma, quando la norma non è immediatamente reperibile nell'ordinamento, non può questo giudice non prendere atto di ciò che hanno detto gli altri giudici, non può in particolare prescindere dalla conoscenza di un precedente della Corte suprema.
In questa prospettiva si rivela il ruolo determinante delle corti supreme.
La funzione nomofilattica è una funzione che ha una dimensione soprattutto pragmatica, perché attiene all’interazione tra i diversi organi giudiziari, piuttosto che al metodo dell’interpretazione. Sicché quest’esigenza pone problemi di coordinamento e di organizzazione del sistema giudiziario e processuale.
Nel nostro sistema svolge un ruolo determinante l’ufficio del massimario, che sintetizza e diffonde la giurisprudenza della Corte di cassazione, rendendo plausibile ed effettivo il dovere professionale per tutti i giudici di conoscere almeno la giurisprudenza di legittimità. Ed è affidata alla persuasività degli argomenti l’effettività della nomofilachia, senza attribuire un improbabile monopolio dell'interpretazione alla Corte Suprema.
Il ruolo di guida dell'interpretazione, dunque, si gioca soprattutto sulla capacità della Corte Suprema di esprimersi in orientamenti unitari e riconoscibili, che possono ottenersi solo se gli interventi della corte siano ridotti nel numero.
Questa scommessa da noi dovrebbe essere affidata soprattutto alla limitazione del giudizio di Cassazione alla sola legittimità.
Tuttavia lo schema concettuale del sindacato di legittimità, per quanto solido e coerente, è troppo sofisticato perché vi si possa ragionevolmente fondare l’aspettativa che la Corte di cassazione sia effettivamente ricondotta al suo ruolo di orientamento della giurisprudenza. Sarebbe necessario portare alle sue plausibili conseguenze una svolta pragmatica che il legislatore ha già da tempo pur timidamente avviato, imponendo la specializzazione degli avvocati, come avviene in Francia e in Germania, in modo che l’avvocato abilitato al patrocinio dinanzi alla Corte di cassazione non possa esercitare dinanzi alle corti di merito.
Non può funzionare come corte suprema una Corte di cassazione composta di circa quattrocento magistrati, cui possano ricorrere circa 55 mila avvocati.
In Francia gli avvocati civilisti abilitati al patrocinio dinanzi la Corte di cassazione sono un centinaio, in Germania una quarantina. Sono dunque gli avvocati a esercitare il ruolo di selezionatori dei ricorsi effettivamente meritevoli di essere trattati dalla Corte Suprema.
Senza un’analoga scelta, potremo continuare a invocare il giudizio di legittimità, che viene invocato e tradito quotidianamente davanti alla Corte, ma non riusciremo mai ad avere un numero di sentenze così ridotto da poter fungere da guida della giurisprudenza.
Questa scelta si potrebbe estendere anche al settore penale, eventualmente con alcune deroghe, in modo che per i reati più gravi il principio della specializzazione dell'avvocato non si applichi, ma rimanga limitato ai reati minori.
Si abbatterebbe così il carico maggiore della Corte di cassazione, limitandovi l’accesso per le bagatelle.
Noi viviamo un momento estremamente grave, perché abbiamo perduto, non solo in Italia, capacità progettuale da parte delle classi dirigenti. Sono convinto che potremo superare questa crisi solo se saremo in grado di fare scelte radicali, vale a dire chiare e univoche e riconoscibili.
Una scelta radicale, chiara e univoca, dovrebbe essere quella che pone le condizioni ineludibili perché la Corte di Cassazione possa onorare il suo compito di orientamento della giurisprudenza.
[1] Calamandrei, La Cassazione civile, vol. I, Storia e legislazioni, Bocca, Milano, 1920, p. 27 e s.
[2] Satta, Corte di cassazione (dir. proc. civ.), in Enc. dir., vol. X, Giuffrè, 1962, p. 797 e s.
[3] Briguglio, Appunti sulle Sezioni Unite Civili, in Riv. dir. proc., 2015, p. 16 e s.
[4] Gorla, Giurisprudenza, in Enc. Dir., vol. XIX, Giuffrè, 1970, p. 489 e s., Taruffo, Precedente e giurisprudenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, p. 709 e s.
[5] C. cost., 2 aprile 1970 n. 50.
