Pubblichiamo, a puntate domenicali, la storia di Al Masri, Il cittadino libico destinatario del mandato di arresto della Corte dell'Aja, arresto dalla polizia italiana a Torino e poi riaccompagnato a casa con il volo di Stato.
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Prima puntata: Mitiga
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Seconda puntata: RADAA
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Terza puntata: Io sono questo
Le azioni e il brutale contesto in cui opera l’uomo che la Corte Penale Internazionale ha sottoposto a mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Prosegue il racconto su una realtà che non possiamo ignorare.
Sommario: 1. Italia-Libia. Commercio e colonialismo. 2. Dalla medina alle forze di deterrenza. 3. Carceri, sicari e brigate personali. 4. Il torturatore di Mitiga. 5. “Ci facevano inginocchiare e poi...”.
1. Italia-Libia. Commercio e colonialismo.
L’Italia è il primo Paese per interscambi commerciali con la Libia. Nel 2023 il loro valore complessivo ammontava a 8,34 miliardi di euro. La Libia ha sempre rappresentato uno dei mercati preferenziali per le imprese italiane. Dal sito dell’Istituto italiano per il commercio risulta che l’Italia è il terzo Paese fornitore della Libia dopo la Cina, con 3,6 miliardi di euro (+67,54% rispetto ai primi 11 mesi del 2022 e una quota di mercato del 19,47), e Turchia, con 2,741 miliardi di euro (+11,37% rispetto allo stesso periodo del 2022, e una quota di mercato del 16,48%)[1].
Nei primi sei mesi del 2024 la quota di mercato è ancora salita: 13%. Importiamo petrolio ed esportiamo materie prime industriali, apparecchiature meccaniche e prodotti agroalimentari. “E alle famiglie libiche la qualità del made in Italy piace, sia nella sua componente legata al sistema casa che a quella legata alla moda”[2].
La storia, il commercio, l’industria danno luogo a un legame radicato e indissolubile. Non è un caso che a maggio 2024, alla cinquantesima edizione della Fiera campionaria di Tripoli, la più importante e longeva manifestazione fieristica libica, l’Italia fosse invitata come ospite d’onore.
Si può dire che nel commercio fosse anche Osama Elmasry Njeem. Prima della guerra civile libica, infatti, comprava e rivendeva volatili. La traslitterazione dalla lingua araba porta sempre a risultati imperfetti. Quando parlano di lui i media lo chiamano Almasri. Noi invece preferiamo “Njeem”, aderendo alla scelta della Corte penale internazionale. Nella lingua siriaca della fede cristiano-maronita questo appellativo significa “piccola stella”, una stella che nel controverso e crudele firmamento del potere locale brilla sempre più di una luce propria e terribile.
2. Dalla medina alle forze di deterrenza.
Njeem nasce a Tripoli il 16 luglio 1979. Vive per oltre trent’anni nel regime della Repubblica araba di Libia e quando, nel 2011, s’infiamma la sommossa contro Gheddafi, non vi partecipa subito in prima persona. Njeem commercia nel mercato di Tripoli, disseminato all’interno dell’antica medina.
Il mercato della capitale libica assomiglia solo in parte a quelli di altri centri del mondo arabo, soprattutto a quelli più frequentati dai turisti che ne apprezzano i rumori, i colori accesi, i profumi delle spezie. Nella medina di Tripoli non c’è vociare caotico né l’assillante tormento rivolto al passante individuato come potenziale acquirente, meglio se straniero. I libici hanno molto rispetto per la persona del cliente, si rivolgono a lui e tra di loro con tono sommesso. Hanno rispetto formale per la persona e cura della storia racchiusa nella medina, dove ancora agli incroci le colonne romaniche si ergono addossate alla calce e al legno dei negozi.
