ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. L’Alta Corte disciplinare: perché? – 2. La diversità da alcune precedenti proposte. – 3. La burocratizzazione della magistratura passa anche per il nuovo sistema disciplinare. – 4. La composizione: la quota di magistrati, elitaria, minoritaria e mista. – 5. Quale sarà la sorte dell’azione disciplinare? – 6. I controlli impugnatori sulle decisioni dell’Alta Corte. – 7. L’incertezza sul futuro della giustizia disciplinare e non solo.
1. L’Alta Corte disciplinare: perché?
La riforma costituzionale della giustizia fa discutere soprattutto per la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri ma si compone di altri due capitoli, forse ancor più dannosi per l’equilibrato assetto del potere giudiziario.
Il disegno di legge che sta per raggiungere il suo finale approdo guarda anche alla giustizia disciplinare della magistratura tutta, giudici e pubblici ministeri, spogliando i due Consigli superiori del futuro di un’attribuzione tipica dei modelli di governo autonomo dell’ordine giudiziario, appunto la disciplina.
Perché lo faccia non è chiaro.
Se l’obiettivo fosse di porre fine alla cd. giustizia domestica, raccontata spesso – con troppa superficialità e mistificazione – come luogo dell’indulgenza corporativa, il prodotto non dovrebbe essere quello di un nuovo organo di giustizia a composizione prevalente di magistrati.
Se il fine fosse quello di spezzare il collegamento fiduciario, e quindi la potenziale negativa incidenza sulla imparzialità dei giudici disciplinari togati – oggi denunciata senza dati oggettivi al solo scopo di svilire l’immagine del Consiglio superiore della magistratura –, non se ne comprenderebbe il senso una volta che i due Consigli superiori che sorgeranno dalle ceneri dell’attuale saranno composti (anche) da magistrati non più eletti ma rigorosamente sorteggiati.
Non è da escludere, nella ricerca di un plausibile senso dell’estensione della riforma alla materia disciplinare – invece ignorata dagli abbinati disegni di legge di iniziativa parlamentare che hanno preceduto l’iniziativa governativa – che si sia voluto introdurre un tema in qualche modo caro al maggior partito dell’attuale opposizione politica, forse per stemperare la prevedibile contrarietà alla riforma nel suo complesso.
2. La diversità da alcune precedenti proposte
Si ricorderà che di un’Alta Corte tratta anche il disegno di legge S-94 della XIX (attuale) Legislatura[1], che la tratteggia come organo di giurisdizione per le controversie riguardanti l’impugnazione dei provvedimenti disciplinari adottati dal Consiglio superiore della magistratura, dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, dal Consiglio di presidenza della Corte dei conti, dal Consiglio della magistratura militare e dal Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, oltre che per le controversie riguardanti l’impugnazione di ogni altro provvedimento dei suddetti organismi riguardante i magistrati[2].
Questo disegno di legge, dunque, non sostituisce l’Alta Corte al Consiglio superiore della magistratura, e agli altri organi di governo autonomo delle magistrature speciali, che resta e restano giudici disciplinari di primo grado. Esso tenta, peraltro, una parziale unificazione delle giurisdizioni – profilo del tutto ignorato dal disegno di legge governativo che prosegue a tappe forzate la sua corsa verso il referendum confermativo – sì come molti anni prima aveva proposto il testo licenziato dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali della XIII Legislatura, istituita con l. n. 1 del 24 gennaio 1997 (c.d. commissione D’Alema). Anche al tempo si ragionava di una Corte di giustizia, a cui affidare le attribuzioni disciplinari nei riguardi sia dei magistrati ordinari, ivi compresi i pubblici ministeri, sia dei magistrati amministrativi, che era in aggiunta organo di tutela giurisdizionale in unico grado contro i provvedimenti assunti dai Consigli superiori della magistratura ordinaria ed amministrativa.
Nulla di tutto questo nell’Alta Corte del disegno Nordio-Meloni.
Questo nuovo giudice speciale, istituito soltanto per la gestione della materia disciplinare nei riguardi delle due magistrature ordinarie, giudici e pubblici ministeri – magistrature divise ma, ciò nonostante, componenti di un unico ordine giudiziario – trova l’unica sua ragion d’essere nella spoliazione di una delle attribuzioni tipiche degli organi di governo autonomo.
I due Consigli superiori, che già risulteranno indeboliti dalla separazione e soprattutto dal meccanismo del sorteggio per la selezione dei loro componenti, subiranno un significativo impoverimento funzionale, inevitabilmente destinato a ridurne l’effettivo tono costituzionale. Previsti dalla Costituzione, ma per disposizione costituzionale i due Consigli superiori patiranno un’amputazione delle competenze[3] e saranno oggetto di una spiccata diffidenza, crudamente espressa nella scelta di recidere ogni legame di rappresentanza con le magistrature “amministrate”.
3. La burocratizzazione della magistratura passa anche per il nuovo sistema disciplinare
L’istituzione dell’Alta Corte, pur priva di un autonomo senso, concorre al ridimensionamento dell’ordine giudiziario. Pensata forse – come appena prima ipotizzato – per attirare qualche consenso tra le fila dell’opposizione parlamentare, è comunque funzionale a rendere più fragile il corpo giudiziario.
Separazione delle magistrature, introduzione del concetto di carriera nel testo costituzionale – nell’art. 102, comma primo, infine si aggiunge che le norme di ordinamento giudiziario disciplinano le distinte carriere –, rafforzamento della leva disciplinare sono i pilastri di una strategia che mira a ridisegnare i confini tra politica e giustizia, nell’illusoria e fuorviante speranza che sia questa la strada da battere per restituire alla Politica il suo primato.
Il tentativo abbastanza scoperto è di sospingere la magistratura – che in questi lunghi anni di storia repubblicana si è nutrita di elaborazioni sul proprio ruolo, sulla propria funzione sociale che hanno direttamente attinto ai principi costituzionali – entro il recinto dell’agire burocratico, per ripiegarla interamente sui propri interessi di carriera, mossa dalla speranza di progressione e promozione e frenata dal timore delle punizioni disciplinari.
Non deve passare inosservato che il testo della riforma non si limita al trasferimento di competenze tra Consigli superiori e nuovo giudice speciale, ma incarica il legislatore ordinario di adeguare le leggi sulla giurisdizione disciplinare alla nuova configurazione. Certo, un adeguamento è nell’ordine naturale delle cose, per il semplice fatto che la sostituzione di un tribunale disciplinare con uno di nuova istituzione, che ingloba anche le funzioni di giudice di secondo grado, reca con sé la necessità di qualche adattamento.
Data l’ampiezza di previsione non può però escludersi che il legislatore ordinario potrà cogliere l’occasione per porre mano ad un aggravamento dell’apparato disciplinare in linea e in conformità con uno dei possibili significati della creazione di un giudice ad hoc, a null’altro votato se non alla repressione degli illeciti disciplinari dei magistrati.
È affermazione difficilmente contestabile che l’attribuzione della competenza disciplinare all’organo di governo autonomo comporti fisiologicamente una maggiore capacità di individuare, per la gran parte delle fattispecie costituite dagli illeciti funzionali, l’effettiva violazione dei doveri professionali, al di là del riscontro formale della ricorrenza degli indici esteriori della caduta deontologica.
Si può mettere a frutto, ove concorrano in uno stesso organo le funzioni disciplinari e le attribuzioni di cd. amministrazione della giurisdizione, la piena conoscenza del contesto, delle dinamiche che lo connotano, della situazione organizzativa degli uffici giudiziari, per meglio conoscere dell’illecito funzionale in addebito[4].
Se si conoscono le reali condizioni e il modo in cui operano i singoli uffici giudiziari, si può valutare con maggior aderenza alla realtà se un determinato comportamento, che in ipotesi abbia violato i doveri funzionali, meriti o meno di essere sanzionato.
Di contro, con l’attribuzione della materia disciplinare ad un organo estraneo all’organizzazione giudiziaria, privo di quell’utile bagaglio di conoscenze di contesto, è pressoché inevitabile che si giunga ad un’accentuazione del carattere repressivo del sistema disciplinare[5].
Il rischio concreto, con questo mutamento di modello, è che il sistema disciplinare potrà, nei fatti, scolorirsi in un suo tratto costitutivo, che molti anni addietro fu messo in evidenza dalla Corte costituzionale – Corte cost. n. 100 del 1981 – quando ricordò che il fondamento dell’intervento disciplinare va ricercato non già, come avviene per gli impiegati pubblici, “nel rapporto di supremazia speciale della pubblica amministrazione verso i propri dipendenti”, data la soggezione dei magistrati soltanto alla legge e a null’altro, ma nell’esigenza di garantire “il regolare svolgimento della funzione giudiziaria”, che può essere soddisfatta, si aggiunge qui, se non lo si sbilancia in direzione spiccatamente punitiva e se si conforma ogni suo aspetto all’obiettivo, finalisticamente preminente, di irrobustimento di un’adeguata (e sempre più ricca) cultura professionale.
4. La composizione: la quota di magistrati, elitaria, minoritaria e mista
L’Alta Corte sarà composta da magistrati di entrambe le magistrature (nove membri, di cui sei giudici e tre pubblici ministeri), che saranno selezionati per sorteggio, sì come quelli dei Consigli superiori, e da esperti, professori in materie giuridiche ed avvocati, in parte di indicazione parlamentare, sempre attraverso la mediazione del sorteggio, ma del sorteggio cd. temperato (tre membri), ed in parte nominati dal Presidente della Repubblica (tre membri).
Qui, a differenza che per i Consigli superiori, il ricorso al sorteggio è meno criticabile. L’Alta Corte ha infatti funzioni esclusivamente giurisdizionali, non esercita alcuna attribuzione di politica giudiziaria.
Ciò non significa che l’innovazione sia condivisibile.
Alcune ragioni di critica si situano anzitutto, come già detto, a monte, nella scelta di sottrarre la materia disciplinare al Consiglio superiore senza che se ne possa apprezzare una qualsivoglia ragione che non sia quella di deprimere il governo autonomo e inasprire i meccanismi punitivi[6]. Altre attengono, invece, alla restrizione della platea di magistrati tra cui sorteggiare i componenti dell’Alta Corte. Il sorteggio verrà fatto tra gi appartenenti alle due magistrature “con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità”.
Traspare chiaramente l’idea di una magistratura verticalmente ordinata, ove chi occupa i posti in alto della piramide orienta e controlla quanti esercitano la giurisdizione “in basso”[7].
Non v’è, infatti, altra ragione nello scegliere i componenti dell’Alta Corte soltanto tra i cassazionisti se non rimarcare un carattere latamente gerarchico, che per il vero da qualche tempo si sta già facendo strada nell’organizzazione giudiziaria. Si è, ad esempio, manifestato con la recente riforma (cd. Cartabia) dell’ordinamento giudiziario, che ha inteso riservare un ruolo nelle valutazioni di professionalità al dato dell’esito degli affari nei successivi gradi di giudizio, come se una riforma o un annullamento intervenuto nei gradi di impugnazione possano dire qualcosa, e qualcosa di utile, sulla professionalità del magistrato che ha adottato e redatto il provvedimento impugnato.
Né può pensarsi che la decisione di sorteggiare soltanto tra i magistrati con funzioni di legittimità possa spiegarsi alla luce dell’attribuzione all’Alta Corte della competenza sulle impugnazioni, con assorbimento quindi del ruolo e delle funzioni oggi esercitate dalla Sezioni unite civili della Corte di cassazione. Sul punto si tornerà a breve, ma pare assai poco discutibile che l’eventuale attribuzione del giudizio di legittimità sulle sentenze disciplinari non possa giustificare la selezione ristretta, che trascura, a questo punto del tutto irragionevolmente, le competenze professionali dei giudici di merito e l’importanza del giudizio sul merito disciplinare.
Non comporranno l’Alta Corte il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione, che invece saranno componenti di diritto, ciascuno del Consiglio superiore di diretto riferimento.
L’assenza dall’Alta Corte delle figure di vertice della Corte di cassazione si spiega ricordando che la materia disciplinare già oggi, seppure attribuita al Consiglio superiore nel suo complesso, è affidata in forza di legge ordinaria alla sezione disciplinare del Consiglio superiore stesso, di cui, come di qualunque altra articolazione interna, non fanno parte né il primo presidente né il procuratore generale.
Eppure, per quanto non fosse da attendersi altro, la mancanza dei due togati rende ancor più evidente un aspetto di struttura della nuova Corte che non si vede come possa esser condotto ad un disegno di sistematica razionalità.
Si può facilmente convenire che le attribuzioni rimesse ai Consigli superiori non siano certo più rilevanti della materia disciplinare sul piano dell’effettività dei principi di autonomia e di indipendenza dei magistrati. Sul terreno della responsabilità disciplinare si sperimenta, come è facilmente comprensibile, la maggiore debolezza del magistrato raggiunto da una incolpazione per scelta ordinariamente del Ministro della giustizia. Se così è, non v’è modo di spiegare perché mai i Consigli superiori conserveranno la maggioranza numerica, nella misura di 2/3, della componente cd. togata, ulteriormente rafforzata dalla presenza del componente di diritto, e l’Alta Corte invece avrà la componente magistratuale in maggioranza sì ma di quota inferiore a 2/3 (9 su 15 componenti è quota di poco inferiore a 2/3).
Resta poi incomprensibile, e questo è il profilo critico di maggior rilievo, la vistosa dissonanza dalla dichiarata ragione di fondo del nuovo assetto costituzionale, di eliminare i luoghi in cui giudici e pubblici ministero possano contaminarsi reciprocamente. La separazione delle magistrature si sostanzia soprattutto nella creazione di due diversi Consigli superiori, per rimediare, secondo quanto reiteratamente dichiarato dai proponenti la riforma e tra questi dal Ministro della giustizia, all’eccentricità che oggi vede pubblici ministeri occuparsi, nell’ambito dell’unico Consiglio superiore, delle carriere dei giudici, e viceversa.
Ebbene, sarebbe stato coerente dividere anche gli organi della giustizia disciplinare, e non consentire la commistione di giudici e pubblici ministeri proprio nell’ambito degli affari disciplinari, ove le temute e sbandierate cointeressenze dovrebbero essere, nella distorta ottica riformatrice, ancora più di nocumento per la vagheggiata terzietà dei giudici.
