ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Uso e abuso della parola libertà
di Licia Fierro
Se penso a tutte le discussioni, ai libri, ai saggi, ai dibattiti sulla libertà, mi rendo conto e, credo anche voi, di quanto sia difficile costruire una riflessione sul tema senza pretendere né di esaurirne i significati, né di fornire nuove definizioni. Il fatto è che in ogni momento storico gli uomini avvertono quasi naturalmente il bisogno di interrogarsi sul loro modo “attuale” di essere liberi. Certo il termine è in sé stesso equivoco: se filosoficamente è libero chi non è soggetto ad alcuna determinazione causale, politicamente è libero chi ha per legge la possibilità di esercitare i suoi diritti. Senza parlare della complessità delle implicazioni psicologiche dove la libertà si configura come capacità consapevole di dominare i propri impulsi assumendo comportamenti conseguenti e responsabili. La libertà, dunque, esclude ogni forma di subordinazione alla necessità causale, ogni schiavitù ad un qualsivoglia sistema politico che non si configuri come stato di diritto, infine essa esige la responsabilità. Penso che su queste premesse tutti possano concordare e ritenere che, a parte le componenti psicologiche oggetto di studi in tutt’altri ambiti, nel mondo occidentale si siano create nel tempo le condizioni di una libertà stabile e duratura. Specie a partire dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, anche dal punto di vista etico si è configurato con caratteri nettissimi il baratro esistente tra la libertà e la schiavitù. Non a caso il processo ultimo da cui è nato il nostro paese lo si chiama con termine appropriato guerra di Liberazione. Ritengo che sia necessario tener presente questa origine della nostra Repubblica proprio perché anche i giovani imparino a rispettare e difendere il valore della libertà non nella dimensione individualistica sterile, ma nel contesto della comune convivenza. Kant identificava la libertà col motto latino sapere aude ovvero “abbi il coraggio di usare la tua ragione”, perché solo alla luce di essa è possibile eliminare le paure, l’ignoranza, i pregiudizi; Hegel affermava che la libertà non può che nascere dal riconoscimento di sé nell’altro; Marx replicava, tuonando contro le astrazioni, che senza distruggere le discriminazioni economico-sociali non può esistere alcuna libertà. Tutte belle definizioni comprensibili ad un pubblico acculturato, ad una élite consapevole del travaglio ideologico che tra Ottocento e Novecento ha determinato scuole di pensiero antitetiche sul tema in questione: mi riferisco alle grandi costruzioni teoriche del liberalismo e del socialismo. Ma al di là dei massimi sistemi che cosa ci colpisce oggi? Da una parte la mancanza di ogni impedimento all’azione di chi, in qualunque modo, si accaparra i beni primari con la giustificazione del principio di libera iniziativa economica, dall’altra per dirla con Berlin non si capisce “che cosa o chi sia la fonte del controllo o dell’ingerenza che può indurre qualcuno a fare o ad essere questo invece di quello”. Dove comincia e dove trova il suo limite la libertà privata? Ha ancora ragion d’essere il controllo e come viene esercitato? Con quali leggi? Che cosa mette propriamente in crisi il modello occidentale di libertà quanto più essa sembrava sicura e ben fondata? Io credo che la maggior parte degli adulti come me abbia difficoltà a rispondere e perciò quando queste domande le propongono i giovani, le nostre argomentazioni risultano sempre più deboli. Un mio allievo un giorno mi disse “ma nell’era di Internet non c’è più senso a porsi il problema della libertà, ci sono modi di esercitarla in assoluto evitando pure i possibili controlli…” Questa affermazione mi ha sempre più indotta nel tempo a spostare la riflessione nei termini più ampi della questione morale. Mi sovviene e faccio mia la tesi di Sylos Labini quando, a proposito della vita sociale e politica, dice che se non se ne riconosce la rilevanza morale tutto diventa niente più che una lotta selvaggia. La conflittualità è immanente ad una società sempre più logorata dalla religione dell’individuo potente e affermato, l’individuo “di successo” non importa come, non importa a quale prezzo. È questa carenza sostanziale di eticità a rendere anche lo stato quasi impotente nei suoi mezzi di controllo e se possibile di coercizione. Prima di stupirci di tante forme di libertinaggio e di arbitrio, dovremmo interrogarci sulle nostre scelte etiche e di come esse si trasformino in modelli di comportamento per gli altri. Sappiamo ancora dimostrare coi fatti che abbiamo compreso il valore morale della libertà? In questi ultimi tempi l’occidente e il mondo intero sono stati chiamati ad esprimersi sulla necessità morale di adottare provvedimenti comuni e solidali di fronte ad una rivoluzione climatica che rischia di mettere in discussione la vita stessa dell’umanità. Ritornano utili le belle pagine di Bobbio sul concetto negativo e quello positivo di libertà.
Adesso che tutti siamo in bilico, perché inermi, quali forme di intervento prevediamo per renderci liberi da un pericolo comune? Un nemico che uccide senza guardare colore o continente, che mette in crisi la stessa sopravvivenza delle istituzioni democratiche ancor più delle guerre? È sui grandi temi, oltre che sulle questioni interne, piccole o grandi esse siano nei vari paesi, che si gioca la sopravvivenza o la disfatta di tutti quei modelli consolidati di libertà che sembravano inattaccabili e che oggi vacillano proprio nell’occidente che a lungo ne ha rivendicato origine e primato.
Immagine: Pablo Picasso, Due donne che corrono sulla spiaggia, olio su tela, 1922, Musée National Picasso, Paris.
Ciao Enrico,
siamo un gruppo di tuoi colleghi della Procura di Milano.
Siamo quelli che, da quando abbiamo saputo che ci avevi lasciato, hanno iniziato ad incontrarsi, telefonarsi e scriversi.
Alcuni di noi li conosci bene e hanno lavorato con te negli anni. Altri li conosci ma non si è mai lavorato assieme. Molti non lavorano più in Procura ed altri ancora non ti hanno mai conosciuto ma hanno saputo di te lavorando in quelle stanze, facendo quelle scale, percorrendo quei corridoi e aprendo quelle porte del quarto piano del Palazzo di Giustizia di Milano dove hai svolto tutta la tua vita professionale come Pubblico Ministero. O meglio, quando hai iniziato tu c’era solo il quarto piano e adesso ci siamo allargati fino al quinto ed al sesto, ma la consapevolezza della funzione che ognuno di noi svolge o ha svolto è presente in ogni centimetro quadrato dell’Ufficio.
Potremmo dire che è agli atti della storia della nostra Repubblica quello che è stato il tuo lavoro, e in questi giorni - anche sulla stampa – molti lo stanno ricordando in un paese dove occorre coltivare il vizio della memoria. O la virtù della memoria.
Quello che vogliamo aggiungere è che per noi è stato ed è esempio il tuo essere magistrato, la tua consapevolezza del ruolo di Pubblico Ministero appartenente ad un’unica giurisdizione, consapevolezza che si è aggiunta alle capacità professionali ed umane che tutti possono testimoniare.
Hai avuto il dovere e la possibilità di sopportare sulle tue spalle enormi responsabilità, a tratti anche drammatiche, potendo decidere autonomamente in base alla tua scienza e coscienza, ed in modo indipendente da altri poteri, rispondendo solo alla Costituzione e alle leggi.
