ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Parthenope
Perla di mare e fiamma di vulcano, Napoli si sveste e si riveste d’incanto e d’obbrobrio allo sguardo di un occhio galleggiante tra acqua di sale e sangue, che scruta con scandaglio estetico e fuori da ogni spoglio morale le incrostazioni antropologiche di un popolo frastagliato di identità e diversità, tradizione e trasgressione, godimento e afflizione. E se, come si dice, è vero che ogni singolo napoletano come la geometria dei frattali replica allo stesso modo su scala diversa l’originale complessivo di cui è parte, incarnando ciascuno un’icona del tutto, è anche vero che Parthenope, col suo mito universale di bellezza e seduzione, è la migliore candidata a rappresentarne l’archetipo più espressivo, l’emblema sinottico, il florilegio di vizi e virtù in cui l’intera città si rispecchia con l’orgoglio di rivedersi ogni volta così mutante e così uguale.
La rassegna dei suoi simboli diventa allora la vera trama di un film incarnato da una Parthenope ricomposta in un prodotto di sfolgorante ma sfuggente bellezza e di assoluta inafferrabilità.
Dal grande armatore all’oro e al sangue di San Gennaro, dal divismo estenuato e polemico dell’attrice napoletana emigrata al nord al rigido contesto universitario e fino ai rituali di superstizione e di camorra, è proprio tra aristocratiche sontuosità, isole del bel mondo e caverne suburbane che si snoda l’itinerario antropologico in cui si muove l’occhio curioso di Sorrentino in cerca di risposte a domande che non sa fare, ma che sente impellenti; quesiti che puntualmente ricorrono come incubi di un irrisolto rapporto con la città natale, come un intimo grumo ossessivo non si sa se sedotto dal mistero o abbindolato dalla truffa di un popolo che sopravvive illeso; e tuttavia immenso come il suo mare e carico di fascino come il suo vulcano quiescente.
“Com’è enorme la vita, ci si perde dappertutto” recita Céline in esordio al film; ed è proprio questa enormità che deve indurci a “vederla” la vita e non a giudicarla; questi i termini del sintomatico patto siglato da Parthenope e dal prof. Marotta, che li condurrà ad un idillio professionale foriero di successo per la donna. La medesima enormità del mostro umano generato dall’accademico, da questi poi mostrato a Parthenope, che col suo sorriso beffardo, candido e non sofferente riassume dall’inizio alla fine l’orrenda grandiosità di una Napoli opaca e indimenticata.
Il vigore espressivo del film, superbamente sostenuto nel suo contorno recitativo da un Silvio Orlando assolutamente perfetto e da maschere vibranti di solida teatralità, impersonate da Luisa Ranieri (Greta Cool), Isabella Ferrari (Flora Malva) e Peppe Lanzetta (il vescovo Tesorone), emerge in tutta la sua forza estetica nel debutto della sfavillante Celeste Della Porta (Parthenope giovane) e in una sempre efficace Stefania Sandrelli (Parthenope adulta), ma risalta alla pari da una felice e coerente scelta musicale, non a caso incentrata sulla splendida “Era già tutto previsto” di Cocciante e ancor di più nel battito sincrono ed ossessivo dell’iniziale Exodus (Excerpt No. 1) della Polish Radio National Symphony Orchestra, sinonimo timbrico della fobica pulsazione di vitalità di una città comunque eterna.
Le conseguenze per le giurisdizioni nazionali della recente riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea
di Massimo Francesco Orzan
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le principali novità apportate dalla recente riforma dello statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea. – 3. Il trasferimento della competenza pregiudiziale in alcune materie dalla Corte al Tribunale. – 3.1. I meccanismi preposti al controllo della corretta applicazione del trasferimento. – 3.1.1. Il controllo ex ante: lo sportello unico. – 3.1.2. Il controllo in itinere: il rinvio di una domanda pregiudiziale dal Tribunale alla Corte – 3.1.3. Il controllo ex post: la procedura di riesame. – 3.2. La specializzazione del Tribunale in materia pregiudiziale. – 4. Osservazioni conclusive.
1. Introduzione.
Con il regolamento (UE, Euratom) 2024/2019 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 aprile 2024 che modifica il protocollo n. 3 sullo statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea[1] (reg. 2024/2019) è stata approvata una riforma particolarmente significativa di questa Istituzione (CGUE), che è entrata in vigore il 1° settembre 2024[2]. Parallelamente all’approvazione di questa modifica, la Corte di giustizia (Corte) e il Tribunale dell’Unione europea (Tribunale) hanno emendato i propri regolamenti di procedura (di seguito, rispettivamente, RP Corte[3] e RP Trib.[4]) nonchè le proprie norme pratiche di esecuzione[5], in larga misura per dotarsi della normativa di dettaglio necessaria per garantirne la corretta attuazione[6]. Inoltre, la Corte ha aggiornato le proprie Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale[7]. Il RP Corte è entrato in vigore il 1° ottobre 2024[8], mentre quello del Tribunale il 1° novembre 2024[9].
Nel presente contributo, dopo avere brevemente illustrato i tratti essenziali di questa riforma, l’attenzione si concentrerà sull’aspetto indubbiamente più rilevante relativo al trasferimento della competenza pregiudiziale in alcune materie dalla Corte al Tribunale, aspetto che modifica la relazione tra le due giurisdizioni del Kirchberg ed è sucettibile di incidere sull’attività delle giurisdizioni nazionali. Seguono alcune considerazioni conclusive, che cercano di delineare i possibili scenari di sviluppo futuro della CGUE.
2. Le principali novità apportate dalla recente riforma dello statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea.
La recente riforma dello statuto della CGUE è il risultato di una procedura avviata dalla Corte il 22 ottobre 2022 conformemente all’art. 281 TFUE, attraverso la presentazione di una domanda volta alla modifica dello Statuto della CGUE. Giustificata largamente, come nelle precedenti occasioni, dalla necessità di fare fronte a un aumento costante del carico di lavoro dell’Istituzione[10], in questo caso particolare quello della Corte[11], ma anche dalla volontà di sfruttare al meglio le potenzialità del Tribunale a seguito del raddoppio dei suoi membri[12], in tale domanda, la Corte proponeva di trasferire la competenza a conoscere le domande pregiudiziali in alcune materie al Tribunale e di estendere il meccanismo di ammissione preventiva delle impugnazioni, in vigore dal 1° maggio 2019 (il meccanismo di filtro)[13], previsto per alcune categorie di decisioni del Tribunale a talune altre[14]. Nel corso della discussione interistituzionale che ne è scaturita, a queste proposte se ne sono aggiunte altre riguardanti l’estensione, sottoposta a certe condizioni, del novero delle Istituzioni titolari del diritto di depositare memorie od osservazioni nell’ambito della procedura pregiudiziale ai sensi dell’art. 23 statuto[15], il regime della pubblicità delle memorie o delle osservazioni depositate in tale ambito nonché il coinvolgimento preventivo della società civile in vista di futuri interventi sullo statuto attraverso una consultazione pubblica, precedente all’adozione da parte della Corte di una domanda legislativa.
All’esito dell’iter approvativo, tanto le proposte della Corte che quelle sorte nel corso del dibattito interistituzionale che ne è seguito sono confluite, con alcune modifiche, nel reg. 2024/2019.
Per quanto riguarda il trasferimento di alcune domande pregiudiziali al Tribunale, in primo luogo, è stato convenuto l’inserimento dell’art. 49 bis statuto consacrato alla disciplina della designazione dell’Avvocato generale dinanzi a questa giurisdizione[16]. In secondo luogo, l’art. 50 statuto è stato modificato con la sostituzione dei 2° e 3° commi e l’aggiunta, rispetto alla proposta della Corte, di un 4° comma[17]. Peraltro, va rilevato che in questo contesto è stata decisa la creazione di una nuova sezione, la Sezione Intermedia, che in realtà sarà una formazione dei collegi del Tribunale non solo nell’ambito delle domande pregiudiziali ma anche nel contenzioso diretto[18]. In terzo luogo, è stato inserito l’art. 50 ter, il quale identifica le materie trasferite dalla Corte al Tribunale, che sono le seguenti: il sistema comune di imposta sul valore aggiunto, i diritti di accisa, il codice doganale, la classificazione tariffaria delle merci nella nomenclatura combinata, la compensazione pecuniaria e l’assistenza dei passeggeri e il sistema di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra[19].
L’articolo in parola ruota intorno ad alcuni principi fondamentali. Da un lato, il Tribunale è competente a conoscere le domande pregiudiziali che rientrano esclusivamente in una o più delle sei materie sopraccitate. Dall’altro, il trasferimento è escluso nell’ipotesi di domande che, pur riconducibili a siffatte materie, sollevano questioni indipendenti relative al diritto primario, al diritto internazionale pubblico, ai principi generali del diritto dell’Unione o alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CdfUE)[20]. La determinazione della trasferibilità o meno di una domanda rientrante in una di queste materie è rimessa dall’art. 50 ter, 3° c. statuto, a un meccanismo di contollo ex ante, il cd. sportello unico, esaminato nel par. 3.1. del presente contributo. Infine, il 4° comma di tale articolo impone al Tribunale la specializzazione in materia pregiudiziale, così da assicurare alle domande rivolte dalle giurisdizioni nazionali, lo stesso trattamento previsto dinanzi alla Corte, come si avrà modo di illustare nel par. 3.2. In quarto luogo, è stata introdotta una modifica all’art. 54 statuto, al fine di estendere alle domande pregiudiziali la logica soggiacente il rinvio tra Corte e Tribunale previsto da detto articolo per i ricorsi diretti[21].
Per quanto riguarda l’estensione del meccanismo di filtro la domanda della Corte relativa all’art. 58 bis statuto è stata sostanzialmente accolta, salvo modifiche testuali minori[22]. È utile osservare che questa modifica non è priva di importanza rispetto ai possibili sviluppi della CGUE. In particolare, al di là dell’estensione a tutte le commissioni di ricorso del meccanismo di filtro, l’inclusione delle pronunce rese dal Tribunale nei ricorsi introdotti sulla base di una clausola compromissoria conformemente all’art. 272 TFUE costituisce un passaggio particolarmente rilevante. In effetti, è opportuno ricordare che la creazione del meccanismo del filtro era stata sostanzialmente giustificata dal fatto che esso avrebbe riguardato contenziosi in cui esistevano meccanismi di revisione previsti a livello delle agenzie dell’Unione, che potevano ammettere che fosse il solo Tribunale a conoscere il ricorso avverso una decisione adottata da tali agenzie all’esito di una procedura complessa. Ora, se è vero che nella domanda legislativa la Corte ha spiegato le ragioni per estendere il meccanismo del filtro alle pronunce rese dal Tribunale nei ricorsi introdotti sulla base dell’art. 272 TFUE[23], resta il fatto che per la prima volta tale meccanismo si applica a un ricorso diretto, che non presenta le specificità di quello originato dalle decisioni delle commissioni di ricorso[24]. In definitiva, il contenzioso fondato su una clausola compromissoria potrebbe essere un’“apripista” per altre categorie di ricorsi diretti in futuro.
Per quanto riguarda il novero delle Istituzioni competenti a depositare memorie od osservazioni nell’ambito di una domanda pregiudiziale, l’art. 23 statuto è stato modificato, riconoscendo tale possibilità al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Banca centrale, i quali potranno depositarle nel caso in cui considerino di avere un “particolare interesse” rispetto alla suddetta domanda[25].
Con riferimento al regime di pubblicità degli atti processuali, contariamente alla proposta iniziale del Parlamento europeo[26], esso è stata ridimensionato e riformulato. Da un lato, tale regime è stato circoscritto alle sole domande pregiudiziali e, dall’altro, l’art. 23, 4° c., statuto prevede, diversamente da quanto proposto del Parlamento europeo, non un diritto di domandare l’accesso alle memorie o osservazioni, ma un obbligo in capo alla Corte e al Tribunale di pubblicarle sul sito della CGUE, entro un termine ragionevole dalla pronuncia della sentenza, salvo opposizione dei loro autori[27].
Infine, con riguardo alla partecipazione della società civile rispetto a future modifiche dello statuto della CGUE, è stato introdotto l’art. 62 quinquies statuto, il quale stabilisce che «[p]rima di presentare una domanda o una proposta di modifica del presente statuto, la Corte di giustizia o, se del caso, la Commissione procede ad ampie consultazioni”. Questo vuol dire che per l’avvenire, eventuali interventi sullo statuto dovranno essere proposti coinvolgendo preliminarmente soggetti esterni per rafforzare la trasparenza e l’apertura del processo giudiziario.
3. Il trasferimento della competenza pregiudiziale in alcune materie dalla Corte al Tribunale
Dopo avere delineato le diverse modifiche statutarie introdotte dal reg. 2024/2019, è ora opportuno approfondire quella relativa al traferimento delle competenze pregiudiziali in alcune materie dalla Corte al Tribunale. Questo trasferimento costituisce un passaggio di rilevanza epocale, tenuto conto della funzione fondamentale assolta dal meccanismo pregiudiziale nel processo di integrazione[28]. In una prima parte del paragrafo, sono illustrati i meccanismi previsti per garantire il corretto riparto di competenze tra Corte e Tribunale. In una seconda parte, sono esaminate le norme di cui il Tribunale si è dotato per assicurare che le domande pregiudiziali trasferite dalla Corte siano trattate alle stesse condizioni garantite da quest’ultima. Questa scelta metodologica riposa sulla convinzione della necessità di mettere in evidenza le modifiche dello statuto che più sono suscettibili di avere un impatto sull’attività dei giudici nazionali, i quali svolgono dagli albori del processo d’integrazione un ruolo centrale per il suo corretto funzionamento.
3.1. I meccanismi preposti al controllo della corretta applicazione del trasferimento.
La corretta attuazione della riforma è ancorata a tre meccanismi di controllo, che operano ex ante, il sopraccitato sportello unico, in itinere, attraverso la possibilità riconosciuta al Tribunale di rinviare alla Corte una domanda pregiudiziale nell’ipotesi in cui essa sollevi una questione che richiede una decisione di principio suscettibile di compromettere l’unità e la coerenza del diritto dell’Unione europea, ed ex post, per mezzo della facoltà accordata alla Corte di riesaminare le decisioni rese dal Tribunale. Il primo meccanismo è stato introdotto con il reg. 2014/2019, il secondo e il terzo, invece, erano già previsti nel diritto primario dal Trattato di Nizza, che aveva prefigurato la possibilità che il Tribunale fosse competente a conoscere le domande pregiudiziali.
3.1.1. Il controllo ex ante: lo sportello unico.
Lo sportello unico, il meccanismo, prefigurato in termini generali all’art. 50 ter, 3° c., statuto, trova la sua disciplina di dettaglio all’art. 93 bis RP Corte. Tale articolo prevede che una domanda pregiudiziale sia immediatamente trasmessa dal cancelliere al presidente, al vicepresidente e al primo avvocato generale, ipotizzando due scenari: il primo, nel quale, sentiti il vicepresidente e il primo avvocato generale, il presidente conclude che la domanda pregiudiziale riguarda esclusivamente una delle sei materie individuate all’art. 50 ter, 1° c., statuto e quindi ne informa la cancelleria perché la trasferisca al Tribunale; il secondo, nel quale, sentiti gli altri due membri, il presidente può ritenere che la domanda pregiudiziale riguardi anche altre materie o sollevi questioni indipendenti di interpretazione del diritto primario, del diritto internazionale pubblico, dei principi generali del diritto dell’Unione o della CdfUE. In questa ipotesi, senza indugio, il presidente deferisce la questione alla Riunione Generale. Se quest’ultima conferma l’impressione del presidente, la domanda è trattata dalla Corte, in caso contrario, essa è trasmessa al Tribunale. L’articolo precisa poi che in caso di trasferimento al Tribunale, la cancelleria della Corte informa il giudice del rinvio della decisione.
Rispetto allo sportello unico, disciplinato dall’art. 93 bis RP Corte, il cui fondamento[29] e composizione[30] non ha mancato di alimentare il dibattito della dottrina, due questioni meritano in questa sede di essere esaminate relative alle modalità concrete delle sue valutazioni e alla percezione che le giurisdizioni nazionali potrebbero avere del suo funzionamento.
In primo luogo, è lecito interrogarsi sulle modalità concrete della valutazione che lo sportello unico è chiamato a svolgere. Innanzitutto, va rilevato che l’art. 50 ter statuto individua due criteri: un primo, oggettivo, desumibile dal 1° comma – in virtù del quale solo le domande che rientrano nelle sei materie enumerate nell’articolo in parola possono essere trasferite, con la conseguenza che devono essere trattenute quelle che riguardano anche altre materie – e, un secondo, previsto al 2° comma dello stesso articolo, che può prestarsi a valutazioni più ampie nell’ambito del meccanismo di trasferimento, in base al quale non possono essere trasferite domande che rilevino del diritto primario, del diritto internazionale pubblico, dei principi generali del diritto dell’Unione o della CdfUE.
Il primo criterio non dovrebbe sollevare particolari difficoltà interpretative. Una domanda pregiudiziale che, esulando dal perimentro delle sei materie sopraccitate, sconfini in altre materie, che restano di competenza della Corte, non deve essere trasferita. Il secondo criterio, invece, potrebbe risultare più problematico, poiché al netto di riferimenti al diritto primario, al diritto internazionale pubblico, ai principi generali del diritto dell’Unione o alla CdfUE, effettuati dal giudice a quo, il meccanismo di cui all’art. 94 bis RP Corte dovrebbe valutarne l’effettiva pertinenza per la soluzione del quesito pregiudiziale rivolto alla Corte. In termini generali, e per non pregiudicare l’obiettivo della riforma stessa, sarebbe auspicabile che la Corte effettuasse un’interpretazione che, nel rispetto del dettato statutario, garantisca il trasferimento del maggior numero di domande al Tribunale.
Ad ogni buon conto, le prime risposte a questo profilo potenzialmente problematico dovrebbero aversi entro un anno dall’entrata in vigore della riforma, tenuto conto che l’art. 3, par. 1, reg. 2024/2019 prevede che, a partire da tale termine, la Corte pubblicherà e aggiornerà un elenco di esempi relativi all’applicazione dell’applicazione dell’art. 50 ter statuto. Queste pubblicazioni consentiranno quindi di avere un riscontro sul funzionamento dello sportello unico.
In secondo luogo, l’analisi dello sportello unico consente di svolgere qualche considerazione su una problematica individuata dalla dottrina legata alla possibile “reazione” delle giurisdizioni nazionali rispetto al meccanismo in parola. In effetti, alcuni autori hanno osservato che il trasferimento delle domande dalla Corte al Tribunale potrebbe essere percepito dalla giurisdizione remittente come, in sostanza, un declassamento del rilievo del suo quesito, che avrebbe per effetto di disincentivare il ricorso a questo strumento vitale per l’ordinamento giuridico dell’Unione[31]. Ora, benchè la questione non sia stricto sensu giuridica, è innegabile che essa non sia priva di interesse. In proposito, solo la prassi potrà chiarire se, in concreto, il timore si rivelerà fondato o meno. Resta il fatto che nella valutazione effettuata dal giudice a quo sull’opportunità di rivolgersi a quelli del Kirchberg non dovrebbero rilevare considerazioni extra‑giuridiche, nella misura in cui il rinvio pregiudiziale risponde alla necessità di ottenere una risposta per la soluzione concreta di una causa pendente[32]. Peraltro, non va dimenticato che tutte le giurisdizioni sono tenute ad agire nel rispetto del principio di leale cooperazione, con la conseguenza che il sottrarsi a questo esercizio di diaologo in ragione della pretesa mancanza di attrattività di un rinvio pregiudiziale trasmesso al Tribunale non sarebbe conforme agli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione[33]. Inoltre, la capacità predittiva della giurisdizione remittente circa la decisione della Corte di trasferire o meno la domanda pregiudiziale al Tribunale va relativizzata. Infatti, se è vero che il criterio desumibile dall’art. 50 ter, 1° c., statuto – in virtù del quale solo le domande che rientrano nelle sei materie enumerate nell’articolo in parola possono essere trasferite, con la conseguenza che devono essere trattenute quelle che riguardano anche altre materie – è oggettivo, quello previsto al 2° comma dello stesso articolo – in base al quale non possono essere trasferite domande che rilevino del diritto primario, del diritto internazionale pubblico, dei principi generali del diritto dell’Unione o della CdfUE – può prestarsi a valutazioni più ampie nell’ambito del meccanismo di trasferimento. In definitiva, rispetto a questo secondo criterio, il giudice a quo, che decidesse di rivolgere un quesito pregiudiziale alla Corte non saprà necessariamente quale giurisdizione lo tratterà, con la conseguenza che i timori espressi potrebbero risultare in concreto infondati.
Ad ogni buon conto, al netto delle due questioni appena esaminate, è auspicabile che lo sportello unico possa funzionare con una certa celerità. In effetti, chi scrive è dell’avviso che per essere considerato soddisfacente, esso dovrebbe essere capace di garantire il trasferimento della domanda pregiudiziale non più tardi entro un mese dal suo deposito presso la cancelleria della Corte.
3.1.2. Il controllo in itinere: il rinvio di una domanda pregiudiziale dal Tribunale alla Corte.
Per quanto riguarda il meccanismo di controllo in itinere, esso trova fondamento all’art. 256, par. 3, seconda frase, TFUE, il quale dispone che «[i]l Tribunale, ove ritenga che la causa richieda una decisione di principio che potrebbe compromettere l'unità o la coerenza del diritto dell’Unione, può rinviare la causa dinanzi alla Corte di giustizia affinché si pronunci” Anche in questo caso, questa previsione di carattere generale è dettagliata all’art. 207 RP Trib., dedicato ai Rinvii dinanzi alla Corte[34] e, segnatamente ai parr. 3 e 4 di tale articolo, dai quali si evince che, la sezione investita della causa, in qualsiasi momento del procedimento, e il presidente o il vicepresidente[35], sentito l’avvocato generale, possono proporre alla Conferenza Plenaria il rinvio previsto dall’art. 256, par. 3, seconda frase, TFUE, che decide, se rinviarla alla Corte. In proposito, è interessante rilevare che tanto l’art. 256, par. 3, seconda frase, TFUE che l’art. 207, par. 3, RP Trib. sembrano conferire alla Conferenza Plenaria una semplice facoltà di rinviare la causa alla Corte[36]. In realtà, se la Conferenza Plenaria dispone di un’assoluta discrezionalità nel valutare se le condizioni individuate all’art. 256, par. 3, seconda frase, TFUE sono soddisfatte, qualora concluda in tal senso, malgrado il fatto che l’articolo in parola si limiti a prevedere la facoltà di trasferire la causa alla Corte, il rinvio a quest’ultima appare essere la soluzione più coerente con l’impianto complessivo della riforma.
3.1.3. Il controllo ex post: la procedura di riesame.
Infine, il controllo ex post sulle decisioni che il Tribunale renderà nell’ambito delle domande pregiudiziali trasferitegli si realizza attraverso la procedura di riesame. In proposito, è utile ricordare che il RP Corte già prevedeva un titolo, il Sesto, relativo a questo rimedio eccezionale che, fino alla dissoluzione del Tribunale della funzione pubblica (TFP) trovava applicazione nell’ipotesi di pronunce del Tribunale rese nell’ambito dell’impugnazione avverso le decisioni adottate da questa giurisdizione specializzata, conformemente all’art. 193 RP Corte[37]. L’ipotesi di riesame di una decisione resa dal Tribunale era (e resta), invece, disciplinata all’art. 194 RP Corte[38].
Malgrado la disciplina del riesame delle pronunce pregiudiziali fosse già contemplata nel RP Corte, la Corte ha ritenuto necessario apportare un’integrazione, inserendo l’art. 193 bis, consacrato all’Assenza di una proposta di riesame. La disposizione in parola prevede che allo scadere del mese previsto dall’art. 62, 2° c., statuto, se il Primo avvocato generale non formula alcuna proposta di riesame, il cancelliere ne informa immediatamente il Tribunale, che a sua volta lo comunica al giudice del rinvio e agli interessati menzionati dall’art. 23 statuto. Questa precisazione risponde ad esigenze di celerità e di buona amministrazione della giustizia, poiché le decisioni rese dal Tribunale spiegano i loro effetti solo alla scadenza del termine contenuto all’art. 62, 2° c., statuto, con la conseguenza che appare utile informare il prima possibile le parti dinanzi al Tribunale del carattere assunto dalla decisione adottata da quest’ultimo. Su questo aspetto, si ritornerà in conclusione del presente paragrafo.
A parte l’inserimento di questa disposizione integrativa, due aspetti del riesame nell’ambito del rinvio pregiudiziale meritano di essere segnalati. Innanzitutto, a differenza del riesame di una decisione del Tribunale in qualità di giudice delle impugnazioni avverso una pronuncia del TFP, in cui, dopo avere annullato siffatta decisione, la Corte poteva decidere di rinviare la causa al Tribunale, in materia pregiudiziale, per espressa previsione dell’art. 62 ter, 2° c., statuto, il procedimento si conclude con la sentenza della Corte che si sostituisce a quella del Tribunale. La ratio di questa differenza è senza dubbio da ricercare nella diversa natura del rinvio pregiudiziale rispetto ai ricorsi diretti, che si riverbera sul riesame. Nella prima ipotesi, la Corte sarà chiamata a “correggere” la decisione del Tribunale e, per evitare di contribuire all’eccessivo allungamento della procedura dinanzi al giudice a quo, si pronuncerà direttamente sulla domanda rivolta da quest’ultimo. Nella seconda ipotesi, invece, la Corte interveniva annullando una sentenza resa dal Tribunale in qualità di giudice delle impugnazioni, con la conseguenza che, nella logica del ricorso diretto in cui tale annullamento si inseriva, era naturale che essa rinviasse la causa al Tribunale perché la risolvesse, applicando i principi stabiliti nel riesame.
Inoltre, sarà interessante valutare l’approccio che la Corte adotterà rispetto alla proposta del Primo Avvocato generale di avviare la procedura di riesame in presenza di «rischi per la coerenza e l’unità del diritto dell’Unione europea». Alcuni elementi di comparazione esistono. In primo luogo, con riguardo al riesame delle decisioni del Tribunale adottate da quest’ultimo in qualità di giudice delle impugnazioni, in una decisione di principio, Petrilli c. Commissione, la Corte aveva definito in termini piuttosto restrittivi i limiti del proprio intervento rispetto alle pronunce del Tribunale[39]. In secondo luogo, sebbene con le cautele dovute in ragione della diversa natura del procedimento che si instaura, qualche spunto può essere offerto anche dalla prassi relativa al meccanismo di filtro, nell’ambito del quale l’impugnazione è ammessa se «solleva una questione importante per l’unità, la coerenza o lo sviluppo del diritto dell’Unione»[40]. Malgrado questi possibili elementi di comparazione, è lecito supporre che, tenendo conto della funzione del rinvio pregiudiziale[41], la Corte valuterà con una particolare attenzione eventuali proposte di riesame del Primo avvocato generale. In effetti, a differenza del riesame delle decisioni rese dal Tribunale avverso pronunce adottate dal TFP e dell’ammissione preventiva delle impugnazioni che rilevano del contenzioso diretto, nel caso di una sentenza pregiudiziale, a causa degli effetti da essa prodotti[42], si impone all’evidenza la necessità di intervenire per evitare che “circolino” nell’ordinamento giuridico dell’Unione decisioni suscettibili di arrecare pregiudizio alla coerenza e unità di tale ordinamento[43].
L’analisi di questi tre meccanismi consente di svolgere alcune considerazioni sulla potenziale incidenza che essi avranno sui giudici nazionali. Per quanto riguarda il primo meccanismo, è utile osservare che per il giudice a quo, nulla cambia in termini procedurali. In effetti, la domanda pregiudiziale continua a essere depositata presso la cancelleria della Corte. Nondimeno, lo sportello unico non può essere considerato neutro, nella misura in cui dalla valutazione che esso effettuerà, dipenderà la determinazione della giurisdizione competente a trattare la domanda.
Lo stesso può dirsi, in sostanza, per il secondo meccanismo, poiché l’iniziale attribuzione di una domanda pregiudiziale al Tribunale può essere rimessa in discussione da quest’ultimo, qualora le condizioni previste dall’art. 256, par. 3, seconda frase, TFUE risultino soddisfatte.