Insomma, si fa tanto per separare i pubblici ministeri dai giudici, si lacera un ordito costituzionale che ha retto in questi lunghi, e non di rado bui, anni di storia repubblicana, durante i quali l’ordine giudiziario è stato messo a dura prova nel contrasto di gravi fenomeni criminali – terrorismo politico e mafia stragista – e ha svolto al meglio la sua funzione di tutela dell’ordinamento costituzionale e delle libertà di tutti, e si muta radicalmente prospettiva nella costruzione dell’Alta Corte, ove saranno apertamente tradite le aspettative riformatrici di due magistrature per compartimenti stagni.
I pubblici ministeri presenti nell’Alta Corte si occuperanno degli affari disciplinari dei giudici, e viceversa, quindi saranno i dossier più delicati, quelli disciplinari, a continuare ad essere oggetto di condivisione, senza che venga dato conto del perché ciò non dovrebbe mettere in pericolo la terzietà dei giudici, per come è raccontata dai sostenitori della riforma.
Peraltro, se nell’Alta Corte giudici e pubblici ministeri non fossero insieme, non si potrebbe affermare che il nuovo assetto assicurerà la prevalenza numerica della componente togata. Solo grazie al conteggio cumulativo (sei giudici e tre pubblici ministeri) può dirsi che anche l’Alta Corte osserverà il principio della prevalenza dei magistrati, ma il vero è che ciascuna magistratura, se isolatamente considerata come dovrebbe essere in nome della rigida separazione, si vedrà componente minoritaria, senza che sia dato comprendere la diversità di disciplina per la composizione dei due Consigli superiori che, come già detto, si occuperanno di aspetti della carriera dei magistrati di riferimento non certo di maggior rilievo ed importanza.
Infine, se si guarda ai numeri, non è difficile prevedere che nella composizione dei collegi in cui si articolerà l’Alta Corte, secondo la disciplina che verrà dettata dal legislatore ordinario, la rappresentanza dei magistrati giudicanti o requirenti potrà esser sì garantita, come prescrive espressamente il disegno di legge, ma non sempre in piena osservanza del criterio di maggioranza numerica, almeno non se le due magistrature, come pare coerente con l’intera architettura della riforma, verranno isolatamente considerate.
5. Quale sarà la sorte dell’azione disciplinare?
Il testo della riforma ovviamente tace non incidendo sulla previsione dell’art. 107, che assegna al Ministro della giustizia la titolarità dell’azione disciplinare, ma non è affar da poco prefigurarsi quale potrà essere la complessiva sistemazione dell’iniziativa disciplinare che, oggi, è attribuzione anche del procuratore generale della Corte di cassazione in forza della dell’art. 10, comma 1, n. 3 della legge n. 195/1958 (istitutiva del Consiglio superiore della magistratura).
Operata la separazione delle carriere, in modo – si è prima detto – rigido ma incoerente, potrebbe trovare valida giustificazione il mantenimento dell’azione disciplinare in capo al procuratore generale in riferimento alla magistratura requirente, ed anzi potrebbe porsi in linea con una probabile connotazione gerarchica di quegli uffici quale elemento di compensazione dell’assai poco equilibrata accentuazione della figura del pubblico ministero, addirittura rafforzata dalla creazione di un proprio Consiglio superiore in cui quei magistrati avranno, a dispetto di quanto avviene oggi, la prevalenza numerica dei 2/3 sulla componente laica.
Il rafforzamento del modulo gerarchico renderebbe del tutto coerente che il procuratore generale della Corte di cassazione, probabilmente di lì a breve elevato a figura di vertice di una struttura piramidale, abbia il potere di azione sui magistrati che occuperanno i gradi inferiori della gerarchia.
Vi sarebbe però un tratto dissonante.
Il titolare dell’iniziativa disciplinare si troverebbe ad esercitare l’azione di fronte ad una Corte composta anche da magistrati requirenti, e quindi da soggetti che, nello svolgimento delle ordinarie funzioni di pubblico ministero, si porrebbero in posizione a lui gerarchicamente sotto ordinata.
L’incongruità di una situazione di tal fatta, in cui alcuni giudici potrebbero patire una sorta di timore reverenziale per il (co)titolare dell’azione, sarebbe esaltata dalla dichiarata natura giurisdizionale della materia disciplinare e dalla conseguente necessità di predicare la terzietà anche di quel giudice secondo l’enfatizzazione artificiosa che formalmente percorre e dà fisionomia alla riforma nel suo complesso.
In riferimento, poi, alla magistratura giudicante sarebbe sistematicamente insostenibile la conferma dell’iniziativa disciplinare del procuratore generale. Alla luce del contesto delineato dalla riforma, avrebbe il senso e il sapore di una intromissione della magistratura re quirente, nella sua più alta espressione, nella vita della giudicante, che invece si è voluto nettamente separata.
Il leitmotiv dei riformatori, per quanto sgangherato, va preso sul serio, e allora se la separazione serve a porre i giudici al riparo dallo strapotere dei pubblici ministeri che, presenti nel Consiglio superiore, oggi giudicano delle loro carriere, non si potrà accettare che il vertice della magistratura requirente detenga un potere così penetrante, di sindacato sui giudici seppure in termini di richiesta di punizione rivolta all’Alta Corte.
L’attribuzione di competenze in materia disciplinare al procuratore generale, sempre in riguardo alla magistratura giudicante, potrebbe non entrare in frizione con l’architettura di sistema ove la Procura generale della Corte di cassazione dovesse essere avvicinata significativamente al Ministro della giustizia, con una conseguente perdita di autonomia decisoria ed esser ridimensionata in funzione di collaborazione servente, con imputazione al solo Ministro delle scelte di promozione dell’azione. In quest’ottica, la Procura generale sarebbe nulla più che l’esecutrice delle determinazioni ministeriali e non potrebbe aver più la contitolarità dell’azione, addirittura qualificata dall’obbligatorietà di esercizio e dall’attribuzione, in via esclusiva, del potere di indagine e di rappresentanza in giudizio.
Se, di contro, prevarrà la scelta di estromettere il procuratore generale dagli affari disciplinari dei giudici, occorrerà assicurare effettività di esercizio ai poteri di indagine e di azione del Ministro della giustizia: si può ipotizzare il rafforzamento dell’Ispettorato generale del Ministero o la predisposizione di un’apposita un’articolazione amministrativa che possa attuare le determinazioni ministeriali.
In questa eventualità, si apprezzerà comunque una compressione delle garanzie che oggi il sistema assicura. L’azione sarà concretamente esercitata non più da un magistrato in posizione di piena autonomia e di indipendenza ma da un ufficio ministeriale che, per quanto – e chissà per quanto – composto (anche) di magistrati, non potrà che connotarsi per un vincolo stretto di dipendenza, ratione materiae, dall’autorità politica[8].
6. I controlli impugnatori sulle decisioni dell’Alta Corte
Per espressa previsione della riforma, la materia disciplinare ha natura giurisdizionale. L’Alta Corte sarà un organo di giurisdizione in senso stretto e sarà competente, con una regolamentazione sulla formazione dei collegi tale da evitare incompatibilità – affidata ovviamente alla legge ordinaria –, anche per i giudizi di impugnazione contro le sentenze emesse in prima istanza.
L’impugnazione sarà ammessa, si dice testualmente, “anche per motivi di merito”, val quanto dire anche per motivi di legittimità. Di qui il quesito, di non facile soluzione, in ordine alla ricorribilità, o meno, per cassazione.
Si può infatti ragionare valorizzando la natura speciale di questa giurisdizione e quindi concludere che il ricorso per cassazione potrà essere ammesso nei limiti e con i limiti dei motivi inerenti alla giurisdizione, come oggi avviene per le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti (art. 111, comma ottavo, cost.).
In questa direzione potrebbe addursi l’argomento, per il vero strutturalmente assai debole, che fa leva sui criteri di individuazione dei magistrati sorteggiabili in vista della formazione dell’Alta Corte.
Si è già detto che il sorteggio riguarderà soltanto i magistrati, sia dell’una che dell’altra magistratura, che non solo abbiano almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie ma che, in più, “svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità”. La ragione della limitazione dei sorteggiabili potrebbe essere rinvenuta proprio nella necessità di assicurare all’Alta Corte, che dovrà occuparsi anche del giudizio di legittimità, professionalità specifiche e sufficientemente formate.
Non sfugge, però, la critica che può muoversi a tale assunto, e cioè che il giudizio disciplinare ha bisogno anzitutto di competenze ed esperienze di giudizi di merito e di conoscenza della realtà organizzativa ed operativa degli uffici in cui esercitano gli incolpati che, per mero dato statistico, sono (e saranno) in numero prevalente magistrati di merito.
Resta, poi il rilievo non facilmente superabile che, per previsione costituzionale, tutte le sentenze sono passibili di ricorso per cassazione e quelle che emanerà l’Alta Corte, definite espressamente “sentenze”, non potranno sottrarsi a questo regime, in assenza di altre disposizioni del medesimo rango che espressamente deroghino a questo assetto.
Dall’inciso sopra ricordato, relativo alla competenza dell’Alta Corte per le impugnazioni delle sentenze di prima istanza “anche per motivi di merito”, non sembra dunque potersi ricavare un principio di deroga.
Esso dice soltanto che con le impugnazioni all’Alta Corte saranno deducibili tutti i vizi possibili, di merito e di legittimità, e non anche che il ricorso per cassazione, garanzia costituzionale di primaria importanza contro tutte le sentenze, resterà assorbito in quell’ampia possibilità di impugnazione.
7. L’incertezza sul futuro della giustizia disciplinare e non solo
La riforma produrrà più incertezze di quanti nodi problematici, veri o presunti, saprà sciogliere. Si imporranno nuovi equilibri che, però, la riforma costituzionale non è in grado di far intravedere sia pure nei contorni essenziali.
Alla legge ordinaria si demanda una revisione ad ampio spettro della materia, come anche della organizzazione e del funzionamento del Consiglio superiore e dell’ordinamento giudiziario nel suo complesso. Si tratta di un compito di grande rilievo, la cui esecuzione non potrà giovarsi di direttrici chiare, dato che le future previsioni costituzionali, come si è visto, non consentiranno letture coerenti[9].
Approvata la riforma, l’attuale normativa di ordinamento giudiziario diverrà provvisoria, assumerà i caratteri della precarietà, come prescritto dall’articolo di chiusura del disegno di legge, ove si assegna al legislatore il termine di un anno per adeguare la disciplina di rango ordinario alla nuova architettura costituzionale.
In quella fase si scaricheranno molte tensioni conseguenti a scelte costituzionali affrettate e assai poco ragionevoli, ma i margini per tentare anche solo parziali correzioni di tiro, e ridurre la distanza da un modello di magistrato a spiccata vocazione professionale, saranno particolarmente risicati.
Non resta che confidare nella maturità democratica del popolo che con ogni probabilità sarà chiamato a dire, con il referendum, la parola decisiva.
[1] Di iniziativa dei sen. Rossomando ed altri, del Partito democratico, componente dell’attuale opposizione parlamentare.
[2] Per A. Rossomando, Forum sull’Istituzione dell’Alta Corte. La rivoluzione dell’assetto giurisdizionale in vista dell’istituzione di una giurisdizione speciale per i giudici, Intervista di Paola Filippi e Roberto Conti, in Questa Rivista, 5 aprile 2022, l’istituzione dell’Alta Corte e l’affidamento ad essa … delle impugnazioni dei provvedimenti del CSM e degli altri organi di autogoverno delle magistrature” avrebbe completato il quadro costituzionale “con il trasferimento ad un più alto livello del controllo su fondamentali decisioni riguardanti lo statuto e la disciplina dei magistrati.”
[3] R. Romboli, La riforma costituzionale della magistratura: la maschera della separazione delle carriere ed il volto della eliminazione del modello Csm voluto dal Costituente, in ordinamentogiudiziario.info, 15 luglio 2025, evidenzia “il depotenziamento… per il Consiglio attraverso la sottrazione di una funzione essenziale per il ruolo ad esso riconosciuto dalla Costituzione, attraverso le indicazioni di un modello di buon giudice da trasmettere all’ordine giudiziario.”
[4] Osserva A. Cosentino, L’Alta Corte. È davvero una buona idea?, in questionegiustizia.it., 25 marzo 2022, che “l’esercizio della potestà sanzionatoria è sinergico con l'esercizio dell'amministrazione attiva e l’una e l’altra concorrono al governo del settore presidiato; e ciò vale con maggior forza nella materia disciplinare, nella quale l'esercizio della potestà disciplinare concorre nella definizione del profilo deontologico dell’operatore del settore”.
[5]S. Bartole, L’assetto degli organi di amministrazione e giustizia disciplinare nel disegno di legge costituzionale n. 1917 sulla separazione delle carriere, in associazionedeicostituzionalisti.it, 10/24 La separazione delle carriere, 18 ottobre 2024, parla di ossessione sanzionatoria osservando che la relazione accompagnatoria, nella parte in cui sottolinea che compito dell’Alta Corte è di garantire nel massimo grado la qualità professionale e deontologica di chi esercita funzioni caratterizzate da un’estrema delicatezza, “fa passare il conseguimento delle finalità formative dei magistrati - con una evidente ossessione sanzionatoria - attraverso lo strumento disciplinare”.
[6] Per N. Zanon, Critiche e speranze intorno ad una riforma che si sarebbe voluta diversa, in ordinamentogiudiziario.info, 17 luglio 2025, l’istituzione di un’Alta Corte distinta dall’organo di governo autonomo si spiega alla luce del “rilievo dei poteri attribuiti al magistrato sulla libertà e i beni dei cittadini”, da cui si trae che “la giustizia disciplinare dei magistrati non deve necessariamente essere, o non deve continuare ad essere, una giustizia disciplinare dei pari.”
[7] N. Rossi, Il sorteggio per i due Csm e per l’Alta Corte disciplinare. Così rinascono corporazione e gerarchia, in Quest. giust., 1-2/2025, p. 114, rileva che “la giustizia disciplinare sarà dunque monopolio dei magistrati di cassazione, ripristinando una primazia – diversa da quella di natura esclusivamente giurisdizionale oggi esercitata – che riecheggia un passato lontano, nel quale gli alti gradi della Cassazione svolgevano un ruolo di vertice dell’organizzazione giudiziaria e di preminenza nel Csm e nella giustizia disciplinare.”
