ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
19 marzo 2021 : in ricordo di Guido Galli, a 41 anni dalla sua scomparsa
di Armando Spataro
Una breve premessa. Gli “anni di piombo”, l’organizzazione degli uffici giudiziari, la conoscenza di Guido Galli. Il giudice istruttore, l’accademico, l’ex pubblico ministero, l’impegno associativo. La Val Brembana e l’inchiesta itinerante. La risposta istituzionale al terrorismo. Il trasferimento incompiuto di Guido Galli alla Procura della Repubblica di Milano. L’omicidio nell’ Università. L’arresto degli assassini. L’arresto di Sergio Segio, il capo di Prima Linea. Le parole del volantino di rivendicazione dell’omicidio di Guido Galli e quelle dei suoi familiari . Ricordi, dolore e rabbia. “Non eroi perché sono morti, ma perché hanno voluto capire e conoscere con ostinazione”.
Sommario:1. Una breve premessa. 2. Gli “anni di piombo”, l’organizzazione degli uffici giudiziari, la conoscenza di Guido Galli. 3. Il giudice istruttore, l’accademico, l’ex pubblico ministero, l’impegno associativo. 4.La Val Brembana e l’inchiesta itinerante 5. La risposta istituzionale al terrorismo 6. Il trasferimento incompiuto di Guido Galli alla Procura della Repubblica di Milano 7.L’omicidio nell’Università. 8. L’arresto degli assassini. 9. L’arresto di Sergio Segio, il capo di Prima Linea. 10. Le parole del volantino di rivendicazione dell’omicidio di Guido Galli e quelle dei suoi familiari . 11. Ricordi, dolore e rabbia.
1.Una breve premessa
Sono passati rispettivamente 41 e 42 anni dagli omicidi di Guido Galli (19 marzo 1980) e di Emilio Alessandrini (29 gennaio 1979), entrambi uccisi a Milano da Prima Linea (organizzazione terroristica “di sinistra”, seconda per ferocia solo alle Brigate Rosse), il primo davanti ad un’aula della Università Statale di Milano dove stava per tenere una lezione ai suoi studenti, il secondo ad un incrocio stradale, dopo avere accompagnato il figlio Marco alla scuola elementare che frequentava.
Nonostante il tempo trascorso, non mi stanco di parlare e scrivere di Guido, di Emilio e di altre vittime del terrorismo e della mafia.
Perché lo faccio?
Non solo per tutto ciò che mi legava a loro, ma anche perché conoscere il passato serve per l‘oggi e per il futuro di tutti, specie nel contesto storico e sociale in cui viviamo
Ho titolo per farlo?
Francamente non lo so, e spesso mi chiedo quale sarebbe la risposta dei figli dei miei amici scomparsi a questa domanda. Ma tirarmi indietro mi sembrerebbe ancora oggi un errore.
Parlo di loro, dunque, perché conosco bene – e mai lo dimenticherò - ciò che Guido ed Emilio hanno dato alle loro famiglie, a me, alle persone che hanno conosciuto ed al Paese tutto.
Talvolta mi chiedo, però, cosa oggi Guido Galli – parlo soprattutto di lui in questo ricordo - penserebbe a proposito di tanti temi che impegnano la giustizia e la nostra società: ad es., l’immigrazione, la crisi ed i tempi lunghi della giustizia, la sicurezza sociale e sanitaria, l’estensione della criminalità mafiosa, i diritti fondamentali delle persone etc., e mi domando se, pur così legato al suo insegnamento, io possa parlare come se fossi la sua voce. Ecco, allora, che mi impongo di non incorrere in questo errore che sarebbe grave, come quello di chi oggi pensa di poter parlare a nome di Falcone, Borsellino e di tanti altri colleghi scomparsi.
Certo, io ho un’idea di come Guido avrebbe oggi esercitato il mestiere di giudice, ma preferisco tenerla per me. Preferisco raccontare fatti e storia della sua vita, non solo professionale: chiunque potrà così maturare la sua opinione su come oggi Guido Galli si orienterebbe e parlerebbe.
E voglio anche evitare ogni forma di retorica, certo in questo caso del consenso e della vicinanza dei suoi figli, a Guido così simili in tutto.
Parlare di Guido e descrivere il suo essere stato giudice e uomo serviranno dunque ad orientarci autonomamente nella confusione e nella nebbia che ci circondano. O almeno è questo che mi auguro.
Un’ultima domanda mi sono posto: ho il dovere di scrivere ed usare parole e riflessioni nuove rispetto a quelle che ho usato, per ricordare Guido, quaranta, trenta, venti, dieci o due anni fa? Non lo credo, non solo perché questo non è un testo giuridico che deve commentare aggiornamenti giurisprudenziali, ma anche e soprattutto perché la prima volta in cui di lui ho scritto ho riversato sulla tastiera del mio pc tutte le mie emozioni, tutti i miei ricordi. Netti oggi, come la prima volta. Non sono una persona che si divide in due, l’una delle quali insegue l’altra: sono sempre me stesso e non cambio. Scusatemi, dunque, se – leggendo questo ricordo – troverete parole e fatti di cui ho già scritto o di cui vi ho già parlato.
2.Gli “anni di piombo”, l’organizzazione degli uffici giudiziari, la conoscenza di Guido Galli.
Voglio partire dalla contestualizzazione storica del suo omicidio negli anni di piombo e dall’inizio del nostro rapporto personale.
Nel corso della mia carriera di magistrato, ho sempre svolto funzioni di pubblico ministero e devo la mia formazione professionale a tre colleghi: i già citati Emilio Alessandrini e Guido Galli, ma anche ad Enrico Pomarici.
Dopo il tirocinio, presi servizio a metà di settembre del 1976 presso la Procura della Repubblica di Milano, lavorando subito proprio con Pomarici nel settore dei sequestri di persona, ma - a partire dalla metà del 1977 - iniziai ad occuparmi del terrorismo interno, in particolare di tutta la galassia del terrorismo di sinistra e per tutto il periodo degli “anni di piombo”.
Tutto iniziò con il processo a carico di Renato Curcio e di altri componenti del vertice delle Brigate Rosse che si celebrò dinanzi alla Prima Corte d’Assise di Milano a partire dal 15 giugno 1977: il Procuratore Mauro Gresti mi designò quale sostituto che avrebbe svolto le funzioni di P.M. in quel dibattimento. Rammento ancora con emozione il periodo in cui, pressoché quotidianamente, Emilio Alessandrini, mi fu vicino nella preparazione del processo con funzioni di “tutor”: avevo poco più di 28 anni ed il mondo del terrorismo mi era praticamente del tutto sconosciuto. Le nostre famiglie abitavano nello stesso stabile, sicché il confronto con lui proseguiva spesso “fuori orario”.
Il dibattimento, comunque, si celebrò regolarmente con pochi (ed attesi) “incidenti” in aula. Gli imputati furono quasi tutti condannati e quelli assolti per qualche reato furono condannati in appello.
Quel processo aveva rappresentato, però, un’esperienza occasionale, per quanto di straordinaria importanza per un giovane Pm alle prime armi, ma costituì comunque il primo passo della mia specializzazione professionale nel settore del terrorismo.
Circa un anno dopo, il 13 settembre 1978, furono arrestati in una base di via Negroli a Milano il latitante Corrado Alunni ed una terrorista del varesotto. Nella base furono sequestrati numerosi documenti anche manoscritti, armi, esplosivi ed altro. Con la conseguente indagine, di cui fui titolare con il collega Luigi De Liguori, la mia vita professionale cambiò del tutto. Il procuratore Gresti decise di creare nella Procura di Milano un gruppo di lavoro specializzato nella materia del terrorismo di cui mi sarei occupato a tempo pieno fino al termine degli anni di piombo. Di quel gruppo furono componenti Pomarici (che già si occupava soprattutto delle Brigate Rosse), io stesso, e, via via, altri colleghi come Corrado Carnevali, Maria Luisa Dameno, Filippo Grisolia, Elio Michelini.
All’Ufficio Istruzione del Tribunale di Milano, invece, l’idea di creare un gruppo di giudici istruttori specializzati nel contrasto al terrorismo era oggetto di discussioni e dubbi, contrariamente a quanto avvenuto a Torino, ove era già da tempo all’opera un pool composto da Gian Carlo Caselli, Maurizio Laudi, Marcello Maddalena, Franco Giordana, Mario Griffey ed altri.
Il codice di procedura penale all’epoca in vigore, del resto, prevedeva che sia i Pm che i giudici istruttori conducessero le indagini penali. Il giudice istruttore conduceva la cosiddetta istruttoria formale, quando l’indagine era complessa, e il Pm quella sommaria, nei casi più semplici o, comunque, fino al quarantesimo giorno di detenzione degli imputati: da quel momento, era obbligato a chiedere l’intervento del giudice istruttore e a formalizzare l’istruttoria. Insomma, il giudice istruttore era una figura piuttosto ibrida, molto vicina a quella del Pm, di cui approfondiva le indagini complesse e a fianco del quale lavorava fino al termine dell’«istruttoria formale».
Fu per questa ragione che, quaranta giorni dopo l’arresto di Corrado Alunni e di altri terroristi, io e Luigi De Liguori “formalizzammo” l’inchiesta come il codice imponeva. E il processo fu affidato al giudice istruttore Guido Galli.
Lo dico senza alcuna retorica: Guido è stato l’uomo migliore che abbia mai conosciuto. Ne parlo e ne scrivo ogni volta con commozione, perché sono tantissimi i ricordi che mi legano a lui.
3. Il giudice istruttore, l’accademico, l’ex pubblico ministero, l’impegno associativo
Galli era un giudice stimatissimo. Era docente alla Statale di Milano, era stato presidente di sezione di Tribunale, ma prima ancora pubblico ministero, e aveva acquisito notorietà quando, in tale veste, aveva trattato il processo per la bancarotta di Felice Riva. In ogni compito giudiziario, aveva dimostrato di possedere una cultura giurisdizionale eccezionale, fonte del suo pieno rispetto per i diritti di ogni imputato. Non ditelo – però – ai sostenitori della separazione delle carriere !
Guido Galli era anche attivo sul piano associativo e, come presidente dell’Associazione Magistrati di Milano, aveva firmato, con gli altri componenti della Giunta, un duro documento contro la decisione della Corte di Cassazione di trasferire a Catanzaro, per legittimo sospetto, il processo per la strage di Piazza Fontana: ne era persino scaturito un procedimento disciplinare finito con l’assoluzione degli incolpati per insussistenza dell’elemento psicologico! Oggi, niente e nessuno gli avrebbe potuto evitare l’accusa di essere una «toga rossa» e difficilmente gli sarebbero state risparmiate severe reprimende per l’impegno all’interno dell’Associazione Magistrati, di cui – peraltro – anche Emilio Alessandrini era stato dirigente.
Guido, insomma, era una persona di grande statura e di vasto impegno. Ricordo che nei nostri primi contatti, dopo la formalizzazione del processo Alunni, io, giovane Pm diventato quasi per caso titolare di un’inchiesta così importante, ero intimidito da questa quasi mitica figura di giudice istruttore, criminologo di grande prestigio, peraltro di sedici anni più anziano di me. Galli si lanciò nell’impresa con l’entusiasmo di un ragazzo e, grazie a lui, quell’inchiesta si rivelò, per Milano, la «madre» delle indagini in materia di terrorismo: per me, l’irripetibile occasione di diventare suo amico.
L’ufficio di Guido era costituito da una stanza piccolissima al secondo piano del palazzo di Giustizia, proprio davanti alla porta dell’ascensore. La scrivania scompariva tra le carte e lui era assistito da una segretaria forse non sempre efficiente ma molto devota. Lui però non si lamentava mai di nulla: tradiva appena un po’ di stanchezza solo quando, più frequentemente del solito, allontanava dalla fronte una ciocca di capelli lisci.
Si stabilì tra noi un rapporto stupendo. Lavoravamo sempre insieme e a mano a mano che procedevamo la nostra familiarità si arricchiva anche sul piano umano. Passavamo lunghe serate a casa sua, piena di figli (cinque: Alessandra, Carla, Giuseppe, Riccardo e Paolo), confrontando le grafie dei quaderni di appunti sull’uso degli esplosivi trovati a casa di Alunni con un centinaio di scritture di persone sospette: ne identificammo rudimentalmente una decina. Tra loro, terroristi di vertice come Sergio Segio e Roberto Serafini: le perizie prima e i pentiti poi avrebbero confermato le nostre empiriche conclusioni.
4.La Val Brembana e l’inchiesta itinerante
Passammo così quindici mesi, letteralmente in simbiosi: a leggere documenti e proclami di Prima Linea, Formazioni Combattenti Comuniste (FCC) ed altri gruppi, a girare per l’Italia, per interrogare gente nel Varesotto, scambiare idee e valutazioni con i colleghi di Bologna e di Roma.
In Val Brembana, la sua terra, ci sono andato solo due volte: la prima con Guido, la seconda per Guido. Nel giugno del 1979 ci andammo per lavoro: attraversammo la valle e ci inerpicammo per le strade di montagna per arrivare a Cusio, dove era stato scoperto un covo dei terroristi. Interrogammo testimoni precisi nei ricordi, snocciolati senza timori di sorta, ma anche senza acredine o eccesso di zelo, «con semplicità e serenità, alla maniera dei bergamaschi», mi diceva Guido. Era quella la zona della sua infanzia: Galli era nato a Bergamo e, mentre guardavamo il Brembo scorrere nervoso a fondo valle, mi raccontava tutto della gente della sua terra, dei banditi della Val Brembana, del campione ciclista Gimondi, delle gare di canoa nel Brembo, di una vecchia ferrovia. Scoprii anche che i bergamin sono quelli che mungono le vacche tra le colline e i monti del Bergamasco.
Guido non poteva sapere che meno di un anno dopo, dal 21 marzo dell’80, avrebbe riposato a Piazzolo, tra quei monti e quel verde che tanto amava. Quel giorno tornai in Val Brembana per lui, per salutarlo ancora nel cimiterino di Piazzolo dove i morti appartengono a tutti ed a venti metri dal quale i bambini giocano a pallone. Lo facevano anche i figli di Guido ai quali, da ogni posto in cui ci recavamo per l’indagine, Guido mandava una cartolina indirizzata «ai bambini Galli». Assolutamente sempre. Era un uomo di grande e radicata fede religiosa.
Nelle nostre trasferte di lavoro, tuttavia, scoprimmo increduli anche magistrati di altre sedi giudiziarie che si sbarazzavano felici dei procedimenti di terrorismo (che avevano tenuto inerti negli armadi) non appena noi, timorosi di ferirli nell’orgoglio professionale, accennavamo timidamente a possibili connessioni con il nostro ed alla opportunità di trasferirli per competenza a Milano. Ricordo che Guido commentava sorridendo gli atteggiamenti di quei magistrati, ma talvolta il suo era un sorriso amaro.
Fortunatamente, però, conoscemmo marescialli e poliziotti che avevano scritto e scoperto tutto, pur senza essere stati mai valorizzati dalla magistratura competente e ci rendemmo così conto (non c’erano ancora i pentiti) che disponevamo della migliore polizia giudiziaria del mondo.
Al termine della prima parte del nostro lavoro, gli presentai una lunga e complessa richiesta di mandati di cattura (allora era questa la denominazione delle attuali «ordinanze di custodia cautelare in carcere»), in cui sostenevo la responsabilità dei capi e dei «quadri» di rilievo dell’organizzazione per i delitti commessi e rivendicati dalla stessa, pur in assenza di prove dirette della loro responsabilità materiale ed ideativa. In sostanza, non conoscevamo l’identità degli autori materiali degli attentati rivendicati dalle Fcc di Corrado Alunni, ma sapevamo – e ne avevamo le prove – quali erano i capi e gli «organizzatori» della banda armata nel periodo storico e nel contesto territoriale in cui gli attentati erano stati consumati: logico e giuridicamente corretto, dunque, che capi e organizzatori fossero chiamati a risponderne, perché quegli attentati non potevano che essere stati commessi all’interno di una strategia da loro certamente deliberata, come le rivendicazioni confermavano. Guido accolse la tesi con assoluta convinzione, anzi la precisò e la arricchì da par suo nei mandati di cattura che emise. La tesi – che nulla aveva a che fare con la teoria del “non potevano non sapere”, così cara ad alcuni magistrati ansiosi di incriminare per deduzione logica e di scrivere la storia anziché di cercare prove e scrivere solide sentenze - fu accolta dalle Corti d’Assise di primo e secondo grado che condannarono gli imputati e passò anche in Cassazione: diventò la base giuridica e il significativo precedente giurisprudenziale per affermare la responsabilità dei componenti delle varie commissioni e «cupole» per i più efferati delitti di mafia. Ricordo ancora i colleghi siciliani che ne vennero a discutere a Milano, prima di adottare quella strada nei loro provvedimenti.
C’era bisogno, lo constatavamo ogni giorno, che presso gli Uffici istruzione e le Procure della Repubblica agissero gruppi di giudici istruttori e di sostituti specializzati nelle indagini sul terrorismo; c’era bisogno, cioè, di coordinamento e di circolazione delle informazioni. E c’era bisogno di capire fino in fondo la logica assurda alla base di quel terrorismo, come Guido cercava di fare anche durante gli interrogatori degli imputati,
5. La risposta istituzionale al terrorismo
E proprio in quel periodo, comunque dopo la strage di via Fani, si manifestò l’iniziativa autonoma di pubblici ministeri e giudici istruttori che, in assenza di interventi legislativi o di direttive politiche, diedero vita a un coordinamento spontaneo tra gli uffici giudiziari interessati dal fenomeno, non previsto per legge, fino alla creazione, al loro interno, di gruppi specializzati nel settore del terrorismo. E Guido Galli, fino alla sua scomparsa, fu uno dei protagonisti principali di questa svolta strategica della magistratura nel contrasto del terrorismo.
Una svolta che determinò una simbiosi positiva tra polizia giudiziaria ed autorità giudiziaria, con piena attuazione del principio costituzionale della sottoposizione della prima (la cui autonomia investigativa non venne certo limitata) alle direttive della seconda e con esclusione dei Servizi d’informazione da ogni compito d’indagine penale.