Infine, è sicuramente il terzo meccanismo consistente nella procedura di riesame a essere potenzialmente lo strumento suscettibile di impattare maggiormente sul giudice del rinvio. Quest’ultimo, che al momento della pronuncia di una sentenza pregiudiziale resa dalla Corte, può immediatamente applicarne gli insegnamenti al giudizio pendente, dovrà “famigliarizzare” con una situazione nuova. La sentenza del Tribunale, infatti, come già sopraosservato non produce effetti immediatamente. Il giudice nazionale dovrà quindi attendere la reazione del Primo Avvocato Generale. Qualora quest’ultimo decida di non proporre il riesame, la sentenza del Tribunale potrà spiegare i suoi effetti. Nel caso in cui il Primo avvocato generale proponga il riesame, sarà necessario attendere la decisione della Corte. Se ques’ultima dovesse decidere di riesaminare la decisione, il giudice nazionale dovrà attendere la conclusione di tale procedimento. In proposito, va peraltro ricordato che dall’art. 194 RP Corte si evince che nel caso in cui il Tribunale abbia fornito più risposte, il riesame può vertere solo su alcune di esse. Se poi, all’esito del riesame, integrale o parziale della decisione del Tribunale, la Corte dovesse concludere che essa pregiudica l’unità o la coerenza dell’Unione europea, la soluzione formulata dalla Corte in merito alle questioni oggetto di riesame si sostituirà a quella del Tribunale.
3.2. La specializzazione del Tribunale in materia pregiudiziale.
Un altro asse fondamentale della riforma relativa al trasferimento della competenza pregiudiziale in alcune materie dalla Corte al Tribunale riguarda la garanzia che dinanzi a quest’ultimo le questioni sollevate dai giudici nazionali ottengano lo stesso trattamento di quello offerto davanti alla Corte. Questa necessità, fin dall’inizio considerata imprescndibile dalla Corte nella sua proposta, è stata accolta favorevolmente[44]. Per raggiungere questo obiettivo di « specularità » sono state apportate una serie di modifiche statutarie, da un lato, al fine di dotare il Tribunale della figura dell’Avvocato generale per default nell’ambito dei procedimenti pregiudiziali, visto che tale figura dinanzi a questa giurisdizione è prevista solo come facoltativa nei ricorsi diretti, attraverso l’inserimento dell’art. 49 bis statuto. Tale articolo prevede che, in primo luogo, un giudice può essere eletto A.G. le per un periodo di tre anni, rinnovabile una sola volta, e, in secondo luogo, nel corso del suo mandato di A.G., questo giudice continua a partecipare ai collegi giudicanti nel contenzioso diretto della sezione di appartenenza, ma non può integrare i collegi competenti a decidere le domande pregiudiziali. Dall’altro, il già citato art. 50 ter, 4° c., statuto impone l’obbligo in capo al Tribunale di dotarsi di sezioni specializzate per il trattamento delle domande pregiudiziali, disponendo che «[tali domande] di cui il Tribunale conosce ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea sono attribuite a sezioni designate a tale scopo secondo le modalità previste nel suo regolamento di procedura».
Queste due modifiche hanno naturalmente necessitato un intervento significativo sul RP Trib. in precedenza in vigore del quale si da conto di seguito, dopo avere offerto qualche elemento di comprensione quanto al tema della specializzazione del Tribunale.
In proposito, è utile ricordare che la specializzazione non è una novità per il Tribunale[45]. In effetti, oltre ad alcune esperienze pregresse[46], dal 2019, data di conclusione della riforma che ha visto il raddoppio dei suoi membri e la dissoluzione del TFP, il Tribunale è composto da dieci sezioni, di cui sei specializzate in proprietà intellettuale e quattro in funzione pubblica[47]. Questa specializzazione trova fondamento nell’art. 25, par. 1, seconda frase, RP Trib.[48], una norma abilitante, che consente al Tribunale di decidere se e come specializzarsi in determinate materie. Diversamente, in ossequio alla previsione contenuta all’art. 50 ter, 4° c., statuto, l’art. 25, par. 2, terza frase, RP Trib.[49] impone, come appena evidenziato, la specializzazione in materia pregiudiziale come un obbligo e non come una facoltà.
Per quanto riguarda le modalità concrete della specializzazione in ambito pregiudiziale, in primo luogo, sebbene in via transitoria, fino al settembre 2025, data di rinnovo parziale del Tribunale, esso ha optato per la creazione di una sezione ad hoc[50], presieduta dal vicepresidente e composta da dieci membri, che si riunisce, in linea di principio, con cinque giudici, designati secondo un sistema di rotazione[51]. In secondo luogo, contrariamente ai ricorsi diretti, per i quali la sezione standard del Tribunale è fissata a tre giudici, al pari di quanto previsto dinanzi alla Corte, l’art. 26, par. 1, reg. proc. Trib. prevede che le domande pregiudiziali siano attribuite per default a una sezione composta da cinque membri. In terzo luogo, in ragione, da un lato, della specularità del procedimento garantito dinanzi al Tribunale nell’ambito del trattamento delle domande pregiudiziali in virtù del quale il collegio per default è fissato a cinque membri e, dall’altro, della volontà di assicurare, anche in tale ambito, agli Stati membri e alle Istituzioni il diritto riconosciuto loro nel quadro del contenzioso diretto di richiedere che una causa sia conosciuta da una formazione composta da almeno cinque membri in luogo di quella standard costituita da tre giudici, il RP Trib. prevede che, se una richiesta in tal senso è presentata dagli Stati membri e dalle Istituzioni, la sopraccitata Sezione Intermedia deve essere automaticamente investita di una domanda pregiudiziale[52]. In quarto luogo, in applicazione del principio contenuto al testé citato art. 49 bis statuto, è stato inserito l’art. 31 bis reg. proc. Trib., il quale stabilisce che i giudici eleggono, tra loro, quelli chiamati a svolgere la funzione di Avvocato generale. Anche per l’elezione degli Avvocati generali per il trattamento delle domande pregiudiziali, il Tribunale ha optato per una fase transitoria. Infatti, conformemente all’art. 246, par. 7, reg. proc. Trib., il quale stabilisce che i primi giudici che esercitano le funzioni di A.G. sono eletti subito dopo il 1° settembre 2024 e il loro mandato scade in occasione del sopraccitato rinnovo parziale previsto nel settembre 2025, il Tribunale ha adottato una decisione in tal senso[53].
4. Osservazioni conclusive.
Alla luce dell’analisi effettuata, è possibile svolgere alcune brevi riflessioni finali, da un lato, sulle prospettive future di evoluzione della CGUE e, dall’altro, sull’impatto della riforma appena entrata in vigore sulle giurisdizioni nazionali.
Con riguardo al primo tema, vari autori considerano che il trasferimento di alcune domande pregiudiziali al Tribunale segni una tappa fondamentale del processo di costituzionalizzazione della Corte[54]. In realtà, il trasferimento, anche se parziale, della “chiave di volta” del sistema[55], del backbone dell’ordinamento giuridico dell’Unione[56], avrebbe potuto essere considerato una tendenza opposta alla costituzionalizzazione di questa giurisdizione[57]. Ciò che invece consente di considerare la riforma appena entrata in vigore un punto di svolta in questo processo è la circostanza che, oltre a realizzarsi in base a dei controlli in itinere ed ex post, già previsti nel diritto primario, consistenti, rispettivamente, nella possibilità per il Tribunale di rinviare una domanda pregiudiziale nell’ipotesi in cui essa sollevi una questione di principio suscettibile di compromettere l’unità e la coerenza del diritto dell’Unione europea e nella facoltà di riesaminare le decisioni del Tribunale, tale trasferimento è stato ancorato a un controllo ex ante, attraverso il meccanismo dello sportello unico. Questo “Cortecentrismo”[58], da un lato, è stato la precondizione per l’accoglimento della proposta e, dall’altro, esprime il ruolo che la Corte si avvia ad assumere[59].
Questa ultima considerazione offre altresì l’occasione per mettere la presente riforma in prospettiva rispetto alle due precedenti del 2015 e del 2018, che risultano strumentali ad essa. Nel raddoppiare il numero dei membri del Tribunale, la riforma del 2015 ha potenziato le sue capacità di funzionamento ben al di là della necessità di alleviare il suo carico di lavoro e intervenire sui suoi ritardi, creando quindi le condizioni per un progressivo alleggerimento della Corte. A sua volta, la proposta di riforma del 2018 perseguiva, nel complesso, l’obiettivo di alleviare il carico di lavoro della Corte nell’ambito nei ricorsi diretti, peraltro già in larga parte di competenza del Tribunale. Infatti, a questo rispondeva la logica di introdurre il meccanismo di filtro per limitare la funzione della Corte in qualità di giudice delle impugnazioni e di devolvere al Tribunale il trattamento di alcuni procedimenti d’infrazione[60]. Com’è noto, questo secondo asse della proposta di riforma non è stato accettato, ma non è inverosimile ipotizzare che se lo fosse stato, la devoluzione dei ricorsi in infrazione sarebbe stata estesa negli anni a venire. Ora, il mancato accoglimento di questa parte della proposta del 2018 spiega, in parte, il trasferimento al Tribunale di alcune competenze pregiudiziali, che risponde indubbiamente a un approccio pragmatico[61].
In linea con questo approccio, è possibile immaginare che nel breve/medio periodo potrebbero avere luogo, da un lato, l’ulteriore estensione del meccanismo del filtro e, dall’altro, il trasferimento di nuove materie dalla Corte al Tribunale nell’ambito della competenza pregiudiziale, come preconizza l’art. 3, par. 2, reg. 2024/2019[62]. Se così fosse, sarebbe sviluppato un modello che rientrerà (ancora) nel perimetro stabilito dal diritto primario, ma che proietterebbe la CGUE sempre più verso i limiti stabiliti dai trattati. In effetti, ad oggi, tanto il meccanismo di filtro, peraltro non previsto esplicitamente dai trattati, che il trasferimento di una parte delle domande pregiudiziali, sono da considerarsi eccezioni alla regola. Nel momento in cui il paradigma si rovesciasse, e queste eccezioni diventassero la norma, i limiti definiti dal diritto primario sarebbero sorpassati e la necessità di intervenire con una revisione ex art. 48 TUE delle regole previste nel diritto primario sarebbe indispensabile[63].
Con riguardo all’impatto che la riforma appena entrata in vigore avrà sulle giurisdizioni nazionali, due ordini di considerazioni si impongono. In primo luogo, è innegabile che, in termini strutturali, il fatto che la Corte, la quale ha da sempre detenuto il monopolio della competenza pregiudiziale, la condivida ora con il Tribunale, può essere fonte, a vario titolo, di perplessità per il giudice nazionale. Tuttavia, l’analisi svolta ha evidenziato che in ragione della rilevanza strutturale del trasferimento di alcune competenze pregiudiziali al Tribunale, il trasferimento in parola è stato assicurato attraverso la predisposizione di meccanismi di controllo ad ogni livello e la garanzia che dinanzi al Tribunale le domande pregiudiziali avranno lo stesso trattamento di quelle davanti alla Corte. In questo contesto è quindi auspicabile che i timori espressi da taluni sul fatto che le giurisdizioni nazionali potrebbero ridurre il ricorso allo strumento pregiudiziale nelle sei materie trasferite al Tribunale non trovino seguito nell’attività quotidiana di tali giurisdizioni.
In secondo luogo, da un punto di vista strettamente giuridico in relazione alla gestione delle cause che hanno originato la domanda alla Corte e, più in generale, in virtù del carattere erga omnes[64] delle pronunce dei giudici del Kirchberg, il trasferimento della competenza pregiudiziale in alcune materie apre a una nuova fase delle relazioni tra CGUE e giurisdizioni nazionali. Come osservato nel par. 3.1.3. supra, infatti, a differenza delle decisioni rese dalla Corte, quelle del Tribunale non spiegano i propri effetti il giorno della pronuncia, poiché tali decisioni possono essere oggetto di riesame. Anche in questa ipotesi, sebbene sia auspicabile che negli anni a venire la Corte adoperi questo strumento eccezionalmente[65], lo statuto disciplina in modo esaustivo tutti i possibili scenari in modo da garantire che non sussistano lacune o dubbi sugli effetti delle sentenze pregiudiziali, in ragione della loro funzione fondamentale nell’ordinamento giuridico dell’Unione.
In definitiva, il successo della riforma appena entrata in vigore dipenderà, da un lato, dalla capacità della Corte di fare una corretta applicazione dello sportello unico e laddove necessario della procedura di riesame e, dall’altro, da quella del Tribunale nel calarsi nell’esercizio di questa nuova competenza. Nondimeno, per entrambe le giurisdizioni sarà fondamentale che i giudici nazionali non facciano mancare il loro apporto, continuando a ricorrere al rinvio pregiudiziale, uno strumento vitale per l’integrazione degli ordinamenti giuridici degli Stati membri.
L’autore si esprime a titolo strettamente personale e non impegna l’Istituzione di appartenenza.
[1] GUUE L, 2024/2019, 12.08.2024, pp. 1-8.
[2] Per un primo commento a questa riforma v. M. Condinanzi, C. Amalfitano, Il Tribunale oltre il pregiudizio: le pregiudiziali al Tribunale, in Rivista del Contenzioso Europeo, fasc. spec. 2024; R. Mastroianni, Il trasferimento delle questioni pregiudiziali al Tribunale: una riforma epocale o un salto nel buio?, in Quaderni AISDUE, 2024, pp. 1-28; M.F. Orzan, Un’ulteriore applicazione delle “legge di Hooke”? Riflessioni a margine dell’entrata in vigore della recente riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, cit., fasc. spec. 2024, pp. 20-74; D. Sarmiento, Gaps and ‘Known Unknowns’ in the Transfer of Preliminary References to the General Court, ivi; The 2024 Reform of the Statute of the Court of Justice of the EU. October 2024, consultabile su EULawLive.
[3] GUUE L, 2024/2094, 12.08.2024, pp. 1-7.
[4] GUUE L, 2024/2095, 12.08.2024, pp. 1-22.
[5] Rispettivamente in GUUE L, 2024/2173, 30.08.2024 e GUUE L, 2024/2097, 12.08.2024. Per un primo commento delle Istruzioni pratiche alle parti dinanzi alla Corte v. M. Puglia, Istruzioni pratiche alle parti relative alle cause proposte dinanzi alla Corte: le principali novità, in Rivista del Contenzioso Europeo, fasc. spec. 2024.
[6] In proposito, sia consentito di rinviare a M.F. Orzan, Un’ulteriore applicazione delle “legge di Hooke”? Riflessioni a margine dell’entrata in vigore della recente riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, cit., fasc. spec. 2024, pp. 20-74. In effetti, i regolamenti di procedura delle due giurisdizioni sono stati modificati innanzitutto per dare esecuzione agli emendamenti apportati allo Statuto concernenti il trasferimento delle competenze pregiudiziali in alcune materie. Sono stati effettuati, poi, degli interventi comuni sui due regolamenti di procedura, debitori della discussione sorta a seguito della domanda legislativa, relativi agli interessati che possono depositare memorie od osservazioni ai sensi dell’art. 23 Statuto e al loro regime di pubblicità. Infine, la Corte e dal Tribunale hanno apportato modifiche ai loro regolamenti di procedura indipendentemente da tale domanda e dal dibattito che ne è scaturito. In definitiva, le due giurisdizioni hanno sfruttato l’occasione rappresentata dalla riforma, da un lato, per inserire una nuova disposizione, comune, avente ad oggetto la trasmissione delle udienze e, dall’altro, per integrare, precisare e chiarire la portata di altre disposizioni, alla luce della loro prassi applicativa.
[7] Per un primo commento di tale documento v. G. Grasso, La riforma del rinvio pregiudiziale e le nuove raccomandazioni ai giudici nazionali, in Rivista del Contenzioso Europeo, fasc. spec. 2024.
[8] Cfr. art. 210 RP Corte.
[9] Cfr. art. 246, par. 2 RP Trib.
[10] Sulle ragioni soggiacenti la creazione del Tribunale di prima istanza (poi Tribunale), v. M. Jaeger, 25 Years of the General Court – Looking Back and Forward, cit., pp. 3-38.
[11] Cfr. la Domanda presentata dalla Corte di giustizia, ai sensi dell’articolo 281, secondo comma, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, al fine di modificare il Protocollo n. 3 sullo Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, p. 3 (https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-15936-2022-INIT/it/pdf).
[12] Ibid., pp. 3 e 4.
[13] Sul cd. meccanismo di filtro delle impugnazioni v. C. Amalfitano, Note critiche sulla recente riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, in DUE, 2019, p. 29 ss.; M.A. Gaudissart, L’admission préalable des pourvois: une nouvelle procédure pour la Cour de justice, in CDE, 2020, p. 177 ss.; A. Gentile, One Year of Filtering before the Court of Justice of the European Union, in Journal of Intellectual Property Law & Practice, 2020, p. 807 ss.; M.F. Orzan, Some Remarks on the First Applications of the Filtering of Certain Categories of Appeals before the Court of Justice, in European Intellectual Property Review, 2020, p. 426 ss.; P. Iannuccelli, L’ammissione preventiva delle impugnazioni contro le decisioni del Tribunale dell’Unione europea ex art. 58 bis dello Statuto: una prima valutazione e le eventuali applicazioni future, in C. Amalfitano, M. Condinanzi (a cura di), Il giudice dell’Unione europea alla ricerca di un assetto efficiente e (in)stabile: dall’incremento della composizione alla modifica delle competenze, Milano, 2022, pp. 117-142; C. Oró Martínez, The Filtering of Appeals by the Court of Justice: Taking Stock of the Two First Orders Allowing an Appeal to Proceed, in Weekend EU Law Live Edition, 2022, n. 112; L. De Lucia, New Developments Concerning Article 58a of the Statute of the Court of Justice of the European Union, in EU Law Live, 21/03/2023; K. Bradley, The Court of Justice Appeal Filter Mechanism and Effective Judicial Protection: Throwing Out the Baby With the Bathwater?, in EU Law Live, 1/07/2024; R. Torresan, Filtering Appeals over Decisions Originally Taken by Boards of Appeal: Rationale, Impact and Possible Evolution of Article 58a of the CJEU Statute, 2024.
[14] La Corte ha proposto di estendere il meccanismo in parola alle pronunce del Tribunale avverso le decisioni adottate da commissioni di ricorso che già esistevano al momento dell’entrata in vigore al 1° maggio 2019, ma che non figuravano nella lista dell’art. 58 bis, e a quelle rese nei ricorsi introdotti conformemente a una clausola compromissoria sulla base dell’art. 272 TFUE.
[15] In prima battuta, la proposta riguardava solo il Parlamento europeo. Di seguito, è stata estesa al Consiglio e alla Banca Centrale europea.
[16] Cfr. l’art. 49 bis statuto secondo il quale «[i]l Tribunale è assistito da uno o più avvocati generali nel trattamento delle domande di pronuncia pregiudiziale che gli sono trasmesse a norma dell’articolo 50 ter.
I giudici del Tribunale eleggono tra loro, conformemente al regolamento di procedura del Tribunale, i membri chiamati a svolgere le funzioni di avvocato generale. Durante il periodo in cui tali membri esercitano le funzioni di avvocato generale, essi non fanno parte del collegio giudicante nelle domande di pronuncia pregiudiziale.
Per ciascuna domanda di pronuncia pregiudiziale, l’avvocato generale è scelto tra i giudici eletti per esercitare tale funzione che appartengono a una sezione diversa da quella alla quale la domanda in questione è stata attribuita.
I giudici chiamati a esercitare le funzioni di cui al secondo comma sono eletti per un periodo di tre anni. Il loro mandato è rinnovabile una volta».
[17] Cfr. l’art. 50 statuto, il quale prevede che «[i]l Tribunale si riunisce in sezioni, composte di tre o cinque giudici. I giudici eleggono nel loro ambito i presidenti delle sezioni. I presidenti delle sezioni di cinque giudici sono eletti per una durata di tre anni. Il loro mandato è rinnovabile una volta.
Il Tribunale può altresì riunirsi in grande sezione, in sezione intermedia tra le sezioni di cinque giudici e la grande sezione o statuire nella persona di un giudice unico.
Il regolamento di procedura determina la composizione delle sezioni nonché i casi e le condizioni in cui il Tribunale si riunisce in tali diversi organi giudicanti.
Il Tribunale, quando è adito ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, si riunisce in sezione intermedia su richiesta di uno Stato membro o di un’istituzione dell’Unione che è parte nel procedimento».
[18] Per la composizione di tale Sezione, costituita dal vicepresidente del Tribunale, che la presiede, ed altri otto membri v. Composizione della Grande Sezione e della Sezione Intermedia (2024/6452), in GUUE serie C, 28.10.2024.
[19] La Corte ha individuato le sei materie in base a quattro caratteristiche: la loro identificabilità e distinguibilità; la sostanziale assenza di questioni di principio; l’esistenza di una giurisprudenza consolidata; infine, il fatto che, prese nel loro insieme, tali materie garantivano un volume significativo di quesiti pregiudiziali capace di alleggerire in concreto il carico della Corte. In effetti, la Corte ha evidenziato che sommate tra loro queste sei materie costituivano circa il 20% delle domande pregiudiziali mediamente introdotte. La scelta delle materie non ha mancato di alimentare il dibattito della dottrina. Per una ricostruzione completa delle discussioni sulle materie trasferibili dalla Corte al Tribunale precedenti alla riforma attuale v. C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale, cit., p. 518, nota 55. Quanto alle materie individuate dalla Corte nella sua proposta, alcuni autori considerano, in sostanza, giustificabile l’approccio della Corte (S. Iglesias Sánchez, Preliminary Rulings, cit., pp. 6-8), mentre altri, in termini più (M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court: What Judicial Architecture for the European Union?, in CMLR, 2023, p. 1521) o meno critici (C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale, cit., pp. 528-530) hanno mosso dei rilievi alla scelta della Corte.
[20] Cfr. l’art. 50 ter statuto, il quale prevede che «[i]l Tribunale è competente a conoscere delle domande di pronuncia pregiudiziale, sottoposte ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che rientrino esclusivamente in una o più delle seguenti materie specifiche:
a) il sistema comune di imposta sul valore aggiunto;
b) i diritti di accisa;
c) il codice doganale;
d) la classificazione tariffaria delle merci nella nomenclatura combinata;
e) la compensazione pecuniaria e l’assistenza dei passeggeri in caso di negato imbarco o
di ritardo o cancellazione di servizi di trasporto;
f) il sistema di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra.
In deroga al primo comma, la Corte di giustizia conserva la competenza a conoscere delle domande di pronuncia pregiudiziale che sollevano questioni indipendenti di interpretazione del diritto primario, del diritto internazionale pubblico, dei principi generali del diritto o della C[dfUE].
Ogni domanda sottoposta ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea è presentata dinanzi alla Corte di giustizia. Dopo aver verificato, quanto prima possibile e secondo le modalità previste nel suo regolamento di procedura, che la domanda di pronuncia pregiudiziale rientri esclusivamente in una o più materie di cui al primo comma del presente articolo, la Corte di giustizia trasmette tale domanda al Tribunale.
Le domande di pronuncia pregiudiziale di cui il Tribunale conosce ai sensi dell’articolo 267 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea sono attribuite a sezioni designate a tale scopo secondo le modalità previste nel suo regolamento di procedura».
[21] Cfr. l’art. 54, 2° c., statuto, il quale dispone che «[q]uando il Tribunale constata di essere incompetente a conoscere di un ricorso o di una domanda di pronuncia pregiudiziale che rientri nella competenza della Corte di giustizia, rinvia tale ricorso o domanda a quest’ultima. Allo stesso modo, quando la Corte di giustizia constata che un ricorso o una domanda di pronuncia pregiudiziale rientra nella competenza del Tribunale, rinvia tale ricorso o domanda a quest’ultimo, che non può in tal caso declinare la propria competenza».
[22] Cfr. l’art. 58 bis statuto in forza del quale «[l]’esame delle impugnazioni proposte contro le decisioni del Tribunale aventi a oggetto una decisione di una commissione di ricorso indipendente di uno dei seguenti organi e organismi dell’Unione è subordinato alla loro ammissione preventiva da parte della Corte di giustizia:
a) Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale;
b) Ufficio comunitario delle varietà vegetali;
c) Agenzia europea per le sostanze chimiche;
d) Agenzia dell’Unione europea per la sicurezza aerea;
e) Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia;
f) Comitato di risoluzione unico;
g) Autorità bancaria europea;
h) Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati;
i) Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali;
j) Agenzia dell’Unione europea per le ferrovie.
La procedura di cui al primo comma si applica altresì alle impugnazioni proposte contro:
a) le decisioni del Tribunale aventi a oggetto una decisione di una commissione di ricorso indipendente, istituita dopo il 1º maggio 2019 in seno ad ogni altro organo o organismo dell’Unione, che deve essere adita prima di poter proporre un ricorso dinanzi al Tribunale;
b) le decisioni del Tribunale relative all’esecuzione di un contratto contenente una clausola compromissoria, ai sensi dell’articolo 272 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
L’impugnazione è ammessa, in tutto o in parte, in osservanza delle modalità precisate nel regolamento di procedura, quando essa solleva una questione importante per l’unità, la coerenza o lo sviluppo del diritto dell’Unione.
La decisione relativa all’ammissione o meno dell’impugnazione deve essere motivata ed è pubblicata».
[23] Nella proposta legislativa, la Corte ha osservato che le cause promosse dinanzi al Tribunale in forza di una clausola compromissoria contenuta in un contratto di diritto pubblico o di diritto privato stipulato a nome o per conto dell’Unione richiedono al Tribunale di applicare al merito della controversia il diritto nazionale al quale fa riferimento la clausola compromissoria e non di applicare il diritto dell’Unione. Partendo da questa constatazione, la Corte ha concluso che le impugnazioni proposte in tale ambito non sollevano, in linea di principio, questioni importanti per l’unità, la coerenza o lo sviluppo del diritto dell’Unione, con la conseguenza che alle pronunce che mettono fine all’istanza decise dal Tribunale per questa tipologia di ricorsi può essere applicata alla procedura di ammissione preventiva delle impugnazioni di cui all’art. 58 bis statuto.
[24] Peraltro, va osservato che, sebbene subordinata alla creazione di commissioni di ricorso sul modello di quelle esistenti, la dottrina ha già individuato nel contenzioso della funzione pubblica e in quello dell’accesso ai documenti due materie che in futuro potrebbero fare l’oggetto del meccanismo di filtro. Sul punto v. M. van der Woude, The Place of the General Court in the Institutional Framework of the Union, in Weekend EU Law Live Edition, 2021, n. 81, pp. 25 e 26.
[25] In proposito, va osservato che, in primo luogo, al netto di questo riferimento all’“interesse particolare” che Parlamento europeo, BCE e Consiglio devono avere per depositare memorie od osservazioni scritte, è lecito supporre che la dimostrazione di tale interesse non sarà una vera e propria condizione sottoposta al vaglio della Corte e del Tribunale. Al contrario, è immaginabile che entrambe le giurisdizioni valuteranno questo interesse in termini piuttosto favorevoli nei confronti delle tre Istituzioni. In secondo luogo, non può tacersi la circostanza che, aumentando il volume dei documenti processuali che dovranno essere esaminati dalle due giurisdizioni, l’apertura al Parlamento europeo, alla BCE e al Consiglio della possibilità di depositare memorie od osservazioni potrebbe determinare un allungamento della durata dei procedimenti. Tuttavia, quanto all’effettiva incidenza di questa estensione sulla durata dei procedimenti, soltanto la prassi applicativa di queste disposizioni fornirà utili elementi per trarne le conseguenze.
[26] Inizialmente, la proposta del Parlamento europeo, non era limitata al procedimento pregiudiziale e configurava un diritto all’accesso dei documenti processauli. Sebbene nella proposta il Parlamento europeo avesse espresso la convinzione della necessità di garantire l’accesso ai documenti senza sacrificare la confidenzialità e la segretezza degli atti processuali, in concreto, sarebbe stato molto complesso e problematico garantirne l’esecuzione, in particolare nell’ambito del contenzioso diretto. Innanzitutto, non può tacersi che questo accesso agli atti processuali, tanto di procedimenti conclusi ma ancor più di procedimenti pendenti, avrebbe sollevato delicati problemi di coordinamento con l’art. 15, par. 3, quarta frase, TFUE, secondo il quale «[l]a Corte di giustizia dell’Unione europea, la Banca centrale europea e la Banca europea per gli investimenti sono soggette al [principio di trasparenza] soltanto allorché esercitano funzioni amministrative». Inoltre, l’accesso preconizzato dal Parlamento europeo avrebbe creato difficoltà anche rispetto ai principi stabiliti dalla Corte, la quale ha giudicato che «le limitazioni all’applicazione del principio di trasparenza per quanto concerne l’attività giurisdizionale perseguono la medesima finalità, vale a dire quella di garantire che il diritto d’accesso ai documenti delle istituzioni sia esercitato senza arrecare pregiudizio alla tutela delle procedure giurisdizionali [… rilevando] in proposito che la tutela di tali procedure implica, segnatamente, che sia garantita l’osservanza dei principi della parità delle armi nonché della buona amministrazione della giustizia». Cfr. Corte giust., 21 settembre 2010, cause riunite C 514/07 P, C 528/07 P e C 532/07 P, Svezia e a. c. API e Commissione, ECLI:EU:C:2010:541, punti 84 e 85.