Scusa se ce lo diciamo, ma oggi ci serve ancora ricordare il tuo insegnamento.
E allora è esemplare l’essenza di come tu sei stato Pubblico Ministero utilizzando parole lucide, ferme e serene, alzandoti nell’aula di udienza dove celebravate un procedimento nel quale era stato opposto un segreto di Stato che pregiudicava l’accertamento dei fatti e delle relative responsabilità. Spiegasti: «Se fossi del tutto indifferente alla vita della comunità italiana, mi verrebbe da ridere. Poiché sono tenacemente attaccato a questo paese sono a disagio». E poi aggiungesti: «Se non avessi a cuore i diritti e gli interessi della collettività potrei comodamente adeguarmi alle scelte del presidente del Consiglio. Ma a quei diritti e interessi io ci penso».
In un’altra occasione, quando a Brescia ti toccò difenderti da accuse nefande strumentalmente mosse da chi aveva ricoperto altissime cariche istituzionali, avanti al giudice che ti giudicava chiudesti le tue dichiarazioni impugnando e alzando un codice: «Questo testo, signor giudice, è l’unica nostra guida. E non è un caso che esso inizi con la Costituzione della nostra Repubblica”.
Ti penseremo spesso.
Saluto di Armando Spataro del 25 dicembre 2015 a Ferdinando Enrico Pomarici (dopo la festa del 15 dicembre 2015)
In questi giorni sono stati comprensibilmente diffusi nelle mailing list di magistrati ed in quelle “aperte” molti messaggi di saluto ed augurio a tanti validi colleghi di prossima “collocazione a riposo per raggiunti limiti di età” (dizione tecnica). O destinati a chi quella “collocazione” aveva già da poco scelto.
Personalmente, ho atteso quasi la fine del giorno di Natale per salutare Enrico Pomarici, il fratello maggiore che non ho mai avuto: spero così non solo di rafforzare gli auguri a lui diretti, ma anche – a liste in questo giorno meno affollate ed in giornate di auspicabile riposo – di meglio richiamare l’attenzione dei lettori. Maggior attenzione a lui, naturalmente, sia pure attraverso le mie parole.
Qualche anno fa ho scritto un libro sulla mia esperienza professionale (scusate l’autocitazione) in cui Pomarici è citato almeno 80 volte (senza contare le due/tre citazioni per pagina che spesso vi compaiono): ciò spiega cosa Enrico ha rappresentato per me e – senza enfasi aggiungo – per la storia della magistratura italiana. Ripercorrerò alcune dei fatti oggetto di quelle citazioni.
Il nome
Intanto, il suo primo nome è Ferdinando, il secondo – in ricordo di un suo caro zio – è Enrico: accade così che gli amici lo chiamino «Enrico», gli estranei «Ferdinando» mentre quelli che cercano di apparire suoi amici lo chiamano «Nando», un diminutivo che lui non ha mai usato.
I sequestri di persona
Ho conosciuto Enrico Pomarici appena arrivato a Milano, dopo il tirocinio, nel settembre 1976 (cioè quasi 40 anni fa): da sostituto in una grande Procura, come a molti accade, mi trovai immediatamente catapultato in un lavoro molto impegnativo, per mole e qualità. Mi capitò di venire subito assegnato al settore dei sequestri di persona, un fenomeno in quegli anni ancora molto diffuso. Ebbi subito un modello: Pomarici, che se ne occupava a tempo pieno ed era stato colui che, sin dal 1976, con una scelta molto sofferta e criticata, aveva ideato il cosiddetto «blocco dei beni»: grazie ai suoi provvedimenti giudiziari, i beni di famiglia dei rapiti venivano congelati per impedire il pagamento del riscatto e così rendere il sequestro non remunerativo. Tutto l’ufficio seguì quella sua scelta, pur tra polemiche e «scomuniche» di chi sosteneva che, con cinismo, si impediva ai familiari di attivarsi per la liberazione dei loro cari. Ma fu una linea che alla fine risultò vincente, tanto che il blocco dei beni fu poi recepito anche nella normativa sui rapimenti. E quel fenomeno criminale si esaurì.
La mia prima esperienza si consumò, dunque, all’ombra di Pomarici. Ma anche le altre.
Gli anni di piombo
Nella primavera avanzata del 1977 mi fu affidato il primo incarico importante: pubblico ministero nella fase dibattimentale del processo al cosiddetto nucleo storico delle Brigate Rosse. Imputati: Renato Curcio, Nadia Mantovani e altri. Il tragico antefatto era stato l’omicidio a Torino dell’avvocato Fulvio Croce del 28 aprile 1977: incaricato di sostenere l’accusa in dibattimento, ebbi due tutor pazienti, Emilio Alessandrini e Enrico Pomarici, da cui molto imparai in quei mesi. A cavallo del sequestro Moro, nacquero nelle Procure e negli uffici istruzione dei Tribunali più importanti i pool antiterrorismo (ne esisteva uno solo nell’ufficio istruzione di Torino). Il pool antiterrorismo della Procura di Milano registrò una rapida crescita fino alla 6 unità: Pomarici ne era il componente più anziano (già da tempo si occupava delle Brigate Rosse) insieme ad un altro grande maestro, Corrado Carnevali ora Procuratore a Monza, e ad altri quattro sostituti.
Nel 1980 il pool stava per raggiungere le sette unità. Sapete perché? Perché Guido Galli aveva chiesto ed ottenuto il trasferimento in Procura solo dopo avere ricevuto dal Procuratore Gresti l’assicurazione che – sia pure senza alcuna esenzione da altri impegni – avrebbe fatto parte di quel gruppo. E sapete perché Galli fece quella richiesta? Perché voleva la certezza di poter lavorare con Pomarici: ciò che avvenne il 19 marzo del 1980 gli impedì purtroppo di realizzare quel suo desiderio.
Impossibile citare, sia pur sommariamente, tutte le indagini condotte da Pomarici nel settore del terrorismo, ma per due di esse faccio un’eccezione per una semplice ragione: furono casi che lo esposero ad incredibili attacchi da parte di esponenti del mondo politico.
La scoperta del “covo” di via Monte Nevoso
La prima vicenda che qui voglio citare è quella relativa alla scoperta della base delle BR – Colonna W. Alasia di via Monte Nevoso a Milano (1° ottobre 1978): una indagine storica che portò all’azzeramento della Colonna Walter Alasia delle BR. Pomarici arrivò in quella base un’ora dopo l’intervento dei CC., mentre ancora nella città risuonavano gli spari di via Pallanza ove, in un altro covo, erano stati arrestati altri brigatisti. Nonostante proprio i brigatisti Azzolini e Bonisoli avessero successivamente e pubblicamente smentito l’esistenza di qualsiasi mistero, Pomarici fu destinatario di accuse di ogni tipo, da quella di incapacità a quella di connivenza: una campagna segnata da ingiustificato livore di chi sosteneva l’esistenza di inconfessabili retroscena sia nella scoperta della base, sia nella asserita (e in realtà mai avvenuta) sparizione di documenti che lì sarebbero stati custoditi. Circa dodici anni dopo la scoperta del covo, un politico, all’epoca membro della segreteria del Pci, chiese che la nuova inchiesta (quella scaturita dal rinvenimento di un doppio fondo in un muro dell’appartamento) fosse tolta a Pomarici e affidata ad altri magistrati. Il procuratore della Repubblica Borrelli gli rispose con un secco comunicato e io stesso ne diffusi uno di solidarietà al collega e ai carabinieri, denunciando «gli atteggiamenti di una classe politica che, salvo poche encomiabili eccezioni, strumentalizza a fini di parte ferite ancora aperte nella coscienza della gente». Il 27 gennaio 2000, a distanza di poco più di vent’anni dalla scoperta della base, un consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e sulle stragi presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino depositò una relazione che alimentava vecchi e nuovi misteri e immetteva sul “mercato” altre bufale. Io e Pomarici chiedemmo ed ottenemmo di essere sentiti dalla Commissione per smentirle e, dopo l’audizione svoltasi tra non poche tensioni, scrivemmo una lettera aperta al «Corriere della Sera» che, pubblicata il 16 marzo 2000, ne riassumeva i contenuti. Lo facemmo per rendere onore ai Carabinieri ed a chi all’epoca della scoperta li dirigeva: il gen. dalla Chiesa.