In quegli anni inoltre – grazie anche alle iniziative del Ministro dell’Interno Virginio Rognoni – furono varati alcuni interventi legislativi importanti che talvolta determinarono il rischio di lesione dei diritti individuali, ma che, grazie proprio alle interpretazioni e prassi applicative studiate da magistrati come Galli, si rivelarono decisivi per la sconfitta del terrorismo. Basti pensare al D.L. 15 dicembre 1979 n. 625, conv. con L.6.2.1980 n. 15 (cioè circa un mese e mezzo prima di quel tragico 19 marzo), che introdusse la normativa premiale per i collaboratori processuali. Come disse il compianto prof. Vittorio Grevi, non a caso legato da particolare amicizia e stima a Guido, alla fine “le istituzioni avevano tenuto” e se il terrorismo era stato sconfitto ciò non soltanto era dipeso dalle capacità delle forze di polizia e della magistratura, ma era stato determinato anche da un corpo legislativo che nel suo complesso aveva continuato ad assicurare la tutela dei diritti degli imputati. È per questo che, Sandro Pertini, alla fine degli anni di piombo, ricordò che l’Italia poteva con orgoglio affermare di avere sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi, alludendo alle torture, alla violazione dei diritti fondamentali delle persone ed alle pratiche sudamericane durante gli anni dei regimi dittatoriali.
6. Il trasferimento incompiuto di Guido Galli alla Procura della Repubblica di Milano
Ritornando a Guido Galli, ricordo quando mi confidò la sua amarezza a causa del clima che si respirava nel suo Ufficio. Era successo che, in una riunione dei giudici istruttori di Milano, alcuni suoi colleghi avevano criticato la teorizzazione del giudice istruttore specializzato nelle inchieste sul terrorismo, esprimendo la preoccupazione che, in tal modo, il giudice istruttore potesse diventare un giudice speciale, con conseguente rischio per le garanzie che spettano all’imputato. Di fronte a queste affermazioni, Guido era rimasto così stupito da non tentare neppure una replica.
Su altro fronte, ma negli stessi giorni, si era verificato un episodio che forse non ho mai raccontato a Galli. Il suo “capo”, cioè il dirigente dell’Ufficio istruzione, era andato a protestare dal procuratore Gresti, lamentando che la Procura indirizzasse a Galli, con qualche artificio amministrativo, molti processi di terrorismo senza tener conto che era un “giudice di sinistra”, dunque inaffidabile per quel tipo di processi.
Gresti, conservatore ma illuminato e intelligente, rassicurò il suo interlocutore: Galli era il massimo che si potesse desiderare come giudice, per la sua capacità di lavoro e per la precisione delle sue conclusioni in punto di diritto. Quanto agli artifici amministrativi per far arrivare a lui tutte le nostre indagini, semplicemente non esistevano: si trattava di un’unica indagine (quella nata dall’arresto di Alunni) in continuo sviluppo, che si andava articolando in diversi spezzoni connessi.
Comunque, anche a causa del clima che sentiva attorno a sé, Guido Galli decise di chiedere il trasferimento dall’Ufficio istruzione e di venire a lavorare in Procura. Mi chiese di accompagnarlo da Gresti per fargli presente questa sua intenzione. Il procuratore fu entusiasta della decisione di Galli e si disse disponibile a fare del suo meglio per rendere rapido il passaggio. «Vorrei però dirti», precisò Gresti, «che, nonostante il tuo prestigio e la tua anzianità, noi non siamo organizzati in modo da poterti esentare dalla trattazione dei processi ordinari o dai turni di reperibilità». Guido spiegò di essere andato da lui soltanto per avere la certezza di venire assegnato al gruppo del terrorismo e di poter lavorare con i PM che già ne facevano parte. Non chiedeva alcun trattamento privilegiato. Gresti gli strinse la mano con calore.
Così Galli presentò domanda di trasferimento alla Procura di Milano, ma intanto continuava a lavorare come giudice istruttore, nella sua stanzetta al secondo piano dove non c’era spazio per nulla.
Ciononostante, Guido non fu mai sottoposto a misure di protezione, mai nessuno dei dirigenti dell’Ufficio istruzione chiese una scorta per lui. Spesso ero io ad accompagnarlo a casa e talvolta lo andavo anche a prendere per recarci insieme in ufficio. Io, più giovane, su iniziativa di Gresti, avevo la scorta; lui no. Ne parlavamo spesso, ma Guido era fatalista e mai si lamentò per la mancanza di protezione. Solo una volta lo vidi seriamente preoccupato: il giorno prima della sua morte, le Br uccisero il giudice Girolamo Minervini. Guido lo conosceva e fui io a comunicargli la notizia dell’omicidio: rimase molto scosso. Oggi dico che forse fu per lui un presentimento.
Intanto, avevamo chiuso le nostre principali indagini: Guido aveva coniugato mirabilmente rispetto delle garanzie e dovere di repressione, stupendo tutti per la rapidità con cui aveva concluso quella prima maxi-inchiesta milanese di terrorismo. Io avevo depositato la mia requisitoria scritta il 1° agosto e lui la sua ordinanza di rinvio a giudizio, l’11 settembre 1979: un anno solo era trascorso dall’arresto di Alunni e di decine di terroristi, e anche le inchieste-stralcio che ne erano scaturite erano ormai chiuse, tutte nell’assoluto rispetto dei diritti degli imputati. Con buona pace di quanti, persino colleghi, sostenevano che i giudici che si occupavano di terrorismo di sinistra ed utilizzavano i “pentiti” si prestavano – per ciò stesso – ad assecondare un sistema che quei diritti comprimeva e violava: sì, lo dicevano anche magistrati e persino a Milano. Io stesso, a causa di una loro intervista, ne denunciai due disciplinarmente : furono entrambi condannati.
A proposito della ordinanza di rinvio a giudizio di Galli, tutti i quotidiani sottolinearono la rapidità della chiusura della inchiesta Alunni e la sua efficacia: Fatti e prove, non ideologie, titolava ad esempio «il Giornale». Lui, invece, non rilasciò mai interviste per autocelebrare le inchieste che aveva portato a termine o per includere nel proprio ruolo di giudice quello di moralizzatore e storico, prassi purtroppo oggi in espansione.
Iniziò così in Corte d’Assise il dibattimento contro Alunni e compagni, ma Guido già spingeva per nuovi progetti di lavoro. Avevamo scoperto insieme la ricchezza e l’importanza del lavoro di gruppo ed era questa la direzione in cui intendevamo approfondire la nostra esperienza.
Un giorno, Guido mi chiese di andare in università a parlare ai suoi studenti di criminologia: adesso i magistrati lo fanno spesso, ma allora era rarissimo e per me era comunque la prima volta. Mi colpì, mi onorò e mi preoccupò l’idea che un professore universitario pensasse che un pubblico ministero poco più che trentunenne potesse andare a dire qualcosa d’interessante agli studenti. Concordammo una data attorno al 20 marzo. Intanto, la sua richiesta di passare alla Procura fu accolta: Gresti glielo comunicò ed aspettavamo che la delibera del CSM fosse esecutiva, ma Guido non ebbe il tempo di tornare pubblico ministero perché fu ucciso il 19 marzo 1980, davanti all’aula dell’Università Statale di Milano dove attendeva di entrare per tenere la sua lezione. Aveva quasi quarantotto anni.
7.L’omicidio nell’ Università
Ricordo quelle ore come le stessi vivendo adesso (e ciò ripeto ogni volta che ne parlo): al mattino di quel 19 marzo, Guido mi dice che a mezzogiorno deve andare a casa perché è San Giuseppe e si festeggia l’onomastico di suo figlio. Anche quel giorno, lo accompagno a casa con la mia scorta. Mi dice che sarebbe andato nel pomeriggio in università e che dopo ci saremmo rivisti in ufficio, come facevamo quasi ogni giorno. Lo aspetto, dunque, nella mia stanza: è ormai pomeriggio. Mi telefona il capo della Digos, Mario Lo Schiavo: «Armando, corri in università, la Statale...». Capisco subito. Non lo lascio finire, esco dall’ufficio urlando e corro a piedi alla Statale, a poca distanza dal Tribunale. Non c’è ancora molta gente, ricordo due capitani dei carabinieri e un funzionario della Digos che cercano di tenermi lontano da Guido Galli perché sanno che cosa lui è per me. Il vero mio maestro, il fratello maggiore che non ho mai avuto. È steso per terra, di fronte all’aula 309 dove avrebbe dovuto svolgere la sua lezione, con il codice aperto a meno di mezzo metro da lui, vicino alla mano. Sulla sua agendina telefonica c’è scritto: «Se mi succede qualcosa telefonate ad Armando Spataro tel. n. ..». Ho ancora la fotocopia di quella pagina. La figlia Alessandra frequenta la facoltà di Giurisprudenza e quel giorno è alla Statale. Viene a sapere dell’attentato e si avvicina al papà. Gli amici le stanno attorno.
Il «Corriere della Sera» pubblica il giorno successivo, in prima pagina, la foto del corridoio della Statale dove è avvenuto l’omicidio: il codice aperto, ancora per terra, è in primo piano. Sotto la foto, un articolo di Giovanni Testori che dice: «Il codice che gli era caduto di mano resta aperto davanti agli occhi atterriti dei giovani e di noi tutti. Aperto a dirci cosa? Che la legge dell’umana convivenza è più forte di ogni Caino. ..».
Nell’ottobre del 1980, quando Marco Barbone iniziò a collaborare, sapemmo che Guido sarebbe potuto morire anche il giorno prima, il 18 marzo: Barbone stesso, Paolo Morandini, Daniele Laus e Manfredi De Stefano (poi membri della Brigata 28 Marzo) erano sotto casa sua, armati e con auto rubata, pronti ad ucciderlo. Un ritardo di Guido nell’uscire di casa gli regalò altre ventiquattr’ore di vita. Galli era dunque il primo e più importante bersaglio dei terroristi milanesi.
Non ho avuto il tempo di parlare ai suoi studenti, ma ho avuto la fortuna di fare da magistrato affidatario per il tirocinio di due dei «bambini Galli», Alessandra e Carla, poi diventate magistrati, due tra i migliori “uditori” (come allora si chiamavano i tirocinanti) che abbia mai avuto la fortuna di seguire, così diverse tra loro ma entrambe eguali a Guido. Spero di avere trasmesso loro anche solo una minima parte di quel che Guido aveva insegnato a me.
L’omicidio ricompattò i magistrati di Milano. Anche i giudici istruttori, come noi della Procura avevamo fatto dopo la morte di Emilio, indirizzarono un documento al Csm chiedendo che l’ufficio fosse dotato degli strumenti adeguati e moderni di lavoro che mancavano e che i magistrati «a rischio» venissero sottoposti a misure di sicurezza. Mi viene in mente che, dopo l’assassinio di Emilio, che non era certo il primo magistrato ucciso dai terroristi, il ministero di Grazia e Giustizia fornì a tutti i giudici e Pm, indipendentemente dal loro incarico, un impermeabile beige dotato di imbottitura antiproiettile e una borsa da lavoro, che recava anch’essa, su di un lato, un pannello antiproiettile. Forse qualcuno pensava che la borsa potesse essere impugnata a due mani e usata per respingere le pallottole.
Di Guido, dopo la sua morte, ho scoperto tante altre cose: sua moglie Bianca, che pure ricordo con tanto affetto, mi ha mostrato, ad esempio, i bei disegni che Guido faceva. Aveva una passione: disegnava campi di battaglia ed eserciti schierati l’uno contro l’altro. Armi e divise disegnati in modo incredibilmente preciso. Il disegno era una vera passione per lui. Quindici giorni prima della sua morte mi mandò una cartolina dal Passo del Tonale: sopra la sua firma, il disegno di uno sciatore (lui) sotto il sole e quello di un magistrato in toga (io) che parla alla Corte. Ho visto poi tante fotografie di Guido e tutti noi suoi amici ne abbiamo una che lo ritrae seduto e sorridente – come sempre – in montagna. In un’intervista ad Ibio Paolucci, dell’«Unità», anche Bianca ha ricordato quel tragico giorno: si festeggiava l’onomastico del figlio Giuseppe e della mamma di Guido ed erano stati invitati a casa anche i nonni. C’erano due torte a casa quel 19 marzo, una per il pranzo e l’altra per la cena, ma Guido poté gustare solo la prima e con quella festeggiare solo una volta. E suo padre, una settimana dopo, mandò una lettera e un regalo a mia moglie: «Gentile signora, ho conosciuto suo marito in questi giorni così tristi ed ho capito perché e come, tra lui e il Guido, ci fosse un rapporto di fraterna amicizia. Per questo mi permetto di pregare lei e suo marito di accettare questo pacchetto che le unisco. Sono due tovagliette – non sono nuove – le abbiamo usate mia moglie ed io a mezzogiorno di mercoledì 19, poche ore prima che ammazzassero il Guido. Le avevo regalate alla mamma del Guido per il suo onomastico che dovevamo festeggiare la sera in casa di Bianca con Guido ed i suoi bei bambini. La prego di usare questi straccetti, assieme a suo marito […] e gli dica che Guido mi ha aiutato a perdonare i malvagi».
A suo padre, Guido Galli aveva scritto nel 1957 una lettera per spiegare perché aveva deciso di fare il magistrato e non l’imprenditore: «Perché vedi, papà, io non ho mai pensato ai grandi clienti o alle belle sentenze o ai libri: io ho pensato, soprattutto, e ti prego di credere che dico la verità come forse non l’ho mai detta in vita mia, a un mestiere che potesse darmi la grande soddisfazione di fare qualcosa per gli altri».
8. L’arresto degli assassini
Dopo pochi mesi arrestammo gli assassini: a due di loro, vertici di Prima Linea di Milano, chiesi perché avessero ucciso uno come Guido. Dopo avermi insultato, la donna mi disse che mi avrebbero parlato solo se non ci fossero state altre persone nella stanza e se mi fossi impegnato a non riferire a nessuno di quel colloquio. Accettai: mi dissero che ben sapevano chi era Guido, che avevano le loro fonti nel palazzo di Giustizia. Sapevano, dunque, che lui era la vera mente dell’antiterrorismo a Milano e che io ero solo uno strumento nelle sue mani raffinate, sapevano che sarebbe passato in Procura. Alludendo ad Alessandrini e Galli, dicevano che erano gli uomini come loro a legittimare le istituzioni, non i biechi repressori (e credo proprio che tra questi collocassero anche me). Ho rivisto tanti anni dopo una delle due persone, una donna ormai diversa. Sarei disposto a parlare con lei dei suoi figli e della sua vita; mentre non potrei farlo con un testimone che ancora oggi ricordo: era un giovane abbastanza colto (peraltro, studente di Guido), il cui padre vendeva biciclette. Una «pentita» che aveva partecipato con ruolo d’appoggio all’omicidio ci disse, cinquanta giorni dopo l’omicidio, che in quel negozio lei ed altri avevano acquistato le biciclette usate per la fuga nel dedalo di viuzze attorno all’università di Milano. Sentii quel giovane come testimone e lui negò tutto; gli dissi che c’era chi già aveva confessato e che avevo solo bisogno di riscontri e che lui, ad esempio, provasse a guardare delle foto per eventualmente riconoscere la “pentita”. Rispose – e così fece poi suo padre – che lui non voleva essere tirato in ballo in queste cose anche perché «se avevano ucciso Galli qualche ragione doveva pure esserci stata». Rimase in carcere, come il padre. Non ricordo il nome di quel giovane, ma non riesco a dimenticare la rabbia di quel giorno.
Rammento tante altre cose del dopo 19 marzo: una riunione di lavoro a Parma, qualche giorno dopo l’omicidio, io che ancora continuavo ad essere mentalmente assente e Piero Vigna, un altro mio maestro, che mi scuote (una volta per tutte) stringendomi un braccio e dicendo secco e forte: «Oh Armando!».
Ma ricordo anche la pena e la rabbia che mi assalirono mentre, nel giugno dell’80, firmavo otto ordini di cattura contro i responsabili dell’omicidio di Guido, prima che il processo fosse trasferito a Torino.
19 marzo 1980: da pochissimo aveva iniziato a collaborare Patrizio Peci delle Br, ad aprile ’80 iniziò a farlo Roberto Sandalo di Prima Linea, e poi, in autunno, lo fecero Marco Barbone e Michele Viscardi, pure di Pl, uno degli autori materiali degli omicidi di Alessandrini e Galli; e poi tanti altri. Il 21 giugno dell’80 la Corte d’Assise di Milano condannava Corrado Alunni a ventinove anni di reclusione e i suoi complici a pene oscillanti tra i venti ed i ventotto anni. Le condanne vennero confermate in appello. Il terrorismo stava per essere spazzato via, ma quel 1980 fu l’anno orribile per l’Italia, non solo per la strage di Bologna del 2 agosto.
Se Sandalo avesse parlato un mese prima... Guido sarebbe vivo. Se Guido non fosse andato all’università quel pomeriggio... se io fossi andato a parlare quel pomeriggio all’università, con la mia scorta... se il processo Alunni, formalizzato, fosse finito ad altro giudice istruttore... se... se... .
9. L’arresto di Sergio Segio, il capo di Prima Linea
Prima di chiudere con questo ricordo, però, voglio parlare anche di Sergio Segio, il capo indiscusso e co-fondatore di Prima Linea, nonché principale ideatore ed esecutore materiale degli omicidi di Emilio Alessandrini e Guido Galli, e di altri ancora. E voglio ricordare anche le sue inaccettabili parole da “dissociato”.
Segio era ormai il più ricercato tra i terroristi latitanti. Ero convinto che il suo arresto avrebbe definitivamente messo in ginocchio il terrorismo in Italia.
Solo il 15 gennaio del 1983, però, si concluse la scia di omicidi di cui era stato responsabile.
È sabato. Un sottufficiale della Sezione antiterrorismo dei carabinieri, mentre scende da un mezzo pubblico in viale Monza, nota una donna su cui lui e i suoi colleghi stanno indagando. La sospettano di appartenere alla colonna Walter Alasia delle Br. La donna sembra in attesa di qualcuno. Il sottufficiale decide di chiamare i suoi colleghi, che accorrono da via Moscova e si appostano nella zona, tenendo d’occhio la donna. Arriva un uomo che le si avvicina e riceve da lei un documento. I carabinieri lo riconoscono: è Segio. Gli saltano addosso senza neppure dargli il tempo di capire che cosa stia succedendo. Anche la donna viene naturalmente arrestata. A casa sua verranno sequestrati un’arma e documenti della Walter Alasia. Ammetterà più avanti di essere una brigatista, fortunatamente non coinvolta in alcun atto di sangue e addetta a tenere i rapporti con Segio e il suo gruppo. Si è dissociata e, oggi, riabilitata, fa l’avvocato.