[8] Con riferimento all’attuale sistema E. Cesqui, Il giudizio disciplinare: l’esercizio dell’azione tra poteri, limiti e linee guida. Il ruolo della Procura generale e del Ministro della giustizia, in Il procedimento disciplinare dei magistrati, quaderno n. 8 della Scuola superiore della magistratura, pag. 25 ss., rileva che proprio per mezzo dell’iniziativa del procuratore generale si “riporta all’interno dell’ordine di appartenenza il presidio dei valori deontologici fondamentali” conferendo all’esercizio dell’azione “la piena giurisdizionalizzazione”. L’azione, infatti, spetta anche al Ministro ma egli la promuove, come precisato dall’art. 14, comma secondo, d. lgs. n. 109 del 2016, “mediante richiesta di indagini” al procuratore generale.
[9] R. Romboli, La riforma costituzionale della magistratura: la maschera della separazione delle carriere…, cit., parla della riforma nei termini di una scatola vuota, “tanti sono gli aspetti che vengono rinviati al futuro legislatore ordinario (quindi alla maggioranza parlamentare)”.
Suicidi in carcere: il ministro della giustizia corre ai ripari di Carlo Sudio
Sommario: 1. Il suicidio dei detenuti: un’emergenza e una vergogna nazionale. 2. I rimedi indicati dal Ministro: il sovraffollamento carcerario come antidoto alla solitudine. 3. La separazione delle carriere come risposta di sistema al suicidio in carcere.
1. Il suicidio dei detenuti: un’emergenza e una vergogna nazionale.
Nel corridoio principale del Tribunale di Roma, davanti all'ingresso della Camera Penale, campeggia un pannello su cui è riportato in tempo reale il numero dei detenuti italiani che si sono suicidati dal 1° gennaio del 2025.
Chiunque ha a che fare con il mondo della giustizia (magistrati, avvocati, personale amministrativo, imputati, pubblico) non può non guardare ogni giorno quel pannello e - con un brivido e un pizzico di senso di colpa - constatare quanto quel numero cambi con frequenza impressionante e cresca quasi quotidianamente.
Nel 2024 si sono suicidati 91 detenuti; nel 2025 (dato aggiornato a qualche giorno fa) già 42 persone si sono tolte la vita nelle celle del nostro paese, oltre a tre agenti penitenziari.
Il fenomeno ha assunto da tempo crisma di emergenza nazionale e rimorde nella coscienza di tutti.
L'ANM rimprovera da tempo il Governo e il Ministro della Giustizia di spendere soldi, energie e tempo in riforme dal chiaro - e ormai non più dissimulato - scopo punitivo e intimidatorio nei confronti dei magistrati, anziché dedicarsi ad affrontare emergenze come l'efficienza del processo penale e la drammatica situazione delle carceri.
Sarebbe un errore, peró, ritenere che il tema dei suicidi dei detenuti non sia ben presente nella mente del Guardasigilli.
Alcune sue recentissime dichiarazioni, apparentemente slegate tra loro, suggeriscono invece non solo che il Ministro ha ben presente la vastità e la gravità dell'emergenza, ma che ha già pensato ai rimedi per farvi fronte e alimentano la concreta speranza del prossimo arrivo di qualche provvedimento legislativo in grado di far uscire il Paese dalla tragica impasse.
Le indicazioni del Guardasigilli sono nette, se solo le si leggono con l’attenzione e il rispetto che meritano.
Dalle stesse emerge la volontà di far fronte al fenomeno secondo due direttive, da incoraggiare ed esaltare: il sovraffollamento carcerario e la separazione delle carriere.
Conviene esaminarle partitamente.
2. I rimedi indicati dal Ministro: il sovraffollamento carcerario come antidoto alla solitudine.
Il primo dei due rimedi è stato indicato dal Ministro Carlo Nordio in un’intervista al Corriere della Sera del luglio 2025.
Parlando di sovraffollamento delle carceri italiane e del numero dei suicidi dei detenuti, il Ministro ha affermato che si tratta di “due problemi gravi, ma non connessi. Anzi, paradossalmente, il sovraffollamento è una forma di controllo: alcuni tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella. E’ la solitudine che porta al suicidio. Ma soprattutto la mancanza di speranza e l’incertezza del domani. Molti si uccidono proprio quando è imminente la loro liberazione”.
Risultano dunque irrefutabilmente smentiti i dati di Antigone, che si occupa di tutelare i diritti delle persone che si trovano in carcere, che ha nei suoi rapporti annuali da sempre indicato una chiara relazione esistente tra i suicidi e gli istituti penitenziari più affollati.
E’ vero invece, secondo i dati sicuramente più attendibili del Ministro, il contrario: il sovraffollamento impedisce i suicidi attraverso il controllo che i detenuti esercitano gli uni sugli altri.
Solitudine e silenzio sono le cause indicate dal Ministro. Celle in cui lo spazio vitale è ridotto oltre gli standards di tollerabilità (tanto da costringere lo Stato a innumerevoli cause civili per violazione dei diritti umani) favoriscono invece il controllo reciproco e il tempestivo intervento nel caso che qualcuno dei numerosi compagni di cella tenti di togliersi la vita.
L’intervento degli altri, è evidente, risulta favorito dal ridotto spazio da percorrere prima di giungere al malcapitato e sventarne l’intento autosoppressivo.
Né va sottolineato l’inciso finale della dichiarazione: la vera causa del fenomeno è l’incertezza del domani, non le condizioni della detenzione.
Se molti detenuti si suicidano quando è imminente la liberazione, come risulta al Ministro sicuramente da studi ed indagini approfondite, il dato deve far riflettere: forse è proprio la prospettiva di tornare a vivere in libertà, in spazi privi di quel benefico sovraffollamento e della salvifica sensazione di essere controllati dagli altri a ingenerare nel detenuto la sensazione negativa e ingenerare il panico da liberazione (sul fenomeno della “fuga dalla libertà” la mente corre all’imperituro saggio di Erich Fromm).
Mantenere la situazione di sovraffollamento nelle carceri e procrastinare la liberazione di soggetti detenuti per garantire il controllo dei loro impulsi sono dunque le direttive che emergono da queste dichiarazioni.
3. La separazione delle carriere come risposta di sistema al suicidio in carcere.
Ma v’è dell’altro.
Nelle ultime ore il Ministro è tornato a parlare di suicidi in carcere, fornendo ulteriori importanti spunti di riflessione.
Ancora una volta, a dare il la alle sue esternazioni è stata un'iniziativa dell'Anm, che ha pubblicato un vecchio documento della sottosezione veneta risalente al 1994.
Si tratta, come è noto, di una dichiarazione con cui alcuni magistrati veneti hanno ritenuto di esprimere pubblicamente la loro contrarietà alla separazione delle carriere, vera e propria ossessione del potere politico, come si vede, da oltre trenta anni.
Nulla di strano, si potrebbe osservare: la stragrande maggioranza dei giudici e pm italiani è da sempre di questa opinione, ritenendo che un organo dell'accusa formato alla cultura della giurisdizione e della prova (e non alla filosofia dell'accusare a tutti i costi e incarcerare e condannare più gente possibile) sia un bene per tutto il paese, che ne guadagna in democrazia.
L'anomalia è che tra i firmatari del documento del 1994 vi è il magistrato Carlo Nordio, in aperto contrasto con il Ministro della Giustizia omonimo che della separazione delle carriere ha fatto la bandiera della sua riforma in discussione (oddio, discussione è una parola grossa visto l'iter parlamentare portato avanti a salti di canguro e tappe forzate).
Per spiegare il clamoroso contrasto tra il magistrato e il politico, il Ministro ha rivendicato il diritto di cambiare idea (e questo è sacrosanto) ed ha giustificato il cambiamento con le riflessioni in lui scaturite dopo il suicidio in carcere di un suo indagato.
Alcuni hanno obiettato che il caso evocato è del 1993, quindi precedente il comunicato, per cui sarebbe impossibile che abbia cambiato idea per un fatto di anni prima, ma questa affermazione non coglie il punto.
La dichiarazione è invece importante perché indica una precisa direzione per il problema oggetto di questo articolo.
Se infatti il suicidio di un detenuto ha convinto il Ministro a diventare sostenitore della separazione delle carriere fino al punto da stravolgere la Costituzione per realizzare la sua riforma, questo non può che voler dire che la causa del suicidio deve essere imputata al fatto che il pubblico ministero ha fatto lo stesso concorso dei giudici e ne condivide lo stesso CSM, per di più eletto dai magistrati e non sorteggiato come si usa in tutti i concorsi di bellezza e nelle giurie delle sagre dei paesi seri.
Il punto merita approfondimento.
I sostenitori della riforma sostengono che il processo penale non è giusto in quanto i giudici tenderebbero a dare sempre ragione ai Pubblici ministeri perché condividono con loro carriera e aspirazioni: le loro sentenze e le loro ordinanze sarebbero sbilanciate in favore dell’accusa perché a chiedere condanne e misure cautelari sono loro amici e compagni di corrente.
Diamo per scontato che questo assunto sia vero…. anche se non lo è, perché smentito dalle statistiche che dimostrano che assoluzioni e rigetti, cioè i casi in cui i giudici danno torto al PM, sono pari a quelli di tutti gli altri paesi. Ma non importa, tutti sanno che non è vero e che la riforma serve ad altro. Lo ha detto chiaramente il senatore della maggioranza Marcello Pera due giorni fa: la riforma di per sé non serve se i PM non saranno responsabili verso “qualcun altro”.
Dunque non “giudici indipendenti dai PM” ma “PM dipendenti” (indovinate da chi?). Questo è il senso della riforma.
Ma non divaghiamo e torniamo al sillogismo del nostro Ministro.
Se la ragione della separazione delle carriere è motivata dall’esigenza di sottrarre i giudici dall’influenza nefasta dei Pubblici Ministeri, e se Nordio si è convinto della bontà della separazione dopo il suicidio di un indagato detenuto, questo vuol dire che – seguendo il suo ragionamento – l’indagato si è suicidato a causa dell’influenza nefasta del PM di allora sul giudice, dovuta all’unicità delle due carriere.
Dunque, la causa del suicidio è stata addebitata dal Ministro Nordio all’influenze nefasta del Pubblico Ministero omonimo sul giudice che ne ha accolto la richiesta di misura cautelare.
Separando le carriere, si impediranno eventi tragici come quello accaduto, impedendo ai futuri PM veneti (ma non solo) di fare danni irreparabili.
Né può essere trascurato l’impatto della riforma sulla mente dei detenuti.
Se è vero, come pure è stato detto da Pera nell’intervista menzionata, che la separazione delle carriere porterà ad un corpo di pubblici ministeri assetati di condanne e di misure cautelari, la conseguenza immediata sarà un aumento delle misure cautelari e delle pene richieste e irrogate.
Più detenuti, e ristretti per un periodo più lungo.
Si allontanerà in questo modo quella situazione di incertezza sul futuro e diminuiranno i momenti in cui il detenuto, prossimo alla scarcerazione, è preda della depressione tanto funesta secondo la ricostruzione del Ministro.
Anche in questo modo dunque la separazione delle carriere porterà alla drastica diminuzione dei suicidi dei detenuti.
Una svolta nella giustiziabilità climatica? Le Sezioni Unite e il caso Greenpeace vs ENI
La recente ordinanza n. 13085/2024 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pubblicata il 21 luglio 2025, segna un passaggio cruciale nella riflessione giuridica italiana sul tema della "climate litigation". La Corte si è pronunciata in merito a un regolamento preventivo di giurisdizione sollevato nell’ambito di un giudizio promosso da Greenpeace, ReCommon e diversi cittadini contro ENI, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e la Cassa Depositi e Prestiti S.p.A., accusati di inottemperanza agli obblighi climatici internazionali e di responsabilità per danni derivanti dal cambiamento climatico.
La causa si distingue per essere la prima, in Italia, a incardinare una domanda risarcitoria e inibitoria non solo nei confronti dello Stato ma anche di soggetti privati (ENI) e pubblici partecipati (CDP), con l'obiettivo di ottenere misure coercitive concrete in materia climatica. I ricorrenti hanno fondato la propria azione su norme di diritto interno (artt. 2043, 2050 e 2051 c.c.), su fonti costituzionali (artt. 2, 9, 32 e 41 Cost.), e su fonti sovranazionali, in particolare l'art. 8 CEDU e l'Accordo di Parigi, di cui si chiede un'efficacia diretta anche nei rapporti tra privati.
Il nodo principale affrontato dalle Sezioni Unite è stato quello della giurisdizione: la domanda rientra nella sfera del potere giurisdizionale o implica una indebita invasione delle competenze del legislatore e dell’esecutivo? La Corte ha riconosciuto la rilevanza giuridica della controversia, qualificandola come azione risarcitoria fondata sulla responsabilità civile extracontrattuale e ha affermato la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario italiano. In tal modo, ha implicitamente riconosciuto la potenziale giustiziabilità di pretese basate sulla tutela climatica, con fondamento nei diritti fondamentali e nella responsabilità civile.
L'ordinanza si colloca nel solco di una crescente attenzione della giurisprudenza internazionale alla tutela dei diritti umani nel contesto dell'emergenza climatica, come testimoniato dalla sentenza della Corte EDU nel caso Verein KlimaSeniorinnen Schweiz c. Suisse (9 aprile 2024), espressamente richiamata dai ricorrenti.
Sebbene la decisione della Cassazione non entri ancora nel merito della responsabilità di ENI e degli altri soggetti coinvolti, essa rappresenta un passaggio fondamentale nel delineare un possibile perimetro di responsabilità anche per soggetti privati nel rispetto degli obblighi derivanti dalla crisi climatica.
Si tratta, in definitiva, di una pronuncia che, pur nella sua natura meramente processuale, apre spazi di giustiziabilità fino ad ora inesplorati nell’ordinamento italiano, e che pone interrogativi di grande rilievo su come diritto e giurisdizione possano evolvere per rispondere alla sfida epocale del cambiamento climatico.
La presente nota redazionale, finalizzata alla pubblicazione dell'ordinanza, anticipa l'approfondimento che pubblicheremo a settembre.
“Stato di diritto” vs “Diritto di Stato”?
Breve report della “Relazione annuale sullo Stato di diritto 2025”
Sommario: 1.Introduzione - 2. Analisi del Sistema Giudiziario - 3. Gli altri parametri - 4. Conclusioni: “Stato di Diritto vs Diritto di Stato”.