[6]Briguglio, Appunti sulle Sezioni Unite Civili, in Riv. dir. proc., 2015, p. 16 e s., Orlandi, Rinascita della nomofilachia: sguardo comparato alla funzione "politica" delle Corti di legittimità, in Cass. pen., 2017, p. 2596 e s.
[7] Orlandi, Rinascita della nomofilachia: sguardo comparato alla funzione "politica" delle Corti di legittimità, in Cass. pen., 2017, p. 2596 e s.
Diritti respinti lungo la rotta balcanica. Le responsabilità dell’Europa e dell’Italia
Giustizia insieme è lieta di potere ospitare il video del convegno dedicato al fenomeno delle migrazioni lungo la rotta balcanica e ringrazia il Rettore dell'Università di Palermo Prof. Fabrizio Micari e gli organizzatori del convegno che hanno reso possibile la pubblicazione di questa importante iniziativa al servizio dei più fragili del mondo.
La direzione scientifica
Presentazione della Prof.ssa Alessandra Sciurba
Il 10 febbraio 2021 si è tenuto un seminario organizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza, dalla Cledu – clinica legale per i diritti umani – e dal Centro Interdipartimentale di Ricerca “Migrare” dell’Università di Palermo, dal titolo: “Diritti respinti lungo la rotta balcanica. Le responsabilità dell’Europa e dell’Italia”.
Vi hanno preso parte come relatori l’Avvocata dell’Asgi Anna Brambilla e Diego Saccorà dell’Associazione Lungo la rotta balcanica, entrambi tra i curatori del del dossier La rotta balcanica. I migranti senza diritti nel cuore dell’Europa, della rete Rivolti ai Balcani (disponibile online sul sito di Altraeconomia) che è stato presentato nel corso dell’iniziativa. Insieme a loro il giornalista di Avvenire Nello Scavo, appena rientrato dalla Bosnia, e, per l’Università di Palermo il Magnifico Rettore Fabrizio Micari, il Coordinatore scientifico CIR Migrare Giusto Picone, il Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Palermo Aldo Schiavello e Alessandra Sciurba che ha moderato l’evento. L’Avv. Daniele Papa di Asgi e della Cledu ha svolto la relazione conclusiva.
Questo convegno, di cui pubblichiamo la registrazione, offre un approfondimento importante rispetto a un tema estremamente attuale. Tra la fine del 2020 e nei primi mesi del 2021 le immagini di centinaia di profughi, tra cui tantissimi bambini e minori, bloccati in Bosnia sotto la neve hanno rivelato ancora una volta la fragilità del sistema di valori e garanzie, tradotti in diritti fondamentali, posto formalmente dall’Europa a tutela di ogni essere umano all’indomani degli orrori del nazifascismo. Quello che è avvenuto e continua ad avvenire lungo la rotta balcanica, al pari di quanto avviene alle altre frontiere d’Europa come quella in cui è stato trasformato il Mediterraneo centrale, è infatti la risultante di un sistema di violazioni poste in essere da alcuni Stati dell’Unione europea, tra cui l’Italia, supportato anche economicamente dalle istituzioni dell’Unione europea. Si tratta innanzitutto di violazioni riguardanti il diritto di chiedere protezione internazionale, che implica anche il divieto di respingimenti collettivi e sommari in frontiera, specialmente ove questi respingimenti violino il principio di non refoulement, ovvero l’obbligo di non respingere un essere umano verso luoghi in cui possa subire trattamenti inumani e degradanti e la sua vita possa essere posta a rischIn un sistema di respingimenti a catena, infatti, l’Italia, la Slovenia e la Croazia sono colpevoli di avere violato questi principi nei confronti di migliaia di persone. Più di 1000, in particolare, sono state respinte dalle frontiere di Gorizia e Trieste nel 2020 verso la Slovenia, nonostante le autorità italiane avessero piena contezza che da lì questi potenziali richiedenti asilo sarebbero finiti nelle mani della polizia croata – la cui violenza nei confronti dei profughi è ormai documentata – per essere in seguito rimandati in Bosnia.
Con una sentenza del 18 gennaio 2021, che viene in parte analizzata nel corso del Convegno, il Tribunale di Roma ha dichiarato illegittimi questi respingimenti accogliendo il ricorso di un cittadino pakistano che li aveva subiti.