Con la cattura di Segio si chiuse davvero il periodo più drammatico del terrorismo a Milano, anche se altri delitti la insanguinarono e vari altri arresti furono effettuati dalle forze di polizia giudiziaria fino agli arresti e sequestri di armi del 15 giugno 1988 in via Dogali, episodio che chiuse gli “anni di piombo”. A Milano era stato arrestato il 4 aprile 1981 anche Mario Moretti, vertice delle B.R. .
Lui e Segio sono ormai da tempo dissociati dalla lotta armata ed hanno goduto dei benefici previsti dalla legge. Moretti, però, ha scelto di non parlare o di parlare pochissimo.
Non ho alcuna positiva considerazione, invece, delle scelte opposte e del presenzialismo di Segio, che non perde occasione per pontificare all’interno di un sistema di cd. “giustizia riparativa” che non sempre mi convince.
Sarebbero molti gli episodi da raccontare ma basta qui citare una intervista che rilasciò nel 2004 a La Repubblica in cui duramente “condannava” la scelta di collaborazione di Cinzia Banelli, l’ultima pentita delle Br che aveva rivelato quanto a sua conoscenza sugli omicidi D’Antona e Biagi. La bollava come traditrice e dichiarava spudoratamente che il terrorismo era stato sconfitto non grazie ai pentiti, ma grazie ai dissociati come lui che, senza coinvolgere complici, ne avrebbero decretato la fine politica. I collaboratori vi venivano citati come persone che avevano venduto i compagni. Diceva Segio: «Il termine pentimento è diventato impronunciabile, sinonimo di mercimonio, di scambio giudiziario, di condanna degli ex compagni. Una parola svilita [...]. Noi ci siamo assunti le nostre responsabilità senza scaricarle su altri. Il pentitismo e l’irriducibilismo sono due fratelli siamesi, rispondono alla stessa logica di violenza che prevarica la vita altrui»[1]. Ritenni di dover chiedere spazio al quotidiano per una doverosa replica.
Ma va soprattutto citata l’eloquente dedica che compare in un libro di Segio scritto nel 2005, “Miccia Corta”[2]: «a tutti i figli e le figlie dei nostri compagni. Perché crescendo e cominciando a sapere e a capire, non gli venga mai meno la certezza che i loro genitori sono state persone buone e leali. Che hanno lottato, con errori spesso gravi, ma anche con generosità e coraggio, per un mondo migliore e più giusto».
Dove evidentemente – aggiungo io – essere buoni, leali, generosi e coraggiosi è sinonimo di saper vilmente uccidere persone inermi. In un film tratto dal libro non viene citato in alcun modo l’omicidio Galli, così come quelli di altre vittime di Segio. Quel film è stato coraggiosamente visto da figli di vittime del terrorismo come Giuseppe Galli, Benedetta Tobagi, Mario Calabresi e Marco Alessandrini, che ne hanno scritto con distacco ammirevole. Marco, peraltro, in una importante intervista a Gian Antonio Stella del giugno del 2009 ha rivelato la verità sui terroristi: ha confessato di non essere mai riuscito ad elaborare il lutto che lo ha segnato quando aveva otto anni. Ma ciò che non gli dà pace – spiegò in quell’intervista – è che suo padre «è stato ucciso da una banda di cretini. Solo dei cretini...». Marco, che ho conosciuto ed accarezzato da bambino, ha pienamente ragione.
Io ho invece scelto di non vedere quel film: preferisco leggere e rileggere le parole di Corrado Stajano, nel suo bellissimo libro La città degli untori[3], quando mette a confronto la supponenza degli ex terroristi con la eroica normalità delle loro vittime. Da un lato le frasi con cui Segio dedica il libro ai figli dei suoi compagni terroristi, dall’altro l’ultimo biglietto lasciato da Guido Galli alla figlia, uscendo da casa e dirigendosi verso la sua fine: «Alex, se fai la spesa, comprami un po’ di caffè. Ciao, papà».
10. Le parole del volantino di rivendicazione dell’omicidio di Guido Galli e quelle dei suoi familiari .
Dal comunicato di Prima Linea che rivendicò l’uccisione di Guido Galli:
Oggi 19 marzo 1980, alle ore 16 e 50 un gruppo di fuoco della organizzazione comunista Prima Linea ha giustiziato con tre colpi calibro 38 Spl il giudice Guido Galli dell’ufficio istruzione del tribunale di Milano[...]. Galli appartiene alla frazione riformista e garantista della magistratura, impegnato in prima persona nella battaglia per ricostruire l’ufficio istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente, adeguato alle necessità di ristrutturazione, di nuova divisione del lavoro dell’apparato giudiziario, alla necessità di far fronte alle contraddizioni crescenti del lavoro dei magistrati di fronte all’allargamento dei terreni d’intervento, di fronte alla contemporanea crescente paralisi del lavoro di produzione legislativa delle camere [...].
Paradossalmente il volantino contiene un alto ed involontario elogio di Galli.
Mi permetto una ironica affermazione : sembrano le parole di un parere positivo per una valutazione di professionalità o per il conferimento di un incarico direttivo ad un magistrato che ne abbia fatto richiesta.
Ben si comprende, dunque, quanto affermarono Bianca, Alessandra e Carlina Galli: “A quelli che hanno ucciso mio marito e nostro padre. Abbiamo letto il vostro volantino: non l’abbiamo capito”.
Ma altre importanti parole i familiari di Guido ci hanno affidato:
“La tua luce annienterà le tenebre nelle quali vi dibattete” .
Così è scritto sulla lapide che loro hanno voluto nel palazzo di Giustizia di Milano, al secondo piano, accanto alla porticina del piccolo ufficio dell’ indimenticabile Guido.
11. Ricordi, dolore e rabbia
Guido a terra, nel corridoio dell’università, di fronte all’aula dove stava per tenere lezione. Aveva il codice accanto, sul pavimento. Questa è l’immagine che continua a venirmi in mente. E io non posso fare a meno di evocarla, anche a costo di sfiorare la retorica, quando lo ricordo in pubblico. Un groppo, allora, mi stringe la gola: mi è accaduto anche oggi, 19 marzo 2021 mentre parlavo da remoto nel corso di un Convegno che la Università Statale di Milano ha dedicato al ricordo di Guido, a 41 anni di distanza dalla sua scomparsa.
Solo la vicinanza di quanti mi ascoltano silenti e che io sento partecipi delle mie emozioni mi aiuta ad andare avanti.
Ma spesso, per superare quell’empasse, scelgo di concentrare la mia rabbia su quel presidente del Consiglio dei ministri che, nel 2005, ebbe a dichiarare alla stampa estera, a proposito della ignobile – e da noi respinta - war on terror contro il terrorismo di matrice islamica che «Non ci si può aspettare che i governi combattano il terrorismo con il codice in mano». Ecco: pensando sempre a Guido ed a quel codice che era la stella polare della sua vita, mi dico che forse quel presidente del Consiglio non si rendeva conto della gravità di ciò che diceva, forse non sapeva nulla di Galli o – più probabilmente – ignora che si può consapevolmente accettare il rischio della propria fine solo per difendere il senso della legge.
“Non eroi perché sono morti, ma perché hanno voluto capire e conoscere con ostinazione”.
Ventiquattro sono stati i magistrati uccisi dal terrorismo interno e dalla mafia in 21 anni. Non credo che in alcun paese al mondo la magistratura abbia pagato un così alto prezzo per il solo esercizio del proprio dovere in difesa della legalità repubblicana. Ricordiamone sempre i nomi:
Pietro Scaglione (Palermo, 5 maggio 1971)
Francesco Ferlaino (Lamezia Terme, 3 luglio 1975)
Francesco Coco (Genova, 8 giugno 1976)
Vittorio Occorsio (Roma, 10 luglio 1976)
Riccardo Palma (Roma, 14 febbraio 1978)
Girolamo Tartaglione (Roma, 10 ottobre 1978)
Fedele Calvosa (Patrica - Frosinone, 8 novembre 1978)
Emilio Alessandrini (Milano, 29 gennaio 1979)
Cesare Terranova (Palermo, 25 settembre 1979)
Nicola Giacumbi (Salerno, 16 marzo 1980)
Girolamo Minervini (Roma, 18 marzo 1980)
Guido Galli (Milano, 19 marzo 1980)
Mario Amato (Roma, 23 giugno 1980)
Gaetano Costa (Palermo, 6 agosto 1980)
Gian Giacomo Ciaccio Montalto (Valderice -Trapani, 25 gennaio 1983)
Bruno Caccia (Torino, 26 giugno 1983)
Rocco Chinnici (Palermo, 29 luglio 1983)
Alberto Giacomelli (Trapani, 14 settembre 1988)
Antonino Saetta (Canicattì - Agrigento, 25 settembre 1988)
Rosario Livatino (Agrigento, 21 settembre 1990)
Antonio Scopelliti (Piale - Villa San Giovanni, 9 agosto 1991)
Giovanni Falcone (Capaci - Palermo, 23 maggio 1992)
Francesca Morvillo (Capaci - Palermo, 23 maggio 1992)
Paolo Borsellino (Palermo, 19 luglio 1992).
E ricordiamo anche l’avv. Fulvio Croce, ucciso a Torino il 28.4.1977 dalle Brigate Rosse.
Alessandra Camassa è stata prima giudice a Palermo e ora lo è a Marsala dove presiede il Tribunale. Ha scritto un immaginario colloquio tra Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che si svolge in un luogo chiamato «Casa degli uomini eletti»: «Vi si possono trovare personaggi che si sono distinti per coraggio, onestà, dedizione al lavoro, acume ma che non necessariamente erano uomini perfetti. Dunque non è il paradiso». Giovanni e Paolo si cercano e si ritrovano dopo che, di comune accordo, si erano impegnati a non incontrarsi più. Ricordano, anche con autoironia, il loro passato in Sicilia e Borsellino dice: «Non siamo eroi perché siamo morti – che mi sembra una vera sciocchezza – ma siamo eroi perché abbiamo voluto capire e conoscere con ostinazione». Decidono, alla fine, che il loro divieto d’incontro nella «Casa degli uomini eletti» debba considerarsi caduto: «Vorrà dire che staremo insieme [...] poi se ci sarà da parlare di ricordi e sentimenti, ci potremo sempre guardare negli occhi!».
[1] Intervista dal titolo eloquente, Ma il pentitismo è l’altra faccia della violenza, in «La Repubblica», 23 agosto 2004.
[2] Derive Approdi 2005, con seconda edizione riveduta e corretta nel 2009.
[3] Garzanti, Milano 2009, Premio Bagutta.
Riflessioni sul diritto comune della contemporaneità.
Fabio Francario intervista Gianpiero Paolo Cirillo in occasione dell’uscita della seconda edizione del “Sistema istituzionale di diritto comune”.
Gianpiero Paolo Cirillo è un magistrato amministrativo, presidente di sezione del Consiglio di Stato. Ha diretto uffici legislativi di primo piano dell’amministrazione statale ed è stato componente di importanti commissioni di riforme ordinamentali. Docente in diversi corsi universitari, ha conseguito anche l’abilitazione scientifica nazionale a professore di prima fascia in diritto amministrativo ed è autore di numerose pubblicazioni in materia di diritto amministrativo e diritto civile. Nel 2021, per i tipi della Wolters Kluver - Cedam, ha pubblicato la seconda edizione del suo “Sistema istituzionale di diritto comune”. GiustiziaInsieme ha invitato l’Autore a illustrarne i contenuti nell’intervista curata dal Prof Fabio Francario, che viene di seguito pubblicata.
(FF) Il volume cerca di ricomporre la “trama ragionata dell’ordinamento giuridico” alla luce di principi che non possono più ritenersi propri del solo diritto amministrativo o diritto civile, ma che nell’attuale momento storico sono espressione di un diritto comune che tende ad affermarsi come sintesi di entrambi. La perdita di potere degli Stati nazionali nei confronti dei processi mondiali di globalizzazione, la creazione di un sistema di tutela dei diritti fondamentali al quale gli Stati nazionali si trovano assoggettati nell’ordinamento sovranazionale, la moltiplicazione e complicazione del sistema delle fonti e dei centri della sovranità anche nell’ordinamento interno sono tutti fattori che fanno sì che la legge statale non sia più l’unico fondamento e limite del potere amministrativo e che emergano nuove forme e nuovi moduli di azione ed organizzazione amministrativa che si ha difficoltà a ricondurre negli schemi tradizionali esistenti, spesso inadeguati a spiegare i nuovi fenomeni. Direi che il libro fotografa da un’ottima angolazione l’evoluzione in corso sul modo d’intendere il diritto amministrativo, i suoi confini e i suoi contenuti in un momento come quello attuale, caratterizzato da una profonda crisi del concetto di sovranità tradizionalmente inteso come proprio dell’ordinamento statuale, proponendone una ricostruzione sistematica secondo i principi di un nuovo diritto comune.
Il primo interrogativo che suscita pertanto il volume è quello di chiarire in che senso si possa parlare oggi di diritto comune rispetto al diritto comune europeo nato sullo sfondo storico medievale, di matrice romanistica e frutto della preziosa opera degli interpolatori e glossatori del codex justinianeus, di cui ci hanno parlato illustri giuristi come Riccobono e Calasso. Qual’è la differenza?
(G P C) Alla domanda potrei dare una risposta semplice ma vera, ossia che il diritto comunitario e quello globale non sono il diritto romano di allora, perfetto sul piano tecnico e che non aveva bisogno di integrarsi con i diritti locali . Non è immaginabile un nostalgico ritorno al passato, nonostante la crisi delle sovranità nazionali e la persistente penetrazione negli ordinamenti locali moderni di norme sovranazionali quasi sempre capaci di sacrificare le prerogative della persona alle regole del mercato.
Nel quinto paragrafo del primo capitolo vengono prese in considerazione quelle dottrine che sembrano avere nostalgia per l’antico diritto comune, che comunque guardo con simpatia, in quanto cercano di dare una risposta di inquadramento generale ai problemi che in concreto si pongono in un sistema plurilivello.
Diritto comune è un’espressione polisemica. In latino ius commune è utilizzata innanzitutto da Cicerone per indicare un diritto valido per tutti i popoli e poi da Giustiniano che, pur in un’accezione diversa e in un differente contesto, ne ribadisce il significato di diritto con valore universale. L’espressione è peraltro a tutti nota soprattutto per il successo del ius commune in età medioevale, quando il diritto romano, con una vita ben più lunga della comunità che lo ha prodotto, diventò la base della scienza giuridica di quell’epoca e di quelle successive fino alle codificazioni moderne. Si trattava del diritto romano giustinianeo, nella lettura fornitane dai giuristi bolognesi e con le integrazioni apportate dal diritto canonico, che coesisteva con i diritti locali in vigore. Tale diritto comune ha costituito poi la base del diritto privato nei diversi paesi europei e il fondamento che ne deve ancora ispirare l’armonizzazione.
Il diritto comune, di cui parlo nel mio manuale con riferimento alle categorie privatistiche e al loro ruolo nel diritto amministrativo, evoca questa accezione di universalità, pur declinandola al di fuori di una trasversalità tra i popoli e le epoche storiche: una koiné culturale, di cui è necessario prendere consapevolezza, tra le due discipline giuridiche.
(FF) Nell’ordinamento contemporaneo la protezione degli interessi generali è sempre più compenetrata con quelle degli interessi individuali e l’enucleazione di questo nuovo diritto comune è la chiave per decifrare il sistema che si viene componendo. Facciamo alcuni esempi. Tradizionalmente, nel ricostruire il fenomeno della soggettività giuridica, diritto privato e diritto pubblico sono fondati sulla contrapposizione o perlomeno sulla diversità dei concetti di autonomia privata e potestà pubblica. Anche concetti come questi vanno riletti in chiave di diritto comune?
(G P C) Gli interessi generali non coincidono con gli interessi pubblici, almeno se si fa riferimento alla nozione teorica. Perché un interesse possa essere qualificato come pubblico è necessario che vi sia una norma che lo qualifichi formalmente tale, attraverso la creazione di un ente pubblico che abbia il compito di curarlo attraverso l’esercizio della potestà pubblica, ma anche attraverso l’esercizio dell’autonomia privata procedimentalizzata.
In altri termini, quella che io chiamo icasticamente ‘la deriva’ civilistica del diritto amministrativo, si fonda proprio sull’art. 1 della legge generale sul procedimento amministrativo, laddove impone non solo alle pubbliche amministrazioni di agire secondo le norme di diritto privato nell’adozione di atti di natura non autoritativa, ma anche che i soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative assicurino il rispetto dei criteri e dei principi previsti per l’attività amministrativa, dovendo assicurare un livello di garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le pubbliche amministrazioni. Anche il legislatore ha finito per assecondare sempre più tale ‘deriva’, da ultimo proprio inserendo un nuovo comma nell’art. 1 della legge 241 del 1990 richiamando i principi di collaborazione e buona fede nei rapporti tra pubblica amministrazione e cittadini.
Va da sé che la disposizione ricordata avvicina, credo irreversibilmente, l’area della soggettività pubblica e della soggettività privata. E questo diventa il punto di osservazione dell’intero sistema giuridico, che trova la sua ragion d’essere proprio perché a protezione di interessi dei singoli e delle collettività in cui questi sono inseriti. Pertanto la dicotomia diritto pubblico-diritto privato, che ha trovato la sua massima esaltazione con la formazione dello Stato assoluto e che costituisce uno dei capisaldi della forma mentis del giurista, è destinata a scomparire. E’ destinata a scomparire perché agli Stati assoluti sono storicamente succeduti gli Stati pluriclasse, ossia per effetto della penetrazione del ‘sociale’ tra i compiti fondamentali dello Stato e di tutti gli enti pubblici.