Pare che qui Njeem venisse ogni venerdì, per vendere polli e volatili al mercato degli animali. Proviamo a immaginarlo, mentre tratta gallinacei con delicatezza e approccia, gentile secondo il costume arabo, la calca delle signore, che valutano la merce con occhio competente tra il velo che lascia trasparire l’incarnato delle loro diverse etnie. Elucubrare sulla presenza di Njeem dietro al banco di vendita dei volatili è un esercizio di fantasia allettante, ora che sappiamo chi rappresenti quest’uomo nella Libia di oggi.
Si sa che Njeem si aggrega alle Forze speciali di deterrenza (al Radaa), la milizia salafita capeggiata da Abdel Raouf Kara, nel 2014, a tre anni dall’inizio della rivoluzione e dell’uccisione di Gheddafi. Recupera rapidamente il tempo perduto, però, acquisendo i gradi sul campo, poiché si distingue nella partecipazione alle operazioni “sporche” della RADAA: repressione degli oppositori, uccisione mirata di esponenti delle fazioni avversarie, azioni militari contro le forze rivali del generale Khalifa Haftar che controllano l’est del Paese. Quanto sia determinato, affidabile e perciò prezioso alla causa di Kara lo dicono le fonti giornalistiche: “Lui è un killer, deve eliminare gli indesiderati e per farlo assolda sicari e uomini col pelo sullo stomaco disposti a tutto, reclutati tra i prigionieri rinchiusi nelle stesse carceri che è chiamato a dirigere”[3].
3. Carceri, sicari e brigate personali.
Carceri e sicari sono all’origine del potere di Njeem. Quando la RADAA ha conquistato l’aeroporto di Mitiga, vi ha costruito all’interno quella che diventerà la principale struttura di detenzione della Libia occidentale o, quanto meno, dell’area di Tripoli. Dopo un anno, nel 2015, viene già affidata al controllo di Njeem, che ne diventa il padrone incontrollato.
Qui trasforma molti prigionieri maschi in schiavi da lavoro o, quando ritiene, in combattenti della RADAA, soprattutto per le attività non lecite. Occorrono persone che abbiano poco o nulla da perdere; la prospettiva di uscire dall’inferno di Mitiga basta a rendere pronto a tutto un esecutore di ordini.
L’autorità di Njeem va oltre. L’efficienza dimostrata a Mitiga gli consegna il controllo di altre prigioni della Tripolitania.
Judaydah è una struttura detentiva della capitale, prevalentemente femminile, ma nella quale sono rinchiusi anche maschi accusati di crimini gravi, tra cui il traffico di stupefacenti. All’interno vi è un emporio di cui Njeem è privato proprietario. L’uomo ha conservato evidentemente una certa propensione al commercio, se è vero i parenti dei detenuti sono costretti a acquistarvi i beni che vogliano portare ai detenuti di Judaydah e anche di Mitiga[4].
Risulta che nell’estate 2023 almeno 25 donne straniere e i loro 38 bambini fossero da tempo imprigionati qui – e nella prigione di Kuwayfiyah, a Bengasi – a causa dei loro presunti legami con Da'esh. Il 30 maggio, la United nations support mission in Libya (UNSMIL) aveva incontrato cinque dei detenuti nella prigione di Judaydah e si era relazionata con le autorità locali per affrontare la loro situazione, anche per garantire un giusto processo, l’accesso alla giustizia, un possibile trasferimento e l’istruzione per i bambini[5].
Il rapporto firmato personalmente dal segretario generale Antonio Guterres denota l’attenzione dell’ONU, a seguito di ben cinque risoluzioni approvate tra il 2020 e il 2022, sulla problematicità della condizione dei diritti umani in Libia. Non risulta tuttavia che l’iniziativa specifica, riferita alle donne e ai bambini detenuti a Judaydah, abbia condotto a una più rapida soluzione del caso: torture e maltrattamenti, violenze sessuali, isolamento e separazioni forzose dai figli vengono praticati con sistematicità[6].