[27] Con riguardo alla disciplina in concreto del regime di pubblicità, essa rappresenta un non facile equilibrio tra la ragione del suo inserimento, ossia l’accesso rapido e semplice all’insieme dei documenti depositati nell’ambito del procedimento pregiudiziale e il rispetto della manifestazione di volontà degli interessati menzionati all’art. 23 Statuto di non vedere pubblicate le loro memorie od osservazioni. È inutile nascondere che l’equilibrio raggiunto sembra prediligere il secondo rispetto al primo. Certo, l’opposizione deve essere introdotta entro un termine di tre mesi dall’adozione della decisione, tuttavia, essa non deve essere motivata e non è impugnabile. Di conseguenza, la disposizione conferisce agli interessati menzionati all’art. 23 Statuto di esercitare, in sostanza, un diritto di veto alla pubblicazione degli atti di cui sono autori. Resta il fatto che la disposizione in parola rappresenta un’apertura importante rispetto all’applicazione, per quanto possibile, alle procedure giudiziarie del principio di trasparenza.
[28] In generale, sulla funzione del rinvio pregiudiziale si vedano L. Daniele, Articolo 267 TFUE, in A. Tizzano (a cura di), op. cit., pp. 2013-2021; M. Puglia, Finalità e oggetto del rinvio pregiudiziale, in C. Iannone, F. Ferraro (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, pp. 1-17; C. Lacchi, Preliminary References to the Court of Justice of the European Union and Effective Judicial Protection, Bruxelles, 2020; J. Alberti, G. De Cristofaro (a cura di), Il rinvio pregiudiziale come strumento di sviluppo degli ordinamenti, Pisa, 2023; M. Puglia, Les finalités et l’objet de la procédure du renvoi préjudiciel, in C. Iannone, F. Ferraro (sous la direction de), Le renvoi préjudiciel, Bruxelles, 2023, pp. 35-52; B. Nascimbene, P. De Pasquale, Il diritto dell’Unione europea e il sistema giurisdizionale. La Corte di giustizia e il giudice nazionale, in Eurojus, 2023, pp. 15-20 e U. Villani, Istituzioni di Diritto dell’Unione europea, 2024, Bari, VII ed., pp. 450-461. Per un esame delle principali caratteristiche del procedimento pregiudiziale dinanzi alla Corte v. R. Mastroianni, A. Maffeo, Articolo 23 Statuto, cit., pp. 125-136; Aa. Vv., Articoli 93-104 RP Corte, ivi, pp. 578-653; S. Iglesias Sánchez, C. Oró Martnez, La cuestión prejudicial, in J.I. Signes de Mesa (dir.), Derecho procesal europeo, Madrid, 2019, pp. 135-168; J. Pertek, Le renvoi préjudiciel: droit, liberté ou obligation de coopération des juridictions nationales avec la CJUE, Bruxelles, II ed., 2021, pp. 174-212; K. Lenaerts, K. Gutman, J.T. Nowak, EU Procedural Law, Oxford, II ed., 2023, pp. 49-116; R. Mastroianni F. Ferraro, Il rinvio pregiudiziale, in R. Mastroianni (a cura di), Il diritto processuale dell’Unione europea, Torino, in corso di pubblicazione.
[29] Ad esempio, M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court, cit., p. 1524, esprime riserve sul meccanismo, domandando retoricamente «why then does [Court’s Request] add a third element of additional “ex-ante” control into that scheme, which if used to maximum effect, can indeed be very selective? The conundrum of “transferring without letting go” that permeates the entire proposal of the Court starts clearly coming to the surface. Why then would one even start transferring any jurisdiction when there is such a low level of trust in the capacity of the other body to handle that workload?». Ancora, J. Alberti, Il trasferimento del rinvio pregiudiziale al Tribunale, all’alba della sua entrata in vigore, in Quaderni AISDUE, 2024, pp. 8-11, dopo avere osservato che «la proposta aggiunge un nuovo meccanismo di controllo, che si aggiunge a quelli previsti dai trattati […] », rileva che «[s]ulla legittimità di tale approccio pare lecito porsi qualche dubbio» e, a seguito di dell’analisi di alcune norme del diritto primario conclude che «le competenze che i trattati attribuiscono [al Tribunale] dovrebbero poter essere assorbite [dalla Corte] solo nei limiti previsti dai trattati stessi [e] i trattati non mettono limiti nel filtrare, ex ante, quali pronunce debbano andare al Tribunale, ma solo chiedendo a quest’ultimo di rimettere la causa alla Corte, se si rende conto di dover adottare una “decisione di principio”». Infine, R. Alonso García, The Persian Jurist in Luxembourg. On the Decentralisation of the Preliminary Ruling Procedure, in EU Law Live Edition, 2024, p. 10, n. 195, osserva che «the one-stop shop system, under the reform, does not reflect the will of the Member States as materialised in the Treaty of Nice, as it is clearly more favorable to the introduction of the one stop-shop mechanisms in the Registry of the General Court, not of the Court of Justice». Indubbiamente, i trattati non fanno riferimento al meccanismo in parola, tuttavia, chi scrive è dell’avviso che nella misura in cui, da un lato, l’art. 256, par. 3, prima frase, TFUE si limita a circoscrivere la competenza del Tribunale a conoscere le questioni pregiudiziali individuate dallo statuto e, dall’altro, l’art. 50 ter, 3° c., statuto dispone che la Corte deve stabilire se siffatte questioni rientrino in tale competenza, il meccanismo in parola risulta conforme ai trattati (in questo senso v. C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale, cit., p. 533). Peraltro, anche ragioni pratiche sembrano deporre in favore della sua esistenza. In effetti, come si avrà modo di osservare in seguito, la valutazione in concreto della permanenza alla Corte o del trasferimento al Tribunale di una domanda pregiudiziale rientrante esclusivamente nelle sei materie individuate nello statuto potrebbe sollevare alcune difficoltà, con la conseguenza che la Corte, la giurisdizione che dall’origine delle Comunità fino ad oggi è stata la sola competente a conoscere le domande sollevate dai giudici nazionali, potrebbe beneficiare del proprio expertise nell’adottare la decisione più consona allo spirito della modifica statutaria appena intervenuta.
[30] La dottrina non ha mancato di interrogarsi sull’opportunità di dare a questo meccanismo un tratto intergiurisidzionale, inserendovi tanto membri della Corte che del Tribunale (C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale, cit., p. 534) o, addirittura, di demandare questa funzione al solo Tribunale (J. Alberti, Il trasferimento del rinvio pregiudiziale al Tribunale, cit., p. 27). Indubbiamente, nella logica di condivisione della funzione pregiudiziale che sottende il trasferimento al Tribunale di alcune materie specifiche, un sistema di valutazione “misto” avrebbe sublimato questa logica. Tuttavia, la Corte, che è la giurisdizione con una consuetudine nel trattamento delle domande pregiudiziali, forte di questa abitudine, dovrebbe assolvere questa funzione di “smistamento” con una certa rapidità. Inoltre, nell’ipotesi di un meccanismo misto si sarebbe potuto porre un problema di accordo al suo interno quanto alla trasferibilità o meno di una domanda. Certo, alcune procedure avrebbero potuto essere immaginate per superare eventuali impasses, ma già la loro stessa prefigurazione avrebbe portato detrimento alla celerità del procedimento. Quanto all’ipotesi di uno sportello unico gestito dal Tribunale, seppure intellettualmente stimolante, essa sarebbe risultata poco praticabile in concreto. In particolare, è molto difficile immaginare che le Istituzioni e gli Stati membri avrebbero accettato un simile meccanismo. In effetti, fin dall’inizio, la Corte ha indicato che il Tribunale avrebbe garantito le stesse procedure da essa offerte nel trattamento delle domande pregiudiziali, così da rassicurare i diversi attori istituzionali sulla sostanziale corrispondenza dell’esame di tali domande dinanzi alle due giurisdizioni. In questo contesto, l’attribuzione al Tribunale della competenza a decidere quali domande trasferire e quali trattenere avrebbe rappresentato un elemento di novità poco conciliabile con lo spirito della proposta.
[31] Sul punto v. M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court, cit., pp. 1536 e 1537, il quale si interroga su «what sort of moral high ground does one have for insisting there is a duty to make a reference, and then even potentially enforcing it, while simultaneously insisting that the area of law is so clear and by implication unimportant that one does not need to deal with it oneself?»; C. Amalfitano, Il futuro del rinvio pregiudiziale, cit., pp. 538 e 539; J. Alberti, Il trasferimento del rinvio pregiudiziale al Tribunale, cit., pp. 20-22. In particolare, il primo autore citato (p. 1537), si domanda se «[w]ill all that generate a tendency of national courts to include horizontal, broader issues in their references, so their case will be kept “upstairs”? Will there be an inclination to withdraw a request for a preliminary ruling if the individual case has been transferred “downstairs”?». In sostanza, il timore non celato consiste nel fatto che le giurisdizioni nazionali potrebbero collegare artificialmente le domande pregiudiziali alle deroghe previste all’art. 50 ter, 2° c., statuto, in modo così da garantire il loro trattenimento alla Corte.
[32] In questo senso v. F. Viganò, La proposta di riforma dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, il quale ha osservato che per un giudice tutte le cause sono uguali perché tutte indicative di una sete di giustizia. Si veda anche il contributo di C. Wissels, T. Boekestein, The Proof is in the Pudding’: Some Thoughts on the 2024 Reform of the Statute of the Court of Justice from a Highest National Court, in EU Law Live, 09/07/2024, i quali sono membri del Consiglio di Stato olandese e osservano che «[w]hether or not national courts will receive the transfer of jurisdiction to the General Court positively and refer questions to it, will depend on how the reform plays out in practice. […] the national court’s appreciation of the preliminary reference procedure is mostly dependent on three factors (in no particular order). Firstly, the time it takes the CJEU to answer the preliminary reference and the corresponding delay caused in the domestic procedure. Secondly, the coherence of the Court’s case law and the unity of EU law. Thirdly, the quality of the reply: the Court’s answer should be clear and easy to apply in the case before the national court. Ideally, it should also be formulated in such a way that it can be applied in related cases with relative ease».
[33] Sul punto v. D. Petríc, The Preliminary Ruling, cit., p. 38, il quale osserva che «the principle of sincere cooperation from art. 4(3) TEU […] should guide not only national courts in their interaction with the General Court, but should also guide the two EU courts in determining their respective jurisdictions and allocation of preliminary references between themselves. Their engagement should be respectful, and they should be doing everything to ensure the smooth functioning of the preliminary ruling procedure, and, by extension, the effectiveness of EU law and the attainment of the Union’s goals. All courts in the EU have a stake in this, and there is no way around cooperation, no matter how difficult it may be» e che «the entire system depends on the bona fide behaviour of all the judicial actors involved».
[34] L’art. 207, parr. 1 e 2, RP Trib. disciplina le ipotesi di rinvio alla Corte qualora un quesito pregiudiziale sia erroneamente depositato dinanzi al Tribunale e nei casi previsti all’art. 54, 2° c., Statuto, relativi all’incompetenza del Tribunale.
[35] Per quanto riguarda il presidente e il vicepresidente, questa facoltà è riconosciuta loro fino alla chiusura della fase orale del procedimento e, se sono state presentate conclusioni, non oltre una settimana dopo la presentazione di queste ultime, o prima della decisione di statuire senza fase orale.
[36] Sul problema della natura facoltativa od obbligatoria del rinvio di una causa dal Tribunale alla Corte v. D. Düsterhaus, Referring Cases Back to the Court of Justice: Faculty or Duty?, in EU Law Live, 04/07/2024).
[37] Sul riesame delle decisioni del Tribunale in qualità di giudice delle impugnazioni v. P. Iannuccelli, A. Tizzano, Premières applications de la procédure de “réexamen” devant a Cour de justice de l’Union européenne, in N. Parisi (a cura di), Scritti in onore di Ugo Draetta, Napoli, 2011, p. 733 ss.; M. Brkan, La procédure de réexamen devant la Cour de justice: vers une efficacité accrue du nouveau règlement de procédure, in S. Mahieu (dir.), Contentieux de l’Union européenne. Questions choisies, Bruxelles, 2014, pp. 489-513; R. Rousselot, La procédure de réexamen en droit de l’Union européenne, in Cahiers de droit européen, 2014, p. 594 ss.; B. Cortese, Articoli 62, 62 bis e 62 ter Statuto, in C. Amalfitano, M. Condinanzi, P. Iannuccelli (a cura di), op. cit., pp. 322 e 323; M.F. Orzan, Some Remarks on the First Applications of the Filtering, cit., p. 428; K.P.E. Lasok, Lasok’s European Court Practice and Procedure, London, New York, Dublin, IV ed., 2022, pp. 1234-1241.
[38] L’art. 194 RP Corte prevede che “1. La proposta del primo avvocato generale di riesaminare una decisione del Tribunale adottata ai sensi dell’articolo 256, paragrafo 3, TFUE è trasmessa al presidente della Corte e al presidente della sezione del riesame. Contemporaneamente, il cancelliere è informato di tale trasmissione.
2. Non appena viene informato dell’esistenza di una proposta di riesame, il cancelliere trasmette il fascicolo del procedimento svoltosi dinanzi al Tribunale ai membri della sezione del riesame.
3. Il cancelliere informa parimenti il Tribunale, il giudice del rinvio, le parti nel procedimento principale, nonché gli altri interessati menzionati dall’articolo 62 bis, secondo comma, dello statuto, dell’esistenza di una proposta di riesame.
4. Non appena ricevuta la proposta di riesame, il presidente della Corte designa il giudice relatore tra i giudici della sezione del riesame, su proposta del presidente di questa sezione. La composizione del collegio giudicante è determinata, conformemente all’articolo 28, paragrafo 2, del presente regolamento, il giorno dell’attribuzione della causa al giudice relatore.
5. Tale sezione decide, su proposta del giudice relatore, se occorra riesaminare la decisione del Tribunale. Nella decisione di riesaminare la decisione del Tribunale sono indicate solo le questioni oggetto del riesame.
6. Il Tribunale e il giudice del rinvio, le parti nel procedimento principale nonché gli altri interessati menzionati dall’articolo 62 bis, secondo comma, dello statuto, sono subito avvisati dal cancelliere della decisione della Corte di riesaminare o di non riesaminare la decisione del Tribunale.
7. Un avviso contenente la data della decisione di riesaminare la decisione del Tribunale e le questioni oggetto di riesame è pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea”.
[39] Cfr. Corte giust., 8 febbraio 2011, causa C-17/11 RX, Commissione c. Petrilli, ECLI:EU:C:2011:55, punto 4, in cui la Corte ha affermato «che non [le] spetta, in sede di procedura di riesame, pronunciarsi sulla fondatezza di un’evoluzione giurisprudenziale del Tribunale, operata da quest’ultimo in veste di giudice d’appello […] in quanto spetta ormai unicamente al [TFP] e al [Tribunale] far evolvere la giurisprudenza in materia di funzione pubblica; [essa] è competente solo ad evitare che le pronunce del Tribunale non compromettano l’unità e la coerenza del diritto dell’Unione». In questo contesto va rilevato che, in effetti, la Corte ha riesaminato solo sei delle oltre quattrocento pronunce rese dal Tribunale nella sua qualità di giudice delle impugnazioni, limitandosi a intervenire in cause in cui si ponevano questioni trasversali: Corte giust., 17 dicembre 2009, causa C-197/09 RX-II, M c. EMEA, ECLI:EU:C:2009:804, punto 66 (diritto al contraddittorio); 28 febbraio 2013, causa C-334/12 RX-II, Arango Jaramillo e.a. c. BEI, ECLI:EU:C:2013:134, punto 54 (termine ragionevole per il deposito di un ricorso); 19 settembre 2013, causa C-579/12 RX-II, Commissione c. Strack, ECLI:EU:C:2013:570, punto 58 (relazione tra statuto e CdfUE); 10 settembre 2015, causa C-417/14 RX-II, Missir Mamachi di Lusignano c. Commissione, ECLI:EU:C:2015:588, punto 53 (riparto di competenze tra Tribunale e TFP in materia risarcitoria); 26 marzo 2020, cause riunite C-542/18 RX-II e C-543/18 RX-II, Simpson c. Consiglio e HG c. Commissione, ECLI:EU:C:2020:232, punto 87 (principio del giudice precostituito per legge).
[40] Ad oggi, la quasi totalità delle domande di ammissione sono state rigettate e, a differenza della procedura di riesame, la Corte non ha assunto una posizione di principio, ma piuttosto un case by case approach nel pronunciarsi sull’ammissibilità dell’impugnazione. Per un’analisi di questo approccio casistico sia consentito di rinviare a M.F. Orzan, Some Remarks on the First Applications of the Filtering, cit., p. 429.
[41] In generale, sulla funzione del rinvio pregiudiziale si vedano L. Daniele, Articolo 267 TFUE, in A. Tizzano (a cura di), op. cit., pp. 2013-2021; M. Puglia, Finalità e oggetto del rinvio pregiudiziale, in C. Iannone, F. Ferraro (a cura di), Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, pp. 1-17; C. Lacchi, Preliminary References to the Court of Justice of the European Union and Effective Judicial Protection, Bruxelles, 2020; J. Alberti, G. De Cristofaro (a cura di), Il rinvio pregiudiziale come strumento di sviluppo degli ordinamenti, Pisa, 2023; M. Puglia, Les finalités et l’objet de la procédure du renvoi préjudiciel, in C. Iannone, F. Ferraro (sous la direction de), Le renvoi préjudiciel, Bruxelles, 2023, pp. 35-52; B. Nascimbene, P. De Pasquale, Il diritto dell’Unione europea e il sistema giurisdizionale. La Corte di giustizia e il giudice nazionale, in Eurojus, 2023, pp. 15-20 e U. Villani, Istituzioni di Diritto dell’Unione europea, 2024, Bari, VII ed., pp. 450-461. Per un esame delle principali caratteristiche del procedimento pregiudiziale dinanzi alla Corte v. R. Mastroianni, A. Maffeo, Articolo 23 Statuto, cit., pp. 125-136; Aa. Vv., Articoli 93-104 RP Corte, ivi, pp. 578-653; S. Iglesias Sánchez, C. Oró Martnez, La cuestión prejudicial, in J.I. Signes de Mesa (dir.), Derecho procesal europeo, Madrid, 2019, pp. 135-168; J. Pertek, Le renvoi préjudiciel: droit, liberté ou obligation de coopération des juridictions nationales avec la CJUE, Bruxelles, II ed., 2021, pp. 174-212; K. Lenaerts, K. Gutman, J.T. Nowak, EU Procedural Law, Oxford, II ed., 2023, pp. 49-116; R. Mastroianni F. Ferraro, Il rinvio pregiudiziale, in R. Mastroianni (a cura di), Il diritto processuale dell’Unione europea, Torino, in corso di pubblicazione.
[42] Sugli effetti delle sentenze pregiudiziali v. M. Broberg, N. Fenger, Preliminary Reference to the European Court of Justice, Oxford, 2010; A. Maffeo, Gli effetti della sentenza pregiudiziale, in C. Iannone, F. Ferraro (a cura di), op. cit., pp. 199-212; Id., Les effets de la décision préjudicielle, in C. Iannone, F. Ferraro (sous la direction de), op. cit., pp. 279-294.
[43] In questo senso si pronuncia anche M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court, cit., pp. 1526 e 1527, il quale, da un lato, rileva che «[t]he unknown relates nonetheless to how a procedure used previously only rarely in staff cases would operate in the context of preliminary rulings. The reason for those doubts is simple: the type of procedure is radically different, and so are the stakes. The likelihood of “a serious risk of the unity or consistency of Union law being affected” is arguably somewhat less acute in circumscribed direct disputes involving EU staff than it is in diffuse and a multi-polar preliminary ruling procedure. Within the latter kind of procedure, by definition, the risk is bound to arise far more often» e, dall’altro, osserva che «[i]f the up-to-date experience of the Court in the filtration of appeals pursuant to Article 58a of the Statute of the Court could serve as a parallel, that could indeed be the case. There, too, similarly worded conditions have so far generated only few occasions on which it was found that a decision of the GC should be allowed to proceed to full review on merits. However, it is again fair to question the comparability of the data, as it comes from different types of proceedings, with different scope and impact».
[44] Non è questa la sede per un’analisi diffusa della correttezza della presunzione secondo la quale la specializzazione implichi necessariamente una migliore amministrazione della giustizia. Di conseguenza, nel presente lavoro la si considererà come avverata. Per un’analisi problematica della questione, sia consentito di rinviare a M.F. Orzan, La specializzazione del Tribunale dell’Unione europea tra realtà e prospettive: ieri, oggi, domani(?), in C. Amalfitano, M. Condinanzi (a cura di), Il giudice dell’Unione alla ricerca di un equilibrio efficiente e (in)stabile, op. cit., pp. 89-116.
[45] Sulla specializzazione del Tribunale v. U. Öberg, A. Mohamed, P. Sabouret, On Specialisation of Chambers at the General Court, in M. Derlén, J. Lindholm (eds.), The Court of Justice of the European Union: Multidisciplinary Perspectives, Oxford, 2018, p. 211 ss.; F. Clausen, Quelle place pour la spécialisation au sein des juridictions de l’UE, in D. Dero-Bugny, A. Cartier Bresson (sous la direction de), Les réformes de la Cour de justice de l’Union européenne. Bilan et perspectives, Bruxelles, 2020, p. 131 ss.
[46] All’indomani della creazione del(l’allora) marchio comunitario (oggi dell’Unione europea) e del conferimento della relativa competenza al Tribunale di conoscere i ricorsi avverso le decisioni adottate dall’UAMI (oggi EUIPO), una prima forma di specializzazione era consistita nell'istituzione, per un periodo circoscritto, di due sezioni specializzate in tale materia. Una seconda applicazione della specializzazione ha avuto luogo a seguito della creazione del TFP. In questa occasione, il Tribunale, competente a conoscere i ricorsi avverso le pronunce del TFP in base all’art. 11 dell’allegato I dello statuto, ha istituito la sezione delle impugnazioni, organizzata in sotto-formazioni, e costituita dal presidente, dal vicepresidente (dopo la creazione di questa funzione nel 2013) e dai presidenti di sezione del Tribunale.
[47] Per quanto riguarda il contenzioso dei ricorsi diretti, in primo luogo, le cause in materia di funzione pubblica e di proprietà intellettuale sono ripartite, rispettivamente, tra le quattro e le sei sezioni specificamente designate a tal fine nella decisione di assegnazione dei giudici alle sezioni, in base a un turno stabilito in relazione all’ordine di registrazione delle cause in cancelleria. In secondo luogo, le cause riguardanti, da un lato, la concorrenza, gli aiuti di Stato e le misure di difesa commerciale, le norme relative alle sovvenzioni estere distorsive del mercato interno nonché le norme relative ai mercati e ai servizi digitali e, dall’altro, le materie rimanenti, sono ripartite tra le dieci sezioni. In terzo luogo, al presidente la possibilità di derogare al turno per tutte le materie in ragione della connessione tra le cause e del carico di lavoro delle sezioni. Tutte queste regole di attribuzione dei ricorsi sono contenute nella decisione relativa ai Criteri di attribuzione delle cause alle sezioni (2024/6453), in GUUE serie C, 28.10.2024.
[48] La seconda frase della disposizione in parola prevede che “[i]l Tribunale può incaricare una o più sezioni di conoscere di cause in materie specifiche ».
[49] La terza frase di tale disposizione indica che «[i]l Tribunale designa una o più sezioni incaricate del trattamento delle domande di pronuncia pregiudiziale».
[50] In proposito, oltre alla soluzione adottata in via transitoria dal Tribunale, la dottrina ne ha discusse altre, prefigurando la possilità che, ferma restando l’organizzazione attuale in dieci sezioni, la specializzazione in materia pregiudiziale fosse assorbita nell’ambito delle sezioni esistenti, dando così luogo ad una sottospecializzazione, o attraverso la creazione di sezioni autonome. In questa seconda ipotesi, di conseguenza, stante il numero di dieci sezioni, una modifica del numero delle sezioni specializzate in materia di proprietà intellettuale e funzione pubblica sarebbe necessaria. Quanto al numero di queste sezioni, il dato normativo non consente di determinarlo, tuttavia, tenuto conto delle domande pregiudiziali che dovrebbero essere mediamente trasferite al Tribunale, la dottrina ha ventilato la possibilità che esse saranno due. Così J. Alberti, Il trasferimento del rinvio pregiudiziale al Tribunale, cit., p. 12.
[51] Cfr. Costituzione delle sezioni e assegnazione dei giudici alle sezioni, GUUE C, 2024/6456, 28.10.2024, p. 4.
[52] Cfr. art. 28, par. 8, RP Trib.
[53] Cfr. Elezioni degli avvocati generali per il trattamento delle domande di pronuncia pregiudiziale e di un giudice chiamato a sostituirli in caso di impedimento (2024/6455), in GUUE serie C, 28.10.2024.
[54] V. S. Iglesias Sánchez, D. Sarmiento, A New Model for the EU Judiciary: Decentralising Preliminary Rulings as a Paradoxical Move towards the Constitutionalisation of the Court of Justice, in EU Law Live, 08/04/2024.
[55] V. A. Tizzano, Il trasferimento di alcune questioni pregiudiziali, cit., p. 4.
[56] In questo senso si esprime M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court, cit., p. 1517.
[57] In questo contesto, rispetto al ruolo costituzionale della Corte, è opportuno distinguere tra una nozione funzionale e una strutturale. In termini funzionali, come osservato in dottrina (D. Gallo, L’efficacia diretta del diritto dell’Unione europea negli ordinamenti nazionali, Milano, 2018, p. 48; Id., Direct Effect in EU Law, Oxford, in corso di pubblicazione), la costituzionalizzazione della Corte comincia ben prima delle modifiche di Nizza, quando «[l]a Corte di giustizia […], a partire da Van Gend & Loos, dà avvio al processo di costituzionalizzazione di se stessa e della propria funzione nell’ordinamento comunitario», ferma restando, beninteso, la peculiarità di una siffatta costituzionalizzazione nell’ambito di tale ordinamento [T. Tridimas, Bifurcated Justice: The Dual Character of Judicial Protection in EU Law, in A. Rosas, E. Levits, Y. Bot (eds.), The Court of Justice and the Construction of Europe: Analyses and Perspectives on Sixty Years of Case-Law, The Hague, 2013, pp. 367-379]. In termini strutturali, invece, la costituzionalizzazione della Corte si traduce nella cristallizzazione nel diritto primario di un riparto di competenze tra essa, da un lato, e il Tribunale (e le eventuali giurisdizioni specializzate), dall’altro, che la proietta a diventare la giurisdizione cui è conferito il trattamento delle sole cause suscettibili di avere, a vario titolo, una valenza fondamentale per il funzionamento dell’ordinamento dell’Unione. Nel presente contributo a questa nozione ci si riferisce.
[58] Così J. Alberti, Il trasferimento del rinvio pregiudiziale al Tribunale, cit., p. 20.
[59] V. T. Tridimas, Breaking with Tradition: Preliminary Reference Reform and the New Judicial Architecture, in EU Law Live, 26/06/2024, il quale osserva che «[t]his amendment is more likely to be the opening shot rather than the end of the road».
[60] Per un’analisi critica di questa proposta v. R. Adam, La recente proposta della Corte di trasferire i ricorsi per inadempimento al Tribunale dell’Unione, in Federalismi.it, fasc. 3, 2018, pp. 2-16.
[61] Sul punto v. M. van der Woude, The Place of the General Court, cit., p. 24, il quale osserva che «pragmatism has its limits [and a]s any building, the judicial architecture of the Union must obey certain rules and stay within the limits set by the Treaties». Lo stesso autore distingue, peraltro, tra un modello giudiziario ispirato, appunto, a pragmatismo, riconducibile alla riforma contenuta nel reg. 2024/2019 e un modello concettuale nel quale la Corte dovrebbe assumere il ruolo di una Corte costituzionale e il Tribunale quello di un Consiglio di Stato. Su tali modelli si tornerà di seguito.
[62] Anche la dottrina, pur dando conto delle preoccupazioni e delle inquietudini legate al trasferimento delle competenze pregiudiziali al Tribunale, osserva che «[g]razie, infatti, al diffondersi della prassi delle decisioni del Tribunale in materia pregiudiziale e alla conseguente assuefazione a questa prassi, ma soprattutto a seguito della crescita inarrestabile del contenzioso innanzi alla Corte, non è difficile prevedere che tra qualche anno si finirà inevitabilmente per sollecitare un ulteriore trasferimento di “materie specifiche” e poi ancora di altre fino ad un limite oggi imprevedibile. E questo avverrà, con ogni probabilità, con molte minori reticenze e perplessità di quante ne siano state espresse in occasione di questo primo passaggio». Così A. Tizzano, Il trasferimento di alcune questioni pregiudiziali, cit., p. 4. Altri autori non mancano, invece, di esprimere riserve, a monte, considerando il trasferimento al Tribunale delle competenze in alcune materie uno «short-term palliative» con la conseguenza che ulteriori interventi rappresenteranno soluzioni estemporanee per tamponare bisogni immediati, ma non avranno carattere strutturale. V. M. Bobek, Preliminary Rulings before the General Court, cit., p. 1543.