Dalla disposizione ricordata si ricavano due corollari fondamentali: il prima è che la potestà, pubblica e privata, è solamente la posizione giuridica naturale del soggetto. Ricordo che la nozione di potestà è nata nel diritto privato e che essa non è più al servizio dell’interesse pubblico unitariamente inteso, ma di tanti interessi pubblici quanti sono i soggetti che se ne fanno portatori. A ciò va aggiunto che il soggetto pubblico, accanto alla potestà, ha anche la posizione giuridica naturale di autonomia.
Pertanto bisogna cominciare a ragionare, più laicamente, di strumenti giuridici, provenienti dal diritto privato e dal diritto pubblico, che le amministrazioni possono adoperare in base alla convenienza, ossia debbono usare gli uni o gli altri indifferentemente se lo richiede la cura ottimale dell’interesse dato in attribuzione, sempre che sia possibile in relazione allo specifico procedimento amministrato;
Il secondo corollario è che le amministrazioni, nel disegno del legislatore, assecondato dai processi storici cui ho fatto riferimento, sono diventate esse stesse “intermedie” tra lo Stato e le persone fisiche della collettività di riferimento.
È evidente che la soggettività giuridica per come l’abbiamo conosciuta e studiata va interamente ripensata, poiché dire che la pubblica amministrazione è “posta” dalla legge, mentre l’autonomia privata “crea” le associazioni le fondazioni e gli enti di fatto è inservibile sul piano pratico, laddove la legge continuamente assegna a queste ultime funzioni amministrative in senso tecnico o comunque li attrae nell’area pubblicistica in un processo di ibridazione intermittente, mentre le prime debbono privilegiare le forme dell’amministrazione consensuale.
La neutralità delle forme giuridiche dei soggetti dell’attività giuridica ha comportato la necessità di spostare l’attenzione sugli strumenti in concreto adoperati, e in particolare sulla presenza o meno di un procedimento capace di coinvolgere gli interessi di tutti coloro i quali entrano in contatto, diretto o indiretto, con l’attività in concretamente svolta.
Come ho cercato di dimostrare, analizzando in concreto il funzionamento del sistema giuridico moderno, senza indulgere a teorizzazioni che servono solo a rendere sterile la discussione, anche il contratto privato si è funzionalizzato, basti pensare ai contratti del consumatore e al contratto di società, in particolare alle società pubbliche. È interessante notare come anche studiosi di sicura matrice civilistica (Rovelli) cominciano a ritenere di possibile applicazione le nozioni di eccesso di potere a proposito dell’invalidità delle deliberazioni societarie, come era stato già intuito in passato da Carnelutti.
Nel libro ho inserito un piccolissimo paragrafo, sempre per non indulgere a tentazioni teoriche, dove mi pare che si possano individuare tre chiavi di lettura del sistema di diritto comune (meglio sarebbe stato chiamarlo di diritto unitario o integrato), ossia la tendenziale procedimentalizzazione di tutte le attività giuridiche, il depotenziamento dell’attività autoritativa e la dequotazione dell’atto amministrativo come sintesi delle ragioni della collettività, la crisi della categoria e della funzione ordinante del contratto nonché della sua tendenziale funzionalizzazione. In questo quadro il procedimento, in quanto aperto alla tutela di tutti gli interessi potenziali o attuali dei terzi, fornisce una garanzia ulteriore ai cittadini, che non sempre veniva assicurato dalla teorica degli effetti negoziali nei confronti dei terzi.
Quindi altro che ‘deriva’ del diritto amministrativo. Esso è chiamato a rifondarsi su basi nuove. Può costituire una deriva soltanto per quegli studiosi, ma non ne conosco, che si adagiano nelle accomodanti categorie del passato.
(FF) Un altro esempio. Nella parte dedicata ai beni si trova scritto che l’alternativa pubblico – privato non è più in grado di assorbire tutta la teoria dei beni pubblici e che bisognerebbe iniziare a impiegare il concetto di bene comune. Probabilmente la riclassificazione rimarrebbe priva di concrete conseguenze sul regime giuridico dei beni tradizionalmente noti e, sotto questo profilo, diverrebbe solo elemento di confusione. Diversamente se viene impiegata per qualificare internet e i nuovi beni dell’era digitale. Ritiene esatta questa lettura?
(G P C) Il capitolo dedicato ai beni ai patrimoni e alle proprietà è quello cui sono particolarmente affezionato, poiché mi ha consentito di attrarre nell’area dei beni sia il contratto in sé sia il provvedimento favorevole, fissando gli esatti termini del loro rapporto con il “bene della vita” quando sta fuori di essi e quando è dentro di essi.
Non ho nessun dubbio nell’affermare che la classica tripartizione che distingue demanio necessario e accidentale, patrimonio disponibile o indisponibile sia soltanto descrittiva e che non aiuta a ben collocare i nuovi beni creati dall’economia moderna.
Pertanto, partendo dall’intuizione gianniniana che a proposito dei beni riteneva che fosse necessario sempre rispondere a due interrogativi, ossia a chi ed a cosa servono i beni pubblici, ritengo che il problema delle forme giuridiche di appartenenza sia secondario almeno per il diritto amministrativo. Anche se bisogna dire che anche nel diritto privato si è fatta largo l’idea che distinguere tra proprietà formale e proprietà gestoria sia assolutamente necessario per comprendere fenomeni complicati come il ruolo degli amministratori nelle grandi società pubbliche e private, oltre che della classica figura del trust e della proprietà fiduciaria. Così come ritengo sia sbagliato considerare il bene nella sua totalità, essendo invece più proficuo incentrare l’attenzione sulle utilità che dal bene possono derivare.
Mi è sembrato che la valorizzazione della categoria del bene comune, già in atto da vari anni presso gli studiosi del diritto civile, fosse la più idonea per inquadrare i nuovi beni, quali internet e i nuovi beni dell’era digitale, senza escludere il bilancio pubblico, che è un bene pubblico con la vocazione ad essere considerato bene comune almeno ai fini delle possibili tutele. In realtà il bene comune è stato sempre visto come una eccezione al sistema fondato sulla proprietà come diritto soggettivo assoluto. Ma questo è ancora vero? Forse sì, anche se questo profilo nella sistematica dei beni, pubblici e privati, è destinato a cambiare.
Le pagine dedicate a Internet evidenziano come sia assolutamente necessario mettere a disposizione di tutti i consociati questo strumento che ha cambiato le relazioni umane e quindi anche quelle giuridiche. Lo richiedono gli articoli 2 e 3 della Costituzione. Esso è diventato uno strumento sempre più indispensabile per la realizzazione della personalità umana e ne va insegnato il corretto uso sin dalle scuole primarie, senza con questo voler nascondere i pericoli derivanti dall’utilizzo distorto dello strumento. L’aspetto che più mi ha incuriosito è stato quello di tentare di dare una minima qualificazione giuridica ai social network, che sono diventati oramai la forma più diffusa delle aggregazioni umane. Mi sembra che ci siano tutti gli elementi costitutivi delle formazioni sociali civilistiche, ossia un insieme di soggetti, lo scopo comune di tali aggregazioni e il requisito psicologico interno ai componenti della formazione sociale, ossia la volontà di ciascuno di farne parte.
Nella seconda edizione però mi è sembrato doveroso avvertire che è necessaria una presa di posizione dell’ordinamento circa il rapporto tra l’individuo e la realtà virtuale, che non è più da considerare come un semplice rapporto tra il soggetto e lo strumento digitale adoperato, ossia una forma di comunicazione moderna. In media non sono più semplici protesi del soggetto, in quanto essi hanno determinato un mutamento antropologico, di cui il diritto non si può disinteressare.
***
(FF) Nella parte dedicata ai soggetti dell’attività giuridica desta curiosità lo spazio riservato alle figure dei “soggetti giuridici digitali”, da un lato, e dall’altro alla soggettività degli animali e degli umanoidi, dall’altro. Vogliamo spiegarlo meglio al lettore?
(G P C) In effetti l’idea di fare una seconda edizione del libro è nata proprio dallo studio, fatto ad altro fine, dei soggetti giuridici digitali e della questione legata alla possibile soggettività giuridica in capo agli animali e agli umanoidi.
La prima operazione è stata quella di tradurre in affermazione l’interrogativo posto da un grande giurista, Gunther Teubner, che per primo ha affrontato sul piano giuridico il tema dell’algoritmo e degli agenti digitali autonomi, ossia di quelli che possono elaborare e prendere decisioni indipendentemente dal produttore e dall’utilizzatore del programma. Il tema non poteva che essere svolto in chiave civilistica, tanto più che quel che interessa il giurista è il tipo di rapporto che si instaura tra l’uomo e il software utilizzato nonché la distribuzione della responsabilità per i danni cagionati nella sfera giuridica di coloro i quali hanno fatto incolpevole affidamento sulla dichiarazione dell’agente digitale autonomo, soprattutto se si tiene conto della prevalenza nel sistema della teoria oggettiva delle dichiarazioni di volontà.
L’assistente digitale è diventato sempre di meno un semplice nuncius della volontà della persona fisica. E sicuramente non è tale quando è capace di prendere decisioni autonome e in quanto tale può provocare danno a terzi. Le categorie che vengono in rilievo sono chiaramente la rappresentanza e il rapporto associativo uomo-macchina. Forse quest’ultimo è da preferire.
Anche a proposito dei soggetti giuridici digitali vi sono inevitabili interferenze tra diritto pubblico e diritto privato.
Infatti, non ci si può disinteressare del rapporto digitale tra le pubbliche amministrazioni, laddove sembra profilarsi la figura del funzionario pubblico digitale, ivi compresi i giudici (sputasentenze). Questo viene messo in evidenza nel non breve paragrafo dedicato al tema. I soggetti giuridici digitali, pur essendo stati configurati in chiave civilistica, hanno bisogno di una norma di diritto pubblico che ne stabilisca la nozione i limiti e le responsabilità. Peraltro della natura degli algoritmo quale possibile governatore della discrezionalità amministrativa si è già occupato del Consiglio di Stato. Credo che vi sarà sempre una differenza, ineliminabile, tra intelligenza umana e intelligenza artificiale nel governo del procedimento amministrativo e del processo.
Quanto al tema della personalità degli animali e degli umanoidi, che non può mancare un testo di teoria generale (nei termini indicati) che guarda al futuro partendo dall’esistente, già da tempo si parla dei cosiddetti diritti degli animali e se ad essi si possa associare la personalità giuridica. Nella letteratura ecologistica si avverte la necessità di introdurre la tutela degli animali addirittura nella Costituzione.
Mi pare che le categorie sperimentate per i soggetti giuridici digitali, ossia la rappresentanza e il rapporto associativo, non si adattino al rapporto uomo-animale. L’unico punto di contatto è che entrambi sono esseri viventi e quindi capaci di provare dolore e piacere. Sicché l’ordinamento giuridico, pensato dagli uomini per gli uomini, può solamente porre obblighi in capo alle persone obblighi di rispetto e protezione dell’ambiente naturale, in cui rientrano prepotentemente gli animali.
Quanto agli umanoidi, ritengo che la produzione di siffatte entità costituisca un attentato alla dignità umana e che nelle varie ibridazioni possibili uomo-animale sia da preferire la tutela prevista per l’uomo e non quella prevista per le cose, senza la necessità di costruire un terzo genere.
In conclusione il capitolo della soggettività andava assolutamente allargato.
(FF) E’ questa l’unica ragione che ha stimolato la realizzazione di una seconda edizione?
(GPC) Certamente no. Ve ne sono almeno quattro.
La prima: il libro era destinato in primo luogo agli studenti che, dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza, avvertono la necessità di avere un testo orientativo e formativo per affrontare una più approfondita preparazione in vista delle prove richieste per la professione forense che decidono di esercitare. Ecco perché il libro chiede di essere studiato e non solo letto, e conseguentemente aggiornato. Non a caso ho pensato di inserire dei titoletti a margine della pagina per fissare nella mente di chi studia il tema (e i suoi problemi) che di volta in volta viene affrontato.
Ritengo che la vasta area degli studenti laureati, che costituiscono anche la fascia debole del mondo giovanile, abbia bisogno di un testo che, pur disorientandoli all’inizio -laddove si rendono conto della inevitabile insufficienza della preparazione universitaria- li formi e poi li indirizzi su basi sicure nel complessissimo mondo degli ordinamenti giuridici e delle giurisprudenze nazionali e sovranazionali. Per essere più chiari, gli studenti laureati si trovano nella condizione di dover scegliere di studiare esclusivamente manuali postuniversitari improntati all’approfondimento ‘casistico’ di argomenti specifici individuati in base alla probabilità che poi ‘capitino’ ai concorsi. Sembra non inutile fornire uno strumento formativo, più duttile e stimolante, che consenta loro di tenere insieme il tutto e affrontare anche questioni da elaborare senza una preventiva conoscenza, dato che sono diventati desueti i testi su cui si sono formati quelli della mia generazione, si pensi alle ‘Dottrine generali del diritto civile’ di Santoro Passarelli e ai due volumi sul ‘Provvedimento amministrativo’ e la ‘Giustizia amministrativa’ di Pietro Virga, tanto per citarne qualcuno.
La seconda ragione: il libro ha ricevuto un’accoglienza molto calda, se si pensa alle tante persone (studenti magistrati avvocati e professori universitari) che hanno affollato le varie cerimonie di presentazione svoltesi in tutta Italia. Per ciò solo è valsa la pena scriverlo. A ciò va aggiunta la ricca messe di recensioni e articoli, che ne ha favorito la diffusione. Ogni libro deve avere, quantomeno nelle intenzioni, lo scopo di essere al ‘servizio permanente’ di chi ha interesse a leggerlo e studiarlo, altrimenti è destinato a morire nelle biblioteche o ad esaurirsi in una solipsistica, e anche un po’ patetica, soddisfazione personale di chi lo ha scritto.
La terza ragione, forse la più importante sul piano, per così dire, scientifico: la necessità di inserire la trattazione di temi, studiati in un passato lontano o recente, che chiedevano di entrare nel testo, quali i soggetti giuridici digitali, la rivoluzione di Internet e le nuove forme aggregative prodotte dalle piattaforme digitali, le obbligazioni pubbliche, la ‘questione’ animale, la programmazione, la costituzione e circolazione dei diritti edificatori, il bilancio quale bene pubblico, l’espropriazione del valore dei beni, la cultura la scienza e la tecnica, il processo tributario, il processo contabile e la giustizia sportiva. A ciò va aggiunta la necessità, essendo il libro costruito sul dato normativo, nonostante l’inconfessabile aspirazione a diventare un testo di teoria generale, di distribuire le novità legislative e giurisprudenziali intervenute dal 2018 al 2021. Naturalmente gli argomenti indicati, ma nel libro ve ne sono altri, non vengono buttati dentro alla rinfusa solo per fare volume, bensì emergono prepotentemente dal punto di osservazione prescelto, ossia l’attività amministrativa di diritto privato.
La quarta ragione, molto più personale: impiegare il tempo del primo lockdown, quando ancora non si vedeva la luce per uscirne, consentendomi di trasformare l’inquietudine in opportunità.
***
(FF) Tema molto delicato e controverso nei tempi recenti è senz’altro quello della responsabilità risarcitoria della PA. L’attribuzione al GA del potere di condannare al risarcimento del danno fa molto discutere sulla possibilità che possa aversi una diversa e distinta nomofilachia in materia a seconda che la tutela sia erogata dal giudice amministrativo o da quello ordinario. Che spazio trova nel sistema di diritto comune la tutela risarcitoria?
(G P C) Di questo tema ho cominciato ad occuparmi sin dagli anni 90 del secolo scorso, dedicandovi la mia seconda monografia a seguito della caduta del cosiddetto dogma della risarcibilità degli interessi legittimi. Parlarne in questa intervista significherebbe rivisitare un largo periodo dei miei studi.
Posso solo dire che la mia preoccupazione maggiore è stata quella di costruire un sistema autonomo della responsabilità per il danno provocato dall’attività illegittima della pubblica amministrazione, che però tenesse conto del dato normativo e dei fondamenti delle varie responsabilità, che sono diversi e quindi diversi sono i regimi giuridici.
Per l’attività amministrativa e per quella svolta dai poteri privati, in punto di responsabilità, non esistono norme specifiche diverse da quelle dettate dal codice civile. Infatti l’art. 30 del codice di procedura amministrativa non è una norma sostanziale ma processuale, che non aiuta molto per operare il distacco dalle responsabilità civilistiche. Pertanto bisogna fare riferimento ai paradigmi del codice civile, disegnati dagli artt. 1218 e 1176 per la responsabilità contrattuale; dall’art. 2043 per quella extracontrattuale; dagli artt. 1337 e 1338 per quella precontrattuale.
Sicché il giudice amministrativo sarebbe stato costretto a scegliere uno di questi tre schemi se non fosse apparsa all’orizzonte un’altra possibilità, che a mio avviso è l’unica per fondare in maniera seria una responsabilità autonoma della pubblica amministrazione, ossia la rivisitazione dell’art. 1173 del codice civile (la norma analoga del codice civile tedesco non a caso è stata riscritta agli inizi del 2000); e in particolare della terza ipotesi prevista quale fonte delle obbligazioni, tra cui anche quella risarcitoria, ossia ogni altro atto o fatto (i quasi contratti e i quasi delitti del codice giustinianeo), diversi dal contratto e dal fatto illecito, idonei a produrre obbligazioni in conformità dell’ordinamento giuridico.
In quella mia lontana monografia tentai di valorizzare al massimo grado possibile la responsabilità precontrattuale atipica, per provare a capire quale fosse il fatto causativo del danno, che mi sembrò di poter individuare sia nell’inutile coinvolgimento del privato nel procedimento sia nell’incolpevole affidamento riposto nel provvedimento invalido, ma anche in quello valido poi annullato o revocato.e in q
Con una certa soddisfazione debbo registrare che la Corte di cassazione, dopo quasi vent’anni, è approdata a tre risultati importanti, ossia che tutti i danni ricevuti nelle trattative precontrattuali sono risarcibili a prescindere dall’annullamento del contratto; che la responsabilità precontrattuale è assimilabile a quella derivante dal contratto e non dal fatto illecito; che il danno cagionato nell’esercizio di poteri pubblici va collocato nell’area intermedia tra il torto e il contratto.