Ad Ain Zara c’è un altro lager, che gestisce quasi esclusivamente migranti. dove le persone vengono “disumanizzate”, sottoposte a trattamenti crudeli e degradanti, stipate a centinaia in un’unica cella, costrette a dormire sedute, senza servizi igienici e con fosse traboccanti di liquami[7]. Realizzata in un’oasi, oggi Ain Zara è un centro a una decina di chilometri da Tripoli. La bruna struttura del carcere contrasta col territorio complessivamente verdeggiante, storico polo agricolo della Tripolitania. La prigione è governata dalla Brigata 42, l’unità speciale costituita da Njeem alla quale è affidato il rastrellamento dei migranti provenienti da sud[8].
Per Abdel Moaz Nouri Bouaraqoub, direttore della struttura di Ain Zara, Njee “è noto per il suo rigore, la sua dedizione e la sua professionalità nell’adempimento dei compiti affidatigli per molti anni”[9].
Catturare chi è fuggito dalla desertificazione, dalla fame, dai conflitti civili richiede certamente una professionalità particolare, favorita dal fatto di non avere troppe regole da rispettare, soprattutto in un territorio senza regole. La pratica rientra forse tra gli obiettivi del memorandum firmato dal governo italiano, presidente Gentiloni, e da Fayez Mustafa Serraj per il governo di riconciliazione nazionale (GNA), quello che controlla la Libia occidentale ed è in lotta perenne col nemico di oriente, il Libyan national army (LNA) di Khalifa Belkasim Haftar[10]. Ma nessun accordo internazionale può legittimare quanto accade in quei luoghi immondi di restrizione.
4. Il torturatore di Mitiga.
Mitiga, Judaydah, Ain Zara, ma anche al-Jadida, Rueni. Sono i nomi di prigioni governate da Njeem. Attraverso il sistema carcerario che gli è stato affidato, complessivamente 15.000 esseri umani sono nelle sue mani, migliaia di guardie ai suoi ordini. Un potere tanto accentrato, propagatosi in pochi anni, si rende inevitabilmente autonomo all’interno della RADAA. Che a sua volta è ormai Stato nello Stato, intoccabile anche da parte del Governo di accordo nazionale (GNA) di Al Serraj del cui apparato, pure, fa parte formalmente, essendo stata riconosciuta nel 2018 come un’articolazione del Ministero dell’interno libico.
Secondo la Corte penale internazionale – sulla base delle prove raccolte dall’ufficio del Procuratore e contenute nella richiesta del 2 ottobre 2024 – vi sono ragionevoli motivi per ritenere che a Mitiga Njeem si sia reso personalmente responsabile di percosse, torture, colpi di arma da fuoco, aggressione sessuale nei confronti di numerosi tra gli almeno 5140 detenuti tra febbraio 2015 e ottobre 2024. In più casi quelle condotte hanno provocato la morte dei detenuti[11].
Grazie alle sue direttive, “picchiare i carcerati era una pratica comune tra le guardie carcerarie e i comandanti, i quali riferivano al signor Njeem. In alcune occasioni era presente mentre le guardie li percuotevano o sparavano contro di loro. Secondo quanto riferito, ha ordinato alle guardie di picchiare i detenuti in modo che le ferite non fossero visibili. Inoltre, si dice che abbia punito le guardie che aiutavano i detenuti ad avere contatti con le loro famiglie o a procurarsi cibo migliore”[12].
Quale responsabile del carcere di Mitiga, Njeem predisponeva i turni delle guardie e dava loro le istruzioni sulla distribuzione dei prigionieri nelle celle e sulle loro punizioni. Decideva se opporsi o meno agli atti illeciti che sapeva essere perpetrati nei loro confronti. Ne aveva ovviamente anche il controllo “amministrativo”: restrizione, liberazione, sequestro dei telefoni cellulari, requisizione dei documenti, del denaro e degli altri effetti personali[13].