Le relazioni qui registrate rivelano da punti di vista differenti questa realtà e i suoi presupposti, guardando a come l’Unione europea e i suoi stati membri, attraverso dinamiche di esternalizzazione delle frontiere sempre più strutturate, stiano di fatto abdicando ai doveri loro imposti da quel diritto internazionale dei diritti umani e dei rifugiati cui pure hanno aderito.
Whatsapp e l’ordinamento militare tra interesse pubblico e privato (nota a TAR Emilia-Romagna, sez. I, 18 febbraio 2021 n. 124)
di Alessandro Cioffi
Il fatto è semplice, ma solo in apparenza. Un militare intraprende un’attività di piccolo commercio: vende cani sul web, cuccioli di razze pregiate. Pubblica l’offerta in un noto sito di vendite tra privati (“Subito.it”) e poi, quando riceve le offerte, passa a negoziare su whtasapp; lì, nel profilo, esibisce la sua foto in divisa, a prova della sua affidabilità, per rassicurare gli acquirenti. L’amministrazione militare se ne avvede e reagisce: procedimento disciplinare e sospensione dal servizio.
Nel ricorso, il militare fa valere la violazione della vita privata, evoca l’art. 2 Cost., ma, soprattutto, afferma che l’esibizione della divisa è avvenuta su whatsapp e non sul sito di vendite Subito.it. Di conseguenza, lamenta la discrasia tra fatto punito e fatto contestato: l’amministrazione infatti, nel procedimento, finiva per punire il fatto come se fosse un fatto di rilievo pubblico, giacché la sanzione della sospensione dal servizio si addice alla violazione di doveri e di interessi istituzionali, che riguardano il prestigio e l’immagine dell’amministrazione militare.
Su questo il militare sembra aver ragione, perché la sentenza accoglie il ricorso e annulla la sanzione. Difatti, dalla lettura della sentenza, viene fuori che in fondo il sindacato del giudice stigmatizza un solo fatto: l’amministrazione contesta la vendita di cuccioli, ma sfiora e non chiarisce il modo della vendita, cioè l’esibizione del militare su whatsapp e sul sito Subito.it, e difatti, nell’istruttoria procedimentale, il momento della esposizione sul sito Subito.it sfugge ad ogni prova e rimane “affermazione indimostrata”, mentre l’esibizione della divisa su whatsapp è contestata in un secondo momento, in giudizio (probabilmente perché questo fatto non sfugge alla disponibilità dell’amministrazione, giacché il numero usato dal militare su whatsapp appartiene all’Accademia di Modena); così, alla fine, l’amministrazione punisce il fatto con una sanzione che si addice al danno all’immagine dell’Amministrazione, come se il fatto fosse avvenuto in pubblico, sul sito Subito.it.
Qui immediatamente sorge il problema: si può punire come illecita esposizione al pubblico un’immagine che invece compare nel privato ?
E soprattutto: whatspp è privato ?
La risposta che si espone nella sentenza è chiara: la foto è esibita su whatsapp e whatsapp è considerato un “applicativo privato”- scrive infatti il giudice: è “strumento telematico di comunicazione a distanza di natura privata”.
Diverso sarebbe stato, secondo il giudice, se il militare si fosse esibito in divisa sul sito Subito.it, ma questa prova manca e il fatto resta “indimostrato” – precisamente, secondo la sentenza: “A diverse conclusioni si giungerebbe in ipotesi di avvenuta diffusione pubblica delle immagini del militare in uniforme al fine di promuovere l’attività di vendita di cani, in ipotesi certamente gravemente lesiva dell’immagine e del decoro delle Forze Armate … diffusione si ribadisce tuttavia non contestata in sede di addebito disciplinare né tantomeno dimostrata dall’Amministrazione.”
In conclusione: non si può punire un fatto che avviene in privato con una sanzione che si addice a un interesse pubblico. Qui si vede bene tutto il limite dell’ordinamento militare, il limite dell’interesse pubblico che vale solo dentro l’istituzione[1]. Quindi, non vale su whtsapp, che è vita privata, mentre potrebbe valere su Subito.it, che è social media, è vita pubblica. In termini istituzionali, diremmo interesse privato e interesse pubblico. E non si può sanzionare l’uno al posto dell’altro. Emerge così quella distinzione tra interesse pubblico e interesse privato che è sostanziale e ontologica, e che vale a separare le sfere e gli ordinamenti e, quindi, incide sulla validità dell’atto amministrativo: la sfera privata non è sfera pubblica e quindi l’una non può essere confusa con l’altra; dunque, punire come pubblico un fatto privato è illegittimo, o, meglio, come dice la sentenza, rivela una motivazione illogica e una valutazione inadeguata, sotto il profilo del sindacato di ragionevolezza.