[63] Sulla circostanza che l’estensione del filtro generalizzato potrebbe sollevare problemi di conformità rispetto all’art. 256, par 1, 2° c. TFUE, v. M. Condinanzi, Corte di giustizia e Tribunale dell’Unione europea: storia e prospettive di una “tribolata” ripartizione di competenze, in Federalismi.it, fasc. 3, 2018, p. 11.
[64] Sugli effetti delle sentenze pregiudiziali v. M. Broberg, N. Fenger, Preliminary Reference to the European Court of Justice, Oxford, 2010; A. Maffeo, Gli effetti della sentenza pregiudiziale, in C. Iannone, F. Ferraro (a cura di), op. cit., pp. 199-212; Id., Les effets de la décision préjudicielle, in C. Iannone, F. Ferraro (sous la direction de), op. cit., pp. 279-294.
[65] In questo contesto va rilevato che, la Corte ha riesaminato solo sei delle oltre quattrocento pronunce rese dal Tribunale nella sua qualità di giudice delle impugnazioni, limitandosi a intervenire in cause in cui si ponevano questioni trasversali: Corte giust., 17 dicembre 2009, causa C-197/09 RX-II, M c. EMEA, ECLI:EU:C:2009:804, punto 66 (diritto al contraddittorio); 28 febbraio 2013, causa C-334/12 RX-II, Arango Jaramillo e.a. c. BEI, ECLI:EU:C:2013:134, punto 54 (termine ragionevole per il deposito di un ricorso); 19 settembre 2013, causa C-579/12 RX-II, Commissione c. Strack, ECLI:EU:C:2013:570, punto 58 (relazione tra Statuto e CdfUE); 10 settembre 2015, causa C-417/14 RX-II, Missir Mamachi di Lusignano c. Commissione, ECLI:EU:C:2015:588, punto 53 (riparto di competenze tra Tribunale e TFP in materia risarcitoria); 26 marzo 2020, cause riunite C-542/18 RX-II e C-543/18 RX-II, Simpson c. Consiglio e HG c. Commissione, ECLI:EU:C:2020:232, punto 87 (principio del giudice precostituito per legge).
Dagli uomini d’onore agli uomini d’amore
di Lia Sava
Il titolo del nostro momento di confronto è suggestivo e, ad un tempo, bellissimo. “Uomini d’onore e uomini d’amore” sono espressioni che richiamano due categorie concettuali nettamente distinte perché non c’è nulla di più distante dalla declinazione dell’amore rispetto all’appartenenza al sodalizio di stampo mafioso impastato di un malsano concetto di “onore”. Ed è proprio la potenza evocativa dell’antitesi fra “l’onore e l’amore” (consentitemi la semplificazione) che permette di avviare una riflessione sul ruolo del cristiano nel tempo che viviamo e che impone, al battezzato, di individuare la sua strada per essere “uomo d’amore” nel contesto in cui opera e nel suo rapporto con i doveri che gli derivano dal suo essere cittadino, in un panorama che vede gli stati occidentali, ad un tempo, laici e multiculturali. In prima battuta mi sovviene una considerazione semplice ma, mi consta, non scontata. Invero, il Cristianesimo ha segnato una sorta di sostanziale rivoluzione nei rapporti fra essere credenti e società. Nel Vangelo Gesù insegna: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Ma cosa significa davvero questa espressione e qual è il corretto rapporto che un cristiano, che vuole essere “uomo d’amore”, deve avere rispetto alla cosa pubblica? In prima battuta occorre evidenziare che Gesù è stato ben chiaro: la laicità dello Stato (al di là delle fuorvianti interpretazioni dei secoli bui della storia della Chiesa) si fonda, a ben vedere, proprio su questa espressione. E torniamo alla nostra domanda, che richiede una risposta ancora più complessa nel momento in cui quello stesso cristiano che la pone a sé stesso riveste un ruolo pubblico. Ed io mi chiedo (io che questa domanda me la sono posta e continuo a pormela): se il mio essere cristiano deve plasmare nell’ essenza profonda la mia vita, come posso, rispettando i doveri e gli oneri connessi al mio lavoro, essere autenticamene “soldato di Cristo”, prestando così ossequio a quello che sono diventata nel momento in cui sono stata cresimata? Non è facile rispondere a tutti gli interrogativi sopra esposti. Ma occorre provarci perché l’unicità dell’essere umano non può scindersi con riguardo ad un aspetto così delicato. Invero, un dato costituisce la precondizione per un approccio corretto alle questioni. Un cristiano vive all’interno di un contesto sociale ove lavora e si relaziona e, se è vero che percorre un cammino personale, però, l’itinerario si costruisce in relazione con l’altro. In questo cammino nel lavoro, in famiglia, all’interno dei gruppi sociali ove opera un cristiano deve improntare il suo agire alla luce dei valori della sua religione. Questo significa essere cristiano. Ciò implica accoglienza e rispetto anche dei non cristiani e sforzo massimo per offrire un contributo etico alla società. Quindi una prima risposta può essere questa, per essere “un uomo d’amore” devo applicare il principio di uguaglianza fra tutte le fedi e fra tutte le etnie e cioè devo praticare la via del dialogo anche con il “diverso da me” perché per un cristiano la relazione autentica con l’altro è uno dei pilastri della sua fede. “Un uomo d’amore” sa dialogare perché il dialogo consente di combattere l’indifferenza verso la povertà, verso la miseria, verso gli ultimi. Un secondo aspetto da considerare riguarda il rapporto fra il cristiano e le regole statali. Qualcuno ha usato l’espressione “laicizzazione del cristianesimo”. In realtà, come ho già sopra evidenziato, la laicità è insita nel messaggio evangelico, come diceva Don Bosco: occorre essere buoni cristiani ed onesti cittadini e non si può essere cristiani autentici senza essere, nel contempo, onesti cittadini. A maggior ragione un cristiano che esercita una funzione pubblica deve guardare ai laici (a chi non crede, a chi appartiene ad altre religioni, a chi è indifferente ad ogni profilo spirituale) con uno sguardo scrupoloso, rivolto all’incontro utilizzando la lente di ingrandimento di quei valori evangelici dei quali egli è portatore. Al cristiano autentico, soprattutto nell’ambito lavorativo nel quale opera, non sono consentite “chiusure autoreferenziali”, ma deve “aprirsi” all’altro facendo il proprio dovere con assoluto scrupolo. Se il cristiano non fa il proprio dovere con scrupolo, umiltà, attenzione e disponibilità al confronto “con l’altro e verso l’altro”, non può dirsi cristiano autentico. Ma cosa significa essere cristiani e coniugare i valori di una fede autentica nel messaggio evangelico con lo svolgimento del proprio lavoro? Io mi sono data una risposta che chiaramente è declinata sulla mia professione (essere magistrato in una terra peculiare come quella siciliana). Ebbene io devo, in particolare, rendere un servizio giustizia rapido, efficace, essere sempre vigile per il rispetto del principio di uguaglianza fra tutti gli uomini ed individuare strumenti per la tutela degli ultimi, il tutto volto a creare un’uniformità nel trattamento fra situazioni analoghe, ancora una volta in piena attuazione dell’art. 3 della Costituzione. Quindi “l’uomo d’amore”, è scrupoloso ed attento al rispetto delle regole nello svolgimento del suo lavoro. Inoltre, credo sia molto importante sottolineare che il messaggio evangelico pone l’accento sull’apertura di Gesù a tutti gli uomini, a prescindere dal loro essere credenti, peccatori, appartenenti ad altre religioni perché il messaggio d’amore è rivolto ad ogni creatura ed ecco che mi appaiono inconsistenti le obiezioni che pure qualcuno muove nel momento in cui si afferma che nelle professioni “l’essere cristiano” potrebbe pregiudicare l’attuazione del principio di uguaglianza rispetto ad esempio ai musulmani, agli induisti o agli ebrei. In realtà è esattamente il contrario, in quanto essere autenticamente testimoni del messaggio evangelico all’interno del proprio percorso lavorativo senza nessuna ostentazione del proprio credo, implica l’accoglienza ed il rispetto (e l’amore) per tutti a prescindere dalla loro formazione politica o religiosa. Un cristiano inteso come “colui che segue il messaggio di Gesù” si deve impegnare in ogni ambito professionale, sociale, politico per contribuire alla realizzazione della giustizia, della pace, della libertà e dei diritti di tutti gli uomini. E vado oltre. Un cristiano deve essere fiero della sua fede e pienamente consapevole dell’apporto che può dare a tutela dei valori volti alla promozione del benessere individuale di ciascuno. Il rispetto del principio di uguaglianza è, dunque, la precondizione attraverso la quale comprendere come un cristiano può effettivamente dare il suo contributo per “il salto etico” indispensabile per la realizzazione di un mondo migliore. Dobbiamo, inoltre, chiederci se sono sufficienti il rispetto del principio di uguaglianza, la capacità di dialogo, lo scrupolo nell’osservanza delle regole e l’umiltà nell’approccio relazionale per essere definiti “uomini d’amore” e, ad un tempo, buoni cristiani nel momento in cui svolgiamo la delicata professione di magistrato o, comunque, allorché si esercita un qualsiasi incarico pubblico. Come mi è capitato di dire più volte, sono affascinata dalla figura del beato Giudice Rosario Livatino perché in maniera limpida ha tracciato, ormai 40 anni fa, una sorta di impianto culturale del cristiano che esercita non solo il delicato compito del giudicare, ma che si relaziona, fra l’altro, in senso più ampio, con la gestione della cosa pubblica. Un approccio sobrio, rigoroso, coerente, efficace. Invero, se esiste, ed è valore fondamentale, l’autonomia fra Chiesa e Stato, va riconosciuto al cristiano il diritto di testimoniare, sempre nel sacrosanto rispetto del principio di laicità, i valori della sua religione nel contesto in cui opera e svolge la sua attività: questo Livatino l’ha fatto. Procediamo con alcuni esempi. Pensiamo ad una controversia civile che vede contrapposti un attore ed un convenuto che cercano, attraverso l’operato del giudice, la tutela dei loro diritti ed il magistrato che applica con scrupolo e rigore le norme del Codice civile, saprà studiare e leggere, con scrupolo, ogni carta di quel fascicolo processuale consapevole che dietro quelle pagine c’è una vicenda umana, una sofferenza, una disuguaglianza da colmare. Questa è un’operazione ermeneutica che ogni giudice (cristiano o non cristiano) deve compiere, ma un cristiano lo farà anche con un punto di vista peculiare che si ricollega al suo essere cristiano. E mi spiego, se un magistrato, che si dice cristiano, non studia con massima attenzione le carte processuali, se non è disponibile all’ascolto delle parti, se è sprezzante e si sente gonfio del suo potere, quel magistrato, oltre ad essere un pessimo magistrato, non è cristiano nel senso autentico del termine. Un cristiano guarda l’individuo cercando di percepire l’altro che ha di fronte come soggetto da rispettare, da tutelare, a prescindere dalla sua fede, dalla sua appartenenza etnica, dalla sua classe sociale. I problemi si complicano quando ci troviamo di fronte ad un reato. Un magistrato che si occupa di penale ogni giorno si confronta: “con un fatto umano sporco di terra” e deve cercare di dargli dignità giuridica. In ambito penale ci troviamo di fronte ad un uomo che ha violato la sfera di altri uomini, creando un danno ingiusto e, in alcuni casi, come accade per i reati di criminalità organizzata, seminando morte. Rispetto ad un reato da accertare, il magistrato autenticamente cristiano oltre allo studio scrupoloso delle carte ed al rispetto per tutte le parti processuali, saprà non assumere posizioni preconcette, saprà (specialmente se fa il pubblico ministero) tener conto anche degli elementi di prova a favore degli indagati, rifuggirà da ogni tentazione mass mediatica, non si sentirà “investito da una missione”, ma avrà sempre presente che, in base al principio di uguaglianza, deve ricercare la verità per ripristinare l’equilibrio che il reato stesso ha compromesso. Anche in questo caso, un magistrato che si dice cristiano e che pone al centro dello svolgimento della sua attività il proprio ego invece che il servizio per l’altro non può ritenersi autenticamente portatore, nel suo quotidiano, del messaggio di Gesù e, ad un tempo, non realizza quello che è il fine ultimo della giustizia penale e cioè ricostruire e ricomporre in chiave equilibratrice e rieducativa le conseguenze di una lesione di valori fondamentali. Al contrario, un magistrato non cristiano che si pone nello svolgimento della sua professione realizzando, in concreto, lo studio del fascicolo, il rispetto dell’altro, la sobrietà e l’umiltà nella consapevolezza di poter sbagliare, realizza in pieno il messaggio evangelico anche se, per ipotesi, non è battezzato. Ciò che mi pare assolutamente evidente è che in un momento storico come quello confuso nel quale viviamo, ove pare frantumarsi il barlume etico dell’uguaglianza dei diritti, dell’uguaglianza fra tutti i cittadini (a prescindere dalla loro fede o etnia), la fedeltà al Vangelo e cioè la coerenza del cristiano può davvero fare la differenza. Possiamo, dunque, affermare che, nel pieno e rigorosissimo rispetto del principio di laicità, un magistrato cristiano (come qualsiasi cristiano) per essere effettivamente coerente con il messaggio evangelico, non deve essere un ottuso e chiuso difensore di una cristianità fatta di apparenza, ma deve essere testimone, in ogni sfera esistenziale e quindi anche nello svolgimento del proprio lavoro, della parola di Gesù. Ed arriviamo al discorso sulla coerenza. Un cristiano, per essere “uomo d’amore”, deve essere coerente con i dettami del Vangelo e deve operare in una società pluralista, senza preclusioni all’apertura verso ogni soggetto con il quale si trovi ad interagire. Un cristiano non fa “guerre sante”, ma si apre al suo prossimo con disponibilità e coraggio mostrandosi coerente e mai autoreferenziale. Un cristiano non impone la sua religione, ma si deve mostrare portatore nel quotidiano di quei valori che non possono e non devono essere limitati alla sua sfera privata, ma devono illuminare ogni aspetto della sua vita, quindi anche quello lavorativo. Un cristiano, adempiendo con scrupolo ai propri doveri, si pone, nel rapporto con gli altri, anche come “testimone della sua fede”. Credo che se riuscissimo ad essere cristiani coerenti, se riuscissimo a mostrarci come autentici portatori dei valori che Gesù ha insegnato 2000 anni fa, sarebbe superata la crisi del cristianesimo che ci schiaccia.
Voglio concludere ricollegandomi all’esperienza professionale che mi caratterizza ormai da quasi un trentennio che è quella di magistrato che si occupa di criminalità organizzata e che, quindi, ha avuto ed ha contatti con i soggetti che definiamo collaboratori di giustizia e che sono di frequente l’emblema di un tentativo individuale di ricomporre, anche sotto il profilo spirituale, frammenti di un’esistenza consumata sotto l’usbergo dei disvalori delle mafie.
Nella mia esperienza ho potuto verificare che alcuni di questi uomini, pur non essendo religiosi in senso classico, avvertono nel profondo un bisogno di spiritualità al quale ancorarsi per “fare ammenda” del male causato. Non tutti ovviamente, ma alcuni, una volta avviato un autentico percorso collaborativo, hanno sentito il bisogno di compiere azioni positive nei confronti del prossimo come, ad esempio, prendersi cura dei bisognosi. In altri, specie dopo molti anni dell’avvio della collaborazione, ho notato una crescita etica ed una progressiva consapevolezza dei gravi crimini commessi. L’incontro con i familiari, ad esempio, di coloro che hanno ucciso, può definirsi come l’epifenomeno di un cammino di consapevolezza dal lato del collaboratore di giustizia e di autentico perdono da parte delle vittime. Perché la vittima, e cioè in molti casi i familiari dei soggetti sterminati dall’organizzazione mafiosa, attraversano anch’essi un travaglio del quale occorre tenere conto e con il quale misurarsi. Io cristiano, battezzato, cresimato, educato al concetto di perdono secondo il messaggio evangelico, devo confrontarmi con soggetti criminali che hanno ucciso mio padre, mio figlio, mio fratello. Confrontandomi con numerose di queste vittime, ho potuto comprendere che la prima fase è quella del dolore straziante, della rabbia, della disperazione, dell’odio nei confronti dell’assassino, al punto che tutta l’impalcatura esistenziale pare crollare. Ma con il tempo, almeno per alcuni, inizia un’altra fase e cioè la fase della consapevolezza nuova: quella della necessità di confrontarsi con il perdono. Ed un “uomo d’amore” dal perdono non può prescindere. Non è facile perdonare chi ti ha portato via gli affetti più grandi ma il cristiano autentico deve cimentarsi con la sfida del perdono. Per quella che è la mia esperienza, alcune vittime di mafia ci sono riuscite e quell’ incontro con i carnefici, adesso pentiti dei loro misfatti, si è rivelato salvifico per entrambi. In chiave di sintesi, credo di aver compreso, dopo quasi 35 anni di professione, che Gesù si mostra nel cammino spirituale, non necessariamente religioso, di ognuno di noi, proprio attraverso gli occhi di coloro che siamo chiamati a giudicare e nei confronti dei quali dobbiamo porci “sullo stesso piano”, senza preconcetti, senza condizionamenti di sorta, perché solo questo “angolo prospettico” consente di applicare la norma al caso concreto sostanziando i valori alti che il servizio giustizia deve realizzare.
Voglio concludere, ancora una volta, con il principio per me fondamentale di laicità dello Stato. La ricerca del bene, del giusto, la necessità della salvaguardia dei diritti di tutti è aspirazione di coloro che auspicano un mondo migliore a prescindere dal loro credere in Dio, dal loro credo religioso. Un cristiano autentico, per essere “uomo d’amore”, non deve mai dimenticarlo e deve agire per l’inclusione e per l’accettazione delle differenze. Invero, Gesù ci indica un metodo per la ricerca del giusto che può essere praticato da chiunque, a prescindere dal credo religioso praticato. Ed è il solo strumento per essere, autenticamente, “uomini d’amore”. Dovremmo comprendere che, in presenza di tutto il male che ci circonda, abbiamo una sola ricetta salvifica. Rispondere al male con il bene. Invero, se si risponde al male con il male lo nutriamo, lo fortifichiamo e lo rendiamo invincibile. Il che significa perdere ogni speranza. Se, invece, impariamo a rispondere al male con il bene noi lo depotenziamo fino ad annullarlo. Credo che questa sia la sola strada per vivere da “uomini d’amore”.
Intervento di Lia Sava al Meeting di Rimini 2024.
Immagine: Caspar David Friedrich, Due uomini contemplano la luna, olio su tela, 1825-30, Metropolitan Museum of Art, New York.
Radici e valore del codice di procedura civile
di Paolo Spaziani
Sommario: 1. Le origini del “codice del 1940”. Il Ministero Oviglio, la sottocommissione C e il progetto Carnelutti. - 2. Il Ministero de Francisci, il legislatore solitario e il progetto Redenti. - 3. Il Ministero Solmi, una nuova commissione e i progetti preliminare e definitivo. - 4. Il Ministero Grandi, il comitato ristretto e il nuovo codice. - 5. Il codice di Chiovenda o il codice di Calamandrei? - 6. Calamandrei e i suoi maestri. La missione del giurista e il valore del codice.
1. Le origini del “codice del 1940”. Il Ministero Oviglio, la sottocommissione C e il progetto Carnelutti.
Ha ottantadue anni il codice di procedura civile, detto “del 1940”, ma in realtà entrato in vigore il 21 aprile 1942.
Il codice fu emanato in attuazione di una legge di delega approvata quasi un ventennio prima, la legge 30 dicembre 1923, n.2814[1].
Il primo tentativo di attuare la delega fu autorevolmente compiuto tra il 1924 e il 1926, nell’ambito della commissione per la riforma dei codici formata dal Ministro guardasigilli Aldo Oviglio[2].
Poiché i codici da riformare erano quattro, la commissione, presieduta dallo stesso guardasigilli, fu divisa in quattro sottocommissioni: la sottocommissione A (per il codice civile), presieduta da Vittorio Scialoja; la sottocommissione B (per il codice di commercio), presieduta da Mariano D’Amelio, primo presidente della Corte di cassazione; la sottocommissione C (per il codice di procedura civile), presieduta da Lodovico Mortara; la sottocommissione D (per il codice della marina mercantile), presieduta da Raffaele Perla, presidente del Consiglio di Stato.
La sottocommissione C aveva Giuseppe Chiovenda come vicepresidente e tra i componenti più autorevoli c’erano Francesco Carnelutti, Piero Calamandrei, Federico Cammeo ed Enrico Redenti.
La prima riunione si tenne il 25 e 26 giugno 1924 (giorni terribili per l’accidentata e dolorosa storia del nostro giovane Paese, recentissimamente ingiuriato nei suoi più profondi valori dall’infame assassinio di Giacomo Matteotti) e registrò una sonora sconfitta dell’oralità chiovendiana, in favore della quale si erano schierati Calamandrei, Menestrina e Zanolla[3], ma non gli altri, compreso Carnelutti, il quale aveva invece proposto una soluzione di compromesso, fondata sul principio dell’immediatezza temperata[4].
Chiovenda, deluso, rassegnò immediatamente le sue «irrevocabili dimissioni» dalla vicepresidenza e dalla sottocommissione[5], che poi ritirò dopo che il guardasigilli, con missiva del 23 luglio, aveva ribadito la sua intenzione di respingerle[6].
Nel frattempo, però, Mortara aveva istituito un comitato ristretto con il compito di predisporre uno schema di progetto, nominando relatore Carnelutti.
Carnelutti lavorò indefessamente per mesi e alla fine del mese di maggio del 1925 licenziò un imponente progetto del nuovo processo di cognizione di 426 densissimi articoli, cui sarebbero seguiti, l’anno successivo, 293 articoli sul processo di esecuzione.
Il progetto di Carnelutti, redatto, «con mirabile diligenza, pari alla dottrina»[7], rifletteva una concezione del processo non derivante «né dalla scuola esegetica né da quella sistematica», ma, «tutta e soltanto dal pensiero» del suo autore; per questo provocò sconcerto nell’ambito della sottocommissione, in seno alla quale sorsero «discussioni che restarono veramente memorande per chi ebbe la fortuna di parteciparvi»[8].
Le discussioni, tuttavia, quanto più erano ‹‹memorande›› tanto più nuocevano alla speditezza dei lavori, sicché il progetto fu presentato al Ministro solo il 24 giugno 1926, quando ormai Aldo Oviglio era stato sostituito da Alfredo Rocco, il quale ne rimase talmente insoddisfatto da relegarlo nel più buio dei cassetti ministeriali, destinato a non più riaprirsi[9].
2. Il Ministero de Francisci, il legislatore solitario e il progetto Redenti.
Il secondo tentativo si ebbe nel 1932.
Il 20 luglio, Alfredo Rocco apprese, dal giornale che stava leggendo sulla sua scrivania di Via Arenula, la notizia di essersi dimesso[10]. Sullo scranno ministeriale salì Pietro de Francisci, allievo di Pietro Bonfante, a sua volta allievo di Vittorio Scialoja.
Esponente di primo piano del regime[11], il nuovo guardasigilli non era simpatico a Calamandrei, il quale tramanda un episodio, accaduto quando de Francisci aveva concluso l’esperienza ministeriale, raccontato da Codignola e asseritamente confermato da Gentile, secondo cui l’ex Ministro, rifiutatosi a causa dell’età e delle condizioni di salute di sottoporsi alle prove atletiche riservate ai gerarchi fascisti, sarebbe stato irriso da Starace in presenza degli altri gerarchi. Calamandrei commenta con disgustata ironia, non già il fatto che de Francisci aveva rifiutato di esibirsi nelle stucchevoli prove atletiche ideate da Starace, quali il salto delle baionette e quello del cerchio in fiamme, ma il fatto che l’ex Ministro della giustizia, rettore dell’Università di Roma e presidente dell’istituto di cultura fascista, non aveva saputo proferire alcuna parola di protesta per l’irrisione di Starace, non ostante lo «sconcio suon di risa» degli altri gerarchi[12].
De Francisci, storico del diritto romano, considerato, nel settore di sua competenza, un vero e proprio «rinnovatore»[13], in tre discorsi tenuti al Parlamento tra il 1933 e il 1934 illustrò le sue idee sul codice di procedura civile del futuro, le quali erano fondate su tre punti fondamentali: il rafforzamento dei poteri del giudice (sia sotto il profilo della direzione processuale che sotto il profilo delle iniziative istruttorie e decisorie); la responsabilizzazione delle parti (con la previsione di un sistema di sanzioni volte a dissuaderle dalla proposizione di domande temerarie, di eccezioni dilatorie e, in genere, di condotte contrarie alla buona fede processuale); l’eccezionalità dell’appello[14].
Per l’attuazione della delega, diversamente da Oviglio, che aveva istituito un’apposita sottocommissione di cui avevano fatto parte tutti i più importanti processualisti, de Francisci preferì rivolgersi ad un unico studioso, un legislatore solitario. La scelta, verosimilmente caldeggiata dall’ormai non più giovane ma sempre influente Vittorio Scialoja, cadde su un membro della scuola dell’anziano maestro: Enrico Redenti, discepolo di quel Vincenzo Simoncelli che di Scialoja era stato allievo, collega e genero[15].
La chiamata di de Francisci giunse a Redenti sul finire del 1932 e Redenti consegnò il suo progetto alla fine del 1934. Nel mese di ottobre di quell’anno, quando era giunto quasi alla fine del lavoro, scrisse che la novità saliente del venturo processo sarebbe consistita nella previsione che il giudice e le parti (evidentemente, prima di dar corso alla trattazione e all’istruzione, ma dopo aver veduto «le carte della causa») si mettessero seduti «intorno ad un tavolo» al fine di «sfrondare tutto quello che non serve», «cavare il nocciolo o il gariglio da ogni questione» e far emergere, «in molti casi, anche la verità dal metaforico pozzo»[16].
Peraltro, il Ministro de Francisci, ricevuta una copia del progetto, fece appena in tempo ad inviarla a Chiovenda con la preghiera di fargli avere il suo parere[17], prima di essere a sua volta “dimissionato”.
Agli inizi del 1935 a Via Arenula arrivò un altro storico (questa volta non di diritto romano ma di diritto comune), anch’egli professore all’Università di Roma (di cui de Francisci era stato nel frattempo nominato Rettore), nonché esponente del regime.
Anche Solmi, ça va san dire, era antipatico a Calamandrei, il quale, quattro anni dopo (il 23 luglio 1939), ne avrebbe salutato le dimissioni dicendo che il «grasso liberalone che si era messo a far lo squadrista e a metter la sua firma alle leggi razziste per il gusto di passare alla storia» era stato «scacciato via» senza che gli fossero dati «neanche gli otto giorni, come uno stalliere»[18].
Solmi pubblicò il progetto già redatto da Redenti durante il Ministero de Francisci[19], ma, prima, nominò una nuova commissione (di cui faceva parte lo stesso Redenti) con il compito di redigere un nuovo progetto.
Chiunque lesse i 745 articoli del corposo testo legislativo, dunque, sapeva di leggere un testo già vecchio, destinato ad essere superato dai lavori della nuova commissione ministeriale[20].
3. Il Ministero Solmi, una nuova commissione e i progetti preliminare e definitivo
Il progetto preliminare redatto dalla Commissione nominata da Solmi[21] – siamo al terzo tentativo di attuare la legge di delega – fu pubblicato al principio dell’estate del 1937, anno che aveva già visto impoverirsi la scienza processuale nel mese di gennaio, per essere venuto a mancare Mortara[22], e che l’avrebbe vista impoverirsi ulteriormente nel mese di novembre, quando sarebbe mancato anche Chiovenda[23].
Il progetto preliminare Solmi, perseguendo l’intento di attuare la c.d. concezione pubblicistica del processo, presentava una marcata connotazione autoritaristica, configurando decisamente il giudizio civile quale giudizio inquisitorio ad impulso d’ufficio[24].
Il Ministro chiese alle Università di esprimere il loro parere. La Regia Università di Firenze – ovverosia, Piero Calamandrei – non mancò di far sentire la sua voce fermamente critica.
Calamandrei osservò che la soppressione del principio dispositivo avrebbe avuto effetti sciagurati, poiché esso principio rappresentava la proiezione sul piano processuale del principio sostanziale della disponibilità dei diritti soggettivi; pertanto, la sua totale sostituzione con il «principio d’ufficialità» avrebbe significato, in sostanza, «abolire il diritto privato», «trasformare in diritto pubblico tutto quanto il diritto civile», e, in definitiva, fare come «quei regimi in cui si è voluto totalmente e consapevolmente abolire la proprietà privata ed in generale il diritto soggettivo individuale»[25].