In conclusione nel mandato di arresto si afferma che, “oltre che prendere parte in prima persona alla condotta illecita, ha dato anche ordine di commettere atti che erano necessariamente criminali, poiché non poteva esistere alcuna giustificazione per, tra l’altro, la violenza sessuale o la tortura dei detenuti. Data la sua posizione di direttore, il signor Njeem non solo era a conoscenza delle condizioni di detenzione problematiche, ma lasciandole in vigore per un tempo prolungato, intendeva necessariamente che tali condizioni esistessero e che i detenuti ne subissero i danni. Era consapevole degli atti criminali commessi contro i detenuti oppure, quando venivano compiuti in momenti in cui lui era assente, era intenzionato a farli accadere e sapeva che si sarebbero verificati nel corso ordinario degli eventi”[14].
5. “Ci facevano inginocchiare e poi...”.
Il 19 gennaio 2025 Njeem viene fermato a Torino in esecuzione del mandato di arresto della Corte penale internazionale. Dopo due giorni viene rilasciato e rimpatriato in poche ore in Libia. Le foto della sua accoglienza trionfale a Mitiga, appena sceso dalla scaletta dell’aereo di Stato italiano, fanno il giro del mondo.
Le polemiche accendono un faro sulla figura di Njeem. “Al Masri” diventa il carnefice liberato e i media raccolgono le testimonianze di chi ne conserva il ricordo indelebile.
a) Yambio (27 anni). Yambio, che all’epoca aveva 21 anni, ha raccontato del suo arrivo iniziale in Libia dal Sud Sudan, dove era stato costretto a combattere come bambino soldato, del tentativo di fuga in Europa e della cattura da parte della guardia costiera. Ristretto nel centro di detenzione a Triq al-Sika, Yambio afferma di essere stato “venduto” a una rete di prigioni gestite da Njeem e dalla sua polizia nel dicembre 2019, a cominciare dalla struttura tentacolare di al-Jadida a Tripoli.
Ne ha descritto le terribili condizioni, tra percosse e maltrattamenti, aggiungendo di essere stato inserito in un esercito di schiavi prigionieri e costretto a lavorare nei cantieri edili per il bene dei suoi carcerieri. “Ma la cosa peggiore è stata quando Njeem era lì – ha detto – tutti ad al-Jadida sapevano chi fosse Njeem. Ogni due giorni ci mettevano in fila a migliaia per un conteggio e, quando veniva a trovarci, al-Masri camminava lungo la fila, scegliendo le persone da picchiare, o con un tubo di metallo o con l'impugnatura della sua pistola. A volte entrava nelle celle dove dormivano le persone e le picchiava con un tubo di metallo o di plastica”.
Nel marzo 2020, dopo un assalto a Tripoli e al governo occidentale da parte delle milizie di Khalifa Haftar, Yambio è stato trasferito a Mitiga. Qui ha ritrovato Lam Magok anche lui del Sud Sudan, con cui aveva condiviso un periodo della detenzione ad al-Jadida. “Restavamo svegli la notte a parlare – ha ricordato Yambio – ricordando la nostra casa e il paese che ci aveva abbandonati”.
A Mitiga Yambio è stato selezionato con alcuni altri per combattere in una delle brigate di Njeem. Magok, non rendendosi conto che alla fine lo avrebbe seguito, gli ha messo in mano un foglio di carta, su cui erano annotati i numeri di un attivista e di un giornalista e i recapiti di suo zio, con una supplica affinché, se mai ne avesse avuto la possibilità, Yambio almeno provasse a dire alla sua famiglia che Magok era vivo.