Il presidente Pellegrino, intanto, aveva inviato alla presidenza del Consiglio superiore della magistratura il verbale della seduta del 14 marzo 2000 della sua Commissione in cui si affermava che io e Pomarici avremmo mostrato «arroganza» (dichiarazioni di Bielli), così evidentemente alludendo al nostro sforzo di offrire alla politica elementi certi e non falsi misteri. Per inciso: falsi misteri e balle di ogni tipo circolano ancora. In altra futura occasione magari racconterò di alcune domande postemi nella seduta del 7 luglio di quest’anno dinanzi alla ennesima Commissione sul terrorismo e sul sequestro Moro.
L’omicidio Calabresi
La seconda indagine di Pomarici nel campo del terrorismo che qui voglio citare è quella relativa all’omicidio Calabresi: anche in quell’occasione, invettive e polemiche accompagnarono tutta l’indagine, dalle confessioni di Leonardo Marino ai molti dibattimenti celebrati, fino alla sentenza definitiva di condanna di Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani. Dopo la sentenza di primo grado, emessa nel 1990 da una Corte d’Assise presieduta da Manlio Minale, ricordo che giudici e pubblico ministero si ritrovarono a loro volta «sotto processo». Il vicepresidente del Consiglio dei ministri, Claudio Martelli, si dichiarò allibito per la sentenza. Marco Boato, ex leader di Lotta Continua e senatore della Repubblica, presenziando alla Casa della Cultura di Milano a un controprocesso organizzato dagli amici dei condannati, disse: I magistrati? «Mi fanno tutti un po’ schifo qui a Milano». «Ed il pm Pomarici», aggiunse «è un killer del diritto, questa è la mia sensazione a pelle» (Corriere della Sera, 6 maggio 1990). Presi posizione a favore di Enrico in mille pubbliche dichiarazioni, anche se sapevo che non ne aveva bisogno. Di certo era stata fatta giustizia: erano stati individuati e condannati gli assassini di Calabresi, cioè i responsabili del primo omicidio della storia del terrorismo italiano, checché ne dica Sofri, il quale, in un incredibile articolo pubblicato sul «Foglio» l’11 settembre del 2008, tentò di spiegare perché quell’omicidio non sarebbe stato in realtà un atto di terrorismo. Qualcuno gli diede anche ragione (Erri De Luca parlando a Marco Imarisio, Corriere della Sera12 sett. 2008).
Ed Enrico? Nulla, nessuna parola, solo silenzio e qualche inconfessato fastidio anche per le manifestazioni di solidarietà (poche) degli amici.
La fine degli anni di piombo
Gli storici anni di piombo si chiudono nel 1988 poiché quelli successivi – segnati dagli omicidi D’Antona nel ’99, Biagi nel 2002 e Petri nel 2003 – fanno parte di altra storia, una storia di idioti che combattevano nella giungla delle Isole del Pacifico convinti che oltre il mare vi fosse ancora la guerra. Su una parete del mio ufficio, vi sono alcune vecchie foto incorniciate. Una è del giugno 1988 e vi sono raffigurato insieme a Pomarici: eravamo a una conferenza stampa tenuta dai carabinieri, in via Moscova, dopo la scoperta dell’ultimo covo delle B.R. Forse quella è stata l’unica conferenza stampa cui Pomarici ha partecipato in vita sua, ma ce ne stavamo in piedi ed in disparte, come la foto dimostra, quasi garanti dinanzi ai giornalisti della attendibilità della ricostruzione di un’operazione decisamente «storica» loro offerta dalla polizia giudiziaria.
Un giornale della cosiddetta sinistra antagonista – «Autonomen» – pubblicò la stessa foto sotto forma di fumetto, accompagnata, cioè, da un colloquio immaginario tra me e Pomarici: ci rallegravamo reciprocamente perché l’operazione di via Dogali, a Milano, ci aveva ridato un certo lustro proprio mentre eravamo ormai avviati alla «pensione». Pomarici chiudeva il fumetto dicendomi: «Non ti preoccupare. Sono tornati i bei tempi; bevono tutto, ma proprio tutto...».
L’Antimafia in Lombardia
Ma la pensione per Pomarici era ancora lontana: chiusi gli anni di piombo, in capo a pochissimi anni ci ritrovammo in tanti nelle DDA o nella Direzione nazionale: Pomarici, pur continuando a coordinare il settore anti-terrorismo, diventerà - dopo la nomina di Manlio Minale a Procuratore di Milano - il coordinatore per lunghi anni delle indagini della DDA di Milano, le stesse indagini che porteranno, all’atto della loro conclusione, alla gran parte dei successi più recenti.
Sobrietà e lavoro di squadra saranno ancora una volta la ragione dei successi del gruppo di Pomarici. Illuminanti le sue approfondite relazioni ed analisi sulla presenza della mafia al Nord e sulle modalità di contrasto di quel fenomeno.
Il terrorismo internazionale ed il sequestro Abu Omar
Ci avviciniamo alla fine del racconto: Pomarici coordinò anche il settore delle indagini in tema di terrorismo internazionale, finché – nel 2003 inoltrato – assunsi io stesso quel ruolo. Numerose le condanne che i colleghi, da lui “diretti”, ottennero in quel difficile settore. Insieme a Pomarici, però, sono stato co-assegnatario delle indagini sul sequestro di Abu Omar (Milano, 17 febbraio 2003): tranquilli, non vi farò del male riproponendovelo di nuovo!
Voglio solo, ed ancora una volta, parlare di Pomarici, della sua incredulità e della sua reazione di fronte agli ostacoli frapposti alla indagine stessa dall’opposizione del segreto di Stato e dai conseguenti conflitti dinanzi alla Corte Costituzionale sollevati da ben quattro Governi in successione (Prodi, Berlusconi, Monti e Letta). Enrico è tuttora forse più incredulo e stupefatto di me per quello che ci è toccato di vivere e vedere, ma è stato forse anche più capace di elaborarlo.
Ma siamo stati entrambi capaci di sorridere in qualche passaggio della vicenda, come ad esempio per quanto avvenne il 22 maggio del 2006 nel mio ufficio, documentato attraverso le intercettazioni riportate nella sentenza di primo grado: il tutto degno di una pièce teatrale se non riguardasse il Servizio segreto militare italiano dell’epoca e una gravissima violazione dei diritti umani come il sequestro di Abu Omar.