Il parere di Calamandrei – particolarmente per il riferimento al codice sovietico – lasciò il segno, poiché il «concittadino di Farinata»[26], che aveva nella scrittura «un dono che depongono gli Dei nella culla»[27], era sapientemente riuscito a toccare il nervo scoperto del regime: l’ossessione per la ineluttabilità delle lotte di classe preconizzate da Marx, che sarebbe stata alla base di tutti gli obiettivi di politica legislativa di diritto privato del regime: dall’unificazione dei codici, alla “commercializzazione” della disciplina civilistica tradizionale dei contratti e delle obbligazioni, alla sostituzione della nozione di commerciante con quella generica e totalizzante di imprenditore.
Solmi fece dunque macchina indietro[28] e, nel gennaio del 1939, pubblicò un progetto definitivo[29] (quello che, secondo Redenti, sarebbe poi divenuto il «codice vigente»[30]) in cui era stato raccolto il suggerimento di Calamandrei di introdurre «una netta distinzione tra il gruppo di controversie su rapporti indisponibili o intransigibili … e quello di tutte le altre controversie su rapporti di mero diritto privato», facendo in modo che, solo per il primo il principio inquisitorio potesse essere «rigidamente attuato», mentre, per il secondo, i poteri istruttori del giudice restassero «necessariamente» più limitati[31].
4. Il Ministero Grandi, il comitato ristretto e il nuovo codice
Peraltro, il progetto definitivo Solmi non divenne il nuovo codice, perché nel luglio del 1939, come si è detto, anche Solmi fu “dimissionato”. Al Ministero di grazia e giustizia fu chiamato Dino Grandi, il quale, essendo dotato di uno spessore politico ben più rilevante di quello dei predecessori, capì che, se si fosse veramente voluto fare il nuovo codice di procedura civile – siamo al quarto tentativo – non solo sarebbe occorso riunire in una virtuosa alleanza tutti e tre i più autorevoli processualisti (Carnelutti, Calamandrei, Redenti), ma sarebbe stato necessario altresì metterli dinanzi ad un obiettivo ben determinato e, per loro, indisponibile.
In altri termini, non si poteva chiedere ai tre grandi di preparare il codice da capo perché ciò, non solo avrebbe prolungato i tempi, ma avrebbe probabilmente suscitato discussioni che sarebbero state non meno memorande di quelle che, tredici anni prima, avevano condannato all’insuccesso il tentativo di Carnelutti e al fallimento il Ministero Rocco.
Facendo di necessità virtù, bisognava invece lavorare su quello che c’era. Quello che c’era era il progetto definitivo Solmi.
Pur nominando una nuova commissione, formata – sembra – da nove persone[32], Grandi si affidò ad un comitato ristretto: nell’ottobre del 1939 chiamò a sé in un incontro riservato Calamandrei, a cui era legato da rapporti di reciproca stima e finanche di amicizia, e gli disse – sono parole dello stesso Calamandrei – che «un suo incaricato, Conforti, avrebbe rielaborato il progetto Solmi, avvalendosi delle critiche mie, di Carnelutti e di Redenti»[33].
In altre e più chiare parole, il progetto Solmi, dopo essere stato diligentemente riordinato da Leopoldo Conforti (che, quale magistrato della procura generale presso la Cassazione, si occupava prevalentemente di diritto penale!), avrebbe potuto essere eventualmente interpolato, integrato e persino rielaborato sulla base delle osservazioni dei tre processualisti.
I lavori, iniziati sullo scorcio del 1939, si svolsero speditamente e il nuovo codice fu pubblicato il 28 ottobre 1940, per entrare in vigore, dopo una lunga vacatio, il 21 aprile 1942, accompagnato dalla celeberrima Relazione, scritta – come tutti sanno – da Calamandrei.
5. Il codice di Chiovenda o il codice di Calamandrei?
In una bellissima lettera del 14 febbraio 1955 a Luigi Preti, Calamandrei, con la solita incisività della sua inimitabile prosa, nel difendere il codice da chi lo apostrofava come “fascista”, avrebbe detto che esso costituiva l’eredità di un cinquantennio di studi[34].
Un’affermazione di difesa, formulata da colui che Salvatore Satta avrebbe ammirato come «uomo d’azione» e «giurista martire»[35]; e tuttavia un’affermazione difficilmente contestabile, ove si pensi a tutti i tentativi di riforma susseguitisi dalla fine della prima guerra mondiale, che avevano visto impegnato il gotha della processualcivilistica italiana e che erano sfociati nei progetti di Chiovenda, di Mortara, di Carnelutti e di Redenti, dei quali, non ostante il contesto autoritario e illiberale in cui era venuta maturando, non poteva non essere restata traccia nella nuova opera legislativa.
Ma chi era il vero “padre” del nuovo codice?
Se Redenti e Carnelutti non esitarono, il primo a prenderne le distanze[36], il secondo a proclamare la paternità delle idee e dei principi in esso recepiti[37], Calamandrei si schermì, affermando che il nuovo codice prendeva a base gli insegnamenti di Chiovenda[38].
A tale affermazione lo studioso fiorentino diede sostanza, citando sette volte il Maestro di Premosello nella Relazione, così consentendo il radicamento della diffusa ed autorevole opinione secondo cui il “codice del 1940” sarebbe il codice di Chiovenda[39].
In realtà, lo stesso Calamandrei era ben consapevole che più che degli altri grandi processualisti, il “codice del 1940” era il suo codice.
Non tanto per essere riuscito – sapientemente eludendo la ricezione nel testo normativo degli eccessi autoritaristici del progetto preliminare Solmi – nell’intento di mantenere la struttura tradizionale del processo civile quale processo dispositivo ad impulso di parte (artt.99, 112, 115, 306 ss. c.p.c.), limitando il modello inquisitorio ad un novero circoscritto di procedimenti dettati per la tutela di particolari situazioni soggettive, deputate alla protezione di interessi superiori ed indisponibili[40], nonché di conservare il principio della procedimentalizzazione dell’esercizio dei poteri del giudice, dinanzi alla possibilità di ampliarne a dismisura la discrezionalità e di consentirne persino l’arbitrio[41]; ma anche per aver vissuto, con consapevolezza e dignità, il dramma morale dello scienziato che si pone al servizio di un regime illiberale per dare ai suoi concittadini un codice migliore o, comunque, per risparmiargliene uno peggiore.
6. Calamandrei e i suoi maestri. La missione del giurista e il valore del codice.
Nel risolvere in senso positivo l’interrogativo etico se dovesse o meno rendere la collaborazione richiestagli da un governo che aveva ingiuriato i valori della libertà e della democrazia, quando essa collaborazione sarebbe potuta servire al miglioramento del Paese, Calamandrei mostrò di aver recepito le idee tramandategli dai suoi due grandi maestri in ordine alla missione del giurista.
Il 16 gennaio 1920, nel proludere dalla cattedra della facoltà giuridica di Siena[42], egli aveva ricordato, con commozione, la prolusione che ventidue anni prima aveva tenuto, dalla stessa cattedra, il suo «indimenticabile maestro», Carlo Lessona.
In quella circostanza Lessona, nell’indicare L’indirizzo scientifico della procedura civile, aveva posto in luce la posizione di grande responsabilità della scienza processuale, la quale avrebbe dovuto fondarsi sul «metodo storico, che ci rivela la evoluzione e le leggi del pensiero giuridico applicato al giudizio civile» e sull’analisi della legislazione comparata, per guidare il legislatore all’adozione, «sull’esempio degli altri Stati», dei «principi giuridici che vi fecero buona prova». Lessona aveva quindi concluso che egli studiava «pel vantaggio della Scienza e della Patria»[43].
Il riconoscimento alla scienza giuridica del ruolo di motore della crescita morale e civile del Paese si sarebbe ritrovato, di lì a qualche anno, anche negli scritti di Chiovenda, nei quali sarebbe stato espresso con le stesse parole utilizzate da Lessona.
Lo studioso di Premosello, infatti, aveva chiuso la celeberrima Prefazione alla terza edizione dei Principii del 1923, con l’avvertenza che quel lavoro trovava il suo ultimo fondamento nel «desiderio vivissimo di servire con tutte le [sue] forze la [sua] Scienza e la [sua] Patria»[44].
La comparazione tra la Prolusione lessoniana del 1898 e la Prefazione chiovendiana del 1923 consente di apprezzare che i due esponenti di scuole antagoniste, pur nell’ambito di contrapposte concezioni metodologico-scientifiche, avevano avuto tuttavia la medesima visione della scienza giuridica quale strumento indispensabile della crescita morale della Nazione e, dunque, l’identica sensibilità per la delicatezza e la responsabilità del ruolo del giurista, chiamato a servire non solo la Scienza ma anche la Patria.
L’eredità ricevuta dai suoi grandi maestri, fondata sul comune riconoscimento alla riflessione giuridica della dignità di strumento del progresso civile e politico della Nazione e sulla comune attribuzione al giurista del ruolo di propulsore della coscienza sociale nella direzione di quel progresso, non soltanto era stata posta da Calamandrei a presupposto di quella osmosi tra i due insegnamenti e i due metodi che ritroviamo alla base della sua opera più importante, il Trattato in due volumi su La Cassazione civile[45]; ma costituì anche il fondamento morale della scelta di collaborare in maniera decisiva ai lavori della commissione Grandi, impegnandosi in misura superiore agli altri studiosi nell’ambito del comitato ristretto, al fine di dar vita ad una legge che non fosse l’espressione di un regime, ma, appunto, delle diverse generazioni di studi che avevano fatto l’età aurea della scienza processuale italiana[46].
Il codice del 1940, sorto dal «desiderio vivissimo di servire la Scienza e la Patria», nel bene nel male (tra recriminazioni talora stucchevoli e progetti di cambiamento talora improponibili), governa ancora oggi le nostre controversie civili.
Indebolito certo, ma non ancora, per fortuna, travolto da propositi di riforma male intesi e peggio attuati.
[1] Legge 30 dicembre 1923, n. 2814: Delega al Governo per emendamenti al codice civile e per la pubblicazione dei nuovi codici di procedura civile, di commercio e per la marina mercantile in occasione della unificazione legislativa con le nuove Provincie, in G.U. 8 gennaio 1924, n.6.
[2] Aldo Oviglio, dapprima membro del partito radicale, poi militante nelle file dei nazionalisti, infine “fascista di maniera” (così, citando una frase attribuita al prefetto di Bologna, F. Conti, in Dizionario biografico degli italiani, Treccani, vol. 80, 2014), pur giustificando inizialmente le azioni squadriste, recuperò dignità umana e politica indignandosi per il delitto Matteotti e facendosi espellere dal partito per aver contrastato in sede parlamentare un disegno di legge lesivo dell’indipendenza della magistratura. Fu Ministro di grazia e giustizia del Regno d’Italia nel primo governo Mussolini, dall’indomani della marcia su Roma al 5 gennaio 1925.
[3] G. Tarello, L’opera di Giuseppe Chiovenda nel crepuscolo dello Stato liberale, in Materiali per una storia della cultura giuridica, III, 1, 1973, 766 ss.
[4] F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi - La procedura civile nel Regno d’Italia (1866-1936), Milano, 1991, 264.
[5] La decisione, manifestata oralmente all’esito della deludente seduta del 26 giugno 1924, fu poi formalizzata in una lettera del 2 luglio successivo, che Cipriani ha rinvenuto tra le Carte di Chiovenda a Premosello (cfr. F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 265, nota 23).
[6] Le dimissioni di Chiovenda, dapprima reiterate con lettera dell’8 luglio, furono revocate qualche settimana più tardi, dopo che il Ministro Oviglio aveva ribadito la sua intenzione di respingerle con due missive del 4 e del 23 luglio (cfr. F. Cipriani, ult. cit.).
[7] Così, nella veste di presidente della sottocommissione C, L. Mortara, Relazione al Ministro, in Commissione reale per la riforma dei codici. Sottocommissione C, Codice di procedura civile, Progetto, Roma, 1926, III-IV.
[8] Così P. Calamandrei, Note introduttive allo studio del progetto Carnelutti (1928), ora in Opere giuridiche, cit., I, 187 ss., part.197.
[9] Nel 1936 Mortara ci avrebbe informato che il progetto, «conosciuto sotto il nome autorevole del Carnelutti», era stato posto «in disparte» dal guardasigilli Alfredo Rocco (cfr. (L. Mortara), Recensione a Ministero di grazia e giustizia, Codice di procedura civile, in Giur. it., 1936, IV, 110). L’anno successivo Mariano D’Amelio, primo presidente della Corte di cassazione e già presidente della sottocommissione B, avrebbe, inoltre, rivelato che lo stesso Rocco, evidentemente insoddisfatto del progetto presentatogli, si era posto personalmente all’opera per scrivere un nuovo codice di procedura civile «omogeneo, italiano, fascista» (cfr. M. D’Amelio, Codice di procedura civile. Progetto del Ministro guardasigilli Alfredo Rocco, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 3).
[10] A. Barbera, Nazione e Stato in Alfredo Rocco, Andria, 2001, 99.
[11] Sebbene de Francisci fosse fedelissimo di Mussolini, va tuttavia ricordato che la sua dottrina sarebbe stata riconosciuta e onorata anche in epoca post-fascista: nel 1956 gli sarebbero stati consegnati i quattro volumi degli Studi in onore, con le adesioni, tra gli altri, di Carnelutti e Redenti; non avrebbe aderito, invece, Calamandrei.
[12] P. Calamandrei, Diario 1939-1945, a cura di G. Agosti, I, Firenze, 1982, 57.
[13] S. Riccobono, Studi in onore di Pietro de Francisci, I, Milano, 1956, VIII.
[14] Dei discorsi tenuti da de Francisci alla Camera e al Senato tra il 1933 e il 1934 ci informa F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti (e alle radici del codice di procedura civile) (2005 con postilla 2006), in Scritti in onore dei Patres, Milano, 2006, 347-348.
[15] Redenti si laureò a Roma con Vicenzo Simoncelli con una tesi su I magistrati del lavoro. Simoncelli, già allievo di Vittorio Scialoja, ne divenne il genero, sposandone la figlia Giulia (cfr. G. Chiovenda, Commemorazione di Vincenzo Simoncelli, letta nell’Aula Magna della R. Università di Roma il 14 febbraio 1918).
[16] Così E. Redenti, Sul nuovo progetto del codice di procedura civile, in Foro it., 1934, IV, 181. Pur nella forma enfatica dell’esposizione (che era figlia dei tempi e che ha indotto molti studiosi moderni – a cominciare da F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 354 – a ritenere che il legislatore si muovesse nel quadro di una concezione autoritaria del processo civile che non prometteva nulla di buono per i diritti e le facoltà delle parti), la comunicazione di Redenti esprimeva un’esigenza reale, ancora oggi avvertita come attualissima: l’esigenza che il giudice arrivi alla trattazione della causa, adeguatamente informato sugli esatti termini della stessa, al fine di potere esercitare con proficua consapevolezza e auspicabile fruttuosità i poteri direttivi, istruttori, decisori e, prima ancora, conciliativi, non semplicemente formulando alle parti l’auspicio di mettersi d’accordo ma ponendole dinanzi ad un’ipotesi concreta di soluzione della controversia fondata su una prognosi allo stato degli atti, tenendo conto dell’effettivo thema decidendum e dello specifico thema probandum e, quindi, del (pur vago) fumus di fondatezza o infondatezza delle domande e delle relative eccezioni. Ciò che, a sua volta, presuppone, ovviamente, da un lato, che il giudice faccia uno studio preventivo delle carte di causa e, dall’altro, che al momento dell’inizio della trattazione in udienza, le parti abbiano già detto tutto, sia sul piano assertivo che sul piano istruttorio, nell’ambito di una discovery già adeguatamente compiuta.
[17] La circostanza risulta da una lettera del 2 febbraio 1935 del nuovo Ministro Arrigo Solmi allo stesso studioso di Premosello, rinvenuta da Cipriani tra le Carte Chiovenda e pubblicata da F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 355.
[18] P. Calamandrei, Diario, I, 1939-1941, Roma, 2015, 62.
[19] Ministero di grazia e giustizia, Lavori preparatori per la riforma del codice di procedura civile. Schema di progetto del libro primo, Roma, 1936.
[20] Sotto il profilo strutturale, i 745 articoli del progetto Redenti non apparivano particolarmente innovativi: era previsto che, dopo gli atti introduttivi, le parti si ritrovassero dinanzi al giudice in una «udienza preparatoria» (peraltro fissata dal presidente con rescritto, e non individuata dall’attore con la citazione), conclusa la quale, se non si fosse addivenuti alla conciliazione, il presidente, sull’accordo delle parti, avrebbe fatto proseguire la causa dinanzi al giudice istruttore che, all’esito dell’assunzione delle prove, l’avrebbe rimessa al collegio. In caso di disaccordo, invece, le parti sarebbero state rimesse immediatamente al collegio per la trattazione delle questioni insorte, che sarebbero state decise con sentenza parziale, impugnabile solo con quella definitiva e previa riserva.
Sotto il profilo funzionale, invece, le novità erano molte giacché, nella prospettiva del rafforzamento dei poteri del giudice e della responsabilizzazione delle parti, era stabilito un sistema di preclusioni che impediva, in linea di principio, la modificazione delle conclusioni o la produzione di nuovi documenti; pertanto all’udienza preparatoria si arrivava con una discovery piena sia dal lato assertivo che dal lato istruttorio e con un thema decidendum e un thema probandum già sostanzialmente cristallizzati.
Il quadro era completato da un giudizio di impugnazione che si caratterizzava per un, piuttosto rigido, divieto di ius novorum, conformemente all’idea originariamente espressa da de Francisci di rendere l’appello un mezzo eccezionale, comunque configurato non come novum iudicium ma come mera revisio prioris instantiae.
[21] La Commissione, presieduta dallo stesso Solmi, era composta da tre magistrati (Gaetano Azzariti, Gaetano Cosentino, Giusepe Lampis) e da un avvocato (Guido Dallari) cui si aggiungeva, come detto, Redenti (unico professore).
[22] Lo studioso mantovano morì nelle prime ore del 1937, circondato dall’affetto dei familiari. Lo avrebbero ricordato sia Carnelutti (F. Carnelutti, Lodovico Mortara, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 103) che Calamandrei (P. Calamandrei, Lodovico Mortara, ora in Opere giuridiche, X, Napoli, 1985, 156) ma, in primis, proprio quel Chiovenda (G. Chiovenda, Lodovico Mortara, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 102) che era stato il rivale di una vita, il quale, a dispetto dell’usuale lenta meditazione con cui accompagnava l’uscita dei suoi studi, scrisse l’indimenticabile necrologio per Mortara in pochissimi giorni e lo declamò dalla cattedra l’11 gennaio 1937, alla ripresa delle lezioni dopo le vacanze natalizie.
[23] Lo studioso di Premosello morì il 7 novembre 1937. Lo avrebbero ricordato sia Carnelutti che Calamandrei nei memorabili necrologi pubblicati l’uno di seguito all’altro sulla Processuale (F. Carnelutti, Giuseppe Chiovenda, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 297 ss.; P. Calamandrei, Il nostro Maestro (Ricordo di Giuseppe Chiovenda), in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 301 ss.) ed avrebbe avuto, sempre, negli anni, l’imperituro affetto e la commovente devozione tanto dei suoi allievi, quanto degli allievi degli allievi. Peraltro, il regime dell’epoca (che, nell’Università di Roma, attraverso il rettore Pietro de Francisci, aveva uno dei suoi esponenti più rappresentativi) non solo omise di onorarlo, ma non si peritò di ferire i suoi familiari nel momento del dolore, negando loro il permesso di svolgere la cerimonia funebre all’interno dell’ateneo. La circostanza non deve meravigliare, giacché Chiovenda, pur provenendo dalla stessa scuola di de Francisci, ne aveva preso abbondantemente le distanze e, sul piano politico, era uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce nel 1925. Ma l’immagine, dipinta con la consueta incisività da Calamandrei (P. Calamandrei, Giuseppe Chiovenda (5 novembre 1937- 5 novembre 1947), in Riv. dir. proc., 1947, I, 169 ss., part.171), della salma che si avviava verso il camposanto, seguita dagli amici e dai discepoli piangenti, dopo che il rettore fascista non aveva permesso che il feretro sostasse nell’atrio dell’Università per ricevere i tradizionali onori funebri, restituisce al “nostro Maestro” un onore ancora più grande, quale persona che aveva camminato sulla via della scienza in piena dignità e libertà morale.
[24] Secondo F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 361, il progetto preliminare Solmi costituiva il «trionfo dell’autoritarismo processuale». Per V. Andrioli e G.A. Micheli, Riforma del codice di procedura civile, in Ann. dir. comp., 1946, 209, si trattava addirittura di un progetto «poliziesco» perché non solo prevedeva il rafforzamento dei poteri d’impulso, dispositivi ed istruttori del giudice a discapito delle facoltà delle parti, soggette ad un rigido sistema di preclusioni, ma anche, a carico di queste e dei difensori, pesanti sanzioni pecuniarie, nonché l’abolizione dell’azione civile contro i giudici e la sostanziale impraticabilità della ricusazione.
[25] P. Calamandrei, Sul progetto preliminare Solmi, Relazione approvata dalla Facoltà di giurisprudenza della R. Università di Firenze nella seduta del 28 luglio 1937, ora in Opere giuridiche, cit., I, 295 ss.
[26] Così S. Satta, Interpretazione di Calamandrei, Discorso commemorativo letto nell’aula magna dell’Università di Firenze il 30 aprile 1967, in Soliloqui e colloqui di un giurista, Nuoro, 2004, 401 ss., part. 401 e 410.
[27] Così E. Redenti, In memoria di Piero Calamandrei, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 2.
[28] G. Monteleone, L’apporto di Piero Calamandrei al progetto definitivo Solmi del codice di procedura civile, in Giust. proc. civ., 2011, 2, 429 ss.
[29] Ministero di grazia e giustizia, Codice di procedura civile. Progetto definitivo e relazione del guardasigilli on. Solmi, Roma, 1939.
[30] E. Redenti, Sul nuovo progetto di codice di procedura civile (1962), in Scritti e discorsi giuridici di un mezzo secolo, II, Milano, 1962, 731 ss., part.757.
[31] P. Calamandrei, Sul progetto preliminare Solmi, cit., 310.
[32] Cfr., al riguardo, G. Melis-A. Meniconi, Il professore e il Ministro. Calamandrei, Grandi e il nuovo codice, in Piero Calamandrei e il nuovo codice di procedura civile (1940), a cura di Guido Alpa, Silvia Calamandrei e Francesco Marullo di Condojanni), Bologna, 2018, 125 ss..
[33] V. G. Melis-A. Meniconi, Il professore e il Ministro, ecc., cit., 131: Calamandrei avrebbe rilasciato queste dichiarazioni nella deposizione resa il 27 novembre 1947 dinanzi alla Corte d’assise speciale di Roma.
[34] P. Calamandrei, Lettera del 14 febbraio 1955 a Luigi Preti, in Lettere, Firenze, 1968, II, 446 ss., part. 450.
[35] S. Satta, Interpretazione di Calamandrei, cit..
[36] Nelle osservazioni inviate al Ministero il 12 agosto 1940 (citate da F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 369) Redenti scrisse di essere stato contrario ad alcune scelte «totissimis viribus».
[37] F. Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma, 1941, V.
[38] P. Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo codice, Padova, 1941.
[39] V. M. Taruffo, Calamandrei e le riforme del processo civile, in Piero Calamandrei. Ventidue saggi su un grande maestro, a cura di P. Barile, Milano, 1990, 167 ss.
[40] Anche in questi procedimenti, che la dottrina avrebbe poi classificato nella categoria unitaria dei processi a contenuto oggettivo (cfr., sul tema, E. Allorio, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 116 ss.; L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ., 1986, I, 596; F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, in Riv. dir. civ., 1988, I, 495 ss., 695 ss.) non si sarebbe rinunciato, peraltro, alla tecnica processuale dell’iniziativa di parte, seppur temperata dall’allargamento della categoria dei legittimati a proporre la domanda o dal conferimento del diritto di azione al pubblico Ministero, nonché dalla limitazione (ma mai dalla completa disapplicazione) dei principi della disponibilità delle prove e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Se non erro, le ipotesi di processo officioso puro storicamente conosciute dal nostro ordinamento sono state tre: quella prevista dall’art.6 legge fall. in ordine all’iniziativa per la dichiarazione di fallimento; quella prevista dall’art.8 della legge sull’adozione dei minori in ordine alla dichiarazione di adottabilità; quella prevista dall’art.29 della legge n. 1766 del 1927 in tema di promozione dei giudizi dinanzi ai commissari per gli usi civici. E di queste tre, le prime due (l’art.6 legge fall., nella sua formulazione originaria, è stato sostituito dall’art.4 del d.lgs. n.5 del 2006; l’art.8 legge sull’adozione legittimante, nel suo testo iniziale, è stato sostituito dall’art.8 della legge n.149 del 2001) sono state poi eliminate.
[41] Tra i punti in cui il nuovo codice si differenzia nettamente dalla concezione calamandreiana vi è quello, importantissimo, del ricorso e del giudizio di cassazione: il pensiero di Calamandrei, lucidamente esposto nel grande trattato del 1920, che, da costituente, egli avrebbe avuto modo di contribuire a scolpire nel monistico art. 111 della Costituzione (ove la violazione di legge sarebbe stata individuata come unico motivo di ricorso), nel codice di procedura civile del 1940 sarebbe stato sconfessato dal pluralista art. 360, che non solo avrebbe aggiunto alla violazione di legge la diversa fattispecie della falsa applicazione, ma avrebbe anche aperto al sindacato in cassazione degli errores in procedendo, nonché, recependo prassi giurisprudenziali sviluppatesi nel vigore del vecchio codice – ma da Calamandrei fermamente contestate –, al controllo, ancor più penetrante, della motivazione.
[42] P. Calamandrei, L’avvocatura e la riforma del processo civile (1920), ora in Opere giuridiche, II, 12 ss..
[43] C. Lessona, L’indirizzo scientifico della procedura civile, in Scritti minori, S. Maria Capua Vetere, 1911, 279 ss., part. 287-297.
[44] G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Terza ed., Napoli, 1923, XLIII-1328, part. XXIV.
[45] Sul punto ci si permette di rinviare alle osservazioni svolte nel nostro Rileggendo la Prefazione a La Cassazione civile: Calamandrei «allievo di due maestri», in Riv. dir. proc., 2020, 3, 1156 ss., part. 1172-1173.
[46] Per un più approfondito esame di tali tematiche – e, più in generale, per una analisi (attraverso il racconto delle opere, delle gesta e della vita dei protagonisti) di quella che è stata autorevolmente definita (A. Proto Pisani, Il processo civile di cognizione a trent’anni dal codice, in Riv. dir. proc., 1972, 37; C. Consolo, Il nuovo codice di procedura civile, in Piero Calamandrei e il nuovo codice di procedura civile (1940), cit., 229) l’età d’oro della scienza processuale italiana – ci si permette di rinviare al nostro I processualisti dell’età aurea – romantici, martiri ed eroi della procedura civile, Bari, 2021.
Gli elementi costitutivi della condotta associativa del reato di cui all’art. 416-bis c.p.
di Giovanni Ariolli
Sommario: 1. Premessa – 2. L’associazione mafiosa e i sodalizi di nuova emersione – 3. Il fenomeno dell’insorgenza di gruppi concorrenti o a soggettività differente – 4. La condotta di partecipazione – 5. Conclusioni.
1. Premessa.
È noto che la fattispecie associativa delineata dall'art. 416-bis c.p. è stata introdotta, nel sistema dei reati associativi, dalla legge Rognoni-La Torre n. 646 del 1982 per colmare quello che appariva essere un deficit di criminalizzazione di realtà più "complesse" delle ordinarie associazioni criminali, in quanto storicamente dedite alla sopraffazione di un determinato territorio per il conseguimento di obiettivi di potere e di utilità economica[1].
Alla base dell’intervento normativo vi è stata anche l’esigenza, diffusamente avvertita nella società civile, di evidenziare il particolare disvalore della criminalità mafiosa, quale fenomeno socialmente dannoso a diversi livelli, tanto che in dottrina si è subito evidenziata l’attitudine plurioffensiva della fattispecie, capace di minacciare “oltre l’ordine democratico e l’ordine pubblico, anche le condizioni che assicurano la libertà di mercato e di iniziativa economica”[2].
Il tutto al fine di contrastare quella che è stata definita “una ricerca di dominio e di conquista illegale e violenta di spazi di potere reale” da parte delle associazioni di stampo mafioso, il cui operare, col tempo, si è andato affinando, con il ricorso all’uso di meccanismi sofisticati, ma non per questo meno dannosi e pericolosi[3].