“Se il cielo lo permette, trovali. Di’ loro che sono vivo”, erano state le parole di Magok, nel ricordo di Yambio.
b) Magok (33 anni). Risparmiato dall’esperienza dei combattimenti, Magok ha sopportato a Mitiga condizioni non meno severe. “Ogni due giorni, ci chiamavano per un conteggio. Ci facevano inginocchiare e poi ci picchiavano... Se facevi qualcosa che non gli piaceva, ti portavano via, ti chiudevano in una stanza e ti torturavano”. Le uccisioni non erano sconosciute, ha aggiunto. “Eravamo trattenuti con i libici e i migranti, ma erano sempre i migranti a essere mandati a pulire le stanze. Gli veniva detto di mettere il corpo dei detenuti uccisi in un sacco e di portarlo all’ambulanza. Era terribile”.
Magok era costretto a lavorare nei magazzini militari, caricando munizioni sui veicoli, mentre Yambio racconta di essere stato mandato ogni giorno sulla vicina linea del fronte, dove è stato costretto a combattere insieme ad altri migranti, gruppi libici e forze turche e siriane per respingere le forze di Haftar.
“Eravamo abituati a trasportare munizioni e a sparare con gli obici. Ho ancora l'acufene. Le condizioni erano davvero pessime. C'erano prigionieri, libici e migranti costretti a nascondersi in buche nel terreno”, ha detto, descrivendo le celle sotterranee di Mitiga, dove l’odore dei malati e dei moribondi lo colpiva e lo seguiva per tutto il giorno.
“Li abbiamo visti scortati nelle stanze degli interrogatori, dove venivano picchiati, sottoposti a elettroshock, gli venivano tagliate le dita o costretti a entrare in barili d'acqua e tenuti sott'acqua”, ha detto dei metodi usati contro i prigionieri libici e migranti a Mitiga.
“Al-Masri era una persona brutale. Quando la gente sapeva che stava arrivando, andava nel panico. A volte mi chiedevo se fosse sotto l'effetto di droghe, ma non era così. Era semplicemente quello che era. Era puramente malvagio. L’ho visto uccidere delle persone”, ha aggiunto Yambio in tono piatto. “Una volta, due persone hanno cercato di scappare... Mitiga. Al-Masri ci ha fatto mettere in fila mentre sparava a uno. Avevo il sangue sul corpo. Un'altra volta, qualcuno aveva dato alle persone che lavoravano all'obice le coordinate sbagliate del drone. Al-Masri lo ha ucciso”[15].
Yambio è fuggito da Mitiga nell’aprile 2020, dirigendosi in Italia dove gli è stato concesso asilo. Magok è fuggito in Italia nel dicembre dello stesso anno. Entrambi ora lavorano per sostenere una campagna per i diritti dei rifugiati e dei migranti irregolari.
In un’altra intervista, Magok ha voluto chiarire che al-Jadida come Mitiga sono “prigioni ufficiali, non centri di detenzione, e che sono gestiti da questi gruppi armati. Ho provato ad attraversare il mare sei volte e sono stato riportato indietro, in Libia tutti gli stranieri sono considerati criminali e rischiano l’arresto. Nelle prigioni ci sono veri criminali, ma anche migranti. Eravamo bendati, ci hanno dato dei numeri e ci hanno fatto delle foto per identificarci. Quindi ci hanno picchiato con dei bastoni, anche in testa. Mentre ci colpivano, ci insultavano”.
A Magok il trasferimento a Mitiga era stato presentato come un passaggio in vista del rimpatrio. In realtà è stato forzato a lavorare per nove mesi nella base militare dell’aeroporto, occupata dalla RADAA, per costruire edifici, ma anche per sotterrare i cadaveri delle persone uccise. “Quando alcuni di noi hanno tentato di fuggire, siamo stati picchiati, presi a sprangate, alcuni portati in isolamento e torturati”, racconta[16].
c) M. (13 anni). Punta il dito su una foto di giornale che ritrae Njeem, e sbotta: “è lui l’uomo che picchiava le persone e che comandava gli altri. Anche io sono stato picchiato dai suoi uomini”. M., è un ragazzino egiziano tredicenne. Quando è stato rinchiuso a Mitiga, di anni ne aveva 10. Ora è ospitato in una casa di accoglienza gestita dalla comunità Papa Giovanni XXIII, a Reggio Calabria, e non può fare a meno di ricordare il suo calvario fatto di botte dall’inizio alla fine del viaggio.