Un giornalista, all’epoca vicedirettore di «Libero», venne incaricato di intervistarci per comprendere se le nostre indagini si orientassero verso funzionari del SISMi, quali sospetti complici della CIA. Nello stesso tempo, chi gli illustrò l’incarico gli raccomandò di non farci capire la ragione della visita.
Dunque, la mia scrivania è microfonata, il giornalista arriva puntuale nel mio ufficio, e trova anche Pomarici ad aspettarlo nel mio ufficio:
«Piacere...», «Piacere mio». Gli presento Pomarici e parte la conversazione in cui il giornalista manifesta subito un interesse meramente professionale e noi fingiamo di credergli. Ma egli dimentica le raccomandazioni impartitegli e ci dice senza troppi giri di parole: «La domanda che sarà più interessante è se c’è di mezzo il Sismi o no?». A questo punto, nella trascrizione ufficiale della conversazione registrata si legge: «Risate in sottofondo». Il fatto è che né io, né Pomarici ci aspettavamo un simile incipit e scoppiamo a ridere all’unisono, senza alcun accordo. Io osservo, sorridendo: «Ah così, una cosa così...!», e Pomarici aggiunge: «Volete anche la sentenza della Cassazione?». Il giornalista si scusa per l’approccio forse troppo diretto e spiega che in realtà egli è mosso, da cattolico, da sincera stima per il vertice del SISMi.
Tralascio la sintesi dell’incontro, ma alle 18:52, il giornalista ne riferisce a chi gli ha dato istruzione:
giornalista: «Allora... loro mi hanno fatto... mi hanno fatto trovare lì anche Pomarici».
Interlocutore: «Ammazza...».
giornalista «È stata un’ora di confronto durissimo...».
Interlocutore: «Minchia...».
giornalista: «Per cui sono anche un po’...».
Interlocutore: «Stanco...».
giornalista: «No, no, no sono...... ma io ho retto il colpo ed ho replicato… Cioè è stata una specie di imboscata...io ho retto benissimo il confronto... anche perché loro cercavano di umiliarmi…la cosa impressionante è che ha voluto che ci fosse lì Pomarici, che non era previsto...».
Interlocutore: «Senti, ma per noi? a naso tuo?».
giornalista: «Ma a naso mio non c’è un cazzo sul Sismi...! Pomarici era una sfinge,... cioè è veramente una sfinge.».
E qui il giornalista aveva ragione: Pomarici è sempre stato una sfinge.
In una successiva telefonata, il giornalista comunicava al suo interlocutore di avergli inviato un rapporto sull’incontro. Ribadiva di essere molto provato dopo che noi avevamo cercato di intimidirlo. Ma alla fine – precisava il giornalista – «ho vinto io!».
Abbiamo sorriso anche – io e Pomarici – ma un po’ meno e con una certa tristezza che accompagnava il sorriso, nelle fasi successive della inchiesta quando siamo stati accusati di avere voluto cercare la verità a qualsiasi prezzo, anche a costo di violare supposti segreti di Stato. Anche contro – aggiungo io – una ragion di Stato ambigua e contraddittoria
L’11 luglio del 2006, sei giorni dopo l’incriminazione di alti esponenti del Sismi, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga ci denunciava per vari reati, quali «atti ostili verso uno Stato estero che espongono lo Stato italiano al pericolo di guerra», «spionaggio politico o militare», «spionaggio di notizie di cui è stata vietata la divulgazione», «introduzione clandestina in luoghi militari e possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio», «infedeltà in affari di Stato», «cognizione, interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche», «falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche» e «rivelazione del contenuto di corrispondenza». Con la stessa denuncia ci attribuiva le aggravanti «di avere agito nell’esercizio e con l’abuso delle loro funzioni ed al fine di agevolare il terrorismo». La denuncia verrà archiviata dal GIP di Brescia che respingeva anche la richiesta di proroga dei termini delle indagini preliminari formulata dai PM: non dimenticherò le parole ferme, lucide e serene insieme di Pomarici quando – presa la parola nella udienza camerale dinanzi al GIP – illustrò le ragioni per cui la istanza di proroga di quei termini non era da accogliersi. Il nostro avvocato di fiducia non ritenne di dover aggiungere alcuna altra considerazione. Nel richiedere l’archiviazione del procedimento a nostro carico, i p.m. di Brescia affermavano comunque che, «stante la denegata proroga delle indagini», permanevano «alcuni concreti elementi di sospetto e di perplessità» a nostro carico. E va beh!
Ma rammento ancor più le parole che il 3 dicembre 2008 Pomarici, in relazione al segreto di Stato “in espansione”, pronunciò in dibattimento dinanzi al Giudice Monocratico Oscar Magi, commuovendo me e – credo – molti dei presenti: «Se fossi del tutto indifferente alla vita della comunità italiana – egli disse – mi verrebbe da ridere. Poiché sono tenacemente attaccato a questo paese sono a disagio». Ed ancora: «Se non avessi a cuore i diritti e gli interessi della collettività potrei comodamente adeguarmi alle scelte del presidente del Consiglio. Ma a quei diritti e interessi io ci penso». Mi tornarono alla mente le parole del gennaio 1926 di Vincenzo Chieppa, segretario dell’Associazione magistrati che annunciava la decisione di autoscioglimento dell’Associazione, contestuale al rifiuto dei suoi dirigenti di trasformarla in un sindacato fascista: «Forse con un po’ più di comprensione – come eufemisticamente suol dirsi – non ci sarebbe stato impossibile organizzarsi una piccola vita senza gravi dilemmi e senza rischi, una piccola vita soffusa di tepide aurette, al sicuro dalle intemperie e protetta dalla nobiltà di qualche satrapia [...]. La mezzafede non è il nostro forte: la ‘vita a comodo’ è troppo semplice per spiriti semplici come i nostri».
Pomarici ricordò poi una interpellanza parlamentare di Cossiga sui gruppi terroristici che avremmo inteso favorire, affermando che, se essa tendeva a intimidirci, evidentemente le nostre storie personali non dovevano essere note all’interpellante. «Siamo in un paese serio?», chiedeva Pomarici con voce ferma in un’aula silenziosa e attenta. E chiudeva il suo intervento, impugnando e alzando un codice: «Questo testo, signor giudice, è l’unica nostra guida. E non è un caso che esso inizi con la Costituzione della nostra Repubblica».
Ed all’udienza del 24 giugno 2009, riferendosi ai nuovi ostacoli frapposti all’accertamento della verità dalla Legge di riforma del segreto di Stato del 2007, trasversalmente votata, Pomarici, prospettando una eccezione di illegittimità costituzionale, aggiunse di sentire il dovere di quella scelta “non solo e non tanto ai fini della valutazione e decisione di questo procedimento, ma per una questione ancor più vasta di carattere generale relativa all’ordinamento in senso ampio e alla corretta attribuzione a organi e poteri dello Stato delle sfere di rispettiva competenza. Sarò forse allarmista, sarò forse esagerato, sarà l’età, ma a me sembra che l’esito di questo procedimento [...] possa aprire uno scenario veramente inquietante!”. Si riferiva a quello di una democrazia che mette in discussione alcuni dei principi su cui si fonda.