1. Introduzione.
Lo scorso 8 luglio 2025 è stata resa nota la Sesta Relazione annuale sullo Stato di Diritto della Commissione Europea. Si tratta di uno degli strumenti preventivi di monitoraggio appartenenti al c.d. “Meccanismo per lo Stato di diritto”, volto a vagliare, ogni anno, lo Stato dell’Unione e dell’applicazione dei Trattati e, in particolare, le condizioni generali della Rule of Law in ciascuno dei ventisette Paesi membri.
Obiettivo della Relazione, che normalmente chiude la “country visit” dei delegati della Commissione e la consultazione di vari soggetti istituzionali e non, mira ad accertare il mantenimento dell’equilibrio fra poteri dello stato, a svolgere una analisi qualitativa dei progressi compiuti ed a formulare alcune raccomandazioni per garantire salute alle democrazie (liberali) che compongono l’Unione Europea. La Relazione di quest’anno, inoltre, è la prima del nuovo mandato parlamentare europeo e tiene dunque presenti gli obiettivi di salvaguardia e sicurezza del mercato unico a fronte delle nuove linee politiche stabilite dalla Presidente Von Der Leyen per il periodo 2025 – 2029.
L’analisi è svolta, come ogni anno, tenendo conto di quattro aree tematiche/ parametri ritenute dalla Commissione Europea vere e proprie “cartine al tornasole” dello Stato di diritto: il sistema giudiziario, il quadro anticorruzione, il pluralismo dei media ed altri aspetti istituzionali.
Prima di riassumere le annotazioni proposte nel Rapporto per ciascuna delle voci menzionate con riferimento all’Italia, va sottolineato che quest’anno i delegati della rappresentanza italiana alla redazione dell’analisi in questione hanno anche tenuto conto delle argomentazioni svolte, oltre che dall’Associazione Nazionale Magistrati, dai gruppi associativi che la compongono, mediante lo svolgimento di una audizione, avvenuta il 24 febbraio 2025, dei delegati di ciascuno di essi (si avrà modo di notare, in varie note riportate nella Relazione, lo specifico richiamo alle posizioni sostenute dalle singole associazioni di magistrati).
2. Analisi del Sistema Giudiziario
Come accennato, la prima parte del Rapporto riguarda l’analisi dello stato del Sistema giudiziario italiano ed è suddivisa nei paragrafi relativi all’indipendenza, alla qualità, alla efficienza dello stesso.
Quanto alla indipendenza, desta relativo sollievo apprendere dal Rapporto che “Il livello di indipendenza della magistratura percepito in Italia è ora medio tra i cittadini e rimane medio tra le imprese. Complessivamente, nel 2025 il 46 % della popolazione in generale e il 48 % delle imprese percepiscono il livello di indipendenza della magistratura come "piuttosto o molto soddisfacente".
Il cuore dell’indagine della Commissione, però, riguarda le iniziative legislative rivolte agli aspetti ordinamentali che più coinvolgono l’indipendenza dei magistrati italiani dagli altri poteri dello Stato. La Relazione, dunque, dà atto da un lato, che sia stata adottata la normazione di attuazione affinchè entri pienamente in vigore la riforma globale del sistema giudiziario, con ciò riferendosi ai Decreti del marzo 2024; dall’altro lato, che il Consiglio Superiore della Magistratura abbia esercitato e normato con circolare alcuni temi chiave dell’indipendenza quali gli incarichi fuori ruolo dei magistrati, le valutazioni di professionalità (un cenno è dedicato al dibattito interno sul c.d. “fascicolo del magistrato”), il Testo Unico per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi. Il Report menziona anche le voci critiche sollevate dall’intera magistratura italiana in merito ai c.d. test psicoattitudinali, rispetto ai quali ancora nulla è stato ancora normato dal legislatore. Ed ancora, il Rapporto segnala il corso d’opera sulla riforma della c.d. “separazione delle carriere”, ben puntualizzando i reali contenuti della riforma in punto di previsione di due Consigli Superiori della Magistratura diversi, uno per giudici, l’altro per PM, dell’Alta Corte disciplinare, della riforma della procedura di designazione dei componenti del CSM. Il Rapporto non tace del sostanziale sostegno alla riforma pervenuto in specie dal Consiglio Nazionale Forense e dall’Unione delle Camere Penali, a fronte delle riserve formulate dal CSM nel suo Parere critico del’8.1.2025 e dall’Anm, con lo svolgimento di un partecipato sciopero il 27.2025.
Ed, infine, in relazione alla indipendenza, il rapporto segnala le posizioni assunte da alcuni esponenti politici rispetto a decisioni assunte con provvedimento da singoli magistrati, ricordando che “La magistratura ha espresso preoccupazioni circa la perdita del rispetto reciproco fra le istituzioni e le ripercussioni di questi episodi sulla fiducia dei cittadini nella magistratura stessa22. Secondo le norme europee, anche se criticare le decisioni giudiziarie è un aspetto normale del dibattito democratico, i poteri esecutivo e legislativo dovrebbero evitare critiche tali da minare l'indipendenza della magistratura o la fiducia dei cittadini nella stessa”.
Quanto al paragrafo dedicato alla qualità del sistema giudiziario, il Rapporto dà atto che è in corso l'assunzione di magistrati e personale amministrativo negli organi giudiziari, sebbene rimangano lacune persistenti, e che è stato apprezzato il contributo positivo degli Addetti all'Ufficio del Processo alla gestione dei procedimenti giudiziari, anche se il numero degli Addetti in funzione ha continuato a diminuire. Il Rapporto registra ulteriori progressi nell'attuazione della raccomandazione relativa al miglioramento della digitalizzazione nelle sedi penali e nelle procure, ma attesta anche che “l'Italia dispone di soluzioni digitali limitate per celebrare e seguire i procedimenti giudiziari penali” (diventa quindi noto anche in sede internazionale che “a causa di carenze relative al sistema, 87 uffici giudiziari penali e procure hanno scelto di derogare all'obbligo e hanno rimandato l'avvio effettivo dell'APP”).
Infine, in punto di efficienza, il Rapporto menziona la tendenza positiva da un lato in termini di riduzione dell’arretrato, dall’altro, di riduzione dei tempi per la definizione dei processi.
3. Gli altri parametri
Il secondo tema chiave rispetto al quale il Rapporto valuta le condizioni di permanenza ed implementazione dello Stato di diritto è quello del Quadro Anticorruzione.
Il Report prende le mosse dal riferire gli esiti delle rilevazioni di due attori/portatori di interesse, ossia di Transparency International e Eurobarometro 2025: in sostanza, “la percezione (dei portatori di interesse, n.d.r.) è che il livello di corruzione nel settore pubblico continui ad essere relativamente elevato”.
Ciò premesso, il Rapporto menziona le iniziative assunte in Italia per il contrasto alla corruzione dai vari soggetti interessati (“nel gennaio 2025 l'Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) ha approvato l'aggiornamento del Piano Nazionale Anticorruzione (PNA), con nuove linee guida sulle procedure semplificate per combattere i rischi di corruzione nei piccoli comuni, ed il sesto Piano d'Azione Nazionale per il governo aperto ha compreso un impegno a migliorare l'integrità nella pubblica amministrazione e una guida sull'uso di indicatori e dati aperti per prevenire la corruzione negli appalti pubblici”) e riporta l’iniziativa legislativa dell’agosto 2024 di abrogazione del reato di abuso di ufficio, poi dichiarato costituzionalmente legittimo e conforme ai principi della Convenzione dell’ONU sulla corruzione dalla Corte Costituzionale nel maggio del 2025.
L’ANAC, inoltre, ha aumentato il suo personale, ha continuato a impartire ai funzionari pubblici, insieme alla Scuola Nazionale dell'Amministrazione (SNA), corsi di formazione sulla prevenzione della corruzione ed ha aumentato le attività di vigilanza. Sono state avviate azioni per migliorare l'integrità delle forze di polizia e corsi specifici di formazione destinate ai giudici nell’ambito della Scuola Superiore della Magistratura.
Al contrario, il Rapporto menziona che:
- manca ancora all'Italia una normativa complessiva sul conflitto di interessi per i titolari di cariche pubbliche, compresi i parlamentari, pur menzionando che si registrano progressi – limitati - nell'attuazione della raccomandazione riguardante l'adozione di norme complessive sul c.d. lobbying. La mancanza di una regolamentazione generale delle attività di lobbying, quindi, continua a essere percepita come una delle principali carenze nel sistema di integrità nazionale;
- mancano progressi sulla questione del finanziamento dei partiti politici e delle campagne elettorali mediante donazioni attraverso fondazioni e associazioni politiche poiché i progetti di legge sono ancora pendenti in Parlamento (“La pratica persistente delle donazioni private ai partiti potrebbe rappresentare un ostacolo per la responsabilità pubblica e addirittura comportare l'esercizio di un'influenza sproporzionata sul programma politico da parte dei donatori privati a seconda dell'entità del rispettivo contributo”).
Quanto, infine, al settore degli appalti pubblici, esso resta ad alto rischio infiltrazione da parte della criminalità organizzata anche attraverso il sistema di corruzione, anche se da un lato nel 2024 è stato ulteriormente rinforzato il Codice dei contratti pubblici, dall’altro l’ANAC ha esteso, nel corso della procedura, l’uso della piattaforma telematica alla maggior parte degli appalti banditi.
Il terzo settore oggetto dell’analisi del Rapporto sullo Stato di diritto è quello del pluralismo e libertà dei media.
Secondo il Report, l'autorità garante italiana AGCOM dispone di risorse adeguate per esercitare le sue funzioni in modo indipendente; la sua indipendenza di bilancio è garantita, in primo luogo, da un sistema di autofinanziamento nel settore delle telecomunicazioni, dei servizi postali, di quelli audiovisivi e delle piattaforme online. Il Report, poi, registrata alcuni progressi per quanto riguarda la raccomandazione relativa al finanziamento dei media del servizio pubblico e svolge una breve digressione sul ruolo della RAI, invitata a fornire informazioni accurate e pluralistiche. Alcuni portatori di interessi continuano d'altra parte a dirsi preoccupati dall'esposizione della RAI ai rischi di ingerenze indebite nell'ambito degli attuali quadri di governance e di finanziamento e dalla mancanza di progressi legislativi per affrontare tali questioni (“Nell'ottobre 2024 sono state presentate al Senato sei diverse proposte legislative di riforma della RAI, il cui obiettivo è riformare l'attuale sistema di governance, promuovere l'indipendenza della RAI e ridurre il coinvolgimento del Governo nelle procedure di nomina).
Di alto interesse l’affondo del Report circa il fatto che le norme sull'accesso alle informazioni giudiziarie continuino, in Italia, a destare preoccupazione tra i giornalisti. Viene, infatti, esposto che l'adozione del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 188136 (la cosiddetta "riforma Cartabia") ha individuato negli uffici di Procura le uniche autorità che possono fornire alla stampa informazioni sui procedimenti penali e che successivamente siano state introdotte nuove norme, note come "riforma Nordio" 137 ed "emendamento Costa", che disciplinano l'accesso a determinate informazioni giudiziarie e la loro pubblicazione. Il Governo ritiene che tali misure garantiscano un giusto equilibrio tra la tutela della presunzione di innocenza e la libertà di stampa e di informazione; diverse voci del settore, invece, hanno affermato che dopo l'introduzione della riforma Cartabia, vi sono stati casi in cui le procure non hanno informato la stampa di fatti di potenziale interesse pubblico. Nonostante in alcune sedi giudiziarie siano stati attuati protocolli ad hoc per la gestione del momento di accesso alla informazione, i giornalisti continuano a dover affrontare sfide nell'esercizio della professione.
Per quanto riguarda, infine, la raccomandazione di riformare le norme sulla diffamazione non si è registrato alcun ulteriore progresso in tal senso.
Vengono, infine, elencate nel Rapporto le “altre questioni istituzionali relative al bilanciamento dei poteri”, fra cui la verifica dell’iter legislativo sul progetto di riforma costituzionale per introdurre l'elezione diretta del Presidente del Consiglio, la preoccupazione delle modalità di legislazione per decretazione di urgenza, la mancata esecuzione di ben 74 sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo, la mancata istituzione di una istituzione nazionale per i diritti umani.
Il Rapporto esaurisce poi la comunicazione riformulando una serie di raccomandazioni unitarie ai vari Paesi UE ed a quelli dell’ampliamento per il futuro.
4. Conclusioni
Alcune brevi considerazioni.
Innanzi alla evidente bontà dello strumento in questione per il monitoraggio e per il rafforzamento della Rule of law in ambito comunitario e nell’ottica dell’ampliamento, va altrettanto sottolineato, però, che esso è privo di una vera forza coercitiva sia rispetto alla promozione di iniziative legislative volte al consolidamento dell’equilibrio fra poteri, sia rispetto al contenimento, all’interno degli Stati, dell’emergere di norme di dettaglio che a poco a poco possono minare l’indipendenza e la pari dignità degli stessi.
Le democrazie liberali sono, infatti, realtà culturali e giuridiche non acquisite per sempre; esse, a colpi di maggioranze, possono venire minate dall’adozione di disposizioni contrastanti con il principio di autonomia ed indipendenza dei poteri, così da sostituire allo Stato di Diritto, un “Diritto di Stato” foriero di arretratezze che si ritenevano superate a partire dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti.
Le sanzioni comminate dalla Corte di Giustizia restano l’estrema ratio, ma azioni contrarie, magari annidate in disciplina di dettaglio, possono diventare latenti strumenti di depotenziamento della Rule of law. In questo senso, l’ampio coinvolgimento da parte della Commissione di attori ed interlocutori nei vari settori sensibili, non ultime le associazioni di magistrati, consente non solo alle istituzioni ed agli enti, ma anche alla società civile di rimanere fari accesi sullo Stato di diritto contro ogni forma di Diritto di Stato, veri e propri anticorpi a favore del progresso dei principi ispiratori dell’integrazione europea.
La nozione di “area idonea” tra disciplina statale e normativa regionale (nota a T.a.r. Veneto, 18 dicembre 2024, n. 2997)
di Clara Silvano
Sommario: 1. La vicenda oggetto del contenzioso. -2. Evoluzione della normativa in materia di installazione di impianti F.E.R. alla luce del riparto di competenze tra Stato e Regioni. - 3. La decisione del T.a.r. nel caso di specie. - 4. Prospettive future: il D.M. 21 giugno 2024 e la sentenza del T.a.r. Lazio del 13 maggio 2025 n. 9155.