È un dato incontestato, infatti, che le mafie tendono all’arricchimento non soltanto mediante atti strettamente delittuosi (estorsioni, usura, traffico di stupefacenti, ecc.), ma anche attraverso il reimpiego del denaro “sporco” in attività economico-produttive formalmente lecite, servendosi di imprese legate a doppio filo alla criminalità organizzata ovvero di imprenditori collusi che si prestano a riciclare denaro tramite reati tributari, ottenendo significativi vantaggi fiscali che altro non sono se non vere e proprie evasioni.
Il volto imprenditoriale della nuova mafia ha indotto le mafie “storiche” ad espandere la propria area di influenza anche al di fuori dei territori di riferimento, sino a spingersi in altre Regioni d’Italia e financo in altri Stati.
L’attività di penetrazione e di controllo di settori sempre più vasti dell’economia attraverso la commissione di delitti cd. lucro genetici rivela il volto nuovo delle associazioni di stampo mafioso, ormai lontane dalla realizzazione di quei reati a ristretta oggettività giuridica attraverso cui l’organizzazione ha pure conseguito la fama criminale[4].
L’efficace opera di repressione svolta dalla magistratura e dalle forze dell’ordine ha poi determinato la comparsa, in territori storicamente caratterizzati dalla presenza di consessi mafiosi tradizionali, di nuove realtà criminali che, avvalendosi anche del contributo di chi in quei sodalizi abbia rivestito ruoli primari, tendono a ripeterne le gesta, perseguendo gli stessi obiettivi di illecito arricchimento.
Sempre più insistente, poi, è la presenza di organizzazioni straniere, anche con spiccata vocazione a intessere proficue relazioni internazionali, che, in virtù dei collegamenti con le organizzazioni criminali del Paese di provenienza, risultano coinvolte in una serie variegata di reati (dal traffico di droga al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, dall’intermediazione illecita nella mano d’opera allo sfruttamento della prostituzione, al traffico di armi e di rifiuti), tanto da creare anche delle sinergie con le mafie tradizionali.
Sino ad arrivare alla comparsa di nuovi sodalizi che si prefiggono sia di operare con la metodologia propria delle organizzazioni tradizionali sia di inquinare il tessuto economico-sociale mediante forme di pressione e di condizionamento sulle amministrazioni pubbliche per accaparrarsi appalti o lucrose commesse pubbliche.
Un mosaico variegato di presenze organizzate, dunque, che ha richiamato la dottrina e la giurisprudenza ad interrogarsi, per un verso, su come intendere i requisiti costitutivi del delitto di cui all’art. 416-bis c.p. in presenza di associazioni differenti da quelle tradizionali e, per altro verso, a definire la condotta partecipativa, al fine di evitarne dilatazioni, distinguendola da quella del concorrente esterno ovvero da chi assume la veste di connivente (si pensi ai diversi rapporti che possono instaurarsi tra l’imprenditore e l’associazione criminale).
Con la presente relazione, senza pretese di esaustività, ci si soffermerà sui rapporti tra il delitto in esame e le nuove forme di manifestazione della criminalità organizzata, nonché sull’individuazione degli elementi identificativi della condotta punibile, tenendo conto dei temi di intervento affidati agli altri contributi al fine di evitare ridondanti sovrapposizioni.
Infine, a distanza ormai di oltre quarant’anni dall’introduzione della fattispecie in commento, si affronterà il tema, anch’esso dibattuto, della persistente idoneità, alla stregua dell’attuale formulazione, della fattispecie di associazione di stampo mafioso a reprimere una criminalità organizzata che non solo ha assunto veste transnazionale, ma persegue le finalità illecite di arricchimento attraverso metodiche differenti[5].
2. L’associazione mafiosa e i sodalizi di nuova emersione.
Come in premessa osservato, dalle forme “tradizionali” che caratterizzano le mafie classiche storicamente insediate al Sud Italia, si è nel tempo assistito alla comparsa di nuove realtà che nascono per filiazione da associazioni radicate in tali contesti territoriali (con cui mantengono un collegamento ovvero da cui poi si distaccano in virtù della rivendicazione di una propria autonomia), ovvero da associazioni localmente denominate che, pur non essendo riconducibili a quelle tradizionali, ne riproducono, in tutto o in parte, gli stessi schemi, fino ad arrivare a neo formazioni di tipo politico-affaristico-criminale che si propongono di esercitare forme di condizionamento della cosa pubblica al fine di conseguire appalti o commesse.
Il legislatore del 1982, chiamato a definire i connotati strutturali e finalistici della nuova fattispecie, non si è limitato a "registrare" realtà (talvolta secolari) già presenti, come la mafia, la 'ndrangheta, la camorra e la "Sacra corona unita", da tempo dotate di un nomen (localisticamente connotativo - particolare importante perché evocativo del sincretismo che normativamente caratterizza il binomio associazione mafiosa e territorio), con correlativi insediamenti, articolazioni periferiche, prestigio e "fama" criminale da "spendere" come arma di pressione nei confronti dei consociati, ma ha anche aperto un indefinito ambito operativo, per così dire "parallelo", destinato a perseguire tutte le altre aggregazioni, anche straniere, che, malgrado prive di un nomen e di una "storia" criminale, utilizzino metodi e perseguano scopi corrispondenti alle associazioni di tipo mafioso già note (significativa al riguardo è anche la successiva modifica della rubrica della fattispecie in «Associazioni di tipo mafioso anche straniere» a seguito del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv. con modif. nella L. 24 luglio 2008, n. 125).
L'adattamento di tale fattispecie a manifestazioni dinamiche delle condotte associative che si sono espresse attraverso (a) la delocalizzazione delle mafie storiche fuori dai territori di origine, (b) la emersione di mafie nuove, (c) la diffusione di mafie a base etnica ha portato la giurisprudenza a diversi processi di rielaborazione che, tuttavia, non devono condurre né nella dispersione della funzione di tutela anticipata che connota il reato associativo, né - di contro - ad attenuare il rigore probatorio nella dimostrazione del connotato essenziale degli aggregati mafiosi, ovvero la (pre)esistenza della forza di intimidazione.
Tuttavia, con riferimento alle finalità perseguite gli elementi tipizzanti le varie compagini criminali sono fra loro eterogenei, in quanto gli scopi possono essere i più vari. Essi, infatti, spaziano dalla tradizionale realizzazione di un programma criminale - tipico di tutte le associazioni per delinquere – che può comprendere delitti di diversa natura (estorsioni, usura, omicidi, ecc.) oppure essere volto alla realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti, all'impedimento o all'ostacolo del libero esercizio del diritto di voto o a procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali, ovvero financo allo svolgimento di attività in sé lecite, come l'acquisizione, in modo diretto o indiretto, della gestione o comunque del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti e servizi pubblici.
Una pluralità di finalità tanto ampie che mal si concilia con l'individuazione di un elemento specializzante che possa definire il concetto di "tipo mafioso".
Deve ritenersi, invece, che il nucleo della fattispecie incriminatrice si collochi nel terzo comma dell'art. 416-bis c.p., laddove il legislatore definisce, assieme, metodo e finalità dell'associazione mafiosa - in sostanza, quelle finalità che si qualificano tali solo se c'è uno specifico "metodo" che le alimenta - delineando in tal modo un reato associativo non soltanto strutturalmente peculiare, ma, soprattutto, a gamma applicativa assai estesa, perché destinato a reprimere qualsiasi manifestazione che presenti quelle caratteristiche di metodo e fini, indipendentemente dal loci ove detti sodalizi risultano costituiti e operare.
Per questo le organizzazioni che non hanno una connotazione criminale qualificata sotto il profilo storico dovranno essere analizzate nel loro concreto atteggiarsi, in quanto per esse "non basta la parola" (il nomen di mafia, camorra, ‘ndrangheta, ecc.); ed è evidente, che, in questa opera di ricostruzione, occorrerà porre particolare attenzione alle peculiarità di ciascuna specifica realtà delinquenziale, in quanto la norma mette in luce un problema di assimilazione normativa alle mafie storiche che rende necessaria un'attività interpretativa particolarmente attenta a porre in risalto "simmetrie" fenomeniche tra realtà fattuali, sociali ed umane diverse fra loro.
Il fulcro del processo d'"identificazione" non potrà, dunque, fare riferimento che sul paradigma del metodo: è di tipo mafioso - puntualizza, infatti, l'art. 416-bis c.p. - l'associazione i cui partecipanti "si avvalgono della forza d'intimidazione del vincolo associativo e dell'assoggettamento e di omertà che ne deriva".
Il metodo mafioso, così come descritto dal terzo comma dell'art. 416-bis c.p., colloca la fattispecie all'interno di una classe di reati associativi che, parte della dottrina, definisce "a struttura mista", in contrapposizione a quelli "puri", il cui modello sarebbe rappresentato dalla "generica" associazione per delinquere di cui all'art. 416 c.p.
La differenza consisterebbe proprio in quell'elemento "aggiuntivo" rappresentato dal metodo, ma con effetti strutturali di significativa evidenza. La circostanza, infatti, che l'associazione mafiosa sia composta da soggetti che "si avvalgono della forza d'intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva" parrebbe denotare - come l'uso dell'indicativo presente evoca - che la fattispecie incriminatrice richieda per la sua integrazione un dato di "effettività": nel senso che quel sodalizio si sia manifestato in forme tali da aver offerto la dimostrazione di "possedere in concreto" quella forza di intimidazione e di essersene poi avvalso.
Il metodo mafioso, in questa prospettiva, assumerebbe connotazioni di pregnanza "oggettiva", tali da qualificare non soltanto il "modo d'essere" della associazione (l'affectio societatis si radicherebbe attorno ad un programma non circoscritto ai fini ma coinvolgente anche il metodo), ma anche il suo "modo di esprimersi" in un determinato contesto storico e ambientale.
Forza di intimidazione, vincolo di assoggettamento ed omertà rappresentano, dunque, secondo questa impostazione, strumento ed effetto tipizzanti, in quanto concretamente utilizzati attraverso un "metodo" che, per esser tale, richiede una perdurante efficacia, anche, per così dire "di esibizione", pur se priva di connotati eclatanti. Si tratta, in altre parole, di una carica intimidatoria, spesso identificata come “fama criminale”, che rappresenta una sorta di “avviamento” grazie al quale l’organizzazione mafiosa proietta le sue attività nel futuro[6].
D'altra parte, anche in giurisprudenza si sottolinea come, in tema di associazione di tipo mafioso, sussiste il reato previsto dall'art. 416-bis c.p. in caso di costituzione di una nuova struttura, operante in un'area geografica diversa dal territorio di origine dell'organizzazione di derivazione, che sprigioni, nel nuovo contesto, una forza intimidatrice effettiva e obiettivamente riscontrabile.
Principio, questo, affermato in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che, correttamente, il giudice di merito aveva qualificato come mafiosa un'articolazione della 'ndrangheta operante in Piemonte per l'utilizzo di metodi evocativi della capacità di assoggettamento di tale organizzazione, non attribuendo rilievo al fatto che non era stato replicato, nel territorio di espansione, il peculiare modello di insediamento della stessa[7].
Per altro verso, la Corte di legittimità non ha mancato di osservare che il reato previsto dall'art. 416-bis c.p. è configurabile non solo in relazione alle mafie cosiddette "tradizionali", consistenti in grandi associazioni ad alto numero di appartenenti, dotate di mezzi finanziari imponenti e in grado di assicurare l'assoggettamento e l'omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo della vita delle persone, ma anche con riguardo alle c.d. "mafie atipiche", costituite da piccole organizzazioni con un basso numero di appartenenti, anche di etnia straniera, non necessariamente armate, che assoggettano un limitato territorio o un determinato settore di attività, avvalendosi del metodo "mafioso" da cui derivano assoggettamento ed omertà, senza, peraltro, che sia necessaria la prova che la forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrata in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di riferimento[8].
Nel solco tracciato da tale giurisprudenza, con riferimento alle "mafie straniere", si è così affermata l’esistenza del delitto di cui all’art. 416-bis c.p. allorché, pur senza avere il controllo di tutti coloro che lavorano o vivono in un determinato territorio, il sodalizio ha la finalità di assoggettare al proprio potere criminale un numero indeterminato di persone appartenenti ad una determinata comunità, avvalendosi di metodi tipicamente mafiosi e della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo per realizzare la condizione di soggezione ed omertà delle vittime[9].
La presenza, seppur necessariamente adattata alla realtà dimensionale, di una caratura "oggettiva" del metodo mafioso vale anche a consegnare alla fattispecie un coefficiente di offensività tale da giustificare, sul piano della proporzionalità, il rigoroso editto sanzionatorio, anche in linea con i più recenti approdi della Corte costituzionale, particolarmente attenta a scrutinare tale profilo della pena, superando qualsiasi preclusione derivante dalla tesi del tertium comparationis e delle cosiddette "rime obbligate" (v. da ultimo le sentenze Corte cost., n. 236 del 2016; n. 40 del 2019 e, in tema di sanzioni "punitive", la sentenza n. 112 del 2019).
È proprio il metodo di cui l'associazione - per tipizzarsi - deve "avvalersi" a convincere del fatto che l'intimidazione e l'assoggettamento omertoso che ne devono derivare rappresentano, in sé, un "fatto" che può prescindere dalla realizzazione degli ulteriori "danni" scaturenti dalla eventuale realizzazione di specifici reati-fine.
È un fatto che l'associazione mafiosa costituisca un pericolo per l'ordine pubblico, l'ordine economico, quello sociale e quant'altro possa entrare nel programma del sodalizio, ma ciò non toglie che il relativo metodo – per integrare la fattispecie incriminatrice - allorché attenga a struttura autonoma ed originale, caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche, debba andare al di là di una mera dichiarazione di intenti, altrimenti rischiando di far sconfinare il "tipo" normativo in connotazioni meramente soggettivistiche, sulla falsariga di modelli di "tipo d'autore", ormai preclusi al sistema[10].
In sostanza, l'associazione mafiosa è "strutturalmente" aperta: chiunque dia vita o partecipi ad un sodalizio che persegua quei fini con quel metodo, è chiamato a rispondere del reato, a prescindere dal nomen, dal territorio e dagli eventuali delitti specifici riferibili a quel sodalizio.
Non è la "mafiosità" del singolo o dei singoli a qualificare, in sé, l'associazione, ma è il "modo di essere e di fare" che individua il tratto che rende quella associazione "speciale" rispetto alla comune associazione per delinquere e che rappresenta il coefficiente di disvalore aggiunto che giustifica - anche sul piano costituzionale - l'assai più grave trattamento sanzionatorio. Insomma, per come recentemente affermato dalle Sezioni unite Modaffari, un’associazione “che delinque” e non “per delinquere”.
Il problema è peraltro quello di stabilire, in concreto, quale sia la portata da annettere al "metodo mafioso", dal momento che l'estrema varietà degli approcci definitori scaturiti tanto da parte della dottrina che della giurisprudenza mette a fuoco il rischio che si corre nel definire in chiave giuridica nozioni, categorie e fenomeni che presentano connotazioni storico sociologiche, anch'esse non poco variegate.
Il che, ovviamente, ha lasciato spazio a quelle voci che hanno stigmatizzato la formulazione del reato di cui all'art. 416-bis c.p., in quanto descritto attraverso enunciati normativi asseritamente non del tutto satisfattivi dei principi di determinatezza e precisione delle fattispecie incriminatrici.
È noto, a questo riguardo, come il principio di riserva di legge, che la dottrina qualifica come "tendenzialmente assoluta", sia consuetamente declinato secondo tre distinte, ma complementari, direttrici.
Anzitutto il principio di precisione, in virtù del quale le norme penali devono assumere la veste formale più chiara possibile, al fine di evitare interpretazioni creative e consentire a chiunque di prevedere le conseguenze delle proprie condotte (evidenti i riverberi sul versante della colpevolezza). La giurisprudenza costituzionale, come è noto, ha al riguardo costantemente ritenuto che l'esigenza di precisione nella descrizione della fattispecie, che scaturisce dall'art. 25, comma 2, Cost., «non coincide necessariamente con il carattere più o meno descrittivo della stessa, ben potendo la norma incriminatrice fare uso di una tecnica esemplificativa (Corte cost., sentenze n. 79 del 1982, n. 120 del 1963 e n. 27 del 1961), oppure riferirsi a concetti extra-giuridici diffusi (Corte cost., sentenze n. 42 del 1972 e n. 191 del 1970), ovvero ancora a dati di esperienza comune o tecnica (Corte cost., sentenza n. 126 del 1971).
Il principio di determinatezza non esclude, infatti, l'ammissibilità di formule elastiche, alle quali non infrequentemente il legislatore deve ricorrere stante la «impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a "giustificare" l'inosservanza del precetto e la cui valenza riceve adeguata luce dalla finalità dell'incriminazione e dal quadro normativo su cui essa si innesta» (Corte cost., sentenze n. 302 e n. 5 del 2004; n. 172 del 2014; n. 278 del 2019).
Dunque, i profili definitori offerti a proposito del "metodo mafioso" vanno "estrapolati" sulla base del contesto normativo in cui gli stessi sono collocati, senza dover necessariamente attingere ai dati della "storia" e delle "esperienze" maturate alla luce delle manifestazioni offerte dalle mafie, per così dire, tradizionali.
Accanto a ciò, viene però talvolta anche evocato il principio di determinatezza, dal momento che, richiamandosi "atteggiamenti" genericamente riconducibili ad una platea indifferenziata di soggetti, il cui tratto comune sarebbe rappresentato da un mero connotato "soggettivo interiore" (stato di intimidazione, di assoggettamento e di omertà), sfuggirebbe alla possibilità di qualsiasi elemento empirico di "registrazione" e di prova. Dunque, in contrasto con il principio di determinatezza della fattispecie penale. Sul punto, infatti, la Corte costituzionale ha puntualizzato che la valutazione del testo normativo «è da condurre con un metodo di interpretazione integrato e sistemico e dovrà essere volta ad accertare, da una parte, la intelligibilità del precetto in base alla sua formulazione linguistica e, dall'altra, la verificabilità del fatto, descritto dalla norma incriminatrice, nella realtà dei comportamenti sociali».
Infatti, come già precisato, a partire dalla sentenza Corte cost., n. 96 del 1981, «nella dizione dell'art. 25 Cost., che impone espressamente al legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell'intelligibilità dei termini impiegati, deve logicamente ritenersi anche implicito l'onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà» (v. la già richiamata sentenza Corte cost., n. 172 del 2014).
Ma anche sotto questo specifico versante, il dato normativo, ove si condivida la prospettiva "oggettivistica" e "materiale" di cui prima si è detto, sfugge alle censure di "fattispecie sociologicamente orientata" di cui, specie in passato, il reato di cui all'art. 416-bis c.p. è stato fatto segno, dal momento che quei profili lato sensu ambientali connessi al metodo mafioso, assumono i caratteri del "fatto", che deve formare oggetto, naturalmente, di prova adeguata.
E ciò tanto più vale proprio nei casi in cui non si parli delle associazioni mafiose "tradizionali", ma di realtà ambientalmente e, se si vuole, culturalmente diverse, e per le quali sono solo i "fatti", e non le "denominazioni", a contare davvero.
Non è un caso, d'altra parte, che proprio sul versante della prova della "mafiosità" di un'associazione, la Corte di legittimità abbia, in più occasioni, avuto modo di affermare che, in tema di rilevanza dei risultati di indagini storico-sociologiche ai fini della valutazione, in sede giudiziaria, dei fatti di criminalità di stampo mafioso, il giudice deve tener conto, con prudente apprezzamento e rigida osservanza del dovere di motivazione, anche dei predetti dati come utili strumenti di interpretazione dei risultati probatori, dopo averne vagliato, caso per caso, l'effettiva idoneità ad essere assunti ad attendibili massime di esperienza senza che ciò, peraltro, lo esima dal dovere di ricerca delle prove indispensabili per l'accertamento della fattispecie concreta oggetto del giudizio.
L'esistenza di un "metodo" che produce determinati effetti, costituisce, dunque, ordinario oggetto di prova, non diversamente dall'esistenza del sodalizio e delle finalità che, attraverso quel metodo, lo stesso persegue.
A conclusioni non dissimili sembra possibile pervenire anche in merito all'ultimo corollario che solitamente si desume dal principio di legalità: vale a dire quello di tassatività della fattispecie, il cui fine, come è noto, è quello di precludere applicazioni analogiche della norma incriminatrice ai sensi dell'art. 14 delle preleggi, nonché degli artt. 1 e 199 c.p. e 25 Cost.
Sotto questo versante, si è osservato, sarebbero proprio i riferimenti di carattere sociologico, storico e culturale a permettere indebite "estensioni" alla fattispecie, in particolare sul versante delle associazioni non "tradizionali", dal momento che per queste ultime non potrebbe farsi appello proprio a quei dati di comune esperienza che possono trarsi dai metodi - di antica "sperimentazione" - praticati nei territori "occupati" da mafia, camorra o ‘ndrangheta.
Ancora una volta, infatti, è proprio facendo leva sulla lettura "oggettivistica" del dato normativo che è possibile scongiurare un simile epilogo.
È di tutta evidenza, infatti, che, se per raggiungere gli obiettivi descritti dall'art. 416-bis c.p., un'associazione "priva di storia" determina, in un certo alveo sociale e ambientale, un clima diffuso di intimidazione che genera uno stato di assoggettamento (con correlativa limitazione della sfera di autodeterminazione) e di omertà (qualcosa di cui non si deve parlare), non viene affatto in discorso un'applicazione "analogica" della fattispecie, ma una normale applicazione del "fatto" tipizzato.
Una diversa interpretazione creerebbe, d'altra parte, un'ingiustificata disparità di trattamento, giacché sarebbero assoggettate alla disciplina di maggior rigore solo le associazioni, per così dire, a "denominazione di origine controllata" e non quelle che perseguano gli stessi fini con gli stessi metodi e realizzino, per questa via, il medesimo coefficiente di maggior disvalore rispetto alla normale associazione per delinquere.
Il deficit di determinatezza della fattispecie è stato, peraltro, da parte di taluno traguardato nella prospettiva - all'apparenza non nitidamente scolpita nel testo normativo - qualitativa e quantitativa che l'intimidazione deve presentare per conseguire gli effetti dell'assoggettamento e di omertà, a loro volta utilizzati per il perseguimento dei fini dell'associazione.
L'evocazione, infatti, di paradigmi "generalizzati" di riferimento (intimidazione, assoggettamento, omertà sono chiaramente assunti come "fenomeni" meta individuali) assegna a tali elementi di fattispecie una dimensione chiaramente "collettiva", che esclude gli opposti estremi: da un lato, un effetto "totalizzante", di coazione che coinvolga l'intera popolazione di un determinato territorio; dall'altro, quello della "micro-entità" associativa, che opera in una prospettiva poco più che individuale.
Sul primo versante, non è senza significato la circostanza che la Corte di legittimità abbia anche di recente affermato che, ai fini della configurabilità dell'associazione per delinquere di tipo mafioso, il requisito della forza intimidatrice promanante dal sodalizio non può essere escluso per il sol fatto che la sua percezione all'esterno non è generalizzata nel territorio di riferimento, o che un singolo non si è piegato alla volontà dell'associazione o, addirittura, ne ignori l'esistenza[11].
A maggior ragione il discorso vale per le organizzazioni "non tradizionali", come si è affermato nei confronti dei clan Spada e Fasciani di Ostia nella già segnalate sentenze Sez. 5, n. 44156 del 2018 e Sez. 2, n. 10255 del 2019 (dep. 2020), nonché, di recente, a proposito del clan Casamonica (Sez. 2, n. 2159 del 24/11/2023, dep. 2024, Rv. 285908 – 02), ove il "metodo mafioso" va integralmente analizzato alla luce delle concrete emergenze e dello specifico atteggiarsi dell'associazione in un determinato ambito sociale e territoriale.
È evidente che, in questa cornice, non sarà l'atteggiamento del singolo a contare in sé e per sé, ma è la risposta "collettiva" a dimostrare che l'associazione ha raggiunto una capacità di intimidazione "condizionante" una generalità di soggetti, e che della stessa si avvale per il perseguimento degli obiettivi normativamente scolpiti dallo stesso art. 416-bis c.p.
"Assoggettamento" ed "omertà" rappresentano, dunque, gli "eventi" che devono scaturire dall'intimidazione: "fatti", quindi, che devono formare oggetto di prova, e che chiaramente fuoriescono da qualsiasi ambigua lettura di tipo sociologico o culturale.
Deve pertanto in questo contesto condividersi l'assunto secondo il quale ai fini della configurabilità del reato di associazione di tipo mafioso con riguardo alle c.d. mafie non tradizionali è necessario che l'associazione abbia già conseguito, nell'ambiente in cui opera, un'effettiva capacità di intimidazione esteriormente riconoscibile, che può discendere dal compimento di atti anche non violenti e non di minaccia, che, tuttavia, richiamino e siano espressione del prestigio criminale del sodalizio (cd. “fama criminale”).
Nella circostanza, la Suprema Corte ha correttamente puntualizzato che gli eventuali atti di violenza e minaccia realizzati da un'associazione di nuova formazione al fine di acquisire sul territorio la capacità di intimidazione, in quanto precedenti all'assoggettamento omertoso della popolazione e strumentali a strutturare il prestigio criminale del gruppo, sono atti esterni ed antecedenti rispetto alla configurazione del reato di cui all'art. 416-bis c.p.[12]
D'altra parte, si è pure affermato che la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita o l'incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti, senza, peraltro, che sia necessaria la prova che la forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrata in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di riferimento, potendo essere funzionale al controllo e alla sottomissione di determinate zone del territorio ovvero financo di un gruppo di persone ristretto in quanto facente capo ad una medesima comunità[13].
Forza intimidatrice, dunque, "a forma libera", dal momento che è proprio la complessità delle dinamiche sociali a richiedere una "flessibilità" delle tipologie espressive e delle forme d'intimidazione, le quali ben possono trascendere la vita e l'incolumità personale, per attingere direttamente alla "persona", con i suoi diritti inviolabili, anche relazionali, la quale viene ad essere coattivamente limitata nelle sue facoltà.
Nel solco dei principi sopra delineati, quanto alla mafie non tradizionali, lungi dal ricorrere a formule stereotipe o a connotazioni meta-giuridiche o meramente sociologiche, spetterà al giudice di merito scandagliare la dinamica associativa tanto da un punto di vista strutturale e di episodi ad essa riferibili, quanto sul versante diacronico, relativo all'evoluzione subita nel tempo dal clan che ne ha consentito la trasmigrazione di fattispecie giuridica: dalla semplice associazione per delinquere al raggiungimento di quel quid pluris che ne ha permesso l'inquadramento in quella di tipo mafioso.
E ciò attraverso puntuali riferimenti a proposito non soltanto degli specifici settori di intervento del sodalizio, ma anche dall'evolversi della metodologia attraverso la quale, nel corso del tempo, una determinata area territoriale ed ambientale ha finito per essere significativamente asservita agli scopi, parte direttamente illeciti, parte invece di tipo "imprenditoriale gestorio", perseguiti dall'originaria compagine così trasformatasi in associazione mafiosa.
Un’indagine, dunque, che richiede una motivazione che si presenti del tutto coerente e in linea con i presupposti giuridici alla cui stregua è stata ritenuta configurabile la figura dell'associazione di stampo mafioso, evitandosi "torsioni" applicative dell'istituto o letture "sociologica" del fenomeno[14].
3. Il fenomeno dell’insorgenza dei gruppi concorrenti o a soggettività differente.
Nell’ambito delle dinamiche che caratterizzano le associazioni criminali, la giurisprudenza si è trovata dinanzi al caso, differente da quello delle mafie cd. tradizionali o di nuova costituzione (tema affidato alle altre relazioni), di formazioni che sorgono sulle “ceneri” di precedenti sodalizi, vuoi perché disarticolati dall’azione repressiva svolta dalle forze di polizia e dalla magistratura, vuoi perché sconfitti nell’ambito dei conflitti di successione che involgono le aree territoriali di rispettiva insistenza, che, in forza di nuove e vecchie adesioni, riescono a controllare alcuni settori del tessuto economico-sociale in precedenza sottoposti a differente egemonia.
Si è al cospetto, pertanto, di un fenomeno differente da quello della nuova articolazione periferica (c.d. "locale") di un sodalizio mafioso radicato nell'area tradizionale di competenza che mantenga collegamenti con la casa "madre" ed il cui modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere, ecc.) presenti i tratti distintivi del predetto sodalizio, lasciando concretamente presagire una già attuale pericolosità per l'ordine pubblico[15].
E neppure ricorre il caso della neoformazione che si presenta quale struttura autonoma ed originale, ancorché caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche, giacché, rispetto ad essa, come in precedenza osservato, è imprescindibile la verifica, in concreto, dei presupposti costitutivi della fattispecie ex art. 416-bis c.p., tra cui la manifestazione all'esterno del metodo mafioso, quale fattore di produzione della tipica condizione di assoggettamento ed omertà nell'ambiente circostante[16].