L’esito definitivo della vicenda (per il sequestro, tralasciando le condanne per favoreggiamento: condanna di 26 americani, di cui 25 della CIA, e di un maresciallo dei CC. reo confesso, ma sentenza di ndp a causa del segreto di Stato nei confronti di cinque funzionari del SISMi condannati in secondo grado) sembra confermare le preoccupazioni di Pomarici.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, comunque, il 23 febbraio 2016, su ricorso di Abu Omar e della moglie, condannò all’unanimità il Governo Italiano a versare ai ricorrenti un cospicuo risarcimento per l’uso del segreto di Stato [1] formulando anche molti apprezzamenti per i magistrati italiani (le cui conclusioni giuridiche e ricostruzione dei fatti faceva proprie senza riserve ). La Corte, in particolare, rendeva «omaggio al lavoro dei magistrati nazionali che hanno fatto tutto il possibile per stabilire la verità»
L’impegno umile e fondamentale nel campo della esecuzione penale
Non posso non ricordare infine che, durante tutti gli anni di cui ho parlato e con rari e brevi periodi di interruzione o esenzione, Pomarici ha diretto l’ufficio esecuzione della Procura. Si è occupato silenziosamente, cioè, di un settore centrale e difficile, ma anche irrinunciabile, per il funzionamento della giustizia penale, un settore di cui non a caso molti colleghi – me incluso – conoscono poco e da cui preferiscono stare lontani. Ma lui – che ama ogni settore del nostro lavoro – ha svolto anche attività di formazione dei colleghi di volta in volta assegnati all’Ufficio Esecuzione penale, riuscendo persino a farli innamorare di cumuli e connessi calcoli [2].
Questo è Enrico Pomarici. Uomo e magistrato leale, che crede nel lavoro di squadra (quello vero, ben diverso da quello solo declamato), lontano dai riflettori e dalle conferenze stampa; che mai ha recitato il mantra sui “poteri forti” e sulla “solitudine” del magistrato; che ride, prima di strapparle, delle lettere anonime minacciose che riceve e che pure servono alla costruzione di ben note ed adorate icone. Pubblico Ministero dalla mente libera, che non conosce la politica dei passi felpati e che proprio questo ha pagato, nonostante tutta una vita da P.M. trascorsa nella Procura di Milano e nonostante quello che ha dato alla storia di questo Paese. Ma a lui va bene così: meglio guardarsi allo specchio e, pur cogliendo il segno degli anni che passano, non sentire la necessità di abbassare lo sguardo.
Penso che Enrico mi rimprovererà aspramente quando leggerà queste mie parole che sgorgano da tutto ciò che sento dentro. Ma anche questa volta gli dirò – mentendo – “scusa hai ragione tu, ho sbagliato io”. Cioè, esattamente quello che gli dicevo quando giocavamo a calcio insieme nella squadra della Procura di Milano o nella Nazionale magistrati: la sua autorevolezza era tale, avendo lui giocato in “Serie A” nel Napoli, che quando lanciava una palla troppo lunga per me – modesto attaccante di II categoria – sentivo il bisogno di girarmi subito e, per evitare di farlo incazzare, gridavo: “Scusa Enrico, ho sbagliato io!”, pur se quella palla non l’avrebbe raggiunta neppure Giggirriva!
16 dicembre 2015: alcune colleghe e colleghi a lui particolarmente legati hanno organizzato, per salutarlo, un brindisi nella sua cancelleria. Ciò in assoluto segreto: altrimenti lui non lo avrebbe in alcun modo autorizzato. Il nuovo Primo Presidente della Corte di Cassazione, Gianni Canzio, ne è venuto a conoscenza ed ha voluto assolutamente esserci per porgere il suo “grazie” ad Enrico, magistrato che ha sempre stimato ed ammirato.
È tutto molto bello: tra panettoni e spumante, giovani colleghe gli regalano tre foto incorniciate di quand’era splendido quarantenne o altrettanto splendido quasi cinquantenne (o poco più o poco meno): una mentre parlava in toga in aula, una mentre scendeva da un’auto e poi quella che ho citato, scattata dopo la scoperta del covo di via Dogali, a Milano nell’88.
A nome di tutti, gli porgo una piccola targa che dice soltanto: “Ad Enrico Pomarici.. grazie di tutto, grazie per sempre! Gli amici e colleghi della Procura della Repubblica di Milano”, l’ufficio dove, ripeto, ha sempre esercitato le sue funzioni!
Lui guarda tutti sorridendo e ringraziando, rispondendo con battuta propria alle battute altrui! Grato a tutti, ma con visibile desiderio di riprendere a lavorare. Commozione? Penso di sì, ma chi lo può dire? I veri duri son fatti così, anche se Raymond Chandler, parlando di Philip Marlowe (l’investigatore protagonista dei suoi gialli hard boiled) li descrive non come mastini dalla mascella quadrata, ma come romantici senza speranze. Che sanno sorridere, provare emozioni e, dunque, sanno anche piangere.
Ho personalmente tentato di dire qualche parola, ma ho preferito fermarmi. Il 16 dicembre era anche il mio compleanno e mi sembrava strano festeggiarlo salutando Enrico.
Forse oggi ci sono riuscito con questo lungo messaggio che dice solo una parte, per di più minima, di ciò che sento dentro.
A tutti Buon Natale; a tutti l’augurio di un 2016 felice. Ai giovani colleghi dico: avrete capito il modello di magistrato che spero possa per voi rappresentare la stella polare del vostro cammino professionale!
Saluto di Armando Spataro del 20 dicembre 2024 a Ferdinando Enrico POMARICI (nella Basilica di S. Matria della Passione)
È difficile “aggiornare” quanto in passato ho già scritto e detto su Enrico Pomarici, ma – come ho risposto a chi me lo ha chiesto – provo a farlo con poche parole che riguardano soprattutto la persona e non il magistrato: sono sostanzialmente quelle che ho pronunciato nella gremita Basilica di S. Maria della Passione, a Milano, il pomeriggio del 20 dicembre, quando in tanti abbiamo voluto salutarlo.
Enrico è sempre stato uomo di correttezza e coerenza uniche: leale nella interlocuzione e rispetto dell’avvocatura, anche quando la dialettica processuale – come ben può avvenire – si manifestava accesa.
È stato attento nel ruolo di direzione della polizia giudiziaria, che l’ordinamento attribuisce al PM, un ruolo mai esercitato in senso gerarchico, ma sempre determinando un arricchimento reciproco al solo fine di rafforzare la solidità delle prove in vista del giudizio finale.
È stato cortese e sempre rispettoso nei confronti del personale amministrativo della Procura e degli Uffici Giudicanti, ben consapevole di quanto quel ruolo sia fondamentale per il funzionamento della giustizia.
Ed ovviamente è stato sempre disponibile al confronto con i colleghi della Procura che a lui si rivolgevano, non solo per consigli sul piano giuridico, ma anche e soprattutto per indicazioni sulle più utili prassi organizzative ed investigative da attuare nel proprio lavoro. Io per primo, anche da pm ormai anziano, ho sempre a lui fatto riferimento per ogni questione delicata da affrontare: non potrò mai dimenticare, nell’ultimo periodo in cui siamo stati insieme in Procura a Milano, i suggerimenti che a lui chiesi e da lui ottenni per organizzare il lavoro della “Sezione Immigrazione” dell’Ufficio, che si occupava innanzitutto di domande di asilo e di problematiche connesse, come la materia dell’espulsione e dei reati nel campo dell’immigrazione illegale. Le sue indicazioni furono sempre ispirate al dovere di rispettare i diritti fondamentali – affermati innanzitutto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dalla nostra Costituzione – di chi lascia la propria terra per la speranza di una vita dignitosa. Enrico era in questo la reincarnazione della figura raccontata da Bertolt Brecht nella sua poesia, Il giudice democratico.