1.La vicenda oggetto del contenzioso
La sentenza qui in esame riguarda l’installazione dei c.d. “impianti F.E.R.” in zona agricola e si rivela particolarmente interessante per l’interprete in quanto offre una possibile soluzione in caso di antinomia tra la normativa statale e quella regionale - nel caso di specie della Regione Veneto- in ordine a requisiti richiesti per l’attivazione di un impianto collocato in una c.d. “area idonea”[1].
Il ricorso che ha dato avvio al contenzioso era stato proposto da una società privata avverso il parere reso dall’Amministrazione comunale al SUAP competente recante diniego al rilascio della Procedura Abilitativa Semplificata (PAS)[2] richiesta per la realizzazione di un impianto fotovoltaico con moduli posizionati a terra della potenza di 7426 KW ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. 3 marzo 2011, n. 28, il conseguente provvedimento di conclusione negativa della conferenza di servizi attivata nell’ambito della procedura e il contestuale ordine di non effettuare l’intervento ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. 28/2011[3].
A tale ricorso accedeva altresì domanda cautelare, rigettata dal T.a.r. Veneto con ordinanza n. 123/2024[4] per mancanza di periculum in mora[5], riformata in appello dal Consiglio di Stato[6], per il quale le esigenze cautelari della ricorrente avrebbero potuto essere soddisfatte, ai sensi dell’art. 55, comma 10 c.p.a., mediante la celere fissazione dell’udienza di merito da parte del Tribunale di prime cure[7].
Il diniego opposto dall’Amministrazione comunale alla realizzazione dell’impianto fotovoltaico era fondato sulla mancata produzione nella procedura di PAS del c.d. “atto di asservimento”, non previsto dalla normativa statale, ma richiesto dall’art. 4 della L.R. 19 luglio 2022, n. 17[8] quale ulteriore “parametro per l’insediamento degli impianti fotovoltaici nelle zone classificate agricole dagli strumenti urbanistici”[9].
Nello specifico, la norma regionale subordina la realizzazione di un impianto fotovoltaico con moduli posizionati a terra in zona agricola al previo asservimento di un’area agricola pari ad almeno quindici volte l’area occupata dall’impianto, tramite la sottoscrizione di apposito vincolo pertinenziale.
Secondo la ricorrente, tale ulteriore adempimento non sarebbe dovuto, trovandosi l’impianto fotovoltaico in area classificata come idonea dalla legge statale ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. 8 novembre 2021, n. 199[10] e, precisamente, in area classificata come agricola racchiusa «in un perimetro in cui i punti distino non più di 500 metri da zone a destinazione industriale, artigianale e commerciale, compresi i siti di interesse nazionale»[11].
L’idoneità ex lege impressa all’area dalla normativa nazionale avrebbe dovuto portare alla disapplicazione della normativa regionale che, secondo la tesi del ricorrente, potrebbe trovare applicazione solo ed eventualmente in aree diverse da quelle già individuate come idonee di diritto dalla norma statale.
Secondo il Comune, invece, la normativa regionale non metterebbe in discussione la qualificazione di “area idonea di diritto” prevista dal d.lgs. 199/2021, cui si affiancherebbe integrandone le disposizioni, nell’alveo consentito dalla potestà regionale concorrente riconosciuta nella materia di “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” dall’art. 117 della Costituzione[12] definendo indicatori di presuntiva idoneità e non idoneità e parametri specifici per talune fattispecie, perseguendo peraltro l’ulteriore finalità di tutelare il suolo agricolo.
Chiarite sinteticamente le posizioni delle parti, il T.a.r., rigettate le eccezioni in rito sollevate dal Comune[13], entra nel merito del controversia che può essere risolta «alla luce della “ragione più liquida”[14] correlata alla dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 20 del d.lgs. 199/2021, 4 e 6 del d.lgs. 28/2011, 117 e 3 Cost., 12 del d.lgs. 387/2003, della direttiva 2018/2001, del Regolamento UE 2577/2022 e della L.R. Veneto 17/2022, nonché dei criteri di risoluzione delle antinomie normative e delle linee guida nazionali di cui al D.M. 10.09.2010, rivestendo detto profilo carattere assorbente, rispetto alle altre questioni sollevate da parte ricorrente (cfr. Cons. Stato, Ad. pl., 5 gennaio 2015, n. 5, nonché Cass., Sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242)».
Prima di analizzare la soluzione offerta dal giudice rispetto al rapporto tra normativa statale e normativa regionale veneta in materia di localizzazione di impianti F.E.R., con particolare riguardo al caso della localizzazione degli impianti in area agricola, si ritiene utile effettuare un breve excursus normativo in materia, evidenziando in particolare l’evoluzione del ruolo riconosciuto al legislatore statale nella definizione delle c.d. “aree idonee”.
2. Evoluzione della normativa in materia di installazione di impianti F.E.R. alla luce del riparto di competenze tra Stato e Regioni
La normativa in materia di sviluppo di fonti di energia rinnovabile rappresenta un caso emblematico di regolazione “multilivello”[15], che parte dal livello internazionale[16], intercetta quello europeo[17] per poi attuarsi a livello nazionale con l’apporto del legislatore statale e di quello regionale, alla luce del riparto di potestà legislativa delineato dall’art. 117 della Costituzione[18].
Nello specifico, la disciplina interna è il frutto del recepimento della normativa elaborata a livello europeo, dal momento che l’Unione e gli Stati membri condividono la competenza in questo settore ai sensi degli artt. 4, lett. i) e 194 del TFUE[19].
L’attuazione interna segue il riparto di competenze disegnato dall’art. 117, comma 3, della Costituzione che assegna la materia “produzione, trasporto e distribuzione dell’energia” alla competenza concorrente Stato-Regioni[20].
L’autonomia normativa delle Regioni è dunque delimitata dai principi statali che, in un primo tempo, erano individuati dall’art. 12 del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387[21] il quale disciplinava[22]: la tipologia di procedura autorizzatoria, gli enti competenti al rilascio, il luogo di ubicazione degli impianti[23].
Con riguardo a tale ultimo aspetto qui di interesse, l’art. 12, comma 10, affidava a linee guida adottate in sede di conferenza unificata il compito di porre i criteri in base ai quali le Regioni avrebbero individuato con atti pianificatori generali, le “aree non idonee” all’installazione di impianti di energia rinnovabile[24].
Come correttamente osservato, si trattava di una disciplina relativa alla localizzazione degli impianti particolarmente articolata, che contemplava un procedimento collaborativo tra Stato e Regioni nella determinazione dei principi normativi e un successivo intervento regionale a livello amministrativo all’esito di una articolata istruttoria e a salvaguardia di interessi concorrenti[25].
Come noto, tuttavia, nelle more dell’approvazione delle linee guida suddette, avvenuta solo sette anni dopo, con il D.M. 10 settembre 2010, le Regioni hanno introdotto regole il più delle volte maggiormente restrittive di quelle statali in relazione alla possibilità di realizzare impianti F.E.R. sul territorio e, di conseguenza, penalizzanti per la produzione di energia da fonti rinnovabili.
Le disposizioni regionali hanno previsto divieti alla localizzazione degli impianti in assenza della cornice normativa unitaria costituita dalle linee guida, voluta dal legislatore in nome del principio di leale collaborazione[26], hanno introdotto moratorie, variamente motivate, nel rilascio dei titoli autorizzativi[27] o ancora, hanno contemplato divieti generali ed indiscriminati, sull’intero territorio regionale, alla localizzazione di impianti F.E.R.[28].
Per tali ragioni, le stesse sono state oggetto di censura da parte della Corte Costituzionale che ha difeso le esigenze di una regolazione omogenea di questo settore sull’intero territorio nazionale.
Tale tendenza[29] non è cessata nemmeno in seguito all’approvazione delle linee guida[30] previste dalla norma di legge che, ponevano in capo alle Regioni la possibilità di porre limitazioni e divieti in atti di tipo programmatori o pianificatori per l’installazione di specifiche tipologie di impianti alimentati a fonti rinnovabili, esclusivamente nell’ambito e con le modalità di cui al paragrafo 17[31].
Il paragrafo 17 indica i criteri e i principi che le Regioni devono rispettare al fine di individuare le zone nelle quali non è possibile realizzare gli impianti alimentati da fonti di energia alternativa[32] sulla base dei criteri di cui all’allegato 3. L’allegato 3 prevede, poi, che l’individuazione delle aree e dei siti non idonei alla realizzazione degli impianti in questione «deve essere differenziata con specifico riguardo alle diverse fonti rinnovabili e alle diverse taglie di impianto» e che non può riguardare «porzioni significative del territorio o zone genericamente soggette a tutela dell’ambiente, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico, né tradursi nell’identificazione di fasce di rispetto di dimensioni non giustificate da specifiche e motivate esigenze di tutela».
La disciplina in esame ha quindi attribuito alle Regioni il potere di individuare «aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti», nel rispetto del principio di massima diffusione delle fonti rinnovabili e degli impianti F.E.R.[33].
Sull’estensione di tale potere la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 13/2014[34], ha ribadito il carattere “eccezionale” dell’attività di individuazione delle aree “non idonee” all’installazione degli impianti a F.E.R., che deve essere effettuata caso per caso, avendo (come prescritto dalle linee guida) riguardo alle diverse fonti e alle specifiche “taglie” dell’impianto e comunque solo al fine di «proteggere interessi costituzionalmente rilevanti», rimarcando la preclusione, per le Regioni, a fissare «limiti generali, valevoli sull’intero territorio regionale, specie nella forma di distanze minime» dal momento che ciò «contrasterebbe con il principio fondamentale di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili, stabilito dal legislatore statale in conformità alla normativa dell’Unione europea».
Con particolare riguardo alle aree agricole, sempre l’art. 12 ammetteva l’ubicazione degli impianti F.E..R anche in tali zone, avendo riguardo «delle disposizioni in materia di sostegno nel settore agricolo, con particolare riferimento alla valorizzazione delle tradizioni agroalimentari locali, alla tutela della biodiversità, così come del patrimonio culturale e del paesaggio rurale di cui alla legge 5 marzo 2001, n. 57, articoli 7 e 8, nonché del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, articolo 14»[35]. L’Allegato 3 delle linee guida precisa poi che «le zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici non possono essere genericamente considerate aree e siti non idonei».
In tale quadro le Regioni potevano comunque limitare l’installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile, individuando aree agricole “di pregio”, «interessate da produzioni agricolo-alimentari di qualità (produzioni biologiche, produzioni D.O.P., I.G.P., S.T.G., D.O.C., D.O.C.G., produzioni tradizionali) e/o di particolare pregio rispetto al contesto paesaggistico-culturale», o prevedendo limiti anche per le altre aree agricole “comuni”, purché si trattasse di limiti ragionevoli e proporzionati e mai di divieti assoluti e aprioristici[36].
L’equilibrio disegnato dalle linee guida nazionali e dalla successiva attuazione regionale nell’ individuazione delle aree (non) idonee per la localizzazione degli impianti F.E.R. è stato di recente completamente ridisegnato dal legislatore[37], che ha invertito il previgente sistema di governo territoriale nella localizzazione delle aree idonee alla realizzazione di questi impianti[38].
Ciò è avvenuto con il d.lgs. 8 novembre 2021, n. 199 che ha recepito la Direttiva n. 2018/2001/UE “sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili”, in attuazione della legge delega 22 aprile 2021, n. 53.
Nello specifico, l’art. 20 del suddetto decreto demanda a successivi decreti, da adottarsi da parte del Ministro della transizione ecologica, di concerto con il Ministro della cultura e di quello delle politiche agricole, alimentari e forestali, previa intesa in sede di Conferenza unificata, la definizione di criteri e principi direttivi per l’individuazione «delle aree idonee e non idonee all’installazione degli impianti» da parte delle Regioni.
Ai sensi del terzo comma dell’art. 20, la definizione delle disciplina delle aree idonee dovrà avvenire tenendo conto «delle esigenze di tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, delle aree agricole e forestali, della qualità dell’aria e dei corpi idrici, privilegiando l’utilizzo di superfici di strutture edificate, quali capannoni industriali e parcheggi, nonché di aree a destinazione industriale, artigianale, per servizi e logistica e verificando l’idoneità di aree non utilizzabili per altri scopi, ivi incluse le superfici agricole non utilizzabili».
La concreta individuazione delle aree idonee è poi rimessa alle Regioni, che devono provvedervi con legge[39] entro 180 giorni dall’entrata in vigore dei decreti previsti dall’art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 199/2021[40].
La disciplina sull’individuazione delle aree idonee si chiude con due ulteriori disposizioni di chiaro favor per la diffusione degli impianti F.E.R. sul territorio: la prima, prevista dal settimo comma, per la quale: «le aree non incluse tra le aree idonee non possono essere dichiarate non idonee all’installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile, in sede di pianificazione territoriale ovvero nell’ambito di singoli procedimenti, in ragione della sola mancata inclusione nel novero delle aree idonee», con ciò rimarcando la necessità che l’eventuale “non idoneità” di un’area costituisca il frutto di una adeguata istruttoria e non discende, in via automatica, dalla mancata individuazione quale area idonea.
La seconda, particolarmente rilevante ai fini della controversia posta alla cognizione del T.a.r. Veneto, è prevista dall’ottavo comma dell’art. 20 in esame, che individua alcune tipologie di aree come idonee ex lege, nelle more dell’adozione delle leggi regionali[41].
L’elenco delle “aree idonee” all’installazione di impianti F.E.R., originariamente limitato a sole due ipotesi[42], è stato ampliato dalla normativa successiva, in particolare dal d.l. 11 marzo 2022, n. 17, convertito in l. 27 aprile 2022 n. 34 (“Decreto energia”) e il successivo d.l. 17 maggio 2022, n. 50, convertito in l. 15 luglio 2022, n. 91, ricomprendendo, ai fini che qui più interessano «esclusivamente per gli impianti fotovoltaici, anche con moduli a terra, in assenza di vincoli ai sensi della parte seconda del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 le aree classificate agricole, racchiuse in un perimetro i cui punti distino non più di 500 metri da zone a destinazione industriale, artigianale e commerciale, compresi i siti di interesse nazionale, nonché le cave e le miniere».
L’individuazione di un’area come idonea all’installazione di impianti F.E.R. determina l’applicazione di un regime autorizzativo semplificato, con una sostanziale inversione del rapporto tra autorizzazione unica e procedure semplificate, che vengono preferite in applicazione dei criteri di proporzionalità e adeguatezza[43].