È del tutto evidente come una siffatta autonomia (con tutto quel che ne consegue sul piano della analisi e della "effettività" del "metodo" e del clima di assoggettamento omertoso che ne deve scaturire) postuli uno iato tra vecchia e "nuova" aggregazione che deve porsi in termini, non soltanto strutturali, ma anche - e soprattutto - funzionali, nel senso che il sodalizio "locale" sia appunto - e "appaia" essere - entità scollegata da qualsiasi altra struttura configurabile alla stregua di "casa madre".
Dunque, può affermarsi come l'insorgenza di un nuovo "gruppo" finalisticamente e metodologicamente orientato al perseguimento di finalità mafiose ben possa "sfruttare" - volgendole a proprio vantaggio di sodalizio "neonato" - proprio la notorietà ed il conseguente assoggettamento omertoso derivante dalla attività - pregressa e perdurante - di gruppi mafiosi già occupanti in maniera stabilmente radicata il medesimo ambito territoriale.
D'altra parte, la continuità del quadro ambientale di riferimento si giova, sul piano ontologico, quante volte il nuovo sodalizio si ponga come "derivazione" storica di altra preesistente e notoria struttura, della quale finisce per costituire una sorta di "costola", dotata di vita e operatività proprie.
Al riguardo, la Corte di legittimità non ha mancato di sottolineare che la costituzione di una nuova organizzazione, alternativa ed autonoma rispetto ai gruppi storici presenti sul territorio, può essere desunta da plurimi indicatori fattuali quali le modalità con cui sono commessi i delitti-scopo, la disponibilità di armi, l'esercizio di una forza intimidatoria derivante dal vincolo associativo, nonché dal riconoscimento, da parte dell'associazione storicamente egemone, di una paritaria capacità criminosa al gruppo emergente[17].
Ma se tutto ciò è vero in un ambito di concorrenzialità territoriale in cui l'esprimersi del nuovo sodalizio operi, o possa operare, come elemento di "disturbo" per i clan tradizionali, è evidente che la "continuità" e compresenza mafiosa sia assai più agevolmente dimostrabile laddove la nuova realtà associativa sia controllata proprio da elementi che al vecchio gruppo egemone facevano notoriamente riferimento, e - soprattutto - da questo gruppo non sia stato in alcun modo "ostacolato" nei suoi iniziali propositi di dar vita ad una "propria" associazione, con un nomen distinto dai clan di più risalente "tradizione" pur insistenti nel territorio di causa.
Ebbene, in tale quadro di riferimento, il "manifestarsi" del “nuovo” gruppo si ammanta - per modalità, struttura, "notorietà" del contesto mafioso di provenienza, insistenza operativa sullo stesso territorio di pertinenza di quello stesso contesto, senza che ciò avesse ingenerato alcun tipo di frizione (dato, questo, anch'esso "evidente" nel territorio già oggetto di quell'assoggettamento omertoso) - di tutte le "prerogative" mafiose che già connotavano in passato l'attività di quegli stessi elementi.
Una fenomenologia, dunque, quella che viene qui in discorso, distinta dalla realtà diffusa delle c.d. "locali" di ‘ndrangheta, quanto da quella delle cosiddette "nuove mafie locali".
Nelle neoformazioni, infatti, è del tutto assente quella "assimilazione per rendita di posizione" o di utilizzo a propri fini dell'avviamento criminale ascrivibile ai consessi ivi insistenti, derivante dalla presenza sul territorio di associazioni nominativamente riconducibili al genus ed al paradigma di cui all'art. 416-bis c.p., nel cui alveo il "nuovo" gruppo si è formato e consolidato, condividendone gli scopi ed i metodi e realizzando la stessa tipologia di reati.
La "nuova" articolazione, infatti, non solo ripete le gesta notoriamente proprie delle associazioni di stampo mafioso da cui deriva, ma ha causalmente fruito, sotto il profilo rappresentativo, della traccia euristica genetica costituita dagli accertamenti giudiziari che hanno preceduto la sua formazione, della quale si è avvalsa non mediante meri propositi di carattere intimidatorio, ma esercitando in un'ottica di continuità in quel territorio la forza di intimidazione di tali conosciuti consessi organizzati, commettendo gli stessi delitti fine.
Insomma, una storia che si ripete, con analoghe metodologie e finalità ed anche comprimari (a quell'ambiente riferibili), che si è tradotta materialmente in atto[18].
Non si assiste, dunque, ad una novazione, bensì ad una successione a titolo particolare di un consesso che utilizza lo stesso metodo e persegue le medesime finalità criminali del precedente, nell'ambito di un pactum avente eguale natura - perfettamente riconducibile alla medesima societatis sceleris per modello e tipo - e destinato ad insistere in una realtà territoriale notoriamente già adusa a confrontarsi con realtà criminali di tal fatta.
E tanto più allorché la stretta continuità di tipo delinquenziale si lega poi ad una riscontrata operatività interna ed esterna del gruppo, che dà ragionevolmente conto della ricaduta del nomen sulla realtà circostante e del clima che ad essa ne consegue[19].
La costituzione di un gruppo formalmente nuovo all’interno di un territorio già controllato da cosche mafiose non vale, pertanto, ad escludere la configurabilità del reato, allorché il nuovo sodalizio riproduca struttura e finalità criminali del clan storico, realizzi la stessa tipologia di reati, sfruttando la notorietà del primo per mantenere lo stato di assoggettamento intimidatorio nella popolazione del territorio di pertinenza, in modo da far percepire una sorta di continuità tra le azioni del gruppo originario e le proprie.
Ad analoghe conclusioni è giunta di recente la Corte di legittimità allorché l’anello di congiunzione tra il vecchio gruppo e quello di nuova formazione sia costituito dalla presenza di soggetto che, risultando assente dal territorio di riferimento per un lungo arco temporale in quanto condannato per avere assunto ruoli apicali nel vecchio consesso mafioso, sia stato poi scarcerato, riprendendo le attività delittuose, unitamente ad altri individui, originariamente estranei a fattispecie associative di stampo mafioso, che allo stesso pregiudicato risultino aggregati (cd. gruppo mafioso a soggettività differente)[20].
Lungi dal far dipendere la mafiosità del gruppo dalla mera qualità soggettiva di chi, per detto reato, risulti già essere stato condannato, disattendendosi, altrimenti, i requisiti oggettivi di tipicità della fattispecie, la “caratura criminale” di chi ne sia venuto a capo, laddove sia spesa all’esterno dai sodali e registri anche la partecipazione di tale soggetto alla realizzazione dei reati scopo dell’associazione, può essere valorizzata al fine di desumere il potere intimidatorio del sodalizio, al cospetto della realizzazione di attività criminali diffuse.
Appare evidente, infatti, che la ripresa delle attività delittuose sul territorio da parte di un soggetto già condannato per associazione mafiosa in parte richiede nuove forme di esteriorizzazione, ma, richiamando la già ritenuta partecipazione del soggetto di vertice, ne sfrutta tale capacità criminale ai fini dell’imposizione in quella stessa area del vincolo intimidatorio; e ciò significa, pertanto, che ove i soggetti facente parte di tale nuova formazione abbiano richiamato nell’esecuzione dell’attività delittuose l’inserimento nel nuovo gruppo anche del soggetto definitivamente condannato, ne hanno chiaramente inteso sfruttare la fama criminale ai fini dell’imposizione dell’omertà e dell’intimidazione.
Il cd. «gruppo mafioso a soggettività diversa» - in quanto fattispecie intermedia tra le cd. nuove mafie e quelle storiche, ricostruito attorno a un soggetto già definitivamente condannato per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. e che abbia scontato la pena proprio per la particolarità della sua formazione, per l’inserimento nella stessa col ruolo organizzativo del soggetto già affermato essere “mafioso”, per il richiamo a tale presenza dotata di carattere intimidatorio nei confronti della collettività - si profila, pertanto, quale fattispecie associativa particolare che, se da un lato deve certamente essere dotata di capacità di esteriorizzare il potere intimidatorio e imporre una nuova e diffusa condizione di omertà, dall’alto mutua i caratteri tipici dell’organizzazione già in passato operativa sullo stesso territorio per cosiddetta “gemmazione”.
4. La condotta di partecipazione.
Così delineati i connotati strutturali dell’associazione di tipo mafioso, lasciando alle altre relazioni i necessari approfondimenti al riguardo, occorre soffermarsi sulle condotte incriminate nei primi due commi dell’art. 416-bis c.p. che, solo in parte, sembrano ricalcare il modulo tipico del reato associativo semplice.
In realtà, se tale similitudine è ravvisabile con riferimento ai ruoli apicali dell’organizzazione delineati dal secondo comma, trattandosi di posizioni funzionali capaci di manifestare, sul piano descrittivo, una maggiore attitudine connotativa della condotta punibile, peculiarità sono state ravvisate riguardo all’individuazione della condotta di chi “fa parte” dell’associazione di stampo mafioso che sembra richiedere un diverso apporto rispetto a quello di chi partecipa all’associazione per delinquere semplice di cui all’art. 416 c.p.
In presenza di un paradigma normativo che individua un delitto a forma libera, senza fornire alcuna indicazione specifica sulle modalità con cui si deve concretizzare tale partecipazione, tanto che alcuni hanno parlato di “tipicità incompiuta”, si è posto il problema se, ai fini della prova della condotta sia sufficiente l’adesione all’associazione di tipo mafioso, oppure occorra dimostrare quale ruolo l’agente abbia svolto all’interno del sodalizio e, quindi, quale sia stato il suo contributo causale.
La condotta del partecipe, infatti, può consistere nella prestazione di un contributo di qualsivoglia genere, purché non occasionale e, in ogni caso, apprezzabile sotto il profilo della rilevanza causale, con riferimento all'esistenza o al rafforzamento dell'associazione[21].
Il tema, se si vuole avere riguardo agli elementi costitutivi del reato di associazione mafiosa, va affrontato sul piano del significato da attribuirsi alla partecipazione quale requisito di fattispecie, anche se una tale verifica interpretativa finisce per risentire dello specifico contesto probatorio su cui è chiamato a muoversi il giudice del merito in rapporto alla variegata realtà delle organizzazioni criminali.
La carenza definitoria della condotta non significa, però, rinunciare all’individuazione del contenuto minimo che la deve contraddistinguere, altrimenti rilegandosi la partecipazione a mero criterio interpretativo a carattere variabile o flessibile in ragione della situazione concretamente considerata, con il rischio di operare non consentite estensioni applicative della fattispecie, financo incorrendo nella violazione del principio di legalità.
Un conto, infatti, è il versante della prova, che attiene alla ricerca degli indici della condotta penalmente rilevante, altro, invece, quello di individuarne il significato normativo che, pur demandato in via interpretativa al giudice, va circoscritto al fine di contenere il più possibile derive creative.
Ciò posto, va anzitutto evidenziato che la partecipazione attiene ad un reato permanente. Non si tratta di un’ovvia constatazione, in quanto tale nesso relazionale ne sancisce, già sul piano causale, la netta distinzione rispetto a contributi non solo sporadici ma che, seppur idonei alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative del sodalizio, sono destinati ad esaurirsi all’atto del loro compimento, così assumendo, semmai, rilievo ai fini dell’integrazione del concorso esterno[22].
La partecipazione deve essere, infatti, sintomatica di persistenza in aderenza alla figura di concorrente necessario che il soggetto agente assume, a prescindere dalle forme in cui essa si manifesta. Inoltre, la sua valenza causale – essendo imprescindibile un’estrinsecazione che vada al di là di mere adesioni psichiche o di proselitismo culturale in ossequio al principio di materialità e di offensività – deve necessariamente valutarsi alla stregua della natura mista della fattispecie, dovendo l’organizzazione criminale essere concretamente in grado di porre in pericolo l’ordine pubblico, l’ordine economico e la libertà di partecipazione alla vita politica e democratica.
Ciò non vuol dire che la singola condotta di partecipazione debba essere di per sé dimostrativa dell’estrinsecazione del metodo mafioso, trattandosi di requisito proprio dell’associazione, ma che debba essere funzionale all’esistenza e al rafforzamento permanente del sodalizio, in uno con la non disgiunta finalità di concorrere al perseguimento degli scopi che tipicamente lo contraddistinguono per “tipologia”.
Il nesso di derivazione finalistica che colora in termini di pregnante disvalore la condotta di partecipazione deve, pertanto, rivelarsi efficiente sul piano causale, e ciò non tanto (e solo) perché elevato è l’editto sanzionatorio, ma in aderenza al principio di materialità secondo cui, ai fini della sussistenza di un reato, non basta la realizzazione di un comportamento materiale, ma è necessario che tale comportamento leda o ponga in pericolo beni giuridici.
Così sinteticamente delineati i canoni che debbono guidare l’interprete nello stabilire il significato della condotta di partecipazione, i maggiori problemi interpretativi si sono registrati riguardo alla rilevanza penale dell’affiliazione all’associazione mafiosa, essendosi formati sul tema due orientamenti contrapposti nella giurisprudenza di legittimità: uno tendente a ritenere sufficiente la mera affiliazione ad un’organizzazione criminale operante secondo il modello prefigurato dall’art. 416-bis c.p. (cd. modello organizzatorio); l’altro, invece, che considera tale adesione rituale inidonea se non accompagnata da elementi concreti e specifici, rivelatori del ruolo attivo svolto all’interno del sodalizio (cd. modello causale)[23].
Il contrasto ha determinato la rimessione della questione alle Sezioni unite, le quali, a distanza di anni dalle sentenze Demitry (Sez. U, n. 16 del 5/10/1994, Rv. 199386 – 01), Carnevale (Sez. U, n. 22372 del 30/10/2002, dep. 2003, Rv. 224181 – 01) e Mannino (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Rv. 231670 – 01 e 231673 – 01) in tema di distinzione tra partecipe e concorrente eventuale, sono state chiamate a pronunciarsi “se la mera affiliazione ad un'associazione di stampo mafioso (nella specie 'ndrangheta), effettuata secondo il rituale previsto dall'associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell'art. 416-bis cod. pen. e della struttura del reato” [24].
Le Sezioni unite, con la sentenza n. 36958 del 27/05/2021 Modaffari, hanno affermato i seguenti principi di diritto:
«La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa dell’associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi».
«Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato e associazione»[25].
I principi affermati attengono a due profili: il primo, di carattere sostanziale, relativo alla definizione degli elementi costitutivi della partecipazione; il secondo, di carattere processuale, che riguarda, invece, il versante della prova della condotta penalmente rilevante e i relativi indici dimostrativi.
Quanto ai requisiti della condotta di partecipazione, le Sezioni unite si rifanno alla definizione coniata dalla sentenza Mannino, nella quale si valorizza il carattere funzionale dell’inserimento del sodale nell’associazione, affermando che, in sede processuale, non ci si possa limitare a considerare lo status acquisito dal partecipe nell’ambito dell’associazione attraverso l’ingresso nel sodalizio, ma occorre provare la dimensione dinamica di tale ruolo; verificare, cioè, che siano stati realizzati atti di militanza associativa espressivi del ruolo funzionale acquisito[26].
La partecipazione non si esaurisce né in una mera manifestazione unilaterale, né in un’affermazione di status; essa, al contrario, richiede un’attività fattiva a favore della consorteria che attribuisca “dinamicità, concretezza e riconoscibilità alla condotta che si sostanzia nel prendere parte”.
Occorre, in sostanza, che quell’ingresso assuma carattere stabile in aderenza alla natura permanente del reato associativo e, soprattutto, si traduca in una “messa a disposizione”, vale a dire in via tendenzialmente durevole e continua delle proprie energie per il conseguimento dei fini criminosi comuni, nella consapevolezza del contributo fornito dagli altri associati e della metodologia sopraffattoria propria del sodalizio.
Una definizione che comprende, all'evidenza, sia il profilo soggettivo che quello oggettivo della partecipazione, poiché esprime la necessità che essa sia sorretta da affectio societatis e dalla interazione causalmente orientata al conseguimento degli scopi sociali con gli altri associati.
La condotta di partecipazione potrà dirsi integrata solo quando la "messa a disposizione" assuma i caratteri della serietà e della continuità attraverso comportamenti di fatto - precedenti e/o successivi al rituale di affiliazione - non necessariamente attuativi delle finalità criminali dell'associazione, ma tuttavia capaci di dimostrare in concreto l'adesione libera e volontaria a quella consapevole scelta e di rivelare una reciproca vocazione di "irrevocabilità" (intesa, nel senso di una stabile e duratura relazione, potenzialmente permanente), testimoniandosi in fatto e non solo nelle intenzioni il rapporto organico tra singolo e struttura.
A queste condizioni, la "messa a disposizione" non solo costituisce l'effetto dell'ammissione al gruppo - così superandosi le obiezioni secondo cui si punirebbe il mero accordo di ingresso, possibile soltanto nell’ambito dei reati a schema duplice in cui è prevista in forma alternativa la realizzabilità del tipo criminoso - ma indica un comportamento oggettivo e non solo intenzionale, attuale e non meramente ipotetico che finisce così per concretizzare e rendere riconoscibile il profilo dinamico della partecipazione, non potendo questo effetto condizionarsi in negativo e legarsi esclusivamente alla successiva - e, a volte, solo eventuale - "chiamata" per l'esecuzione di un incarico specifico, essendo l'adepto già inglobato nel gruppo e pronto per le necessità attuali o future della consorteria.
Un significato aderente alla natura mista della fattispecie associativa di stampo mafioso che, a differenza della categoria dei reati associativi puri, richiede un quid pluris, ossia la messa in opera del programma criminoso, mediante atti concreti ed inequivoci funzionali alla sua realizzazione, attraverso l’estrinsecazione del metodo mafioso. Un reato, quindi, di pericolo e danno, avente una valenza plurioffensiva, nei termini di associazione che delinque[27].
Ci si discosta, quindi, dal modello organizzatorio puro secondo cui non è necessario che ciascuno dei membri del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi della condotta criminosa programmata, perché il contributo del partecipe può essere costituito anche dalla sola dichiarata adesione all'associazione da parte di un singolo, il quale presti la propria disponibilità (con la cd. “messa a disposizione”) ad agire quale "uomo d'onore".
Sul punto la sentenza appare chiara, affermando: che la teoria organizzatoria mostra i suoi limiti nel momento in cui collega la fattispecie criminosa all'acquisizione della qualifica formale di associato, ritenendo sufficiente ai fini dell'integrazione del reato l'ingresso nel sodalizio e finendo per ritenere irrilevante l'attivazione o meno del partecipe a favore della consorteria; che l’assenza della punibilità dell’attività di reclutamento – a differenza di quanto invece stabilito in tema di terrorismo (art. 270-quater c.p.) - evidenzia come tale segmento del fatto, qualora non accompagnato da successive condotte di attivazione, non può ritenersi di per sé compreso nella nozione tipica di partecipazione; che assume rilievo ai fini dell’interpretazione del dato normativo interno la stessa nozione di partecipazione recepita in ambito U.E. dalla Decisione Quadro n. 2008/841/GAI del Consiglio relativa alla lotta contro la criminalità organizzata, la quale richiede che la persona che partecipi attivamente alle attività criminali dell'organizzazione.
Ravvisare la condotta di partecipazione ad associazione mafiosa anche allorquando sia stata fornita la dimostrazione che il soggetto, pur sottoposto al rito dell'affiliazione, non abbia mai posto in essere alcuna attività per conto o nell'interesse del sodalizio appare del tutto contrario ai principi di materialità ed offensività[28].
Esigere, invece, che all’affiliazione segua una fattiva attivazione del soggetto in favore del sodalizio, di talché possa ritenersi che quell’ingresso abbia assunto una vocazione di stabilità, rende la partecipazione continente, sul piano sistematico, con la natura permanente del reato e ne segna la distinzione rispetto a contributi destinati ad essere sussunti nell’alveo del concorso esterno.
Occorre, dunque, che all’affiliazione si accompagni la concreta ed effettiva “attitudine” del nuovo adepto a svolgere i compiti allo stesso affidati, anche in un momento successivo al formale ingresso nel sodalizio, nonché a corrispondere ai desiderata dell'organizzazione di cui è venuto a far parte: solo in tal caso il dato formale accentra in sé quel connotato sostanziale di effettiva disponibilità che rende quella condotta pericolosa per il bene giuridico tutelato, accrescendo le potenzialità del sodalizio.
Ciò non significa, però, adesione in toto al modello causale, stante la possibilità di sovrapposizione di due categorie dogmatiche (concorso esterno e partecipazione) del tutto autonome e con profonde caratterizzazioni differenziali e la aprioristica svalutazione della condotta di "messa a disposizione" delle energie del singolo a favore del gruppo. E neppure al modello “misto”, la cui principale critica «si coagula, invece, sull'apparente carattere decisivo della causalità, in realtà di fatto inesistente, in quanto l'efficienza della condotta è assunta in re ipsa, per il solo fatto dell'ingresso nell'associazione»[29].
Non occorre, però, che le condotte di intraneità – anche a prescindere dalla commissione di delitti - siano financo espressive della capacità del singolo di avvalersi della forza di intimidazione promanante dal vincolo associativo e capaci di produrre assoggettamento ed omertà nei suoi interlocutori, né un danno ai diritti dei singoli che si relazione con quell’affiliato, tanto da rappresentare, per ciò solo, un pericolo per l’ordine pubblico e gli altri beni tutelati in via cumulativa o alternativa dalla disposizione in commento.
Una tale opzione ermeneutica corre il rischio di determinare una sovrapposizione tra la condotta "di associazione", legata all'assunzione del ruolo di partecipe, con quella "dell'associazione", diretta ad attuare il programma delinquenziale che si traduce nell'esecuzione dei delitti scopo.
Inoltre, richiedere che alla condotta di partecipazione segua la lesione dei diritti dei singoli che si relazionano con quell’affiliato significa propendere per una lettura del delitto di cui all’art. 416-bis c.p. quale fattispecie di evento e di danno, a discapito della componente di “pericolo” che pure alla fattispecie deve essere sistematicamente riconosciuta, la cui oggettività giuridica va ricondotta all’associazione in quanto tale.
Affinché sia integrata la condotta di partecipazione è, dunque, necessario (e sufficiente) la realizzazione di un qualsivoglia "apporto concreto", sia pur minimo, ma in ogni caso riconoscibile, alla vita dell'associazione, tale da far ritenere avvenuto il dato dell'inserimento attivo con carattere di stabilità e consapevolezza oggettiva.
Il partecipe non è, dunque, un neutrale e passivo osservatore delle dinamiche mafiose, delle quali viene più o meno messo a conoscenza, ma un soggetto che, in aderenza al giuramento di ingresso, concorre ad assicurare, mediante facta concludentia evocativi di stabile inserimento, la realizzazione delle finalità avute di mira dal sodalizio[30].
Che la nozione di partecipazione, per come coniata dalle Sezioni unite, si nutra di un quid pluris che consenta di escludere qualsiasi equivocità e staticità alla mera affiliazione è confermato dalla successiva giurisprudenza di legittimità, secondo cui la partecipazione mafiosa non si esaurisce né in una mera manifestazione di volontà unilaterale, né in una affermazione di status, richiedendo, invece, un'attivazione fattiva a favore della consorteria connotata da dinamicità e concretezza ed implicando, pertanto, quanto meno la riconoscibilità, se non addirittura il riconoscimento da parte degli aderenti al gruppo[31].
Se ne coglie, pertanto, la distinzione con il concorrente eventuale, il quale è, per definizione, colui che non vuol far parte dell'associazione e che l'associazione non chiama a "far parte", ma un soggetto al quale il sodalizio si rivolge e da cui riceve contributi favorevoli per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione (o, per quelle operanti su larga scala, di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima.
Come hanno sottolineato le Sezioni Unite, è evidente che la verifica centrale per la configurabilità di una condotta di partecipazione mafiosa si muove sul piano probatorio: è solo sulla scorta delle evidenze disponibili che sarà possibile valutare se, per le caratteristiche assunte dal caso concreto, la compenetrazione nel tessuto criminale abbia generato o meno un'effettiva "messa a disposizione".
Per questo, anche l'affiliazione rituale può costituire, sul piano cautelare, grave indizio della condotta partecipativa, a condizione che la stessa risulti, sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza e degli elementi di contesto che ne evidenzino serietà ed effettività, espressione di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un'offerta di contribuzione permanente tra affiliato e associazione[32].
E tanto più laddove l’affiliazione si sia tradotta nell’attribuzione di qualifiche che sono logicamente dimostrative, alla luce degli elementi fattuali di contesto, dell’avvenuta attivazione del soggetto nell'ambito associativo (si pensi al conferimento della “dote” di ‘ndrangheta che segue al riconoscimento dei contributi prestati dal soggetto in favore del sodalizio ed è dunque dimostrativa, sul piano logico fattuale, di una persistente attivazione del soggetto che, in ragione del suo rilievo, ne ha determinato il riconoscimento).
Più in generale, pertanto, dopo l'ultimo arresto delle Sezioni Unite, gli indicatori elencati dalla sentenza Mannino come elementi dai quali desumere la partecipazione mafiosa tornano alla loro dimensione probatoria naturale e vengono depurati dal ruolo di elementi di fattispecie loro attribuito da alcune pronunce di legittimità.
Tra detti indicatori, a esempio, la commissione di delitti scopo è uno dei sintomi, normalmente quello più evidente, ma non l'unico, dell'inserimento nel sodalizio. Oltre a questo, devono comunque essere considerate anche le ulteriori e diverse condotte, che risultano essere il compimento di attività causalmente orientate a favore dell'associazione, dalle quali, sulla base degli elementi probatori acquisiti, emerga l'organicità del singolo che, reiterando condotte di semplice tenore esecutivo ovvero rafforzando e agevolando l'attività dell'associazione, ponga in essere comportamenti teleologicamente rivolti al perseguimento degli obiettivi dell'associazione stessa.
L’attenzione alle attività che l’affiliato ha compiuto a sostegno del sodalizio se, da un lato, consente di superare l’obiezione che si punisca un mero status soggettivo, dall’altro parimenti permette di prescindere dalla prova o dall’esistenza del rito di affiliazione allorché il soggetto abbia comunque prestato contributi che si sono rivelatisi idonei a concretizzare una “messa a disposizione” in favore del sodalizio.
Anche su tale aspetto la decisione delle Sezioni unite è chiara: l’assunzione fattuale di tale ruolo in altro modo desunta integra appieno la condotta di partecipazione allorché si traduca in una “messa a disposizione” propria dei requisiti di disvalore declinati dalla sentenza Modaffari [33]. E tanto non solo con riguardo alle mafie cd. tradizionali ove pure tali riti sono osservati, ma soprattutto rispetto alle nuove mafie ove l’inserimento nel gruppo criminale, consegue più che all’osservanza di regola formali o sacramentali, alla realizzazione di stabili contributi causalmente e finalisticamente volti alla realizzazione delle finalità perseguite dall’associazione.
5. Conclusioni
A distanza ormai di oltre quarant’anni dall’introduzione del delitto di cui all’art. 416-bis c.p., nonostante le oscillazioni giurisprudenziali registratesi con riguardo alla corretta definizione degli ambiti applicativi, deve riconoscersi come la fattispecie abbia svolto efficacemente un ruolo di prevenzione e repressione del fenomeno mafioso.
Del resto, gli adattamenti interpretativi a cui si è assistito, forieri anche della comparsa di nuove organizzazioni criminali e del nuovo atteggiarsi della criminalità organizzata di stampo mafioso, sono stati condotti, grazie anche al contributo di attenta dottrina, sul piano della verifica del rispetto dei requisiti di tipicità, evitandosi ricadute sociologiche o lontane dalle connotazioni di pericolo e di danno del reato in esame.
Certo è che oggi si assiste, in conseguenza della globalizzazione e della necessità delle organizzazioni criminali di espandere il proprio dominio al fine di reinvestire i proventi derivanti dai delitti fine, ad un cambiamento delle strategie delle mafie, tanto che da alcuni autorevoli esperti del settore si è parlato del volto nuovo delle mafie, sottolineandosi anche, in modo condivisibile, come ormai si sia al cospetto di una gestione unica degli affari illeciti[34].
Ai tradizionali reati, evocativi della forza di intimidazione del sodalizio nel territorio, si affiancano, infatti, con maggiore frequenza, delitti lucro-genetici e di intestazione fittizia mediante i quali le mafie si impadroniscono di settori vitali dell’economia di mercato, falsandola, con ricadute anche sul versante dei delitti contro la p.a., quali strumento per accaparrarsi commesse pubbliche mediante imprese non solo compiacenti ma che costituiscono la longa manus dell’organizzazione.
E tale inquinamento del tessuto economico-sociale avviene volutamente “sotto traccia”, al fine di scongiurare l’azione repressiva delle forze dell’ordine e della magistratura.