Il giudice amministrativo, tranne i timidi tentativi in senso contrario degli inizi, è sembrato attestarsi sulla responsabilità aquiliana, nonostante questo inquadramento sia assolutamente inappagante, vuoi perché il danno deriva dal procedimento e dall’atto amministrativo, e quindi in presenza di un pregresso rapporto giuridico (il contatto giuridico qualificato di cui tanto si parla, anche talvolta senza capirne il senso,) vuoi perché quelle poche sentenze che sembrano orientarsi nel senso della responsabilità contrattuale non tengono conto del fatto che l’assenza di un rapporto obbligatorio in senso tecnico tra l’amministrazione e il privato può portare solamente ad una tutela contrattuale debole, atteso che non si possono invocare le norme sull’adempimento.
In conclusione la valorizzazione della terza ipotesi della norma codicistica sulle fonti delle obbligazioni può effettivamente dare valore sostanziale alla norma processuale di cui all’art. 30 del codice del processo amministrativo, laddove, al comma 3, parla di fatto (il procedimento visto come fatto storico) ovvero di provvedimento se il danno deriva direttamente da questo.
C’è anche un’altra questione molto importante che riguarda la giurisdizione nell’ipotesi in cui il soggetto abbia fatto affidamento su un provvedimento annullato dal giudice o revocato dall’amministrazione. Ma su questo non posso dire nulla, poiché la questione è stata rimessa all’Adunanza plenaria del consiglio di Stato, di cui è per me un onore far parte.
***
(FF) L’attuale crisi delle categorie giuridiche tradizionali è il punto di partenza della ricostruzione sistematica proposta, imperniata sul superamento della contrapposizione tra istituti di diritto pubblico e di diritto privato. Non è forse un po’ troppo ottimistico affermare che in questo nuovo scenario proprio della contemporaneità “il diritto amministrativo non si rassegna a diluirsi nel diritto privato, ma aspira a diventare il nuovo diritto comune dei rapporti giuridici complessi”? Mi spiego meglio. Dal momento che quella stessa globalizzazione cui è in gran parte imputabile la crisi del sistema attuale tende anche ad imporre che i saperi si omogeneizzino quanto più possibile per agevolare la comunicazione e favorire il confronto e riconosce quindi la specialità di una disciplina solo se questa abbia e conservi una chiara e giustificata ragion d’essere, non c’è il rischio che l’ibridazione delle discipline e degli istituti faccia perdere di vista le ragioni della specialità del diritto amministrativo, che non si risolvono nel mero tecnicismo della disciplina, ma si riassumono nella specificità dei principi informatori? L’ordinamento, gli ordinamenti giuridici, sono in trasformazione, e questo rende senz’altro spesso inadeguati gli istituti tradizionali. Su questo siamo senz’altro d’accordo. Quali che siano le forme che il nuovo ordinamento assumerà al termine della crisi, una volta stabilito il nuovo ordine giuridico globale, ci sarà però sempre qualcuno che dovrà provvedere alla cura degli interessi propri della collettività unitariamente considerata per assicurarne la conservazione o lo sviluppo. L’esercizio del potere dovrà sempre rispondere ad un principio di buon andamento e imparzialità o non vi sarà più bisogno di questo principio fondamentale?
(G P C) All’ultima domanda non posso che dare la stessa risposta che ho dato nelle prefazioni delle due edizioni del libro. Il diritto amministrativo non deve affatto rassegnarsi ad essere diluito nel diritto civile, anzi l’attuale sistema costituisce un’occasione formidabile per ripensarlo e per esaltarne la funzione unificante dell’intero sistema. Esso ha il vantaggio che deriva dal fatto che è questa disciplina ad aver incluso nel suo ordine istituti quali le società, le fondazioni create direttamente dalla legge, il contratto ad oggetto pubblico, l’appalto, la nullità dell’atto, l’avvalimento come contratto d’impresa e tante altri. E poi vi sarà sempre l’attività amministrativa in senso stretto che non può essere contaminata.
In altri termini, solo il diritto amministrativo può dare risposta adeguata alla pluralità delle fonti normative e alle nuove tecniche della produzione normativa, alla frammentazione dell’interesse pubblico, alla crisi dello Stato nazionale, all’attività amministrativa di derivazione comunitaria, spesso in collisione con quella domestica, al nuovo modo di partecipazione dei cittadini alla vita politico-amministrativa della comunità di riferimento, al governo dell’economia pubblica e della crisi economica.
Infine, come già detto, il diritto amministrativo ha il compito di favorire l’affermazione dei principi del giusto procedimento e delle invalidità degli atti giuridici presso tutti i rapporti giuridici unilaterali -in primo luogo quelli che si fondano sull’autonomia negoziale collettiva di cui lo stesso potere amministrativo fa un uso sempre più largo. Il nuovo diritto amministrativo deve muoversi per favorire la funzione di garanzia per tutti i cittadini.
Un diritto amministrativo moderno è necessario anche negli studio del diritto in generale, poiché esso consente all’interprete di tenere insieme le fila di costruzioni giuridiche serie, anche quando si fondano sull’uso di categorie civilistiche, e di affidargli il privilegio dello sguardo totale sull’intero ordinamento.
Il metodo elettorale del sorteggio. Appunti sul ruolo storico del sorteggio nella selezione dei titolari di poteri pubblici*.
di Salvo Spagano
Sommario: 1. Il sorteggio nel potere - 2. Il sorteggio ad Atene - 3. Scrutinio e Tratta: due esempi tra Medioevo e Rinascimento - 4. In luogo di una conclusione
1. Il sorteggio nel potere
Il primo esempio noto di sorteggio quale strumento impiegato all’interno di meccanismi funzionali alle procedure di organizzazione del potere pubblico risale, come ben noto, all’antica Atene. Tuttavia non abbiamo evidenze, che non siano ambigue, del tempo e delle circostanze in cui il fenomeno prese avvio ([1]). Di certo, nelle parole di Lyttkens, il sorteggio “ebbe profonde e permanenti conseguenze per la società atenese, e ciò per effetto della mutata visione del mondo che ne derivò ai cittadini” ([2]). Secondo tale impostazione, ciascun cittadino deve poter essere considerato astrattamente idoneo a svolgere funzioni che l’autorità pubblica riservi per sé. A fronte di questa declinazione, dal tratto inclusivo ed egalitario, l’utilizzo del caso nella individuazione della persona fisica cui deputare lo svolgimento di poteri d’autorità è in grado di conseguire fini diversi, forse non ancora adeguatamente evidenziati ([3]). In particolare, ciò che intendono mostrare queste brevi note, il caso ha storicamente provato d’essere idoneo al contrasto all’insorgere e al consolidarsi di poteri individuali e di legami interindividuali che, ove duraturi, potrebbero mettere a repentaglio il conseguimento di quei fini per i quali il potere a quegli individui era stato tributato. Così inteso, l’utilizzo del caso nella selezione del decisore, e quale che sia l’ampiezza della discrezionalità che gli si tributi, è uno strumento tutt’affatto neutrale, e ciò con buona pace di un dibattito corrente poco avvertito, che lo riduce ad una panacea livellatrice e ri-vendicativa di torti, veri o presunti, patiti per mano di qualsivoglia autorità.
2. Il sorteggio ad Atene
L’esempio più antico a noi pervenuto con certezza di utilizzo del sorteggio in funzione di contrasto alla concentrazione di potere consiste nella complessa riforma posta in essere da Clistene, che fu continuatore dell’opera di Solone. Nella testimonianza di Aristotele ([4]), egli ridisegnò i confini interni del territorio ateniese suddividendolo in trenta porzioni dette Trittie. Dieci di queste appartenevano al territorio costiero, dieci a quello della città in senso stretto, e dieci al territorio intermedio. All’interno di ciascuna Trittia, i legami familiari assicuravano un elevato grado compattezza. Appartenendo poi alla stessa regione, i tre gruppi di Trittie (costiero, cittadino ed intermedio) erano anche altamente omogenei tra loro. La prevedibile conseguenza era che ciascuno di questi tre gruppi si consolidasse, a difesa dei propri interessi, facendo fronte comune in contrapposizione agli altri due. Ci si trovava quindi nella situazione astrattamente descritta nel precedente paragrafo, secondo cui il consolidamento di legami interindividuali può determinare una contrapposizione che si risolve nella difficoltà concreta di produrre un vantaggio comune per un numero sufficientemente ampio di destinatari. L’idea di Clistene fu allora quella di riaggregare le Trittie in dieci unità amministrative maggiori, dette Tribù. Ciascuna Tribù era composta da tre Trittie, selezionate però in modo che una provenisse dalla regione costiera, una da quella cittadina e una da quella intermedia, affidando al sorteggio la concreta individuazione delle tre Trittie che componessero ciascuna tribù. Ne risultava una composizione disomogenea della popolazione interna a ciascuna tribù.
Tra il 508 e il 507 a.C., inoltre, Clistene aveva riformato la Boule, organo titolare dell’iniziativa legislativa e delle relazioni di Atene con le potenze straniere. Ebbene, i cinquecento buleuti venivano a loro volta scelti a sorte. A supporto del fatto che anche in tal caso il sorteggio fosse finalizzato a scongiurare la concentrazione di potere, è possibile addurre una prova indiretta. Vigeva infatti, a fianco del sorteggio, anche la rotazione delle cariche ([5]): nessuna di esse poteva essere detenuta più di una volta dallo stesso individuo. Lo scopo della rotazione era certamente, come accadeva nel caso del sorteggio, quello di consentire a ciascun cittadino di potere accedere a tutte le diverse cariche di governo. Ma, come quello, scoraggiava anche il fossilizzarsi di relazioni di potere: chi occupava una qualunque carica non avrebbe potuto credibilmente impegnarsi con terzi per atti da assumere in futuro, giacché mai più avrebbe potuto detenere quella carica. Il suo potere individuale ne veniva conseguente assai compresso. L’unica eccezione ammessa era quella relativa alla partecipazione alla Boule, in considerazione del numero limitato di cittadini “eleggibili”: se si fosse tenuto conto anche della rotazione si sarebbe infatti corso il rischio di non poter coprire stabilmente tutti i seggi.
Sorteggio e rotazione insieme, dunque, consentivano a tutti i cittadini accesso alle funzioni pubbliche. Al contempo, specie nel loro uso congiunto, assicuravano però anche un più indiretto beneficio, rappresentando essi ostacolo al costituirsi e al rafforzarsi di un troppo penetrante potere individuale, e all’instaurarsi di fazioni che avrebbero consumato, nella lotta per il potere, gran parte della forza che andava invece impiegata nel servizio alla collettività.
3. Scrutinio e Tratta: due esempi tra Medioevo e Rinascimento
Il sorteggio ebbe un momento di discreta diffusione in Italia a partire dall’età comunale. I principali esempi del fenomeno furono il Brevia e lo Scrutinio e tratta. Il primo appare diffuso nel Nord del Paese tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo e, nelle forme che furono proprie di Venezia, se ne conserva traccia fino addirittura all’inizio del diciannovesimo secolo. Lo Scrutinio e tratta ebbe invece origine a Firenze agli inizi del quattordicesimo secolo e sopravvisse fino alla metà del quindicesimo.
È possibile mostrare come il sorteggio presente nello Scrutinio fosse consapevolmente stato introdotto allo scopo di superare le contrapposizioni tra fazioni politiche già costituite. Alla morte del duca di Lucca, che nel 1328 aveva restituito ai fiorentini il diritto di scegliersi il proprio governo, si pose il problema di quali strumenti adottare per l’esercizio di tale ritrovata autonomia. Nella discussione che ne seguì emerse con chiarezza l’obiettivo da perseguire:
"Dappoich’è Fiorentini ebbono novelle della morte del duca, ebbono più consigli e ragionamenti e avvisi, come dovessono riformare la città di reggimento e signoria per modo comune, acciocché si levassono le sette tra’ cittadini" ([6])
Pochi mesi dopo, Firenze adottò lo Scrutinio e tratta. Il meccanismo era essenzialmente composto dalla compresenza di un momento elettorale e di uno casuale: gli aventi diritto sceglievano per voto un certo numero di individui che ritenevano idonei a ricoprire una data carica e poi, tra i nomi così individuati, si procedeva per sorteggio all’estrazione di chi concretamente avrebbe ricoperto l’ufficio. Se, per volontà del caso, una famiglia si fosse trovata avvantaggiata perché così deciso dalla sorte, aveva sì occasionalmente il potere di prevalere su altre, ma correva il rischio che la situazione le si rivoltasse conto in un futuro non lontano. Anche questi occasionali vantaggi consigliavano dunque prudenza e obbligavano al dialogo con le altre fazioni politiche, giacché la misura del proprio relativo potere non era il frutto di battaglie o cospirazioni ben condotte, ma squisitamente dono della dea bendata. È interessante notare come tale schema impedisse che i parenti di chi fosse stato sorteggiato per reggere un ufficio potessero essere sorteggiati per reggere in futuro il medesimo. Appare così confermato, nello Scrutinio e tratta, lo stesso schema esposto a proposito di Atene antica: si ricorre al caso laddove si ritenga che la permanenza protratta sine die in un ufficio pubblico, o il contrapporsi tra fazioni che si contendano il potere, conducano ad un detrimento dell’interesse pubblico non altrimenti compensato. A nulla rileva, in tal caso, che l’origine del fazionalismo della Grecia antica fosse prevalente territoriale, mentre fosse a carattere più familistico quello fiorentino.
Lo strumento del Brevia fu introdotto a Parma nel 1233, esplicitamente rivolto ad evitare contentiones:
Capitulum ad evitandum quod aliquis qui non sit de consilio generali debeat stare ad sortes recipiendas, et ad evitandum contentiones super hoc ([7])
In maniera speculare allo Scrutinio, il Brevia prevedeva dapprima un sorteggio generale fra gli aventi diritto a ricoprire la carica. Solo successivamente, tra i sorteggiati venivano eletti coloro i quali avrebbero poi ricoperto le cariche in questione. Si noti come il metodo del sorteggio, in entrambi i casi, non risultava affatto alternativo a quello elettorale. Al contrario, le procedure mescolavano il momento elettorale con quello casuale in modo da pervenire a decisioni sostanzialmente intenzionali, in cui il sorteggio interveniva come temperamento affinché l’intenzionalità non travalicasse il confine oltre il quale troppo si sminuisse l’interesse della collettività.
4. In luogo di una conclusione
Si è provato a mostrare come l’utilizzo storico del sorteggio nella selezione dei titolari di cariche pubbliche sia stato funzionale all’allargamento a tutti i cittadini di tale possibilità, come anche a impedire il formarsi di rendite di potere. Dal punto di vista della teoria economica delle istituzioni, questo secondo fine si risolve nella introduzione di elevati costi di transazione nel contratto politico tra governanti, e tra governanti e governati. Rendere impervio l’accordo tra il singolo e (una parte de) i suoi elettori da una parte, e quello tra i decisori dall’altro, riduce la rendita di pochi soggetti accrescendo, a parità di condizioni, il beneficio che alla collettività può derivare dall’azione pubblica.
A fronte di tali benefici teorici, una populistica e recente vulgata suggerisce di soppiantare il metodo elettivo con uno che in qualche modo affidi al caso la selezione dei titolari di uffici destinatari di pubblici poteri, in una generale tensione verso l’appiattimento delle differenze e delle competenze. Poco conta che si tratti di parlamentari, ministri o componenti del Consiglio Superiore della Magistratura, o che la scelta vada fatta nella popolazione generale ovvero entro un set di competenti. Si tratta, ad avviso di chi scrive, di uno dei numerosi sintomi dell’attuale anelito alla disintermediazione che trova ispirazione, complice la (illusoria) diffusione di conoscenze a mezzo tecnologico, in una generalizzata sfiducia, ed ignoranza, delle funzioni pubbliche. Mentre è indiscusso ed indiscutibile il diritto a dubitare dei propri governanti e dei meccanismi che li selezionano, è illegittima l’operazione di piegare alle proprie opinioni le evidenze storiche. L’utilizzo del caso non pare mai aver soppiantato il momento teleologico, l’intenzionalità della scelta, ma semmai esservi stato solamente giustapposto, e per motivi specifici che nulla hanno a che vedere con finalità rivendicazionistiche. Si è trattato, come ho provato ad appuntare in queste note, di due motivi fondamentali. Il primo è consistito nella asserita opportunità di impedire al medesimo individuo, o a suoi familiari o sodali, di permanere troppo a lungo in una posizione di potere, tanto almeno da potervi trarre con regolarità e facilità rendite che non gli pertengono. Il secondo, più ricorrente, è stato quello di contrastare l’irrigidimento dei decisori in fazioni contrapposte, cosa che si è ritenuta neutralizzasse, o almeno inibisse, il perseguimento dell’interesse della generalità.
Laddove si rinvengano necessità di tal fatta nel discorso pubblico contemporaneo, la storia offre allora precedenti, esempi e strumenti che possono anche trovare un qualche spazio di inveramento, ferma la siderale distanza tra le strutture sociali, giuridiche, economiche e tecnologiche di allora e di oggi. Laddove tali specifiche urgenze non si ravvisino, invece, o se fini diversi volessero essere perseguiti, va allora ribadita l’illegittimità storica del richiamo a forme democratiche del passato che mai furono come talora si pretende.
* estratto da Migliorare il csm nella cornice costituzionale a cura di Beatrice Bernabei e Paola Filippi
([1]) Sulle origini non politiche del sorteggio si veda Dowlen (2017), pagg. 31 ss.
([2]) […] had profound long-term consequences for Athenian society by changing the citizens’ view of the world (Lyttkens 2013, pag. 93), mia traduzione.
([3]) Per una rassegna storica dei vari impieghi del caso nella selezione dei decisori pubblici si veda Delannoi and Dowlen (2016).
([4]) Aristotele (1986), pag. 164.
([5]) Engelsted (1989), pag. 24, mette in guardia sul rischio di sovrapporre, e dunque confondere, i due strumenti.
([6]) Villani (1845), III, p.103.
([7]) Statuta Communis Parmae (1855), II, p. 39. A tal proposito Wolfson (1899), p. 12, mostra come il sorteggio fosse inteso anche a ridurre corruzione e violenza.