A ciò deve aggiungersi quanto contemplato dall’art. 22 del d.lgs. 199/2021, il quale prevede che: «nei procedimenti di autorizzazione di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili su aree idonee, ivi inclusi quelli per l'adozione del provvedimento di valutazione di impatto ambientale, l’autorità competente in materia paesaggistica si esprime con parere obbligatorio non vincolante», con una espressa ipotesi di silenzio devolutivo nel caso in cui il parere non venga reso nel termine previsto[44].
Inoltre, si prevede che il termine di conclusione della procedura di autorizzazione unica sia ridotto di un terzo[45].
Rispetto alla disciplina così delineata che, come visto, ricomprende a determinate condizioni anche le aree agricole tra le aree idonee, si deve rilevare una inversione di tendenza da parte del legislatore nazionale[46], il quale, con l’art. 5 del d.l. 15 maggio 2024, n. 63 convertito con modificazioni dalla legge 12 luglio 2024, n. 101, ha introdotto una serie di limitazione all’installazione di impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra in zone classificate agricole dai piani urbanistici vigenti[47], che non risulta applicabile al caso di specie, in forza della disciplina intertemporale tracciata dalla disposizione suddetta[48].
Tracciata la cornice normativa relativa alla localizzazione degli impianti F.E.R. che viene in rilievo nel caso esaminato dal T.a.r., la questione interpretativa che si pone e che si rivela centrale, come si vedrà, per la risoluzione della vertenza portata alla cognizione del T.a.r. Veneto, riguarda il rapporto tra le presunzione di idoneità ex lege fissata dalla legge statale e la legge regionale che detta ulteriori requisiti per l’installazione degli impianti suddetti: in altre parole ci si chiede se la legge regionale possa legittimamente ritenere non idonee aree previste come tali in via presuntiva dalla legge statale, oppure se, come avvenute nel caso di specie, possa introdurre dei requisiti ulteriori che, limitino la localizzazione degli impianti F.E.R. in aree giudicate idonee dalla legge statale.
3.La decisione del T.a.r. nel caso di specie
La questione posta all’attenzione del T.a.r. Veneto può essere riassunta nel seguente modo: se esista o meno l’obbligo, nel caso di specie, per la ricorrente di asservire all’impianto aree ulteriori di estensione pari a quindici volte l’area occupata dall’impianto, ai sensi dell’art. 4, comma 2, lett. a) della L.R. 17/2022, e ciò tenendo in considerazione che l’impianto si dovrebbe realizzare in area agricola, individuata come area idonea di diritto.
Si tratta in sostanza di comprendere se l’individuazione di idoneità da parte della legge statale costituisca un “principio fondamentale” della materia che guida il Legislatore regionale nell’esercizio della propria potestà concorrente e al quale quest’ultimo deve conformarsi senza poter prevedere ulteriori condizioni che, almeno secondo la tesi della ricorrente, nel caso di specie si tradurrebbero in una sostanziale impossibilità a realizzare l’impianto anche in area considerata idonea ex lege.
Orbene, secondo un criterio di interpretazione letterale «ai fini dell’idoneità ex lege all’installazione di FER- è sufficiente verificare l’assenza dei soli vincoli contenuti nella parte seconda del codice dei beni culturali e del paesaggio (al punto c - ter la norma recita espressamente che l’area con le descritte caratteristiche è idonea “in assenza di vincoli ai sensi della parte seconda del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”)» e pertanto, implicitamente, non sarebbero ammessa la previsione di requisiti ulteriori all’installazione di impianti F.E.R. da parte della legge regionale per quanto riguarda le aree idonee.
Sempre secondo il T.a.r., la ricostruzione della normativa effettuata in forza del criterio letterale trova conforto anche alla luce della ratio dell’art. 20 del d.lgs. 199/2021 il quale, come sopra evidenziato, ha visto nel tempo un progressivo ampliamento delle aree considerate idonee ex lege e ciò per un evidente favor di recente espresso dal legislatore in materia di incentivazione alla produzione di energia da fonti rinnovabili.
L’interpretazione letterale e teleologica della normativa «depongono quindi nel senso per cui l’installazione degli impianti fotovoltaici (anche con moduli a terra) in aree considerate idonee ex lege deve considerarsi sempre consentita, senza che possano rilevare limitazioni o restrizioni imposte da normative regionali previgenti o successive all’entrata in vigore della disciplina nazionale».
Tuttavia, il T.a.r. non ritiene che la normativa regionale applicabile al caso di specie sia illegittima, in quanto sarebbe possibile una lettura integrata della normativa statale e di quella regionale in forza del quale i criteri previsti dall’art. 4 della L.R. 17/2022 varranno esclusivamente nelle aree agricole diverse da quelle “idonee di diritto”.
Orbene, tale conclusione cui perviene il Tribunale di prime cure non sembra pienamente condivisibile e ciò, in primo luogo, alla luce della concreta applicazione del requisito dell’asservimento delle aree che, come messo ben in luce dalla stessa ricorrente, «si traduce in un sostanziale divieto di installazione degli impianti in aperta violazione del divieto di introdurre moratorie dei procedimenti autorizzativi stabilito dall’art. 20, comma 6 d.lgs. 199/2021», dal momento che costringe il privato che intende realizzare un impianto fotovoltaico a terra su area agricola a procurarsi un’area quindici volte più estesa rispetto a quella effettivamente necessaria per l’installazione dell’impianto suddetto.
In altre parole, nelle aree agricole non considerate idonee ex lege dalla legge statale, la legge regionale introdurrebbe surrettiziamente un divieto generalizzato all’installazione di impianti F.E.R., imponendo ai privati che intendono realizzare l’impianto un obbligo di asservimento sproporzionato ed eccessivamente oneroso.
Tale prescrizione si pone in contrasto diretto con la giurisprudenza costituzionale che, come sopra visto, ha ripetutamente sanzionato le normative regionali che hanno introdotto divieti generalizzati all’installazione di impianti F.E.R. come di fatto si rivela quello qui in esame.
In secondo luogo, le considerazioni cui arriva il T.a.r. rispetto al rapporto tra normativa statale e regionale in materia di installazione di impianti F.E.R devono essere confrontate con le novità normative intervenute, non considerate nella sentenza qui in analisi, e con gli ultimi approdi giurisprudenziali che saranno, quindi, oggetto di analisi nel prossimo paragrafo.
4.Prospettive future: il D.M. 21 giugno 2024 e la sentenza del T.a.r. Lazio del 13 maggio 2025 n. 9155
Il rapporto tra normativa statale e regionale nell’individuazione delle aree idonee all’installazione degli impianti F.E.R. si è posto nuovamente all’attenzione dell’interprete all’indomani dell’approvazione del D.M. 21 giugno 2024 che reca, in attuazione dell’art. 20, comma 1, del d.lgs. 199/2021 “Disposizioni per l’individuazione di superfici e aree idonee per l’installazione di impianti a fonte rinnovabile”.
In particolare, ai fini che qui più rilevano l’art. 7 del D.M. prevede che le Regioni per l’individuazione delle aree idonee tengano conto, tra l’altro, «della possibilità di fare salve le aree idonee di cui all’art. 20, comma 8 del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199 vigente alla data di entrata in vigore del presente decreto».
Inoltre l’art. 7 in questione richiama quanto previsto dall’art. 5 del decreto-legge 15 maggio
2024, n. 63, che, come sopra visto, pone una disciplina restrittiva relativamente all’installazione di impianti fotovoltaici in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici[49].
Tale decreto è stato tempestivamente impugnato dagli operatori del settore, e ciò, ai fini che qui più interessa, con specifico riferimento all’art. 7 che, come visto, attribuisce alle Regioni la semplice facoltà di far salve le aree già considerate idonee dall’art. 20, comma 8, del d.lgs. 199/2021, non prevedendo, invece, l’obbligo di recepire la disposizione statale sul punto.
A tal riguardo, il Consiglio di Stato, esprimendosi in sede cautelare[50], ha ritenuto che: «la norma in questione appare – al sommario esame proprio di questa fase cautelare – non pienamente conforme all’art. 20, comma 8, del d. lgs. 199/2021, il quale già elenca le aree contemplate come idonee: in tale disciplina di livello primario non sembra possa rinvenirsi spazio per una più restrittiva disciplina regionale», sospendendo il D.M. impugnato limitatamente alla sola norma dell’art. 7, comma 2, lettera c) e chiarendo al contempo che le aree idonee rimarranno disciplinate dall’art. 20, comma 8, del d.lgs. 199/2021 stesso sino al termine di efficacia dell’ordinanza.
In sede di merito, in altro contenzioso generato dall’impugnazione del D.M. suddetto, il T.a.r. Lazio, con una recentissima e articolata sentenza[51] ha annullato l’art. 7, commi 2 e 3, del D.M. nella parte in cui non avrebbe previsto criteri sufficientemente precisi e omogenei per l’individuazione delle aree idonee e non idonee all’installazione di impianti F.E.R. da parte delle Regioni.
È interessante rilevare come rispetto allo specifico aspetto messo in evidenza dall’ordinanza del Consiglio di Stato e quindi su una possibile illegittimità della previsione della sola facoltà per le Regioni di tener conto delle ipotesi di idoneità ex lege previste dalla legge statale, il T.a.r. Lazio non si sia soffermato espressamente, riconoscendo tuttavia in maniera indiretta alle Regioni questa specifica facoltà.
Infatti, il giudice ha evidenziato come «la concessione della suddetta facoltà, infatti, non assicura il mantenimento della qualificazione di area idonea operata medio tempore dalla legge», con ciò dunque avallando la possibilità per le Regioni di discostarsi dall’individuazione delle aree idonee effettuate dalla legge statale.
Partendo da questo presupposto, tuttavia, il gravato decreto ministeriale sarebbe comunque illegittimo per non aver previsto alcuna misura di salvaguardia per i procedimenti di autorizzazione degli impianti F.E.R. in corso di svolgimento nelle aree idonee ope legis che potrebbero essere penalizzati da una mutata qualificazione delle aree da parte delle Regioni che potrebbero non qualificarla più come area idonea.
Occorre da ultimo segnalare, per il rilievo specifico di questo profilo in relazione all’insediabilità degli impianti in area agricola, come il T.a.r. Lazio, con altra sentenza resa nell’ambito del medesimo filone contenzioso[52], ha ritenuto rilevanti e non manifestamente infondate, nei termini espressi in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, co. 1 e 2, d.l. n. 63/2024, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 101/2024, nonché dell’art. 2, co. 2, primo periodo, d.lgs. n. 190/2024, per violazione degli artt. 3, 9, 11 e 117, co. 1, Cost., anche in relazione ai principi espressi dalla Direttiva (UE) 2018/2001 e dal Regolamento (UE) 2018/1999, come modificati dalla Direttiva (UE) 2023/2413, nonché dal Regolamento (UE) 2021/1119.
In particolare, il T.a.r. Lazio ha ritenuto che la disciplina censurata presenti profili di contrasto con gli artt. 11 e 117, co. 1 della Costituzione, sotto il profilo del mancato rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e, in particolare, del principio di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili, derivante dalla normativa europea.
Ciò in quanto, in forza della disciplina introdotta «la generalità dei terreni classificati agricoli (circa la metà della superficie del Paese) è preclusa a qualsiasi intervento di installazione di impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra che non che non consista nel mero rifacimento/modifica/ricostruzione, con conseguente preclusione all’utilizzo di nuovo terreno agricolo».
Alla luce dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale qui brevemente richiamata, de iure condendo, si dovrà attendere la riedizione del decreto con la definizione di principi e criteri direttivi maggiormente specifici, volti a indirizzare la potestà legislativa regionale nell’individuazione delle aree idonee e non idonee all’installazione di impianti a fonti rinnovabili, e prim’ancora, la pronuncia della Corte costituzionale in merito alla legittimità dell’art. 5 del d.l. 63/2024 che, quale norma statale primaria, influenza il contenuto dei decreti ministeriali di attuazione.
De iure condito, con specifico riguardo alla normativa regionale veneta, si ritiene che il previsto requisito dell’asservimento non debba trovare applicazione non solo con riferimento agli impianti da realizzarsi sulle aree idonee ex lege, come stabilito dal T.a.r., ma nemmeno per gli impianti da realizzarsi in aree agricole diverse da quelle considerate idonee dalla normativa statale.
Questo perché tale requisito si dimostra del tutto sproporzionato e vessatorio, ponendo in capo all’attuatore dell’iniziativa l’onere economico di avere un terreno che sia di estensione quindici volte maggiore rispetto a quello necessario per l’impianto, rendendo di fatto impossibile o comunque oltremodo difficile, la realizzazione di questo tipo di impianto F.E.R.
Rimane quindi ferma, a parere di chi scrive, la necessità di sottoporre la disposizione in questione allo scrutinio della Corte costituzionale, non essendo possibile, a differenza di quanto evocato dal T.a.r. Veneto, una sua interpretazione costituzionalmente orientata.
[1] Secondo l’art. 2, comma 1 lett. ggg) del d.lgs. 8 novembre 2021, n. 199 per “area idonea” si intende «area con un elevato potenziale atto a ospitare l’installazione di impianti di produzione elettrica da fonte rinnovabile, anche all'eventuale ricorrere di determinate condizioni tecnico-localizzative».
[2] L’art. 4 del d.lgs. 3 marzo 2011, n. 28, nel prevedere che: «la costruzione e l'esercizio di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili sono disciplinati secondo speciali procedure amministrative semplificate, accelerate, proporzionate e adeguate, sulla base delle specifiche caratteristiche di ogni singola applicazione» ha introdotto, accanto al regime generale dell’autorizzazione unica, quello della procedura abilitativa semplificata (PAS) e della comunicazione relativa alle attività in edilizia libera. Per quanto riguarda la PAS, la stessa era disciplinata dall’art. 6 del d.lgs. 28/2011 fino alla sua abrogazione, intervenuta per opera del d.lgs. 25 novembre 2024 n. 190 recante “disciplina dei regimi amministrativi per la produzione di energia da fonti rinnovabili”, che prevede la PAS all’art. 8. Per un’analisi approfondita di questa procedura si rinvia a G. La Rosa, La procedura abilitativa semplificata per impianti FER: dalle esigenze di semplificazione ai dubbi applicativi, in AmbienteDiritto.it, 3/2023.