Questo vizio, nella motivazione della sentenza, si riflette in un secondo vizio, il vizio del procedimento: se l’amministrazione punisce un fatto ma non lo contesta nel procedimento, viola il principio di corrispondenza tra addebito e sanzione. Ovvero, in fondo, per una certa lettura teorica, viola il principio del procedimento, il procedimento stesso. Difatti, l’esibizione su Subito.it è accaduta veramente, ma non è stata contestata e dimostrata, quindi non esiste nel procedimento. E ciò che non esiste nel procedimento non esiste nel mondo del diritto amministrativo. Riemerge così il valore di una formula antica: il procedimento è forma necessaria della funzione. Se la forma necessaria aveva e ha un senso, è proprio questo: dare rilevanza giuridica al fatto del procedimento e negare rilevanza a quanto sia fuori di esso. E poiché continuiamo a leggere la formula della forma di Benvenuti anche in pagine di manuali autorevoli e recenti, è naturale che anche la realtà effettuale della giurisdizione di annullamento utilizzi quella formula e le dia valore. Precisamente, come ragione giuridica dell’annullamento e come criterio di ragionevolezza dell’agire amministrativo.
Su questo punto, la ragionevolezza, vale la pena di spendere un’osservazione in più. Verte sul sindacato e sul riesercizio del potere. Nel giudizio, s’è visto, spicca un fatto solo: la non corrispondenza tra addebito e sanzione, ovvero la sostituzione, il trattare un fatto privato come fosse un fatto d’interesse pubblico, donde una sanzione inadeguata al fatto, e il vizio d’inadeguatezza della motivazione. Questo per il giudice è un vizio preciso, ma è anche altro: dice che il fatto non contestato ha una sicura rilevanza, è sicuramente illecito, ma sotto un altro profilo, da contestare e rivalutare; e questo lo dice all’amministrazione, per il futuro.
E’, questo, un vincolo al riesercizio del potere ?
Sembra di sì; il problema è che in questa indicazione il giudice vede un sindacato che, dice, è di “ragionevolezza” e si svolge “senza sostituirsi” all’amministrazione. Sembra invece che sia di merito. Difatti, il vincolo della sentenza cade non sul fatto ma sulla qualificazione del fatto. Quindi sembra che al riesercizio del potere amministrativo non resti molto spazio. Il giudizio di merito è quasi tutto esaurito. E la sanzione che ne verrà è già annunciata, per effetto dell’indicazione del giudice, del vincolo conformativo. Così, la sanzione disciplinare qui diventa un’altra cosa e altra cosa diventano la valutazione dell’amministrazione e il rapporto con il sindacato giurisdizionale. Si potrebbe dire che, a giustificare il nesso, siamo nel famoso “modello della integrazione” tra giurisdizione e amministrazione, per effetto del vincolo conformativo[2]; e che per virtù di quel modello la valutazione del giudice e la valutazione della p.a. vengano a saldarsi in un tutt’uno, con il giudice che dice che il fatto è sicuramente illecito e con l’amministrazione che viene chiamata a concludere quella valutazione, stabilendone la gravità. Sembra, quindi, per una certa lettura teorica della sostanza, che quel fatto, visto in sé, riveli la distinzione e l’assetto degli interessi, e in fondo il limite o l’attrazione nell’ordinamento militare; ma se davvero quel fatto rappresenta tutto questo, è, semplicemente, merito amministrativo. Dovrebbe finire nella sfera di autonomia dell’amministrazione e invece finisce sotto il nome della ragionevolezza e nel sindacato di legittimità. Così, sembra sempre più forte il sindacato del giudice e sembra sempre più sfumato il limite, che è dell’ordinamento, tra legittimità e merito, specie quando il giudice finisce per toccare la consistenza dell’interesse. Ma questa è un’altra storia.
[1] Sul punto specifico cfr. V. OTTAVIANO, Sulla nozione di ordinamento amministrativo e di alcune sue applicazioni, Milano, 1958.
[2] v. M. NIGRO, Il giudicato amministrativo e il processo di ottemperanza, ora in Scritti giuridici, Milano, 1996, III, 1521 ss., 1536.
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