Paesaggio e ricerca scientifica (nota a TAR Lazio - Roma, sez. II quater, n. 1080/2021).
di Giovanna Iacovone
Sommario: 1. Inquadramento del tema e della vicenda amministrativa e contenziosa - 2. Paesaggio e beni paesaggistici. Le ragioni della distinzione- 3. I criteri della necessaria ponderazione: proporzionalità e ragionevolezza. Rilevanza della ricerca scientifica
1. Inquadramento del tema e della vicenda amministrativa e contenziosa
La sentenza in commento consente di riflettere sulle molteplici declinazioni concettuali e normative del paesaggio mettendo a confronto l’evoluzione del concetto nei suoi diversi approdi evolutivi, tanto della legislazione quanto, alla luce di questa, della dottrina e della giurisprudenza.
Una sentenza che costituisce un ulteriore tassello, insieme alle diverse pronunce intervenute negli ultimi dieci anni a risolvere le numerose controversie aventi ad oggetto la messa in atto di un processo di tutela dell’intera Campagna romana, nella definizione di un quadro interpretativo di principi funzionali all’applicazione delle novità introdotte dal codice dei beni culturali e del paesaggio[1].
Fa da sfondo, ma anche da chiave di volta, nella decisione del Tar Lazio il pensiero critico nei confronti della logica che si potrebbe definire dell’“ipervincolo” cui si connette il rischio «di vincolare tutto per non tutelare nulla», e quindi la necessità di una gradazione di valore e del giusto discernimento tra vincoli utili e vincoli che possono essere non solo inutili ma talvolta anche produrre danni non giustificati in termini di proporzionalità e ragionevolezza, in un contesto di ponderazione di interessi.
Emerge l’intento di superare quella cultura che affida la qualità paesaggistica ad un gioco tutto difensivo e fondato sulle procedure vincolistiche, cercando di interpretare al meglio il contesto normativo e giuridico che nel corso dell’ultimo decennio è andato delineandosi.
La sentenza, dunque, offre una importante opportunità per contribuire al dibattito in corso circa i presupposti culturali e normativi con cui si produce, si tutela e si pone in valore il paesaggio di una nazione, così come di qualunque ambito territoriale e/o urbano.
Il contenzioso ha ad oggetto un vincolo paesaggistico di area vasta (di 1600 ettari) comprensivo di alcune aree di proprietà dell’Università della Tuscia su cui sono localizzati l’Orto Botanico, in cui si svolge l’attività istituzionale di didattica, di ricerca e di divulgazione scientifica, in particolare di coltivazione di specie vegetali da ogni parte del mondo (circa 20.000 esemplari di circa 2.500 specie) l’azienda Agraria Didattico-Sperimentale, (superficie di circa 30 ettari) per la ricerca e studio di tecnologie per il monitoraggio ambientale e la protezione delle colture[2].
La lesione prospettata dalla ricorrente a causa delle limitazioni imposte dal vincolo imposto, riguarda la preclusione delle proprie attività istituzionali e il cui svolgimento richiederebbe la trasformazione dell’area sia in termini di lavori (arature profonde) sia in termini di opere (demolizione e ricostruzione di un manufatto) funzionali alla ricerca[3].
L’ingiustizia del pregiudizio lamentato è ravvisata nella insussistenza, con riguardo alle aree di proprietà dell’Università, delle “caratteristiche tipiche del paesaggio agrario tradizionale della piana di Viterbo” idonee a postulare la dichiarazione di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art. 136, comma 1, lett. c) e d) del d.lgs. n. 42 del 2004.
Il Tar ha annullato il provvedimento di vincolo in quanto affetto da un «deficit motivazionale» ravvisato nella non utilizzabilità dei principi posti a presidio della tutela del paesaggio inteso come “forma del territorio”, e richiamati dall’Amministrazione resistente ai fini della giustificazione del vincolo, in quanto non idonei a dar conto «delle caratteristiche prescritte dall’art. 136 del Codice» e che costituiscono la “causa” «che giustifica l’assoggettamento del bene ad un particolare regime giuridico», in ragione «del loro interesse pubblico paesaggistico di grado “notevole” (giudizio di valore)».
Inoltre, trattandosi di un vincolo di area vasta, occorre dimostrare l’unitarietà del complesso paesaggistico vincolato, ossia un «nesso di continuità percettiva che giustifi[chi] l’assoggettamento a vincolo di un’enorme porzione di territorio». Infatti, secondo il giudice «un vincolo di tale estensione può essere ritenuto legittimo, non esorbitante, solo ove risulti “necessario” per non infrangere quel rapporto delle singole parti con l’insieme di appartenenza, che costituisce l’unicum oggetto di tutela».
Nel caso di specie, invece, non vi ha ravvisato «la sussistenza di quell’unitarietà di contesto paesaggistico affermata in modo generico ed assiomatico dall’Amministrazione, e non confortata dalla rappresentazione dei luoghi stessi».
In proposito il Tar rinvia a quella giurisprudenza che, nel caso di assoggettamento al vincolo paesaggistico di area vasta intende in senso molto rigoroso l’onere motivazionale[4].
Il Tar, in particolare, non ha ritenuto conforme ai richiamati requisiti motivazionali la mera affermazione secondo cui lo stralcio avrebbe comportato “una destrutturazione dell’area e una sottrazione non coerente con gli obiettivi prefissati” a fronte di una situazione di fatto caratterizzata da «terreno totalmente pianeggiante» non identificabile, pertanto, alla stregua di “bellezza naturale” nei termini di cui all’art. 136 lett. d) che ivi prevede “le bellezze panoramiche [considerate come quadri] e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze”.
Né si è ritenuta «evincibile la presenza di elementi che possano indurre a ravvisarvi quel “complesso di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale”, contemplato dall’art. 136 lett. c) del Codice, risultando i luoghi […] come un insieme di appezzamenti geometrici di terreno, variamente coltivati, che si “caratterizzano” per il comune aspetto di “campi coltivati come tanti” presenti nella campagna laziale, privi di peculiarità specifiche o di evidente pregio intrinseco».
Ulteriore illegittimità del provvedimento di vincolo è stata ravvisata nella mancata ponderazione, in termini di ragionevolezza e proporzionalità, del contrapposto interesse pubblico perseguito dall’Università, che verrebbe ad essere totalmente sacrificato dall’assoggettamento a vincolo di aree mediante le quali realizza scopi istituzionali di didattica, di ricerca e di divulgazione scientifica.
Un interesse tanto più rilevante in quanto connesso alla persistenza della qualità di paesaggio agrario che «proprio a causa del vincolo, potrebbe rischiare di perdere quelle qualità […] “di rilevante valore” che si vorrebbero salvaguardare, data l’incombente minaccia dell’abbandono delle coltivazioni».
Significativamente si osserva che tale ponderazione è implicitamente richiesta proprio dal legislatore allorquando «esige, per la sottrazione del bene alla sua naturale destinazione, che questo rivesta non solo interesse paesaggistico come “bellezza naturale” secondo le categorie declinate dalla stessa disposizione, ma che questo sia presente in grado “notevole” (come già indicato dal legislatore del 1939 e dal regolamento del 1940), proprio perché il “sacrificio” imposto ad altri interessi (in questo caso di rilevante interesse pubblico essi stessi) deve trovare una “ragione adeguata” nell’esigenza di assicurare la tutela di un bene giuridico di valore preminente, che non può essere offerta altrimenti, e che costituisce la “giusta causa” del provvedimento di vincolo».
Dalla ricostruzione che precede emerge che le questioni rilevanti intorno alle quali il Tar ha focalizzato la riflessione ai fini del decidere sono sostanzialmente due, ma strettamente connesse ai fini dell’iter logico-argomentativo.
Innanzitutto viene in rilievo l’ormai acquisita distinzione giuridica tra regole di salvaguardia e di tutela relative, rispettivamente, alla presupposta differenziazione tra paesaggio e beni paesaggistici, questi ultimi a loro volta articolati a seconda della loro riconducibilità alle “bellezze di natura”, ai sensi dell’art. 136 del codice, o ai beni ambientali-culturali di cui all’art. 142 (c.d. beni paesaggistici diffusi, tutelati ex lege).
L’ulteriore tema affrontato dal giudice amministrativo riguarda la ponderazione valutativa secondo i canoni della proporzionalità[5] e ragionevolezza[6] che avrebbe dovuto guidare l’Amministrazione resistente nella considerazione degli interessi in gioco per giungere alla sottrazione del bene dichiarato di notevole interesse pubblico alla sua «naturale destinazione».
Di entrambi i profili si cercherà di dare specificamente conto nei paragrafi seguenti.
2. Paesaggio e beni paesaggistici. Le ragioni della distinzione
La dichiarazione di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art. 136 lett. c) e d) del d.lgs. n. 42 del 2004, classifica le aree in contestazione come “Paesaggio dell’Insediamento storico diffuso” e “Paesaggio agrario di rilevante valore” integrando, in sede di vestizione del vincolo, le prescrizioni del P.T.P.R. adottato con diverse prescrizioni con l’obiettivo di «conservarne l’originaria destinazione d’uso, salvaguardare le aree circostanti, i tipi e i metodi di coltivazione tradizionali e le attività compatibili con le tradizioni tipiche[7]».
Il Tar, proprio avvalendosi dei riferimenti all’art. 131 del d.lgs n. 42 del 2004 su cui indugia il MiBAC nella sua relazione generale al vincolo, fonda gran parte della decisione sulla differenziazione tra paesaggio inteso come “forma del territorio”, la cui identificazione e obiettivi di salvaguardia con i relativi principi sono rimessi dal legislatore all’art. 131, commi 1,2,4,5 e 6 del codice, e beni paesaggistici espressamente riconosciuti al comma 2 dello stesso articolo ed elencati all’art. 134, nonché meglio specificati agli artt. 136 e 142 del codice medesimo.
Preliminarmente all’esame del merito, infatti, il giudice amministrativo, accogliendo l’evoluzione delle riflessioni della dottrina sul tema, si sofferma in una lunga e densa premessa interpretativa delle norme appena richiamate, rilevando in primo luogo che l’art. 131 del codice ha accolto preliminarmente un concetto di paesaggio inteso come “forma del territorio “come percepito nel suo valore identitario dalle Comunità che vi abitano e lavorano, riconoscendo tra i paesaggi anche quelli “della vita quotidiana”, che senza avere caratteri di pregio, “tuttavia raccontano una loro storia e presentano una loro identità”.
Il paesaggio, dunque, come luogo utile e dinamico, «che si interroga cioè sui nuovi comportamenti umani che stabiliscono centralità e identità nella vita di una collettività»[8].
Così inteso, conformemente ai principi sottoscritti nella Convenzione europea[9], il paesaggio deve intendersi come luogo fortemente creativo ed innovativo, che sperimenta materiali e tecniche nella ricerca di nuove sintassi e nuove grammatiche per rimettere in gioco ambienti altrimenti perduti e destinati al degrado[10].
Il paesaggio come processo in ininterrotta evoluzione, come corpo vivente, frutto del rapporto tra territorio e società e dunque, sotto tale profilo, espressione dell’identità culturale della comunità di riferimento, era stato configurato sin dal 1985 dalla l. n. 431 che aveva ottenuto al riguardo l’avallo della Corte costituzionale[11].
Come noto, un fondamentale ruolo, nello scardinare interpretazioni consolidate e nell’anticipare l’evoluzione legislativa, ha rivestito l’intuizione di Predieri che avvalendosi della preziosa contaminazione tra saperi e discipline diverse giunge ad affermare che «la tutela del paesaggio…non è solo la conservazione delle bellezze naturali…, ma la più ampia tutela (non limitata alla conservazione) della forma del territorio creata dalla comunità umana che vi è insediata, come continua interazione della natura e dell’uomo, come forma dell’ambiente, e quindi volta alla tutela dello stesso ambiente naturale modificato dall’uomo, dato che in Italia, quasi dappertutto, al di fuori di ristrettissime aree alpine o marine, non può parlarsi di un ambiente naturale senza presenza umana»[12].
La lettura innovativa di Predieri, subito condivisa dalla dottrina[13] e più tardi ripresa dalla giurisprudenza[14], appare molto utile, ai fini del presente commento, anche con riguardo ad un’altra implicazione accolta dal giudice amministrativo, ossia l’abbandono della nozione di tutela limitata alla mera tutela statica e conservativa di alcuni coni visuali fissi, oggetto di contemplazione, da esprimersi attraverso divieti e limitazioni.
Una specificazione, quest’ultima, tenuta in particolare considerazione dal Tar nel caso in esame, in cui il compendio immobiliare è stato assoggettato a vincolo ai sensi dell’art. 136 lett.c) del Codice (oltre che dell’art. 136, lett. d) come bellezza panoramica o punto di vista panoramico, per sottolineare una presa di posizione in favore della distinzione tra paesaggio e beni paesaggistici.
Infatti, nella direzione delineata dalla dottrina e dalla giurisprudenza il giudice di primo grado ha ricostruito il vigente quadro normativo attraverso una interpretazione volta ad uscire da eventuali residue ambiguità applicative del codice sul paesaggio, retaggio di posizioni abbandonate sul piano delle definizioni, ma ancora presenti in una cultura che stenta ad accettare, nella sostanza, quell’idea dinamica di salvaguardia che non è strettamente dipendente dall’apposizione del vincolo, bensì da quell’uso consapevole del territorio di cui al 6° comma dell’art.131 che va oltre il l’impostazione conservativa della tutela paesaggistica solo attraverso il vincolo.
Al riguardo, infatti, il Tar afferma che «L’impostazione conservativa della tutela dei beni paesaggistici sancita nell’ultima versione del Codice, unitamente alla perdita di rango del “principio dello sviluppo sostenibile”, rischia di risultare controproducente rispetto alle stesse finalità prefissate, come evidenziato dalla dottrina, specie nei confronti di alcuni tipi di paesaggio – in particolare con riferimento al paesaggio agrario, che costituisce un “bene paesaggistico vivo e dinamico”, che si modifica per il solo agire delle forze della natura – che finirebbero per essere addirittura danneggiati da vincoli troppo stringenti che ne impedissero lo sfruttamento con una sufficiente redditività, determinandone l’abbandono ed il ritorno a selva incolta dei relativi terreni.
Pertanto, se da un lato si valorizza l’esigenza di protezione del paesaggio agrario, anche al fine di contenere quel fenomeno di espansione della città verso la periferia (che comporta il parallelo degrado dei centri storici che vengono, per conseguenza, ad essere abbandonati), dall’altro lato, rischia di essere compromesso da vincoli eccessivamente rigidi, che ne limitino la naturale vocazione produttiva, imponendo determinate coltivazioni non più redditizie a causa della globalizzazione dei mercati agricoli, contribuendo al grave fenomeno dell’abbandono dei campi. Si tratta dei cd. “effetti perversi del vincolo”, che costituiscono una minaccia sia per i beni paesaggistici sia per i beni culturali immobili….».
Conseguentemente, il provvedimento giurisdizionale è molto chiaro nell’affermare che il valore identitario proprio del concetto di “paesaggio” «non è di per sé sufficiente per assoggettare un immobile o un’area al vincolo di tutela previsto dall’art. 136, essendo a tal fine richiesto anche, come requisito cumulativo, che si aggiunge al requisito proprio, quello del valore intrinseco dell’oggetto, del sito da tutelare, come “luogo dell’anima” o come “bellezza naturale” (nelle diverse declinazioni del “borgo pittoresco”, del sublime delle vette delle montagne o dell’orrido, della “curiosità” di una bizzarria della natura etc.), che costituisce una condizione indefettibile che non è stata “superata” dalla nuova concezione di paesaggio (che include anche la categoria del “bello di natura” oltre che i beni ambientali diffusi e lo stesso paesaggio-territorio privo di qualità). […] E ciò vale persino per quei beni paesaggistici “identitari” per eccellenza, quali i centri storici “dal caratteristico aspetto”, di cui all’art. 136 lett. c) del Codice, per i quali la dottrina ha chiarito che l’endiadi “valore estetico e tradizionale” va intesa nel senso del doppio requisito, dovendo il giudizio sul notevole interesse
paesaggistico soddisfare non solo il criterio “tradizionale”, ma anche quello “estetico”, trattandosi di requisiti cumulativamente richiesti.[…]. È pertanto richiesto un quid pluris, oltre al tradizionale aspetto, alla caratteristica identitaria, anche per classificare il “paesaggio agrario” - cioè quella parte di territorio caratterizzato da “naturale vocazione agricola” - nell’ambito di paesaggio agrario “di rilevante valore”, che presuppone che sia soddisfatto anche l’ulteriore e specifico requisito del “rilevante valore paesistico per l’eccellenza dell’aspetto percettivo, scenico e panoramico”, come precisato dall’art. 24 delle Norme del PTPR».
Sembra dunque di poter affermare che il valore identitario costituisca il minimo comune denominatore, quel filo rosso che unisce il paesaggio e il bene paesaggistico, in un rapporto tra genere e specie. La distinzione, invece, consisterebbe nella “causa” del vincolo costituita dalle «ragioni dell’estetica», rilevanti anche per stabilire il grado di valore del bene protetto e per differenziare la gravosità del regime giuridico vincolistico grazie alla disciplina contenuta nella c.d. “vestizione”.
Il valore identitario dei luoghi, ove riferito ai beni paesaggistici, costituirebbe, secondo l’orientamento giurisprudenziale in commento, «un motivo “aggiuntivo”, incidente sulla dimensione territoriale della sua rilevanza (per cui alcuni meritano di essere tutelati in funzione della loro rilevanza nazionale, mentre altri sono di interesse solo regionale, o addirittura locale: a parità di spettacolarità della veduta, un conto è l’ermo colle di Leopardi, ed altro conto è, pur con l’analoga configurazione, quella di Colle Amato oppure di Colle Paganello, che sono di particolare “affezione” per il loro valore “identitario” per i fabrianesi, ma non per gli jesini)».
Particolare interesse riveste, altresì, proprio la necessità di graduare il regime vincolistico attraverso le specifiche prescrizioni d’uso per evitare di incorrere in quegli “eccessi di tutela” non giustificati (un rischio sempre più incombente in un contesto di crescente espansione delle categorie dei beni da tutela e di intensificazione dell’attività vincolistica) ed addirittura in talune occasioni controproducenti rispetto alle stesse finalità di tutela perseguite.