[3] Il ricorso in analisi era stato posto in via principale contro una prima nota del 12 ottobre 2023 con cui il Comune di Rovigo aveva espresso il proprio parere non favorevole alla conclusione della PAS; contro la nota del 3 novembre 2023 che costituiva comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della PAS ai sensi dell’art. 10 bis l. 241/90 e il provvedimento recante convocazione della conferenza di servizi decisoria in forma semplificata asincrona per l’esame delle osservazioni presentate dalla Società, tutti provvedimenti fatti comunque oggetto di impugnazione anche nel successivo ricorso per motivi aggiunti che ha portato alla sentenza qui in esame.
[4] T.a.r. Veneto, ord. 23 ottobre 2024, n. 123.
[5] Il T.a.r. motiva l’assenza del periculum per il fatto che, trattandosi di un interesse pretensivo, lo stesso non avrebbe potuto trovare diretta soddisfazione dall’accoglimento della domanda cautelare. Inoltre la parte non avrebbe allegato elementi idonei a dimostrare la sussistenza di un danno grave e irreparabile derivante dall’esecuzione dei provvedimenti suddetti.
[6] Cons. Stato, ord. 7 giugno 2024, n. 2139.
[7] Rispetto a questa disposizione, vista come strumento utile «al fine di ricondurre ad equilibrio il rapporto tra ontologica strumentalità delle misure cautelari rispetto alla decisione di merito e tendenza, nella prassi, “anticipatamente decisoria” delle medesime» si confronti S. Monzani, La tutela cautelare a contenuto decisorio nel processo amministrativo, in Dir. ec., 1/2021, 129.
[8] Legge Regionale 19 luglio 2022, n. 17 avente ad oggetto “Norme per la disciplina per la realizzazione di impianti fotovoltaici con moduli ubicati a terra”. Si tratta di legge emanata «in conformità al decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 “Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità” e al decreto ministeriale 10 settembre 2010 “Linee guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili”» mediante l’individuazione di aree con indicatori di presuntiva non idoneità nonché «in applicazione del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199 “Attuazione della direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2018, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili”» di aree con indicatori di idoneità alla realizzazione di impianti fotovoltaici e ciò «al fine di preservare il suolo agricolo quale risorsa limitata e non rinnovabile».
[9] L’art. 4 della L.R. 17/2022 prevede per l’insediamento degli impianti fotovoltaici nelle zone classificate agricole dagli strumenti urbanistici comunali: per gli impianti di potenza uguale o superiore ad 1 MW la realizzabilità solo in forma di impianto agro-voltaico, mentre per quelli con moduli fotovoltaici posizionati a terra applicando il regime di asservimento, oggetto del presente contenzioso.
[10] Per un’analisi di questo decreto si confronti il par. 2 del presente contributo.
[11] Art. 20, comma 8, lettera c-ter) del d.lgs. 199/2021.
[12] Cfr. par. 2
[13] Nello specifico, il T.a.r. rigetta una prima eccezione di inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti che, secondo l’Amministrazione resistente, si porrebbe in violazione dell’art. 43 c.p.a. per non contenere domande nuove di annullamento di atti sopravvenuti o motivi ulteriori rispetto ad atti già impugnati e ciò sul presupposto che, con il ricorso per motivi aggiunti ben si possono far valere in via derivata contro i provvedimenti sopravvenuti gli stessi motivi di illegittimità fatti valere rispetto agli atti impugnati con ricorso principale. Viene altresì rigettata una ulteriore eccezione di inammissibilità correlata alla natura endoprocedimentale degli atti presupposti alla determinazione conclusiva del procedimento e ciò per il fatto che è sempre possibile impugnare gli atti presupposti al provvedimento finale per farne valere in via derivata i vizi che quest’ultimo eredita dai primi, risultando l’inammissibilità nei soli casi in cui non sia stato impugnato anche il provvedimento conclusivo del procedimento. Infine è rigettata anche l’eccezione di tardività rispetto all’impugnazione di tali atti endoprocedimentali, già impugnati con il ricorso principale e ciò in quanto il termine di impugnazione per gli atti suddetti decorre dal momento dell’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento.
[14] Come evidenziato dall’Adunanza plenaria n. 4/2015, richiamata dallo stesso T.a.r. si tratta della possibilità «che il giudice, in ossequio al superiore principio di economia dei mezzi processuali in connessione con quello del rispetto della scarsità della risorsa-giustizia (cfr. da ultimo Sez. un., nn. 26242 e 26243 del 2014 cit.; Ad. plen., n. 9 del 2014 cit.), derogando alla naturale rigidità dell'ordine di esame, ritenga preferibile risolvere la lite rigettando il ricorso nel merito o nel rito in base ad una ben individuata ragione più liquida “... sulla scorta del paradigma sancito dagli artt. 49, comma 2, e 74 c.p.a. ... sempre che il suo esercizio non incida sul diritto di difesa del contro interessato e consenta un'effettiva accelerazione della definizione della lite...” (Ad. plen. n. 9 del 2014 cit.), e purché sia stata preventivamente assodata, da parte del medesimo giudice, la giurisdizione e la competenza». Per un’analisi critica dell’applicazione di questo principio da parte della giurisprudenza amministrativa che ha seguito la Plenaria suddetta si confronti l’interessante contributo di G. Gallone, Criterio della “ragione più liquida” e processo amministrativo tra applicazioni giurisprudenziali ed auspici di sistema, in Dir. proc. amm., 3/2024, 619.
[15] L. Cuocolo, Le energie rinnovabili tra Stato e Regioni. Un equilibrio instabile tra mercato, autonomia e ambiente, Milano, 2011, 1 e ss. Più di recente si confronti altresì M. Battistelli, La competenza legislativa regionale in materia di energie rinnovabili al vaglio dei limiti statali e delle competenze trasversali, in Federalismi.it, 28/2024, 1.
[16] Per una ricostruzione organica sotto il profilo internazionalistico si veda S. Quadri, Energia sostenibile. Diritto internazionale, dell’Unione Europea e interno, Torino, 2012, 46 e ss.
[17] Sulle ragioni dell’ascesa a livello europeo della politica sull’energia da fonti rinnovabili si confronti M. Cocconi, Poteri pubblici e mercato dell’energia. Fonti rinnovabili e sostenibilità ambientale, Milano, 2014, 18 e ss., per la quale «è stata, in altre parole, un’applicazione dinamica e positiva del principio di sussidiarietà, ossia il riconoscimento dell’esistenza di interessi transnazionali che non possono essere disciplinati in modo soddisfacente dagli Stati membri e che, a causa della loro dimensione non più nazionale, possono essere realizzati meglio a livello comunitario a spiegare la progressiva ascesa della politica energetica in sede europea».
[18] Sulle concrete modalità di attuazione di questo riparto si confronti E. Di Salvatore, La materia della “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” nella giurisprudenza della corte costituzionale (gennaio-maggio 2010), in AIC, 4/2010. Più recentemente si confronti la ricostruzione compiuta da P. Mastellone, La disciplina in materia di fonti di energia rinnovabili e la tendenza “decentralizzante”: quale ruolo per lo Stato?, in Ceridap, 1/2024, in particolare 170 e ss.
[19] L’art. 4 TFUE prevede la competenza concorrente dell’Unione con quella degli Stati membri nel settore dell’energia, mentre l’art. 194 TFUE prevede «Nel quadro dell’instaurazione o del funzionamento del mercato interno e tenendo conto dell'esigenza di preservare e migliorare l'ambiente, la politica dell'Unione nel settore dell'energia è intesa, in uno spirito di solidarietà tra Stati membri, a: a) garantire il funzionamento del mercato dell’energia;b) garantire la sicurezza dell'approvvigionamento energetico nell’Unione; c) promuovere il risparmio energetico, l’efficienza energetica e lo sviluppo di energie nuove e rinnovabili; d) promuovere l’interconnessione delle reti energetiche». Per un’analisi delle competenze dell’Unione Europea nel settore dell’energia si confronti R. Miccù, Regolazione e governo multilivello del mercato europeo dell’energia, in R. Miccù (a cura di), Multilevel Regulation and Government in Energy Markets. Implementation of the «Third Package» and Promotion of Renewable Energy, Napoli, 2016, 3 e ss.
[20] Come però giustamente osservato da L. Cuocolo, Le energie rinnovabili tra Stato e Regioni, cit., 25 per comprendere l’effettivo riparto di competenze nella materia “energia” si deve tener conto anche della competenza, sempre concorrente, in materia di “tutela della salute” e di “governo del territorio”, nonché le competenze attribuite in via esclusiva allo Stato tra cui “la tutela della concorrenza” e la “tutela dell’ambiente”.
[21] Il decreto in questione è stato emanato per l’attuazione della Direttiva 2001/77/CE sulla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità.
[22] L’art. 15 del d.lgs. 25 novembre 2024, n. 190 ha disposto che a far data dall'entrata in vigore del decreto suddetto ai sensi dell’articolo 17, le disposizioni di cui all’allegato D, che contengono le disposizioni abrogate dal decreto suddetto, tra cui, l’art. 12 del d.lgs. 387/2003, continuano ad applicarsi alle procedure in corso, fatta salva la facoltà del soggetto proponente di optare per l’applicazione delle disposizioni di cui al presente decreto.
[23] Così M. Battistelli, La competenza legislativa regionale in materia di energie rinnovabili, cit., 3.
[24] Così precisamente l’art. 12 d.lgs. 387/2003 «In Conferenza unificata, su proposta del Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del Ministro per i beni e le attività culturali, si approvano le linee guida per lo svolgimento del procedimento di cui al comma 3. Tali linee guida sono volte, in particolare, ad assicurare un corretto inserimento degli impianti, con specifico riguardo agli impianti eolici, nel paesaggio. In attuazione di tali linee guida, le regioni possono procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti. Le regioni adeguano le rispettive discipline entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore delle linee guida. In caso di mancato adeguamento entro il predetto termine, si applicano le linee guida nazionali».
[25] C. Mainardis, Competenza concorrente e fonti secondarie nel “governo” delle energie rinnovabili, in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2020. Disponibile in: http://www.osservatoriosullefonti.it.
[26] Corte cost. nn. 166/2009 (punto n. 6 - Regione Basilicata); 282/2009 (punto n. 4 – Regione Molise); 119/2010 (punto n. 3 - Regione Puglia); 168/2010 (punto n. 4 – Regione Valle d’Aosta); 44/2011 (punto n. 5 – Regione Campania).
[27] Corte cost. nn. 364/2006 (punto n. 3 – Regione Puglia); 282/2009 (punto n. 6 – Regione Molise); 168/2010 (punto n. 5 – Valle d’Aosta).
[28] Corte cost. nn. 124/2010 (punto n. 7 – Regione Calabria); 308 /2011 (punto n. 3 – Regione Molise).
[29] Si confronti la sentenza della Corte cost. 23 febbraio 2023, n. 27 con la quale è stato dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 della legge reg. Abruzzo n. 1 del 2022 che, proroga la moratoria già prevista per la Regione per approvare lo strumento di pianificazione contenente l’individuazione delle aree e dei siti inidonei all’installazione di specifici impianti da fonti rinnovabili. La moratoria, in particolare, confligge con la previsione di un termine massimo entro il quale concludere il procedimento unico, con le funzioni di mera accelerazione e semplificazione del procedimento di autorizzazione unica e acuendo, proprio in ragione della proroga, il contrasto con l’obiettivo acceleratorio, nonché violando gli impegni assunti dallo Stato italiano nei confronti dell’Unione europea e a livello internazionale. In termini si confrontino anche la sentenza 27 ottobre 2022, n. 221 relativa alla legge reg. Lazio n. 14 del 2021; la sentenza 21 ottobre 2022, n. 216 relativa alla legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 02/11/2021 n. 16 art. 4, co. 17; la sentenza del 13 maggio 2022, n. 121, relativa alla legge della Regione Basilicata 26/07/2021 n. 30. Per una analisi della giurisprudenza costituzionale qui richiamata e di quella ulteriore avente quale specifico oggetto le norme regionali che riguardavano specificatamente l’installazione di impianti fotovoltaici si confronti M. Romeo, La disciplina delle energie rinnovabili che coinvolgono ambiente, agricoltura e paesaggio, tra Stato e Regioni, in RivistaDGA.it, n. 2/2023, 1.
[30] La Corte Costituzionale ha attribuito alle stesse la qualificazione di “norma interposta”, la cui violazione determina un’indiretta lesione della legge statale di principio. Si confronti, ex multis, la sentenza della Corte cost., 15 gennaio 2014, n. 11, ove si legge: «le “Linee guida”, costituiscono, in un ambito esclusivamente tecnico, il completamento del principio contenuto nella disposizione legislativa. Se è ovvio che essi, qualora autonomamente presi, non possono assurgere al rango di normativa interposta, altra è la conclusione cui deve giungersi ove essi vengano strettamente ad integrare, in settori squisitamente tecnici, la normativa primaria che ad essi rinvia. In detti campi applicativi essi vengono ad essere un corpo unico con la disposizione legislativa che li prevede e che ad essi affida il compito di individuare le specifiche caratteristiche della fattispecie tecnica che, proprio perché frutto di conoscenze periferiche o addirittura estranee a quelle di carattere giuridico le quali necessitano di applicazione uniforme in tutto il territorio nazionale, mal si conciliano con il diretto contenuto di un atto legislativo. Non a caso per la loro definizione è prevista una procedura partecipativa estremamente ampia ed articolata. Poiché essi, come si è detto, fanno corpo con la disposizione legislativa che ad essi rinvia, il loro mancato rispetto comporta la violazione della norma interposta e determina, nel caso si verta nelle materie di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost. e qualora la norma interposta esprima principi fondamentali, l’illegittimità costituzionale della norma censurata».
[31] Secondo G. Barozzi Reggiani, Il principio di massima diffusione delle energie rinnovabili e il bilanciamento tra valori costituzionalmente rilevanti nella disciplina delle c.d. “aree idonee”, in Riv. giur. amb., 2022, 608 «Lo schema logico e la ratio del combinato tra le disposizioni normative primarie (ed in particolare l’art. 12, comma 10, del D. Lgs. n. 387/2003) e le linee guida dalle medesime previste appare in sé chiaro: attribuire alle Regioni il potere di individuare aree nelle quali, pur non sussistendo un divieto generale di realizzazione di impianti a FER, l’ottenimento di autorizzazioni alla realizzazione di tali impianti risulti altamente improbabile per la difficile conciliabilità della realizzazione degli impianti con altri beni e valori, e in particolare quelli paesaggistici».