Anche in questo campo, se avesse svolto oggi il suo lavoro, sarebbe stato del tutto indifferente alle opzioni della maggioranza politica di turno, sempre impugnando la Costituzione come una bandiera.
Voglio passare ad altro…
Il 18 dicembre scorso, al mattino, sono stato svegliato da Vittorio, figlio di Enrico, che mi ha voluto subito comunicare, anche su indicazione della mamma Maria Rosaria, che il padre ci aveva lasciato da poche ore.
Oltre al dolore indescrivibile, ciò ha generato in me un senso di colpa che mi porterò sempre appresso, quello derivante dal fatto che negli ultimissimi anni lo avevo visto e gli avevo parlato poche volte. Perché queste omissioni? Continuo a chiedermelo e non basta ricordare che una volta era stato schivo e riservato anche in questo, al punto da dirmi che gli bastava sapermi e sentirmi vicino.
Ricorderò sempre il suo volto e tante altre sue parole: fu il primo a telefonarmi quando seppe che mio figlio Andrea aveva subito un delicato intervento chirurgico per una malattia che risultò poi incurabile e fu tra i primi ad aderire, nella primavera del 2018, all’Associazione Amici di Andrea che era stata costituita ed opera, in memoria di mio figlio e con oltre 200 soci, a scopo di beneficienza e per sostegno alla ricerca per la cura delle malattie gravi e ad attività culturali.
Insieme, a proposito di figli, abbiamo spesso parlato della loro scelta – anche di Annalisa, sorella di Vittorio – di intraprendere la professione di avvocato… Ne eravamo talmente orgogliosi da scambiarci una battuta: andato in pensione anche io, sarebbe stato bello aiutarli con discrezione, all’interno di un ipotetico studio legale denominato “Pomarici e Spataro, fathers & sons”. Era una battuta, credetemi: non avremmo mai voluto pesare sui nostri figli, il che sarebbe stato inevitabile anche se lo studio si fosse chiamato: “…sons & fathers”.
Quando Vittorio mi ha detto che la messa in onore di Enrico si sarebbe tenuta il 20 dicembre nella Basilica di Santa Maria della Passione, sono stato colto da un’altra emozione: nella stessa Chiesa, l’11 settembre del 2017, si era tenuta quella per mio figlio… ed in quella Chiesa l’Associazione ha contribuito a restaurare una storica cappella…Enrico ci sarebbe passato davanti mentre tutti lo avremmo salutato commossi. E così è stato.
Ho già detto che Enrico è stato il mio fratello maggiore e lui, del resto, mi chiamava spesso “fratellino”. Ho avuto altri due fratelli maggiori che pure sono stati miei maestri, due grandi magistrati uccisi dai terroristi di Prima Linea: Emilio Alessandrini (il 29.1.1979) e Guido Galli (il 19.3.1980). Ma il mio rapporto con loro è stato purtroppo ben più breve di quello con Emilio.
Vorrei che quei miei fratelli stessero tutti insieme…
Ho ricevuto decine di messaggi per telefono e lettere in posta elettronica in cui moltissimi amici (non solo colleghi), tra cui tanti che non avevano neppure conosciuto di persona Enrico ma che egualmente lo consideravano uno dei magistrati che hanno contribuito a scrivere la storia del nostro Paese, non solo mi pregavano di abbracciare Maria Rosaria, Vittorio ed Annalisa, ma mi manifestavano espressamente le loro “condoglianze”…
Come mai? La risposta è una sola: tutti coloro che lo hanno fatto sapevano che io ed Enrico eravamo fratelli! Non c’è altra spiegazione…e mi scuso con moglie e figli di Enrico se questa affermazione possa loro apparire intrusiva.
E forse lo è ancora di più una mia speranza: che Andrea possa incontrare questo suo grande zio di cui tanto ha sentito parlare!
Caro Enrico, ti abbraccio, come abbraccio tutta la tua bella famiglia…
Non perdiamoci di vista.
A te dedico le parole che lo scrittore spagnolo Javier Cercas ha scritto nel suo stupendo libro del 2002, “I soldati di Salamina”, a proposito dell’eroico protagonista, un uomo, giunto al termine dei suoi anni, limpido, coraggioso e puro, un "soldato solo che tiene alta la bandiera negata, che cammina in avanti, senza sapere dove stia andando, né con chi né perché, senza che gliene importi tanto, purché sia in avanti, avanti, avanti, sempre avanti".
[1] Periodo aggiunto, al pari di questa nota in data 21 dicembre 2024.
La condanna riguardava la violazione degli artt. 3, 5, 8, 13 della CEDU che rispettivamente prevedono: divieto di tortura e trattamenti disumani e degradanti; diritto alla libertà e alla sicurezza; diritto al rispetto della vita privata e familiare; diritto alla tutela giurisdizionale effettiva. La sentenza contiene, da un lato, dure critiche al Governo, a due Presidenti della Repubblica (per le grazie concesse) ed alla Corte Costituzionale: vi si legge, in sostanza, che le autorità italiane sapevano della extraordinary rendition di Abu Omar organizzata dalla Cia e che ben quattro Governi hanno abusato del segreto di Stato impedendo di far luce sulle gravi violazioni dei diritti dell’uomo di cui Abu Omar è stato vittima e di punirne i responsabili; dall’altro, ma tutto è stato vanificato dal segreto di Stato concesso dalla Corte costituzionale: In tal modo, l’abuso del segreto di Stato opposto da ben 4 Governi, certo non funzionale a tenere coperti i fatti, ben noti anche grazie alla stampa, ha determinato l’impunità degli agenti del Sismi.
[2] Nota aggiunta in data 21 dicembre 2024: Pomarici, su sua richiesta, ha continuato a svolgere gratuitamente e senza oneri previdenziali questa attività di formazione anche dopo il pensionamento finché il CSM gli negò il consenso. Commentò in serata Pomarici: «Si accusano i magistrati di lavorare poco, ma se si trova uno che si rende disponibile a mettere gratuitamente la propria esperienza a beneficio dell’ufficio, e gli si risponde che non lo può fare. Prendo atto».
Una riforma che porterà il pm sotto l’esecutivo
Assemblea straordinaria della ANM, 15 dicembre 2024.
di Ernesto Carbone
Io credo che i problemi della giustizia siano tanti.
Sicuramente i tempi troppo lunghi per un processo, sicuramente le mancanze di risorse, la mancanza di magistrati, i tribunali e le condizioni in cui versano, e, perché no, diciamo la verità anche e soprattutto gli errori giudiziari.
Tali problemi non si risolvono con la separazione delle carriere, non si risolvono col doppio Csm, non si risolvono con la suprema corte e non si risolvono con l’estrazione dei membri del Csm.
Io sono convintamente contrario alla separazione delle carriere. Il perché è semplice. Il passo successivo all’attuale sistema previsto dalla riforma è il pubblico ministero che finisce sotto l’esecutivo. Sotto il controllo del potere esecutivo.