3. I criteri della necessaria ponderazione: proporzionalità e ragionevolezza. Rilevanza della ricerca scientifica
Viene in rilievo, così, l’ulteriore essenziale profilo sopra anticipato, ossia il richiamo ai principi di ragionevolezza e proporzionalità, strettamente connessi e fondanti il complessivo ragionamento che ha condotto il Tar ad annullare il vincolo.
I due principi costituiscono un essenziale supporto, nelle loro diverse declinazioni, alle argomentazioni della sentenza volte a mettere in discussione il percorso logico seguito dalla pubblica Amministrazione metodologicamente incentrato sulla coerenza e congruità del bilanciamento di interessi.
Il tema riveste particolare interesse proprio in quanto riferito ad un provvedimento di vincolo paesaggistico, in cui quindi la valutazione è svolta sulla base di parametri classicamente afferenti la discrezionalità tecnica.
Il giudice amministrativo, infatti, costruisce il suo orientamento valorizzando, ai fini dell’operatività di tali principi, quel profilo “soggettivo” nel cui ambito vengono annoverate tematiche attinenti all’esito del processo decisionale, riguardanti l’accertamento e la valutazione dei dati di fatto rilevanti, la scelta oculata e la ponderazione degli interessi, nonché (ma non meno rilevante) la individuazione concreta del fine in rapporto alle peculiarità del caso da decidere.
In particolare, si sottolinea nella sentenza, proporzionalità e ragionevolezza sono apparsi rilevanti ai fini del decidere «in quanto hanno acquisito sempre più considerazione nel settore in esame a seguito della trasformazione del provvedimento di vincolo da atto meramente “dichiarativo” dell’interesse paesaggistico “notevole” ex art. 136 ad atto che prescrive direttamente le modalità di gestione dello stesso, indicandone le trasformazioni e gli usi compatibili (come già previsto dallo stesso legislatore del 1939 e dal regolamento del 1940); tale trasformazione ha reso non più attuale la contrapposizione tra il momento della “valutazione tecnica” (operata sulla base della “monorotaia del solo interesse culturale-paesaggistico”) che caratterizzava la prima fase (in cui l’Autorità è chiamata a verificare le caratteristiche del bene ed il loro grado al fine di “dichiararlo” bene culturale o paesaggistico) – cioè a “verificare” l’esistenza dei “presupposti di fatto” per l’assoggettamento del bene a vincolo (si fa per dire, dato che trattasi di “giudizio di valore” e non di “giudizio di fatto”) - e la successiva fase della “gestione del vincolo” – che attiene propriamente alle “scelte d’azione” – in cui si ammette invece la presenza di un momento di “valutazione discrezionale” anche di altri interessi co-primari concomitanti».
Ed infatti i principi di ragionevolezza e proporzionalità sono stati primariamente considerati quali criteri, e relativi parametri di giudizio, idonei a svolgere una valutazione funzionale a graduare la disciplina limitativa in relazione alla gravosità del vincolo, cercando così di dare un senso reale ed una effettiva utilità, in termini di efficacia ed efficienza, a quelle “prescrizioni d’uso” (il c.d. vincolo vestito) che il legislatore richiede in relazione al giusto grado di incidenza degli effetti, sia sfavorevoli che favorevoli, della disciplina medesima sugli interessi coinvolti.
In stretta sintonia si pone l’ulteriore considerazione, «in una prospettiva di ragionevolezza e proporzionalità», secondo cui la preesistenza di altri vincoli incombenti su aree adiacenti a quella oggetto del contenzioso, lungi dall’avallare la legittimità del provvedimento, avrebbe dovuto indurre l’Amministrazione resistente ad una attenta valutazione dell’operatività dei vincoli già esistenti al fine di «stabilire se e quanto consentano di assicurare un’adeguata tutela al bene in contestazione, approfondendo, in un’ottica comparativa delle diverse misure alternative possibili, se e come la nuova misura risulti a tal fine “necessaria” (secondo test di proporzionalità), non potendo la stessa finalità essere conseguita con la misura di protezione alternativa più lieve (cioè come zona di interesse archeologico).
Infine, ma in realtà determinante in quanto assurto con la sentenza in commento al ruolo di “terzo test di proporzionalità”, dunque quale “giusto punto di equilibrio degli interessi in gioco”, la mancata considerazione da parte dell’Amministrazione deputata alla tutela del paesaggio delle conseguenze discendenti dall’aggravamento del regime del vincolo sull’interesse pubblico perseguito dall’esercizio dei compiti istituzionali dell’Università, ossia la didattica e la ricerca che dall’assoggettamento al vincolo paesaggistico verrebbero irrimediabilmente sacrificati.
La peculiarità riguarda proprio la tipologia di interessi di cui il Tar ha dovuto constatare la concreta contrapposizione, la ricerca scientifica e il patrimonio culturale, che in quanto garantiti dalla medesima norma costituzionale non dovrebbero, in astratto, confliggere in quanto orientati al perseguimento di un fine unitariamente considerato dal costituente e dunque immanentemente affini, “consanguinei”.
Sembrerebbe di assistere ad una vicenda analoga a quella che talvolta ha visto entrare in collisione la nozione di paesaggio con quella di ambiente, seppure entrambe riconducibili entro l’egida dell’art. 9 della Costituzione, come ad esempio avviene sovente quando si tratta di valutare la compatibilità paesaggistica di impianti di produzione di energia rinnovabile che rispondono ad esigenze di tutela delle matrici ambientali, ma che possono risultare conflittuali con la tutela del paesaggio inteso nel senso identitario culturale[15].
Si potrebbe così essere indotti a pensare ad un confronto dagli incerti equilibri e dai variabili rapporti di forza che rischia di rendere a loro volta instabili i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, mettendone in discussione il ruolo di categorie del diritto amministrativo.
In realtà, se è vero che la Corte costituzionale ha individuato nel paesaggio un valore primario, in quanto tale «insuscettivo di essere subordinato a qualsiasi altro»[16], è altrettanto vero che la portata della primarietà e assolutezza sono state specificate affermando che «questa primarietà non legittima un primato assoluto in una ipotetica scala gerarchica dei valori costituzionali, ma origina la necessità che essi debbano sempre essere presi in considerazione nei concreti bilanciamenti operati dal legislatore ordinario e dalle pubbliche amministrazioni»[17].
Sul punto, infatti, il Tar non rinuncia a sottolineare che l’area in questione, «proprio a causa del vincolo potrebbe perdere quelle qualità di paesaggio agrario “di rilevante valore” che si vorrebbero salvaguardare, data l’incombente minaccia dell’abbandono delle coltivazioni» determinato dalla impossibilità di continuare a svolgere quell’attività di ricerca e di didattica la cui libertà nei contenuti è, peraltro, ugualmente tutelata dalla Costituzione.
Sembra dunque di poter concludere che nel caso di specie, il giudice amministrativo abbia ritenuto che la qualitas di valore primario e assoluto non solo include, le due “anime” della nozione di paesaggio, ma risale al macro valore della cultura, al cui interno eventuali contrasti non avrebbero potuto che essere risolti sul piano della ragionevolezza attraverso un bilanciamento in sede procedimentale, «luogo elettivo di composizione tra i diversi interessi coinvolti, tutti costituzionalmente rilevanti»[18].
[1] Ne dà atto S. Amorosino, Il T.A.R. Lazio legittima il maxi vincolo paesaggistico sull'Agro Romano (nota alle sentenze n. 33362, 33363, 33364 e 33365/2010), in Riv. giur. edilizia, fasc.5, 2011, p. 187 ss.
[2] La localizzazione e la consistenza dei terreni interessati dal vincolo in contestazione, nonché il carattere e l’aspetto che ne caratterizzano la morfologia, sono esattamente evincibili dalla Relazione di accompagnamento al vincolo e dalla relativa documentazione, da cui si evince, come attestato in sentenza « la scomposizione dell’area in quattro parti unitarie: quella della sorgente del Bullicame – con le caratteristiche puntualmente evidenziate nella Relazione di accompagnamento al vincolo - al di sotto della quale è sito l’orto botanico – del pari descritto nella medesima Relazione -; dallo stesso lato del Bullicame è sita l’azienda agricola – non oggetto di specifica descrizione nel predetto documento – adeguatamente inquadrabile per la sua caratteristica di terreno pianeggiante, geometricamente diviso in particelle separate, destinate alle diverse coltivazioni, dall’aspetto “comune” dei tanti campi coltivati nella nostra Regione. Sull’altro lato della strada, sorge la collina di Riello, con la necropoli etrusca e la presenza della romana Sorrina Nuova, oggetto di particolare attenzione nella Relazione in parola. In sostanza l’azienda agricola è sita tra il Bullicame (a sinistra) e la collina di Riello (a destra), e l’esattezza della sua collocazione, la sua conformazione e la sua consistenza trovano conferma nelle immagini delle riprese satellitari disponibili su google maps e dalla visione dei luoghi tramite la funzione street view, che induce ad escludere eventuali errori per quanto riguarda la percezione dello stato dei luoghi».
[3] A p. 3 della sentenza in commento si legge che «l’Azienda Agraria Didattico-Sperimentale, attiva dal 1981 (superficie di circa 30 ettari) per la ricerca e studio di tecnologie per il monitoraggio ambientale e la protezione delle colture, con necessità di opere di adattamento del terreno (con aratura in profondità anche superiore a 40 cm concimazione, esecuzione di buche per l’impianto di strutture di sostegno) e modifiche (con creazione di pendenze per studiare fenomeni di deflusso ed erosione mediante simulazioni di pioggia), allestimento di strutture metalliche di raccolta e studio delle precipitazioni, stazione per la misura dei dati climatici etc.».
[4] Si richiama, in particolare, Cons. St., sez. VI, n. 2309 del 2018 che ha annullato il provvedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico dell’ambito meridionale dell’Agro romano condividendo la non adeguatezza argomentativa del MIBAC nel rigettare le osservazioni avverso l’imposizione del vincolo.
[5] Tra tanti e importanti contributi al tema, S. COGNETTI, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011.
[6] Sulla ragionevolezza quale canone decisionale della pubblica amministrazione P.M. Vipiana, Introduzione allo studio del principio di ragionevolezza nel diritto pubblico, Padova, Cedam, 1993.
[7] Cfr. p. 1 delle norme allegate al decreto di vincolo del 25 luglio 2019, oggetto del gravame.
[8] F. Zagari, Questo è paesaggio. 48 definizioni, Roma, 2006, p.80.
[9] Art. 2 della Convenzione europea del paesaggio e, più in generale il riferimento contenuto nel Preambolo sia ai paesaggi della vita quotidiana, sia agli importanti fattori di trasformazione, tra cui le tecniche di produzione agricola. Sul tema, D. Sorace, Paesaggio e paesaggi nella Convenzione Europea, in Convenzione Europea del paesaggio e governo del territorio a cura di GF Cartei, il Mulino, Bologna, 2007, pp. 18-22.
[10] E. BOSCOLO, in Appunti sulla nozione giuridica di paesaggio identitario, in Urb. app n. 7/2008, p. 798
[11] Corte cost., 27 giugno 1986, n. 151, in www.giurcost.org. Si veda in proposito M. Immordino, in M.A. Sandulli (a cura di) Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2012, p. 986, in cui l’Autrice rileva l’innovatività di tale configurazione, delineata con largo anticipo sulla previsione contenuta nell’art. 131, comma 2, del d.lgs. n. 42 del 2004.
[12] A. Predieri, Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in ID., Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, Giuffré, Milano, 1969, part. 3-6, i cui risultati, nei termini riportati in testo, furono sintetizzati e ribaditi dall’A. in La regolazione giuridica degli insediamenti turistici e residenziali nelle zone alpine, in Foro amm., 1970, III, p. 360, nonché nella voce Paesaggio, in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, p. 503.
[13] Si pensi a G. Ghetti, Prospettive giuridiche della tutela del paesaggio negli ordinamenti regionali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, p. 1527; F. Merusi, Commento all’art. 9 della Cost., in G. Branca ( a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna, Zanichelli – Roma, Soc. ed. del Foro italiano, 1975, pp. 434-460; F. Levi, Italia, in ID. (a cura di), La tutela del paesaggio. Studi di diritto pubblico comparato, Torino, 1979, pp. 1-45. Tale tesi, poi definita integrale (V.G. Severini, La tutela costituzionale del paesaggio, (art.9 Cost.), in S. Battini, L. Casini – G. Vesperini – C. Vitale (a cura di), Codice di edilizia e urbanistica, I Codici commentati, Torino, 2013, p.33) ha finito con il sostituire la c.d. tesi “statica” o “storico-riduttiva” e su cui A.M. Sandulli, La tutela del paesaggio nella Costituzione, in Riv. giur. ed., II/1967
[14] Oltre alla sentenza n. 151 del 1986, cit., qualche mese prima la Corte costituzionale, con la sentenza n. 39 del 3 marzo (in www.giurcost.org.) aveva affermato che la nozione di paesaggio «è comprensiva di ogni elemento naturale ed umano attinente alla forma esteriore del territorio». Sul tema M. A. Sandulli, Il paesaggio nel Codice dei Beni Culturali: prospettive di riforma, in Atti del convegno AIDU svoltosi a Parma il 18 novembre 2005, Napoli, 2006.
[15] Si veda sul punto P. Carpentieri, Paesaggio contro ambiente, in Urb. e App., 2005, n. 8, p. 931 ss.; Id., Eolico e paesaggio, in Riv. giur. ed., 2008, p. 326 ss.
[16] Corte cost., 24 giugno 2004, n.196, in www.giurcost.org.
[17] Corte cost., ult. cit., nella parte in diritto.
[18] Corte cost.,5 aprile 2018, n. 69, 6.1; sui criteri che presiedono al bilanciamento, Corte cost., 23 marzo 2018, n. 58, p.1 e 3.2.
Brevi riflessioni sul ruolo del Pubblico Ministero nell’esercizio della funzione giurisdizionale
di Giuseppe Amara
Sommario: 1. Introduzione - 2. La Costituzione e la normativa primaria 3. Il ruolo lato sensu giurisdizionale del Pubblico Ministero sino all’esercizio dell’azione penale - 4. Separazione delle carriere - 5. Conclusioni.
1. Introduzione
Piace iniziare questa breve riflessione con una banale citazione, banale nel senso che chiunque operi nella giurisdizione probabilmente già la conosce, ma che racchiude, con estrema sintesi, il significato del pensiero che si cercherà di sviluppare.
“Fra tutti gli uffici giudiziari, il più arduo mi sembra quello del pubblico accusatore: il quale, come sostenitore dell’accusa, dovrebb’essere parziale al pari di un avvocato: e, come custode, della legge, dovrebb’essere imparziale al pari di un giudice. Avvocato senza passione, giudice senza imparzialità: questo è l’assurdo psicologico nel quale il pubblico ministero se non ha uno squisito senso di equilibrio, rischia ad ogni istante di perdere per amor di serenità la generosa combattività del difensore, o per amore di polemica la spassiona oggettività del magistrato.”[1]
Negare, o comunque sminuire, il ruolo del magistrato del Pubblico Ministero nell’esercizio della funzione giurisdizionale è una miopia che prescinde da una visione sistematica dell’operato dell’organo requirente ed un eccezionale assist per chi sostiene la necessità della separazione delle carriere.
2. La Costituzione e la normativa primaria
Il Pubblico Ministero è un organo della giurisdizione.
Secondo il disposto di cui all’art. 102 della Costituzione (norma introduttiva del titolo IV che, ancora, disciplina l’ordinamento “giurisdizionale” e non “giudiziario”), la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituti e regolati delle norme sull’ordinamento giudiziario. Ancora, l’art. 106 Cost. prevede che le nomine dei Magistrati hanno luogo per concorso, e l’art. 107 Cost. precisa come i Magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni, sottolineando all’ultimo comma, che il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario, norme che sono stabilite con legge.
Ma come è garantita la giurisdizione? Attraverso il giusto processo regolato dalla legge (art. 111 Cost.), processo che deve svolgersi in condizione di parità. Ma è una condizione di parità che impone al Pubblico Ministero l’oneroso e difficile ruolo di affiancarvi quel senso di imparzialità richiesto dall’essere un organo della giurisdizione; certo, chiamato a sostenere la pubblica accusa, ma nell’esclusiva ottica dell’accertamento del fatto, sulla scorta del compendio probatorio acquisito.
Rilevante e foriera di un ulteriore onere per il magistrato del pubblico ministero è la recente normazione. Noto l’intervento del legislatore ordinario (d.lgs. 106/2006), in materia di riorganizzazione dell'ufficio del pubblico ministero che ha stabilito come il titolare esclusivo dell'azione penale sia il procuratore della Repubblica che la esercita sotto la propria responsabilità nei modi e nei termini fissati dalla legge. È compito del procuratore assicurare il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell'azione penale, l'osservanza delle disposizioni relative all'iscrizione delle notizie di reato ed il rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio. (art. 1)
Per poi ulteriormente ribadire (art. 2) che: “il procuratore della Repubblica, quale titolare esclusivo dell'azione penale, la esercita personalmente o mediante assegnazione a uno o più magistrati dell'ufficio. L'assegnazione può riguardare la trattazione di uno o più procedimenti ovvero il compimento di singoli atti di essi”. Ed ancora: “con l'atto di assegnazione per la trattazione di un procedimento, il procuratore della Repubblica può stabilire i criteri ai quali il magistrato deve attenersi nell'esercizio della relativa attività. Se il magistrato non si attiene ai principi e criteri definiti in via generale o con l'assegnazione, ovvero insorge tra il magistrato ed il procuratore della Repubblica un contrasto circa le modalità di esercizio, il procuratore della Repubblica può, con provvedimento motivato, revocare l'assegnazione; entro dieci giorni dalla comunicazione della revoca, il magistrato può presentare osservazioni scritte al procuratore della Repubblica”.