Alle forme tipiche di esteriorizzazione della “fama criminale” si sostituiscono modalità differenti, ma non per questo meno pericolose e invasive.
Al radicamento territoriale di cui la nuova mafia resta portatore si affianca o si sostituisce quello del tessuto economico, mediante il quale l’associazione, anche attraverso sinergie con altri gruppi criminali ivi presenti, manifesta la sua presenza (e insistenza) in altre zone del Paese o financo al di fuori dei confini nazionali, avvalendosi dei nuovi strumenti di comunicazione e movimentazione del denaro[35].
Ci si trova al cospetto, per come ha acutamente osservato lo storico Enzo Ciconte, di “una mafia immersa nella tradizione, ma perfettamente in grado di proiettarsi nella modernità”.
Si pone, pertanto, il problema se la fattispecie in esame, certamente idonea a reprimere quella che è stata definita la “mafia militare”, lo sia efficacemente con riguardo a quella dei “colletti bianchi”.
Un problema di assimilazione che riguarda, sul piano della fattispecie, le articolazioni, anche estere, delle mafie tradizionali costituite con il primario obiettivo di inquinare il tessuto economico e destinate ad operare sul mercato quali “holding”, mediante sinergie con altri gruppi criminali ivi insistenti, pure espressone delle altre associazioni storiche, unite dal comune intento di realizzare profitti; sul piano della condotta di partecipazione, il rilievo dei contributi sistematicamente resi dai terzi, causalmente necessari alla realizzazione degli obiettivi di profitto, essendo un dato di fatto che le mafie, soprattutto quelle a denominazione di origine controllata, possono contare stabilmente su una rete non solo di compiacenze ma soprattutto di soggetti, non necessariamente “punciuti”, che in modo persistente ne assicurano l’operatività al di fuori dei territori di originaria “vocazione”.
Una tematica complessa che investe i rapporti tra sodalizio madre e le nuove strutture periferiche che operano quale longa manus di essa, nonché le modalità di estrinsecazione del metodo mafioso rispetto al fenomeno del radicamento del tessuto economico; le interferenze e la delimitazione tra le condotte di partecipazione e di concorso esterno, con particolare riguardo ai contributi volti alla realizzazione degli obiettivi di profitto delle organizzazione criminali; la distinzione tra partecipazione e delitti fine comunque aggravati dalla finalità di agevolare il sodalizio mafioso.
Un mosaico molteplice e complesso di problemi che si pongono all’interprete, la cui soluzione se, da un lato, non potrà essere disgiunta da un’attenta verifica da condursi alla stregua degli elementi di tipicità di fattispecie, dall’altro non dovrà in alcun modo determinare un arretramento del pensiero giuridico che, proprio in relazione a tale fenomeno, costituisce la spinta per sollecitare, se del caso, i necessari adattamenti normativi.
È stato, infatti, in modo condivisibile osservato che uno dei pericoli maggiori da evitare, sia nella istruzione dei processi che nella costruzione dei percorsi di conoscenza, è quello di una visione settoriale, parcellizzata, limitata al singolo aspetto del fenomeno, che finisce per farne perdere di vista l’insieme[36].
Un approccio settoriale e localistico che fa ignorare le dimensioni reali dell’associazione mafiosa come organizzazione unitaria, impedisce al contempo di apprezzarne la reale forza complessiva in termini di legami e connessioni con il mondo “altro”, con quei pezzi delle istituzioni, della politica, dell’imprenditoria, della pubblica amministrazione che costituiscono altrettanti punti di emersione di quel sistema di relazioni esterne delle mafie, che ne rappresentano un vero e proprio punto di forza.
Relazione tenuta al Convegno “L’art. 416-bis c.p. tra storia ed ermeneutica”, organizzato dal Centro Studi di legislazione antimafia – Virginio Rognoni, Pavia, Collegio Universitario S. Caterina da Siena, 4 ottobre 2024.
[1] Sul delitto di cui all’art.416-bis c.p., con particolare riguardo ai riferimenti bibliografici e di dottrina, v. Del Gaudio, Sub art. 416-bis c.p., in CP, Rassegna di giurisprudenza e dottrina, Lattanzi-Lupo (a cura di), vol. IV, Milano, 2022, p. 390 e ss. Tra i contributi più recenti, v. Turone-Basile, Delitto di associazione mafiosa, IV^ ed., Milano, 2024; Zuffada, Il metodo mafioso alla prova delle mafie “diverse” dalle mafie tradizionali. Una sinossi della giurisprudenza, in Arch. pen., 2024; Melillo, Prolusione del P.N.A. per il trentennale della istituzione del Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata, in sistema penale, 13.09.2024; Aa.Vv., Quarant'anni di 416-bis c.p. Bilanci e prospettive del delitto di associazione di tipo mafioso. Atti del Convegno (Napoli, 14 novembre 2022), Amarelli (a cura di) – Torino, 2023; Brunelli, Contrasto alla criminalità organizzata e tipicità penale: il punto sull’associazione mafiosa, in Arch. pen., 2023; Cisterna, Quella svolta nella lotta alla mafia rappresentata dall'art. 416-bis c.p., in Guida dir., 36, 2022, 16 ss.; Spezia, La lotta alla criminalità organizzata fuori dai confini nazionali, in Sistema penale, 20.07.2022; Merenda - Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416-bis tra teoria e diritto vivente, in Mezzetti - Luparia Donati (diretto da), La legislazione antimafia, Bologna, 2020, p. 55 ss.; Balsamo-Mattarella, Criminalità organizzata: le nuove prospettive della normativa europea, in Sistema pen., 15.03.2021; Romanelli, Criminalità organizzata e terrorismo: la circolazione dei modelli criminali e degli strumenti di contrasto, in Sistema pen., 20.12.2019; AaVv., Virginio Rognoni. Passione civile e impegno politico, Ed. Santa Caterina, 2024. Sul tema v. anche: Fiandaca-Visconti, Scenari di mafia. Orizzonte criminologico e innovazioni normative, Torino, 2010; Seminara, Gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 416-bis c.p., in Aa.Vv., I delitti di criminalità organizzata, in Quaderno CSM, 1998, p. 299; Id, Gli aspetti giuridici della lotta contro la mafia: il convegno di Palermo del 27-28 maggio 1983, in Riv. it. dir. proc. pen., 1983, pp. 1062-1069; Ciconte, La resistibile ascesa di mafia, 'ndrangheta e camorra dall'Ottocento ai giorni nostri, Rubbettino, 2008; Id, ‘Ndrangheta, Rubettino, 2011; Aa.Vv., La legge Rognoni-La Torre tra storia ed attualità, Ciconte (a cura di), Rubbettino, 2022; Aa.Vv., Atlante delle mafie. Storia, economia, società e cultura, Ciconte, Forgione, Salis (a cura di), Vol. I°, Rubettino, 2012; Bellavia-De Lucia, Il cappio, Bur, 2012; Prestipino-Pignatone, Come la ‘ndrangheta ha infettato l’Italia, Laterza, 2012; Palazzolo-Prestipino, Il codice Provenzano, Laterza, 2008; Canzio, Responsabilità dei partecipi nei singoli reati-fine: l'evoluzione giurisprudenziale degli anni 1970-1995, in Cass. pen., 1996, p. 3163- 3183; Id, Orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità dei partecipi nei reati - fine: la responsabilità dei capi di "cosa nostra" per gli omicidi "eccellenti" ascrivibili dall'associazione mafiosa, in Foro it., 1996, 10, p. 586 ss.; Pardo, L’art. 238 e 238 bis c.p.p. e la prova dell’associazione mafiosa, (Documento didattico), SSM, P24015, 21.03.2024; Marandola, Condanna in abbreviato ex art. 416 bis c.p. e misura cautelare, in Giur. it., 2018, p. 2757 ss.; Id, Sull'(in)adeguatezza della custodia inframuraria applicata ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p. ovvero il punto di "non ritorno" degli automatismi in sede cautelare, in Giur. cost., 2013, p. 863 ss.
[2] Fiandaca-Musco, Diritto penale, P.S., Vol, I, Torino, 2021, 518.
[3] Turone, Le associazioni di tipo mafioso, Milano, 2015, 112.
[4] Sul tema, v. Barletta-Carretta-Piersimonini-Prestipino, Patrimoni illeciti e strumenti di contrasto, II^ ed., Laurus Robuffo, 2023; Teresi, Mafia, corruzione, impresa, in Giust. insieme, 2.11.2023; Balsamo, Il contrasto internazionale alla dimensione della criminalità organizzata: dall’impegno di Gaetano Costa alla “Risoluzione Falcone” delle Nazioni Unite, in Sistema pen., 2020.
[5] Per un utile excursus del fenomeno mafioso sino ai giorni d’oggi, v. Pignatone, La Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria (Corso di studio: “I 30 anni della DNA, delle DDA e della DIA. 30 anni di legislazione contro il crimine organizzato e le evoluzioni del sistema antimafia”), SSM, P22005, 28.07.2022.
[6] Geneticamente, quindi, la forza di intimidazione deve essere riferita all’associazione in quanto tale e deve connotare la struttura in sé, diventandone una qualità ineludibile, in grado di imporsi autonomamente (Sez. U, n. 36958 del 27/05/2021, Modaffari, in motivazione a pag. 16).
[7] Tra le più recenti: Sez. 2, n. 47538 del 18/11/2022, A., Rv. 284182 - 01; Sez. 6, n. 6933 del 4/07/2018, dep. 2019, A., Rv. 275037 - 01; Sez. 2, n. 31920 del 4/06/2021, A., Rv. 281811 - 01; Sez. 2, n. 38831 del 17/09/2021, C., Rv. 282199 – 04. Non massimate, da ultimo, Sez. 2, n. 27053 del 20/04/2023, B., in motivazione, pag. 17. Sulle mafie cd. delocalizzate, v. Giorgio, Delocalizzazione delle mafie storiche, in Dizionario enciclopedico delle mafie, del terrorismo internazionale e della storia dell’eversione, Parte I, Vol. II, Città del Vaticano, 2023; Merenda, Mafie straniere e mafie delocalizzate nell'applicazione dell'art. 416-bis c.p., in Diritto di difesa, 4, 2022, p. 813; Amarelli, Mafie delocalizzate all'estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1197 ss.; Id, Mafie delocalizzate: le Sezioni unite risolvono (?) il contrasto sulla configurabilità dell’art. 416 bis c.p. ‘non decidendo’, in Sistema pen., 18.11.2019; Visconti, La mafia “muta” non integra gli estremi del comma 3 dell’art. 416 bis c.p.: la Sezioni unite non intervengono, la I^ sezione della Cassazione fa da sé, in Sistema pen., 22.01.2020; Id, I giudici di legittimità ancora alle prese con la «mafia silente» al Nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così, in Dir. pen. cont., 2015, p. 2 ss.
[8] Sez. 2, n. 10255 del 29/11/2019, dep. 2020, F., Rv. 278745 – 02; Sez. 5, n. 44156 del 13/06/2018, S., Rv. 274120; Sez. 5, n. 26427 del 20/5/2019, F., Rv. 276894; Sez. 5, n. 21530 dell'8/2/2018, S., Rv. 273025; Sez. 2, n. 7847 del 30/1/2020 non mass.; Sez. 5, n. 6764 del 13/11/2019, dep. 2020, non mass.; Sez. 2, n. 46731 del 20/10/2023, non mass. Sul tema, a commento della decisione di Sez. 2 n. 10255 del 2020 relativa al clan Fasciani di Ostia, v. Visconti, “Non basta la parola mafia": la Cassazione scolpisce il "fatto" da provare per un'applicazione ragionevole dell'art. 416-bis alle associazioni criminali autoctone, in Sistema pen., 24 marzo 2020; Amarelli, Mafie autoctone: senza metodo mafioso non si applica l'art. 416-bis c.p. (Associazione di tipo mafioso e mafie non tradizionali), in Giur. it., 2020, p. 2249 e ss.; Salviani, La configurabilità del reato previsto dall'art. 416-bis c.p. anche per le organizzazioni criminali diverse dalle mafie "tradizionali", in Cass. pen., 2020, p. 2721 ss.; Manna-De Lia, “Nuove mafie” e vecchie perplessità. Brevi note a margine di una recente pronuncia della Cassazione, in Arch. pen., 2020; Amato, Mafie etniche, elaborazione e applicazione delle massime di esperienza: le criticità derivanti dall’interazione tra “diritto penale giurisprudenziale” e legalità, in Dir. pen. cont., 2015, p. 266 ss.; Balsamo-Recchioni, Mafie al nord. L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in Dir. pen. cont., 2013, p. 19 ss.
[9] Sez. 2, n. 14225 del 13/01/2021, J., Rv. 281126 – 01, a proposito dell’articolazione locale "Pesha Nest" dell’associazione nigeriana "Eiye".
[10] Sez. 2, n. 24850 del 28/3/2017, C., Rv. 270290.
[11] Fattispecie in tema di costituzione di nuova struttura criminale: Sez. 5, n. 26427 del 20/05/2019, F., Rv. 276894; Sez. 6, n. 57896 del 26/10/2017, F., Rv. 271724. A commento di quest’ultima decisione v., Cisterna, Attenzione focalizzata sui sodalizi storici e fenomeni emergenti, in Guida dir., 2018, 9, p. 65 e Salviani, Configurabilità del delitto di cui all'art. 416-bis c.p. anche per le mafie "non tradizionali" operanti in un ristretto ambito territoriale, in Cass. pen., 2018, p. 2000 ss.
[12] Sez. 6, n. 41772 del 13/6/2017, V., Rv. 271102 e le sentenze in precedenza indicate sulle cd. “mafie locali”.
[13] Vedi anche Sez. 6, n. 43898 del 08/06/2018, R., Rv. 274231; Sez. 6, n. 35914 del 30/05/2001, H., Rv. 221245. In termini, Sez. 6, n. 24536 del 10/4/2015, non mass.; Sez. 6, n. 24535 del 10/4/2015, M., Rv. 264126; Sez. F, n. 44315 del 12/9/2013, C., Rv. 258637. Sez. 2, n. 14225 del 13/01/2021, J., Rv. 281126.
[14] Così, Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, B., Rv. 279555 – 17. La S.C. ha escluso, seppur all’esito di una travagliata vicenda giudiziaria che aveva registrato orientamenti differenti sia in sede di merito che di legittimità (espressi medio tempore in sede cautelare) che ricorresse l’ipotesi dell’associazione di stampo mafioso nella vicenda nota come “mafia Capitale”, sul rilievo dell’assenza di radicamento conseguente all’accertato diffuso inquinamento dei settori della pubblica amministrazione operato dal consesso delinquenziale. In particolare, la S.C. ha evidenziato come nelle sentenze di merito mancasse la prova che l’associazione avesse manifestato una capacità di intimidazione effettivamente percepita come tale ed avesse conseguentemente prodotto un assoggettamento omertoso nel "territorio" in cui l'associazione è attiva. A commento della decisione, v. tra i diversi autori, Amarelli-Visconti, Da ‘mafia capitale’ a ‘capitale corrotta’. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, in Sistema pen., 18.06.2020; Id, "Mafia capitale": per la Cassazione non si tratta di vera mafia, in Cass. pen., 2020, p. 3644 ss.; Fiandaca, Mafia capitale: metodo mafioso e metodo corruttivo non vanno sovrapposti, in Foro It., 2020; Ubiali, Sul confine tra corruzione propria e corruzione funzionale: note a margine della sentenza della Corte di cassazione sul caso "mafia capitale", in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 662 ss.; Cisterna, Quelle "scorciatoie" probatorie sintomo della anomalia italiana. (Mafia), in Guida dir., 2020, 30, p. 76 ss.; Della Ragione, “Mafia Capitale” e “Mafia corrotta”; la parola definitiva della S.C. nel processo di stabilizzazione giurisprudenziale dell’associazione d tipo mafioso, in Leg. pen., 21.10.2020.
[15] Ex multis: Sez. 6, n. 44667 del 12/5/2016, C., Rv. 268676 (con note di commento di Salviani, La delocalizzazione dell'associazione di tipo mafioso, in Cass. pen., 2017, p. 2776 ss.); Sez. 2, n. 24850 del 28/3/2017, C., Rv. 270290; Sez. 5, n. 47535 dell'11/7/2018, N., Rv. 274138.
[16] D'altra parte, nel ribadire i principi anzidetti a proposito delle "locali" di "ndrangheta", la Corte di legittimità, in una ipotesi di creazione in Svizzera di una "locale" rappresentante l'articolazione di un clan calabrese, non ha mancato di focalizzare come i moderni mezzi di comunicazione propri della globalità hanno reso noto il metodo mafioso proprio della "ndrangheta" anche in contesti geografici un tempo ritenuti refrattari o insensibili al condizionamento mafioso, per cui non è necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento o di omertà in quanto l'impatto oppressivo sull'ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo dalla consorteria. (Sez. 5, n. 28722 del 24/05/2018, D., Rv. 273093).
[17] Sez. 6, n. 42369 del 17/07/2019, D., Rv. 277206 (Fattispecie in cui dalle intercettazioni telefoniche risultava che esponenti del gruppo "storico", nonostante il consolidato predominio sul territorio, manifestavano preoccupazione per la contrapposizione con il gruppo emergente, attese la capacità di quest'ultimo di subentrare nel controllo delle attività illecite e la comprovata forza intimidatrice della nuova formazione).
[18] In senso conforme, Sez. 2, n. 24901 del 17/05/2024, A., in motivazione pagg. 29-30.
[19] Sez. 2, n. 20926 del 13/05/2020, P., Rv. 279477 – 01, ove si è sottolineato come dalle decisioni di merito emergesse che il sodalizio criminoso disponesse di una consistente quantità di armi, anche di allarmante potenzialità, opportunamente occultate; avesse già realizzato episodi di natura estorsiva; controllasse anche l'attività di spaccio in una parte del territorio; avesse compiuto due attentati dinamitardi - di carattere eclatante - ai danni di esercizi commerciali; dato luogo ad una specifica struttura con ripartizione di ruoli e responsabilità, con una cassa comune per finanziare le attività illecite, ovvero volta a supportare le necessità dei sodali, anche garantendo l'assistenza legale in caso di arresto; adottato specifiche sanzioni nei confronti di chi aveva mancato di rispetto al capo ovvero minacciato chi aveva deciso di iniziare la collaborazione con la giustizia; predisposto azioni di rappresaglia volte all'eliminazione dei rivali. A commento della decisione, v. Merenda, Niente scorciatoie probatorie: anche per l'associazione "derivata" che opera nello stesso territorio va accertato il metodo mafioso, in Dir. pen. e proc., 2021, p. 336-341.
[20] Sez. 2, n. 24901 del 24/05/2024, D., Rv. 286689 – 01 e 02.
[21] L’argomento assume particolare rilievo allorché il soggetto accusato di far parte di un’associazione di stampo mafioso non sia correlativamente imputato dei delitti fine commessi nell’interesse dell’associazione, tenuto conto che le condotte di tipo partecipativo possono consistere anche in atti che di per sé non costituiscono reato.
[22] Sui contributi recenti in materia di concorso esterno, v. Visconti, Il concorso esterno tra menage a trois e quarto incomodo, in AA.VV., Quarant’anni di 416-bis c.p., cit., 49-59; Pacifico, La mancata tipizzazione del concorso esterno nell’ associazione mafiosa: limite o opportunità? SSM, 4 aprile 2024; Maiello, Il cantiere sempre aperto del concorso esterno, in Sistema penale, 22.02.2021; Alberico, Partecipazione, concorso esterno e voto di scambio: la perenne esigenza di ricostruzione dei tipi, in Sistema pen., 20.03.2024 (nota a Sez. 1, n. 46336 del 5/06/2023).
[23] A tali orientamenti se ne è anche aggiunto un terzo, definito “misto”, in cui il profilo dello stabile inserimento dell'individuo nell'associazione è stato coniugato imprescindibilmente con un apporto causale anche minimo, ma attivo ed effettivo. La più risalente teorizzazione del modello misto si legge in Sez. 4, n. 2040 del 27/08/1996, B., Rv. 206319. Sulla problematica, v. Ariolli-Cappai, La rilevanza penale della c.d. "messa a disposizione" nel delitto di associazione di stampo mafioso: orientamenti della giurisprudenza di legittimità, in Giust. pen., 2018, p. 178 ss.
[24] La questione è stata rimessa alle S.U. con ordinanza della 1^ Sezione penale del 28 gennaio 2021. A commento del provvedimento si veda: Maiello, L’affiliazione rituale alle mafie storiche al vaglio delle Sezioni unite, in Sistema pen. (online), 5/2021.
[25] A commento della decisione: Lazzeri, Affiliazione rituale e prova della condotta di partecipazione ad associazione mafiosa: la sentenza delle Sezioni unite, in Arch. pen. (online), 2022; Cisterna, Associazione mafiosa, l'affiliazione rituale può essere grave indizio della condotta partecipativa. (Reati contro l'ordine pubblico), in Guida dir., 2021, 46, p. 64 ss.; Amarelli, La tipicità debole della partecipazione mafiosa e l'affiliazione rituale: l'incerta soluzione delle Sezioni Unite tra limiti strutturali dell'art. 416-bis c.p. e alternative possibili. (Mafia), in Dir. pen. proc., 2022, p. 786 ss.; Maiello, La partecipazione associativa tra (fuga della) tipicità e (assorbimento nella) prova. (Associazione di stampo mafioso), in Giur. it., 2022, p. 732 ss.; Apollonio, Le Sezioni Unite tra "vecchie" e "nuove" mafie nella valutazione del requisito della partecipazione associativa, in Cass. pen., 2022, p. 62 ss., Id, La partecipazione all’associazione mafiosa nell’impostazione (problematica) delle Sezioni Unite, in Giust. insieme, 18.10.2021.
[26] “Si definisce "partecipe" colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell'associazione mafiosa, non solo “è” ma “fa parte” della (meglio ancora: “prende parte” alla) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima. Di talché, sul piano della dimensione probatoria della partecipazione rilevano tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio. Deve dunque trattarsi di indizi gravi e precisi (tra i quali le prassi giurisprudenziali hanno individuato, ad esempio, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore”, la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, variegati e però significativi “facta concludentia”) dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo nonché della duratura, e sempre utilizzabile, “messa a disposizione” della persona per ogni attività del sodalizio criminoso, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione”.
[27] Il reato di cui all’art. 416-bis c.p. assume contemporaneamente natura di pericolo, in relazione alla preordinazione di una serie indeterminata di delitti e, per altro verso, di danno, in relazione allo sfruttamento della capacità intimidatoria in ragione dell'ormai compiuta immanenza lesiva della libertà di quanti si relazionano con l'associazione. Per l'integrazione del tipo occorre riscontrare empiricamente che il sodalizio abbia in termini effettivi dato prova di possedere tale "forza" e di essersene avvalso.
[28] Sul tema, le S.U. richiamano anche quei contesti ambientali permeati da compagini primariamente composte da soggetti legati da vincoli di affinità e di parentela, laddove il conferimento formale della qualifica di affiliato conseguente al giuramento di mafia potrebbe assumere un significato equivoco, più coerente ad automatismi sociali e familiari che indice, immediato ed autosufficiente, della effettiva intraneità. (In termini, Sez. 6, n. 39112 del 20/05/2015, C., non mass.). Resta, parimenti, esclusa la contiguità compiacente, intesa come mera vicinanza personale o fascinazione verso un determinato apparato mafioso oppure come ammirazione nei confronti di suoi partecipi o capi, ancorché tali atteggiamenti comportamentali rimandino a rapporti effettivamente intrattenuti con uno o più esponenti mafiosi, dai quali non possa desumersi una concreta messa a disposizione del sodalizio (Vedi: Sez. 6, n. 34199 del 18/07/2024, non mass.).
[29] V. pag. 34 della sentenza S.U. “Modaffari”.
[30] A tale proposito, tra i vari indici dimostrativi, si è fatto riferimento; all’attività di collaborazione con i capi cosca e nel coinvolgimento in tematiche e/ strategie associative; all’essere interpellato prima che venissero adottate le decisioni circa le estorsioni da realizzare nell'ambito dei programmi dell’associazione; agli interventi nella soluzione di questioni che riguardavano i rapporti anche conflittuali con altri consessi mafiosi o con altri soggetti criminali con cui il sodalizio veniva in contatto; alla riscossione di un credito derivante dalla vendita di droga; alla partecipazione ad incontri con altri coimputati; al riconoscimento ad opera di terzi quale soggetto a cui potere fare riferimento per ottenere un'interlocuzione con il reggente del sodalizio, ricevendone le confidenze; all'interessamento per la soluzione di questione riguardante controversie tra privati; all'assunzione del ruolo di incaricato a riscuotere "estorsioni natalizie" e recuperare i crediti del clan; al "pizzo" preteso per la vendita di un immobile; alla definizione di rapporti con altri clan, autorizzazioni ad accordi commerciali tra imprese, risoluzione di questioni tra privati, rampogne di soggetti non rispettosi degli impegni assunti verso altre famiglie mafiose; alla trasmissione all’esterno del carcere dei messaggi ricevuti da detenuti appartenenti al sodalizio; all’essere in possesso della carta delle estorsioni realizzate dall’associazione nel territorio di riferimento; allo svolgimento dell’attività di guardiania nell’ambito di impresa mafiosa; all’assunzione della qualità di imprenditore in nome o per conto della cosca.
[31] Sez. 5, n. 35870 del 23/05/2024; Sez. 6, n. 35695 del 10/07/2024; Sez. 2, n. 30007 e n. 30008 del 19/07/2024; Sez. 6, n. 35379 del 18/06/2024; Sez. 6, n. 34202 del 18/07/2024; Sez. 6, n. 34197 del 18/07/2024; Sez. 6, n. 34188 del 10/09/2024; Sez. 6, n. 32046 del 25/07/2024; Sez. 6, n. 31612 del 15/05/2024; Sez. 4, n. 26304 del 29/05/2024; Sez. 2, n. 30554 del 25/07/2024, nel senso che la marginalità del contributo non esclude la partecipazione, che si rinviene anche nel caso in cui l'adesione al sodalizio non si risolva in attività organizzative o nella consumazione di reati-fine, ma si esprima in attività esecutive, che offrono, comunque, un valido contributo alla vita del sodalizio.
[32] Degna di nota, seppur nell’ambito di una ricostruzione critica degli arresti della sentenza Modaffari, ritenuta ispirata ad un modello misto di partecipazione, ma in realtà sostanzialmente organizzatorio, è l’osservazione secondo cui, al fine di scongiurare derive meramente formalistiche della condotta prive della necessaria offensività, alla stregua della natura “duale” della fattispecie, la mera affiliazione andrebbe più correttamente ricondotta al tentativo, salvo interventi legislativi che ne riconoscano la valenza circostanziale; Amarelli, cit., 795; Maiello, cit., 16 ss.
[33] Così, Sez. 2, n. 30006 del 19/07/2024 ha assegnato rilievo alla condotta dell’indagato che, pur non raggiunto da indizi circa la sottoposizione a rituale affiliazione e la commissione di specifici reati-fine, godeva della possibilità di confrontarsi direttamente con soggetti di comprovata "mafiosità", frequentava il "luogo di appuntamenti" dei sodali ed intratteneva con i medesimi, movimentazioni di denaro. V. anche Sez. 2, n. 30010 del 19/07/2024 che ha valorizzato tanto l'incarico di raccogliere denaro per le spese dei sodali detenuti, quanto l’aver curato gli aspetti commerciali di una impresa di catering che consentiva di assumere i familiari degli associati, così offrendo un prezioso contributo all'associazione criminosa che, attraverso la suddetta azienda, riusciva a mantenere anche uno stabile legame con la famiglia mafiosa intrattenendo con questa accordi spartitori per la distribuzione del pane all'interno delle mense scolastiche.
[34] In termini, il contributo reso dal Procuratore della Repubblica di Palermo De Lucia nel presente convegno e Ciconte, Le proiezioni mafiose al Nord, in Corriere di Como, 25.11.2013.
[35] Sui rapporti tra mafia ed impresa pregevole è il contributo di Visconti, II Convegno dell'Associazione Italiana dei Professori di diritto penale. "Economia e diritto penale nel tempo della crisi" - Palermo, 15/16 novembre 2013. Terza sessione. Criminalità economica e criminalità organizzata. Strategie di contrasto dell'inquinamento criminale dell'economia: il nodo dei rapporti tra mafie e imprese, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, p. 705 ss. Sul tema, tra i numerosi contributi, v.: Gratteri-Nicaso, Il Grifone, Mondadori, 2023; Milita, Gli strumenti di contrasto alle Eco mafie. L'esperienza giudiziaria campana, SSM, Corso P21085, 29 ottobre 2021; Scarcella, Criminalità organizzata e responsabilità degli enti, SSM, P20070 del 14-15 settembre 2020.
[36] Pignatone, cit., p. 12.
Foto via Wikimedia Commons.
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