[32] L’individuazione della non idoneità dell’area è operata dalle Regioni attraverso un’apposita istruttoria avente ad oggetto la ricognizione delle disposizioni volte alla tutela dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio storico e artistico, delle tradizioni agroalimentari locali, della biodiversità e del paesaggio rurale che identificano obiettivi di protezione non compatibili con l'insediamento, in determinate aree, di specifiche tipologie e/o dimensioni di impianti, i quali determinerebbero, pertanto, una elevata probabilità di esito negativo delle valutazioni, in sede di autorizzazione.
[33] Come osserva C. Mainardis, Competenza concorrente, cit., 1341 «i margini d’azione per ciascuna singola Regione sono rilevantissimi» anche perché «i parametri a cui rapportare la valutazione di non idoneità si presentano come particolarmente ampi (tutela dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio storico-artistico-culturale), se non generici (elevata concentrazione di impianti nella medesima zona; semplici “interazioni” con altri piani, progetti e programmi): configurando dunque scelte amministrative connotate, per un verso, dalla loro natura tecnica; per altro verso, vicine per fino al merito; per altro verso ancora, e nella più stringente delle ipotesi, colle-gate a previsioni pianificatorie e programmatorie ed espressione, dunque, di una discrezionalità molto estesa ed assai difficilmente sindacabile in sede giurisdizionale».
[34] Corte Cost., 30 gennaio 2014, n. 13. Tale sentenza aveva ad oggetto la legge regionale della Campania 1° luglio 2011, n. 11 recante “Disposizioni urgenti in materia di impianti eolici” la quale, prescrivendo che la costruzione di nuovi aerogeneratori debba rispettare una distanza pari o superiore a 800 metri dall'aerogeneratore più vicino preesistente o già autorizzato, impone un vincolo ulteriore da applicarsi in via generale su tutto il territorio regionale, in violazione dei principi fondamentali contenuti nell'art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 387 del 2003 e nelle linee guida adottate con d.m. 10 settembre 2010.
[35] Così, specificatamente, l’art. 12, co. 7, d.lgs. 387/2003.
[36] A. di Cagno, La produzione di energia da fonte rinnovabile: tra interesse energetico, ambientale e paesaggistico, in AmbienteDiritto.it., 4/2022, 24. In giurisprudenza si confronti T.a.r. Puglia, Lecce, sez. I, 29 gennaio 2009, n. 118, per la quale: «emerge dunque dal quadro normativo sopra delineato come le amministrazioni comunali, nel favorire l’installazione di impianti di energia pulita, conservino in ogni caso un certo potere discrezionale teso a disciplinare – se del caso anche mediante atti regolamentari a carattere generale – il corretto inserimento di tali strutture nel rispetto dei fondamentali valori della tradizione agroalimentare locale e del paesaggio rurale».
[37] Evidenzia una qualche forma di continuità tra le due normative G. Barozzi Reggiani, Il principio di massima diffusione, cit., 604, per il quale «La normativa disciplinante l’individuazione di aree “idonee” all’installazione di impianti a FER è, come si accennava, di introduzione recente. Non configura, tuttavia, una “fenice comparsa dal nulla”, dal momento che, in certa misura, le radici della medesima possono rinvenirsi nella disciplina (di precedente introduzione e permanente vigenza) concernente l’individuazione di aree “non” idonee alla realizzazione di impianti a FER, di cui la normativa recente costituisce, in qualche modo, il (quasi) simmetrico contraltare, condividendo al contempo con essa la matrice genetica di fondo».
[38] F. Vetrò, Sviluppo sostenibile, transizione energetica e neutralità climatica, in Riv.it. dir. pubbl. com., 1/2022, 97, per il quale si tratta di «una scelta marcatamente innovativa che, all’evidente fine di semplificare e accelerare gli iter autorizzatori capovolge il previgente paradigma fondato sull’individuazione delle superficie e aree non idonee». In termini anche C. Vivani, La localizzazione degli impianti di produzione di energia da fonte rinnovabile: transizione energetica, ambiente e paesaggio, in G.F. Cartei (a cura di), Energie rinnovabili e piano nazionale di ripresa e resilienza, Napoli, 2021, 134, il quale parla di un «cambio di prospettiva estremamente significativo».
[39] Come giustamente osservato da N. Berti, A. Bonaiti, Aspetti e problemi delle recenti riforme in tema di realizzazione degli impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, in AmbienteDiritto.it, 1/2023, 21 la scelta di ricondurre l’individuazione delle aree idonee a una legge regionale «riduce significativamente le garanzie giurisdizionali e procedurali dei cittadini, in quanto le disposizioni di legge (di localizzazione di aree idonee) – a differenza degli atti amministrativi – non possono essere impugnate direttamente davanti al tribunale territoriale, ma possono essere incidentalmente deferite al giudice costituzionale da un processo in corso, se tale processo deve essere deciso secondo la disposizione controversa; e richieder una scelta basata su criteri astratti, cioè non verificati in concreto che possono mancare del necessario adattamento a ciascuna realtà territoriale».
[40] Si tratta di un vero e proprio obbligo posto in capo alle Regioni per il quale, in caso di inerzia, è previsto l’esercizio del potere sostitutivo dello Stato ai sensi dell’art. 41 della l. 24 dicembre 2012, n. 234. Per un’analisi di tale quanto
disciplina si confronti in particolare C. Tovo, Commento all’art. 41 l. 234/2012, in L. Costato, L. S. Rossi, P. Borghi (a cura di), Commentario alla legge 24.12.2012 n. 234 “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e
all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”, Napoli, 2015, 362 ss.; G. Morgese, La partecipazione degli enti territoriali italiani ai processi decisionali dell’Unione europea, in E. Triggiani, A. M. Nico, M. G. Nacci (a cura di), Unione europea e governi territoriali: risorse, vincoli e controlli, Bari, 2018, 91 ss.
[41] Si evidenzia comunque che, seppur tale disciplina sia considerata come disciplina transitoria, i decreti ministeriali di individuazione dei criteri e principi direttivi per l’individuazione delle aree idonee da parte delle Regioni, ai sensi dell’art. 20, comma 1, dovranno tenere conto espressamente anche di quanto previsto dal suddetto comma 8.
[42] Segnatamente, i siti oggetto di bonifica individuati a sensi del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (lett. b) nonché «le cave e le miniere cessate, non recuperate o abbandonate o in condizioni di degrado ambientale».
[43] Così espressamente l’art. 4, co. 2 bis, d.lgs. 28/2011 «nelle aree idonee identificate ai sensi dell’articolo 20 del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199, comprese le aree di cui al comma 8 dello stesso articolo 20, i regimi di autorizzazione per la costruzione e l’esercizio di impianti fotovoltaici di nuova costruzione e delle opere connesse nonché, senza variazione dell’area interessata, per il potenziamento, il rifacimento e l’integrale ricostruzione degli impianti fotovoltaici esistenti e delle opere connesse sono disciplinati come segue: a) per impianti di potenza fino a 1 MW: si applica la dichiarazione di inizio lavori asseverata per tutte le opere da realizzare su aree nella disponibilità del proponente; b) per impianti di potenza superiore a 1 MW e fino a 10 MW: si applica la procedura abilitativa semplificata; c) per impianti di potenza superiore a 10 MW: si applica la procedura di autorizzazione unica».
[44] Su questi profili si confronti N. Berti, A. Bonaiti, Aspetti e problemi delle recenti riforme, cit., 18 e ss.
[45] Si chiede tuttavia giustamente G. Barozzi Reggiani, Il principio di massima diffusione, cit., 628 «quale sia il risvolto pratico-operativo immediato di tale applicazione, considerata in particolare la compressione delle tempistiche di conduzione della Conferenza forse eccessivamente consistente che essa determina rispetto ai carichi istruttori e lavorativi da cui sono oberate certe Amministrazioni».
[46] Per una analisi critica di questa disposizione normativa si confronti L. Bitto, F. Furlan La transizione dalle aree non idonee alle aree idonee tra ambiziosi obiettivi europei e cauta legislazione domestica, in Le Regioni, 3-4/2024, 521 per i quali «Le forti restrizioni all’installazione di moduli fotovoltaici a terra in aree agricole, introdotte dall’articolo 5 del decreto Agricoltura, si pongono in contrasto con alcuni principi contenuti nello stesso articolo 20 del d.lgs. 199/2021: da un lato confliggono con il comma 6 (il quale continua a prevedere che: “Nelle more dell’individuazione delle aree idonee, non possono essere disposte moratorie ovvero sospensioni dei termini dei procedimenti di autorizzazione”) poiché il divieto generalizzato e senza scadenza è chiaramente più restrittivo di una moratoria; per altro verso, si pongono in antitesi con il principio contenuto nel comma 7 (“Le aree non incluse tra le aree idonee non possono essere dichiarate non idonee all’installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile, in sede di pianificazione territoriale ovvero nell’ambito di singoli procedimenti, in ragione della sola mancata inclusione nel novero delle aree idonee”), poiché non si introduce un principio per l’individuazione delle aree idonee ma si pone un limite localizzativo».
[47] Nello specifico, l’installazione di impianti fotovoltaici in area agricola risulta consentita esclusivamente:
-in siti ove sono già installati impianti della stessa fonte, limitatamente agli interventi per modifica, rifacimento, potenziamento o integrale ricostruzione degli impianti già installati, a condizione che non comportino incremento dell’area occupata [cfr. comma 8, lettera a)];
-nelle cave e miniere cessate, non recuperate o abbandonate o in condizioni di degrado ambientale, o le porzioni di cave e miniere non suscettibili di ulteriore sfruttamento), incluse le cave già oggetto di ripristino ambientale e quelle con piano di coltivazione terminato ancora non ripristinate, nonché le discariche o i lotti di discarica chiusi ovvero ripristinati [cfr. comma 8, lettera c)];
-in siti e impianti nelle disponibilità delle società del gruppo Ferrovie dello Stato italiane e dei gestori di infrastrutture ferroviarie nonché delle società concessionarie autostradali [cfr. comma 8, lettera c-bis)];
-in siti e impianti nella disponibilità delle società di gestione aeroportuale all'interno dei sedimi aeroportuali, ivi inclusi quelli all'interno del perimetro di pertinenza degli aeroporti delle isole minori, ferme restando le necessarie verifiche tecniche da parte dell'Ente nazionale per l'aviazione civile (ENAC) [cfr. comma 8, lettera c-bis1)];
-in siti privi di vincoli ai sensi della parte seconda del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 che costituiscono aree interne agli impianti industriali e agli stabilimenti, nonché aree classificate agricole racchiuse in un perimetro cui punti distino non più di 500 metri dal medesimo impianto o stabilimento; aree adiacenti alla rete autostradale entro una distanza non superiore a 300 metri [cfr. comma 8, lettera c -ter ) n. 2) e n. 3)]. Tali impianti non sono invece più ammessi nei seguenti siti:
-in siti oggetto di bonifica individuate ai sensi del Titolo V, Parte quarta, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 [cfr. comma 8, lettera b)];
-. nelle aree classificate agricole, racchiuse in un perimetro i cui punti distino non più di 500 metri da zone a destinazione industriale, artigianale e commerciale, compresi i siti di interesse nazionale, nonché le cave e le miniere [cfr. comma 8, lettera c -ter) n. 1)].
Il divieto si applica anche se tali aree non sono sottoposte a tutela ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, o non sono gravate da usi civici di cui all'articolo 142, comma 1, lettera h), del medesimo decreto, e anche se ricadono nella fascia di rispetto di 500 metri dei beni sottoposti a tutela ai sensi della parte seconda oppure dell'articolo 136 del medesimo decreto legislativo [cfr. comma 8, lettera c -quater)]. Infine, la norma prevede una deroga ai divieti sopra esaminati per il caso di progetti che prevedano impianti fotovoltaici con moduli collocati a terra finalizzati alla costituzione di una comunità energetica rinnovabile, nonché in caso di progetti attuativi delle altre misure di investimento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e del Piano nazionale per gli investimenti complementari al PNRR (PNC), ovvero di progetti necessari per il conseguimento degli obiettivi del PNRR.
[48] L’art. 5, comma 2, del d.l. 63/2024 prevede che: «l’articolo 20, comma 1-bis, primo periodo, del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199, introdotto dal comma 1 del presente articolo, non si applica ai progetti per i quali, alla data di entrata in vigore del presente decreto, sia stata avviata almeno una delle procedure amministrative, comprese quelle di valutazione ambientale, necessarie all'ottenimento dei titoli per la costruzione e l'esercizio degli impianti e delle relative opere connesse ovvero sia stato rilasciato almeno uno dei titoli medesimi».
[49] Identico richiamo è effettuato anche all’art. 2 del d.lgs. 25 novembre 2024, n. 190 recante “Disciplina dei regimi amministrativi per la produzione di energia da fonti rinnovabili in attuazione dell’art. 26, commi 4 e 5 lett. b) e d) della legge 5 agosto 2022, n. 118”, per il quale gli interventi di realizzazione degli impianti F.E.R. «sono considerati di pubblica utilità, indifferibili e urgenti e possono essere ubicati anche in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici nel rispetto di quanto previsto dall’art. 20, comma 1 bis del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199».
[50] Si tratta dell’ordinanza 14 novembre 2024, n. 4302 emanata per la modifica dell’ordinanza Consiglio di Stato sez. IV 17 ottobre 2024 n. 3867, che in accoglimento dell’appello e in riforma dell’ordinanza T.a.r. Lazio, sede di Roma, sez. III, 7 settembre 2024 n. 4082, aveva accolto ai fini di una più sollecita fissazione dell’udienza di merito l’istanza cautelare presentata dalla ricorrente. Nello specifico, il Consiglio di Stato ha ritenuto di dover modificare il proprio precedente provvedimento alla luce di due diverse sopravvenienze, costituite, da un lato, dalla ritenuta impossibilità per il T.a.r. di accogliere l’istanza presentata di abbreviazione dei termini ex art. 53 c.p.a. per esigenze organizzative, dall’altro, per la predisposizione del disegno della legge regionale attuativa del decreto impugnato da parte della Regione Sardegna, in senso ritenuto sostanzialmente impeditivo delle iniziative della parte ricorrente.
[51] T.a.r. Lazio, sez. III, 13 maggio 2025, n. 9155.
[52] Si tratta della sentenza del 13 maggio 2025, n. 9164.
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