La gerarchizzazione dell’ufficio del Pubblico Ministero che consegna al Procuratore la titolarità esclusiva dell’esercizio dell’azione penale delegabile al Sostituto, prevedendo principi e criteri generali, ovvero specifici sui singoli fatti, qualifica ulteriormente il ruolo di organo della giurisdizione del Pubblico Ministero, da un lato onerando il Procuratore dell’equilibrato esercizio del potere attribuito in via esclusiva dal legislatore e, d’altro canto, onorando il Sostituto di un controllo diffuso sulla correttezza dell’esercizio di tali attribuzioni che può – e deve – giungere ad estrinsecarsi in comunicazioni agli organi di autogoverno distrettuali, ai fini delle valutazioni e delle conferme degli incarichi, ovvero centrali, nei casi di contrasto insanabile che si riverbera proprio sull’esercizio della giurisdizione e che, inevitabilmente, non può che manifestarsi proprio in relazione alle vicende di maggiore criticità sociale e delicatezza investigativa.
3. Il ruolo lato sensu giurisdizionale del Pubblico Ministero sino all’esercizio dell’azione penale
Il Pubblico Ministero rappresenta il primo organo della giurisdizione. Le funzioni svolte ne sono – e ci si augura rimangano tali – espressione e su queste si fondano le competenze ed il modo d’agire. Tale assunto non è superato dall’ulteriore considerazione per cui i provvedimenti emessi difettano, tecnicamente e, nella mera accezione del potere di dirimere una controversia (iudicatio), di natura giurisdizionale[2].
Il Pubblico Ministero dirige le indagini (art. 327 c.p.p.), dispone l’iscrizione degli indagati individuando le ipotesi di reato per cui si procede (art. 335 c.p.p.), nel dirigere le indagini, svolge accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini (art. 358 c.p.p.), individuando gli strumenti di ricerca della prova più utili, anche se fortemente invasivi della sfera di esercizio dei diritti dei cittadini ed anche senza dover richiedere l’autorizzazione al G.I.P. (fra tutti le si pensa alle attività di perquisizione – art. 247 c.p.p. – atto di indagine estremamente gravoso per la sfera dei diritti chi lo subisce), all’esito, qualora non emergano i presupposti per la richiesta di archiviazione ed ascoltate le eventuali difese assunte a seguito dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, dovendo obbligatoriamente esercitare l’azione penale (art. 112 Cost.).
Solo allora inizierà un processo ed il Giudice potrà esercitare il proprio potere, tecnicamente, avente natura giurisdizionale.
Ma negare che quanto accade sino all’inizio del processo non sia esercizio di un potere lato sensu intriso di natura giurisdizionale (a partire dall’iscrizione della notizia di reato per arrivare alle valutazioni di cui all’art. 125 disp.att. c.p.p.) pare francamente riduttivo ed ancorato ad una concezione formalista della giurisdizione ancorata esclusivamente all’attività di iudicatio.
Un buon Pubblico Ministero, nella fase delle indagini, deve avere la scaltrezza dell’investigatore, nel rispetto, presupposto, della piena e corretta applicazione delle norme processuali. All’esito, il buon Pubblico Ministero assume la veste del giudicante; nella prospettiva dell’esito processuale, deve comprendere quando l’accusa è sostenibile in giudizio (art. 125 disp.att. c.p.p.) e procedere di conseguenza. A quel punto la strada è segnata, l’esercizio dell’azione penale è obbligatoria, quale sarà l’esito del dibattimento dovrà poi determinare le richieste conclusive; la richiesta assolutoria è evenienza frequente e, di certo, non distonica con l’esercizio dell’azione penale.
Questa, si ritiene, essere la funzione del Pubblico Ministero. Eventuali distorsioni nell’operato devono essere censurate nelle opportune sedi, in presenza dei relativi presupposti, ma non devono essere il pretesto per negare il fondamentale ruolo assunto dal magistrato del pubblico ministero, primo organo della giurisdizione, chiamato all’onerosa funzione di istruire un fatto e valutarne la penale rilevanza.
Sono molteplici le norme del codice di procedura penale ulteriormente esemplificative del ruolo del Pubblico Ministero nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali.
Si pensi al ruolo nella fase precautelare, alla possibilità di disporre l’immediata liberazione dell’arrestato o del fermato se la P.G. ha operato fuori dai casi previsti dalla legge o sono stati violati i requisiti temporali (art. 389 c.p.p.), ovvero se, in base al caso concreto, non vi siano i presupposti per richiedere l’applicazione di misure coercitive (art. 121 disp.att. c.p.p.).
Si pensi al fermo disposto dal Pubblico Ministero (art. 384 c.p.p.), ovvero alle attività di indagini che consentono al Pubblico Ministero di sostituire al provvedimento del GIP, la propria decretazione d’urgenza, quale attività di intercettazione d’urgenza: art. 267 comma 2 c.p.p., prelievi coattivi biologici d’urgenza art. 359 bis comma 2 c.p.p.
Si pensi, ancora, all’art. 655 c.p.p., norma cardine che attribuisce al Pubblico Ministero la titolarità dell’esecuzione dei provvedimenti. Detti provvedimenti, pur non avendo natura tecnicamente giurisdizionale[3], ne attribuiscono al magistrato del Pubblico Ministero, di fatto, una funzione alquanto prossima, a mente la discrezionalità richiesta in ordine alle concrete modalità esecutive – attuative (si pensi ad un ordine di sgombero, piuttosto che di demolizione di immobili).
Che quella del Pubblico Ministero sia una funzione giurisdizionale, incidentalmente, è una circostanza rimarcata anche in varie pronunce della Suprema Corte. Ad esempio, in tema di reati del consulente tecnico del P.M.: “E questa Sezione anche di recente ha avuto modo di sottolineare che il consulente tecnico del pubblico ministero, sia per l'investitura ricevuta dal magistrato, sia per lo svolgimento di un incarico ausiliario all'esercizio della funzione giurisdizionale, assume la qualifica di pubblico ufficiale, concorrendo oggettivamente all'esercizio della funzione giudiziaria (Sez. 5, n. 4729 del 10/12/2019, Moriani Stefano, Rv. 27855803; nello stesso senso, in epoca risalente, Sez. 6, n. 4062 del 07/01/1999, Pizzicaroli G, Rv. 21414201).”[4]
4. Separazione delle carriere
Negare il ruolo del Pubblico Ministero nell’esercizio della funzione giurisdizionale, peraltro, offre, come detto, un ulteriore spunto a chi postula la separazione delle carriere sulla scia del disegno di legge costituzionale presentato dall’Unione delle Camere Penali nel 2018 e che, periodicamente, torna in auge nel dibattito politico.
A parere di chi scrive, sono molteplici le ragioni di dissenso da tale tesi, ancora oggi sostenuta da chi vede nell’Ufficio del Pubblico Ministero una parte non imparziale che peraltro ha, dalla sua, strumenti d’indagine indebitamente più incisivi ed efficaci.
Innanzi tutto, una riforma che preveda la separazione delle carriere, affiancandovi la previsione di due CSM, l’eliminazione dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (o la previsione di altre forme di esercizio in capo ad altri soggetti), sino ad arrivare ad un controllo centralizzato, frutto di scelte di politica giudiziaria, sulle priorità di contrasto alla criminalità, innegabilmente priverebbe di contenuto la funzione giurisdizionale del Pubblico Ministero, la cui essenza si ritiene risedere proprio nell’indipendenza esterna (art. 104 Cost.) dal potere esecutivo.
Considerazione che, peraltro, risulta del tutto aderente alla giurisprudenza sovranazionale. A tal proposito, nella parte motiva di una recente pronuncia della Suprema Corte[5], si legge che: “In particolare, la Corte U.E. ha affermato che la nozione di «autorità giudiziaria emittente», ai sensi dell'articolo 6, par. 1, della decisione quadro 2002/584, che è una nozione autonoma del diritto dell'Unione europea, deve essere interpretata nel senso che essa non ricomprende le procure di uno Stato membro che siano esposte al rischio di essere soggette, direttamente o indirettamente, a ordini o a istruzioni individuali da parte del potere esecutivo, quale un Ministro della Giustizia, nell'ambito dell'adozione di una decisione relativa all'emissione di un mandato d'arresto europeo (GC, sent. 27/05/2019,C-508/18, OG, C-82/19, PI).”
Che la separazione delle carriere possa anticipare un controllo terzo sull’operato dell’organo inquirente non pare un’ipotesi remota e, già in passato, sostenuta proprio da chi postulava la necessità di una dicotomia fra le funzioni[6].
Ancora, c’è un primo innegabile argomento di fondo: l’inutilità sostanziale di tale riforma.
È fatto notorio come il passaggio di funzioni sia circostanza alquanto rara nella vita professionale di un magistrato. I casi sono pochi; da un lato per i noti “paletti geografici” che comportano cambiamenti personali significativi e, d’altro canto, per la difficoltà intrinseca, specie nel passaggio alle funzioni civili, che richiede un’integrale riconversione professionale.
Alla luce di queste considerazioni, pertanto, pare assolutamente suggestivo l’argomento di chi teme un rischio di parzialità del magistrato che muta funzioni, perché inquinato nel giudizio dalla pregressa esperienza professionale; l’ordinamento ha valutato l’evenienza e l’ha risolta prevedendo – ad avviso di chi scrive, peraltro, applicando un criterio alquanto precauzionale – la necessità di un allontanamento dal circondario (per le funzioni giudicanti civili) e, più frequentemente, dal distretto (per le funzioni giudicanti penali).
Ancora, nel postulare una riforma dell’ordinamento giudiziario che parta dalla separazione della carriere c’è chi ritiene[7], all’indomani del caso Palamara, che gli Uffici della Procura abbiano un “immenso, anomalo potere” ed ancora: “quanto l’apertura di una indagine, la semplice iscrizione nel registro degli indagati, una richiesta di misura cautelare bastino di per sé sole a determinare le sorti della vita istituzionale, politica ed economica del Paese, e quanto indifferente sia poi l’esito giudiziario di quelle indagini.
Si dissente, senza possibilità di composizione, con tale teorema ed in particolare, con le conclusioni che vi si vogliono associare.
Gli effetti pubblici correlati all’esercizio della funzione giurisdizionale del Pubblico Ministero sono innegabili, ma esulano dall’esercizio della giurisdizione e devono esulare dalla prospettazione del Pubblico Ministero sulle conseguenze del proprio operato.
L’applicazione di norme processuali e sostanziali correlate all’attività di indagine esclude finalità ulteriori a quelle dell’accertamento del reato per cui si procede.
Qualora nella pratica dovessero emergere anomalie nell’esercizio della funzione, le stesse devono essere valutate e, se del caso, sanzionate disciplinarmente o, in presenza dei relativi presupposti di legge, anche penalmente.
Non si può pensare di limitare l’esercizio della funzione a vicende di pacifico consenso pubblico (sulle quali è difficile che si manifesti un’opinione dissenziente rilevante) o che non toccano interessi lato sensu politici, sarebbe la prima negazione della separazione dei poteri, baluardo delle democrazie moderni.
Altro, naturalmente, sarebbe un utilizzo strumentale del potere nella fase delle indagini, in modo funzionale ad esigenze di natura politica; ma questa è la patologia e, ove la si ravvisa, ben venga la sanzione e la censura, in ogni sede deputata ad esprimersi, purché questa non sia, a sua volta, strumentale ad interessi di parte e fondata su pregiudizi di commentatori che, evidentemente, sono lontani anni luce dall’operato degli uffici del Pubblico Ministero e che utilizzano la forza della parola per attribuire ai magistrati ruoli e funzioni che, non solo non hanno, ma che nemmeno vogliono avere.
E non si taccia di ingenuità o di provincialismo. Si mira, probabilmente in maniera ardua, ad un confronto onesto, privo di strumentalizzazioni del pensiero.
Su tale questione si innesta, inevitabilmente, il tema centrale dei rapporti con l’informazione. Tema tanto centrale che, sul punto, il CSM ha dettato regole molto precise[8], funzionali ad evitare una sovraesposizione personale del magistrato e idonee a scongiurare il sorgere di individualismi. Tale normativa secondaria, peraltro, si colloca sulla scia della previsione particolarmente stringente di cui all’art. 5 del già citato d.lgs. 106/06[9]. Si contraddirà tale assunto sostenendo che sono sempre certi magistrati a balzare agli onori delle cronache; bene, evidentemente, si tratta dei rappresentati dell’Ufficio del Pubblico Ministero che hanno lavorato più alacremente, giungendo a toccare i gangli di delicati contesti sociali, ravvisando ipotesi di reato ed esercitando l’azione penale, obbligatoria.
Ancora, gli esiti processuali delle indagini.
Si contesta, da più parti, come le sentenze assolutorie siano la riprova dell’abuso dell’esercizio delle funzioni del Pubblico Ministero. Il sillogismo giudiziario è un percorso argomentativo incerto, non è un algoritmo. La struttura dei tre gradi di giudizio ne è la riprova. Gravi violazioni di legge possono rilevare disciplinarmente e, a parer di chi scrive, devono trovare spazio nel percorso delle valutazioni di professionalità, ove reiterate e sintomatiche di un giudizio, per l’appunto professionale, di non positività, nell’esercizio delle funzioni (considerazioni, evidentemente, valide anche per i magistrati giudicanti, fallibili come quelli requirenti).
Negare che la decisione del Giudice che si discosta dalle richieste del Pubblico Ministero sia un’evenienza connaturata all’essenza dell’accertamento giudiziale, significherebbe ritenere superflua ogni attività difensiva od ogni autonomia di giudizio, capisaldi del processo. A mo’ di provocazione, se il Pubblico Ministero avesse sempre compreso il fatto, individuandone, oltre ogni ragionevole dubbio, l’autore e sussumendo il fatto nella giusta norma violata, non vi sarebbe esigenza di un giudizio o di un patrocinatore che possa rilevare gli errori dell’organo requirente.
Peraltro, non si può non ravvisare la contraddittorietà dell’argomento logico che postula la separazione delle carriere, allorquando si rimarca come la stessa sia servente all’autonomia del Giudice dal Pubblico Ministero; pare impresa ardua trovare un magistrato che possa sostenere come il Giudice sia condizionato nell’operato dalle determinazioni assunte dal Pubblico Ministero.
La Giustizia non è un algoritmo a maggior ragione allorquando si tratta di processi tecnici, di contestazioni complesse. Se un furto è pacificamente commesso - o non commesso - dall’autore (ed anche qui entrano in gioco tante sfaccettature e variabili), un fatto corruttivo, tanto per citare i casi di maggiore polemica politica, può disperdersi nei rivoli di variabili inattese; così come lo può essere un complesso reato tributario, piuttosto che un fatto di fallimento, soffuso nel suo elemento soggettivo.
5. Conclusioni
Dall’interno, negare che il Pubblico Ministero sia un organo della giurisdizione è una visione che sconta una carenza di interpretazione sistematica. Il Pubblico Ministero è il dominus delle indagini preliminari. Gli esiti delle indagini preliminari sono il presupposto dell’esercizio della giurisdizione. Ogni atto del Pubblico Ministero è un atto di giurisdizione funzionale alla celebrazione del processo, dove al giudicante spetta inoltre l’onere del giudizio (iudicatio). L’operato del Pubblico Ministero si colloca ed è intriso della sua natura giurisdizionale; è sì una parte, ma, per tornare all’incipit di questa breve riflessione, una parte imparziale che lavora non già per un esito predeterminato da perseguire con ogni tipologia di accertamento investigativo, ovvero di costruzione giuridica accusatoria, ma per giungere ad un accertamento che priva di discrezionalità la successiva scelta in ordine all’esercizio dell’azione penale. E nel processo prosegue analogamente, contribuendo a formare la prova ed all’esito determinatosi nelle richieste definitorie.
Dall’esterno, negare che il Pubblico Ministero sia un organo della giurisdizione equivale a dare un assist a chi, periodicamente, riporta il dibattito verso la separazione delle carriere; opzione ordinamentale da cui si rifugge, alla luce delle argomentazioni sopra spese. Ogni magistrato del Pubblico Ministero deve rispondere soltanto alla legge e non può, in alcun modo, essere condizionato nel suo operato da imposizioni interne, ovvero da criteri direttivi centralizzati esterni che determinano, magari sulla scorta del pensiero dominante del momento, le priorità da seguire nel contrasto alla criminalità.
[1] CALAMANDREI P., “Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Ed. Ponte alle Grazie, p. 56:
[2] ad esempio, in materia d’esecuzione, Sez. 1, Sentenza n. 26321 del 27/05/2019 Cc. (dep. 14/06/2019) Rv. 276488;
[3] in parte motiva, recentissima Sez. 3, Sentenza n. 1300 del 13/11/2020 Cc. (dep. 14/01/2021) Rv. 280272
[4] Sez. 5, Sentenza n. 18521 del 13/01/2020 Ud. (dep. 18/06/2020) Rv. 279046
[5] Sez. 6, Sentenza n. 15922 del 21/05/2020 Cc. (dep. 26/05/2020) Rv. 278934
[6] COMITATO SISTEMA DELLE GARANZIE, SEDUTA DI MARTEDÌ 22 APRILE 1997: “Il senatore Marcello PERA … Propone pertanto di far seguire al comma 1 del nuovo articolo 101 un ulteriore comma che reciti: "La magistratura è distinta in magistratura giudicante e magistratura requirente". Si dichiara poi d'accordo sul principio secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge, rilevando che presenterebbe inconvenienti il riferirlo anche alla magistratura requirente. Accanto all'autonomia e all'indipendenza dei magistrati infatti vi è anche l'esigenza di individuare i responsabili della politica giudiziaria e di contrasto alla criminalità, per evitare la polverizzazione delle funzioni dei pubblici ministeri e l'eccesso di protagonismo di alcuni soggetti. Occorre pertanto prevedere che i magistrati requirenti siano soggetti alla legge ma anche alle necessarie forme di coordinamento all'interno del singolo ufficio del pubblico ministero e fra i vari uffici del pubblico ministero stesso.” In https://www.camera.it/parlam/bicam/rifcost/comitati/sg0422rs.htm;
[7] https://www.camerepenali.it/cat/10516/un_pm_indipendente_dalla_politica,_un_giudice_indipendente_dal_pm.html
[8] Si rimanda alla circolare del CSM su “Linee guida per gli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale” del 13/7/18;
[9] 1. Il procuratore della Repubblica mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell'ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione. 2. Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all'ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento. 3. È fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell'ufficio. 4. Il procuratore della Repubblica ha l'obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l'esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell'azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma 3.
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