Oggi vi parlo da politico, quindi abituato a ragionare sul futuro e provare ad immaginare sempre cosa potrebbe succedere dopo.
È vero, l’attuale norma non prevede il passaggio del pubblico ministero sotto l’esecutivo, ma evidentemente è il posto naturale in cui fra un anno, due, forse anche 10 anni il pubblico ministero finirà: sotto il controllo del governo.
Pensate ad esempio agli strumenti che avete a disposizione delle nuove tecnologie. Strumenti importanti per la lotta alla criminalità, ma strumenti molto invasivi nella vita delle persone. Pensate a un telefonino, a cosa contiene, ci sono le foto dei nostri figli, ci sono le nostre conversazioni, le nostre gioie e nostri dolori. In un cellulare oggi c’è la nostra vita. Tutta la nostra vita. E se un giorno dovessi subire un sequestro sarei molto più tranquillo se il mio telefonino con la mia vita privata dentro fosse in mano a un magistrato autonomo e indipendente piuttosto che a un altro che magari risponde al potere esecutivo. Non voglio fare distinzioni tra servitori dello stato di serie A e di serie B, ma l’autonomia e indipendenza sono garanzia e tutela del cittadino.
Alcuni hanno il vizio di guardare cosa succede negli altri paesi. Beh, guardiamolo insieme. Cosa è successo in Portogallo: li è vigente la separazione delle carriere e ci sono due Csm. Tutto ciò era stato fatto per evitare errori giudiziari. Ricordo però che qualche anno fa il premier Antonio Costa, eletto con larghissima maggioranza in Portogallo, si è dimesso per un’intercettazione trascritta in modo sbagliato; questa è la prova che separare le carriere e fare il doppio Csm non serve sicuramente a eliminare gli errori giudiziari.
È inutile stare ancora a discuterne. Il passo successivo, se si dovesse realizzare questa riforma per cui separano le carriere dei magistrati, è il magistrato che finisce sotto il potere esecutivo. Non succederà subito, succederà fra qualche anno, ma succederà e io ho una figlia di 19 anni e non voglio lasciare a mia figlia un paese in cui un magistrato risponde al governo e al potere politico.
È assolutamente sbagliato, lo trovo profondamente sbagliato, ma, soprattutto, rischioso per la democrazia.
Doppio Csm. Il doppio Csm è la prova provata di quello che penso e ho appena detto. Che motivo c’è, se sono entrambi magistrati autonomi e indipendenti, di creare due Csm, uno per i giudici e uno per i pubblici ministeri? Ripeto quello che ho già detto: è il passo immediatamente precedente a realizzare una riforma che non è solo questa, ma risponde a un disegno diverso, quello di portare il pubblico ministero – chi indaga, chi è titolare delle indagini – sotto il controllo del potere esecutivo.
Qual è la ratio, qual è la motivazione altrimenti che spinge non solo a separare le carriere, ma a fare due Csm diversi. Evidentemente è questa.
Suprema corte. Istituire la Suprema corte significa delegittimare l’attuale sistema del Consiglio superiore della magistratura. Anche qui mi chiedo quale sia la motivazione: la necessità di creare un sistema diverso da quello dell’attuale commissione disciplinare. Qualcuno dice che i tempi delle decisioni disciplinari sono lunghi. Sì, è probabilmente vero. Però vorrei allora fare una proposta. Noi abbiamo sei membri del CSM che sono componenti alla commissione disciplinare. Costituiamo due collegi da tre membri, sempre composti da due togati e un laico. Si potrebbe smaltire l’arretrato e soprattutto accelerare i tempi del processo disciplinare nei confronti del magistrato.
Andiamo infine all’estrazione per sorteggio. Io so che qualcuno, anche qui dentro fra di voi, è affascinato da questo sistema del sorteggio. Io invece sono assolutamente contrario. Credo che, quando si parla di Csm, si parla di un organo di rilevanza costituzionale e il sorteggio sarebbe la mortificazione della politica, la delegittimazione della politica e il fallimento della politica. L’estrazione sarebbe come dire che i 10.000 magistrati non sono in grado di scegliere i 20 componenti che dovranno rappresentarli al CSM e il parlamento, che è il pilastro dello Stato e l’architrave dello Stato, si riunisce in seduta comune e non è in grado di scegliere i 10 laici che dovranno fare parte del Consiglio superiore della magistratura. Io questo non l’accetto. Non lo accetto perché ritengo che, quando si parla di Consiglio superiore della magistratura, si parla dell’organo di governo autonomo dei magistrati e i magistrati devono essere liberi di potere scegliere i propri rappresentanti.
Qualcuno sostiene che con l’estrazione per sorteggio finirebbe il potere delle correnti. Io invece credo nell’importanza delle correnti. Credo che solo con l’associazionismo e con la vita fuori dall’ufficio si acquista la consapevolezza del proprio ruolo e si esercita meglio il proprio potere. Non potere in quanto tale, ma potere dello Stato di cui voi siete detentori. E se c’è stata una degenerazione non è stata per via delle correnti. Per essere chiari, io credo che il caso Palamara non nasca dalle correnti, ma dalla debolezza delle correnti.
Mi avvio alle conclusioni e chiedo scusa per aver parlato un po’ di più, però vorrei mettere in fila quello che è successo negli ultimi mesi.
Nel mese di agosto, il premier dice che c’è in atto un complotto della magistratura per far cadere il suo governo. Io i complotti li vedo solo su Netflix, se qualcuno ne ha notizia può presentarsi dai Carabinieri e denunciare.
Nel mese di settembre c’è un ministro, nonché vice premier, che chiede il licenziamento di un magistrato per una mail. Ora io non entro nel contenuto della mail perché non è quello che devo fare, ma non deve farlo neanche il Ministro. È un principio dello stato di diritto e un principio per cui il potere esecutivo non può chiedere il licenziamento di un magistrato.
Nel mese di ottobre un sottosegretario alla giustizia definisce i magistrati degli ayatollah, offendendo la memoria di migliaia e migliaia di persone e di migliaia di giovani che quotidianamente lottano e muoiono per la libertà a Teheran.
Sempre lo stesso sottosegretario alla giustizia qualche giorno fa ci racconta che il Consiglio superiore della magistratura può certo rilasciare dei pareri, bontà sua, visto che la legge che lo prevede, ma che questi pareri devono essere positivi, perché, se i pareri sono critici, non valgono. Ha uno strano concetto di democrazia questo sottosegretario.
Poi continua dicendo che il Csm non può bocciare le riforme del governo, perché il CSM non è eletto da nessuno. Caro sottosegretario pistolero, io le ricordo che il Consiglio superiore della magistratura è un organo elettivo, i 20 togati sono eletti dai magistrati e i membri laici sono eletti dal parlamento in seduta comune con una larghissima maggioranza che lei che è anche parlamentare dovrebbe conoscere meglio di altri.
Ho voluto mettere queste cose in fila, perché non credo che questa sia una riforma buona e credo che essa risponda a un disegno. Il disegno è quello di assoggettare sempre di più la magistratura al potere esecutivo: quindi, cancellando quello che è un principio non solo dello Stato, ma anche di democrazia, che è quella della separazione dei poteri. Credo che si voglia ridurre il Consiglio superiore della magistratura a un mero ufficio del personale dei magistrati.
Vorrei concludere con una frase di Aldo Moro che ho letto dopo qualche giorno che ho avuto l’onore di essere eletto dal parlamento quale componente laico del Csm. È una frase che ogni tanto rileggo, perché spiega in poche parole cosa sia il senso dello Stato. Aldo Moro diceva, “forse il destino dell’uomo non è realizzare pienamente la giustizia ma della giustizia avere fame e avere sete”.
Grazie ancora per il cortese invito, buon lavoro a tutti voi e in bocca al lupo a tutti noi.
"Quarta mafia", parte seconda.
Recensione ad Antonio Laronga, L'ascesa della quarta mafia. Espansione e metamorfosi della criminalità organizzata foggiana, Zolfo, 2024.
di Andrea Apollonio
Per illustrare un lavoro sulla "quarta mafia" (Antonio Laronga, L'ascesa della quarta mafia. Espansione e metamorfosi della criminalità organizzata foggiana, Zolfo, 2024) è necessario partire dalla "quarta mafia": storicamente, essa non è la mafia foggiana, ma la salentina Sacra corona unita.
Correva l'anno 1994 e la Commissione Parlamentare Antimafia riconosceva che la Puglia non era (più) terra di conquista mafiosa (come era stata ritenuta lungo tutti gli anni Ottanta), bensì un’area "tradizionale" di insediamento e di infiltrazione delle mafie. E appare singolare come a questa conclusione si giungesse a contrario, alla chetichella, e con molta circospezione: nella misura in cui, cioè, la relazione del senatore Carlo Smuraglia si interessava di tutte quelle aree regionali considerate aree "non tradizionali" di insediamento mafioso (molte regioni del Nord, la Basilicata, la Sardegna ecc.), dando per scontato – facendone solo un rapido accenno – che la Puglia fosse, assieme a Calabria, Sicilia e Campania, una regione in questo senso "mafiosa". Non fu istituzionalmente indolore riconoscere che, oltre a cosa nostra, 'ndrangheta e camorra (e tutti i loro derivati), vi fosse un'altra compagine e un'altra regione infetta.
La Sacra corona unita diviene così, anche nei documenti parlamentari, in sordina e senza strepiti, la c.d. "quarta mafia". Un passaggio, del resto, che non poteva tardare ancora: la presa di posizione era ampiamente giustificata dal fatto che il primo maxi-processo alla Scu si era appena concluso (sia in primo che in secondo grado) con pesanti condanne per associazione e con l’esplicito riconoscimento del carattere mafioso della Sacra corona unita, mentre l’instabilità sociale dell’area salentina dovuta ad una criminalità che rispondeva ai parametri tipici dell'art. 416-bis dilagante andava sempre più acclarandosi.
La Sacra corona unita è stata, per così dire, la "prima" "quarta mafia": a contendersi questa posizione, dopo la progressiva rarefazione della mafia sacrista, radicatasi nel Salento, sarà appunto la mafia foggiana, che può considerarsi la diretta prosecuzione della parabola sacrista nella storia criminale della Puglia.
Ne è ennesima riprova il ben documentato lavoro ricostruttivo del procuratore aggiunto foggiano Antonio Laronga, che in una prima parte si sofferma sui traffici attuali della mafia foggiana, sul know-how di una delle più temibili realtà criminali del Paese, ed in una seconda – in un affascinante percorso a ritroso – snoda la storia e risale alle origini del male, tessendo le singole vicende (quale quella ancora semisconosciuta dell'imprenditore edile Giovanni Panunzio, assassinato dalla mafia foggiana il 6 novembre 1992) e tutti i numeri (quali quelli, del tutto sconosciuti, elaborati dall'Eurispes riguardo all' "Indice di permeabilità alla criminalità organizzata") che portano oggi, come scrive Laronga, al «tentativo delle mafie foggiane di assumere un più evoluto profilo organizzativo che sembra ricalcare l'architettura della 'ndrangheta».
Oltre al notevole valore di impegno civile del magistrato, il dato criminologico più interessante che il libro espone e spiega è appunto questa vicinanza quasi simbiotica con la mafia calabrese: si tratta di una nemesi della storia, perché le mafie foggiane sono state letteralmente forgiate dai clan di camorra negli anni Ottanta.
La Capitanata rappresentava in quegli anni un varco poco presidiato, che ha permesso un facile accesso nella Puglia felix; il primo atto tangibile di penetrazione criminale in Puglia fu l'incontro del "professore" con alcuni esponenti della malavita pugliese. Nel gennaio 1979 Raffaele Cutolo, appena fuggito dal manicomio criminale di Aversa, affiliò alla Camorra alcune decine di malavitosi, scelti tra i più "capaci" e provenienti da ogni parte della Puglia, per costituire una struttura che verrà poi denominata, dallo stesso Cutolo, "Nuova camorra pugliese".
Cutolo aveva buone ragioni: l’ampia provincia della Capitanata ha sempre stimolato la bramosia della camorra (e in particolare della nuova camorra organizzata) per le sue ricchezze nel primo settore: l'olio, il ciclo del pomodoro e quello del grano, vere eccellenze dell’ampio Tavoliere delle Puglie, negli anni Settanta e Ottanta ingrossavano i profitti delle industrie agroalimentari foggiane e campane. Su queste ultime l’organizzazione cutoliana aveva incentrato il proprio interessamento, imponendo la propria pretesa prevaricatrice e impiantando la propria "industria" del racket.
Quelle ricchezze costituiscono ancora il patrimonio del Tavoliere, tanto che Laronga ricorda come «in tutta la provincia il business dell'agroalimentare rappresenta per la criminalità organizzata un efficace strumento per la sua affermazione del territorio». Oltre quarant'anni sono passati, e non è cambiato nulla; d'altronde, nel libro i richiami alla sottovalutazione sociale di un fenomeno mafioso così sfuggente e poco etichettabile sono frequenti: e quindi bene fa l'autore a ritenerla, oggi, la "quarta mafia", perché le etichette saranno pure delle semplificazioni, ma aiutano a comprendere meglio.
Sebbene, come si è detto, la storia abbia conosciuto un'altra "quarta mafia": ma non si tratta dell'usurpazione di un titolo, quanto della prosecuzione di una storia.
Infatti, la pervicace volontà di Cutolo determinò poi, quale reazione, la nascita della Sacra corona unita di Giuseppe Rogoli. Non a caso, tra i fondatori dell’organizzazione sacrista ritroviamo proprio tre foggiani: Giosué Rizzi, Giuseppe Iannelli e Cosimo Cappellari, i quali vengono definiti i "compari della Capitanata" del Rogoli. Quei criminali, con un sottobosco di sbandati e qualche "professionisti", per contrastare l'avanzata dei camorristi nella Puglia felix tenteranno di ripercorrere ritualità, cultura e modalità di azione degli 'ndranghetisti; si trattò di un tentativo, a tratti uno scimmiottamento, perché la potenza della 'ndrangheta, tutt'ora incontrastata, non si raggiunse mai.
Ai primi anni del Duemila il fenomeno mafioso sacrista – alquanto anomalo nel panorama nazionale – poteva dirsi in esaurimento; ma più a nord, in Capitanata, nell'indifferenza generale si stava rafforzando una mafia violenta e affaristica al contempo. E bene fa Laronga, adesso, oltreché a raccontarla nei suoi mutamenti, a considerarla la "quarta mafia"; una seconda, nella speranza che anche per questa la storia possa riservare gli stessi destini della prima.
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