M. è arrivato dall’Egitto con un trasporto pagato dal padre a bordo di un pick-up. Un trafficante egiziano che li aveva stipati sul veicolo, maltrattandoli per tutto il tempo, li ha consegnati alla polizia libica. Ha raggiunto mesi dopo l’Italia su un barcone con centinaia di altri migranti. Sbarcato a Lampedusa, è finito in un centro di accoglienza a Ragusa, da cui è fuggito per andare a nord. È stato ritrovato a Villa San Giovanni mentre vagava per strada.
Nel centro di Reggio, una delle attività dei minori è la lettura dei giornali. E su un giornale ha visto la foto di Njeem, rivivendo il suo incubo. “Lui era il capo. Decideva i tempi, decideva chi, come e dove spostarci. Ma mi ricordo anche i nomi dei suoi uomini: Ayub, Ossama, Adabae, El Nemir ..”.
A Mitiga M. ha perso la cognizione del tempo, non ricorda per quanto vi sia stato trattenuto. Ricorda solo le botte e la paura per gli aguzzini di Njeem[17].
[1] www.ice.it/it/area-clienti/eventi/dettaglio-evento/2024/@@/054, consultato il 16 marzo 2025.
[2] Libia e Italia, crescere insieme. Il contributo del sistema camerale al Business Forum Italia-Libia 2024,
[3] L. Cremonesi, Cosa fa ora Almasri in Libia, divisa da generale e accoglienza da eroe: “Qui tutti sapevano che l’Italia lo avrebbe liberato. Un killer, elimina gli indesiderati”, in Corriere della sera, 7 febbraio 2025.
[4] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 12.
[5] UNSMIL, Report of the Secretary-General, 8 agosto 2023, p. 49.
[6] Cfr. anche M. Marazziti: un emendamento alla legge di bilancio per non essere complici dei trafficanti umani, in democraziasolidale.it, 20 dicembre 2023, consultato il 19 marzo 2025.
[7] MSF denuncia l’inferno dei centri di detenzione in Libia, in nigrizia.it, 7 dicembre 2023, consultato il 13 marzo 2025.
[8] L. Cremonesi, Cosa fa ora Almasri in Libia, cit. .
[9] L. Gambardella, Carcere e torture per 5 anni senza motivo. Le accuse ad Almasri, in Il Foglio, 22 gennaio 2025.
[10] Nel memorandum, sottoscritto il 2 febbraio 2017, l’Italia si impegnava a finanziare (art. 4), tra l’altro, il completamento del sistema di controllo dei confini terrestri del sud della Libia e adeguare i “centri di accoglienza” e formare il personale libico per fare fronte alle condizioni dei “migranti illegali”, sostenendo i “centri di ricerca libici” in modo che possano contribuire all’individuazione dei metodi più adeguati “per affrontare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e la tratta degli esseri umani” (art. 2, lett. 1-3).
[11] Corte penale internazionale, mandato di arresto per Osama Elmasry/almasri Njeem, n. ICC-01/11, 18 gennaio 2025, p. 94-95.
[12] Corte penale internazionale, cit., p. 93.
[13] Corte penale internazionale, cit., p. 92 e 96.
[14] Corte penale internazionale, cit., p. 97.
[15] Al Jazeera staff, I saw him kill people: Libya and Italy’s shadowy migrant deals”, in aljazeera.com, 13 febbraio 2025, consultato il 13 marzo 2025. Nell’articolo Al Jazeera riferisce di avere contattato sia il Ministero della giustizia libico sia la sua polizia giudiziaria, per avere un commento sulle accuse a Njeem, senza ottenere però risposta.
[16] A. Camilli, Quello che non torna del caso Almasri, in internazionale.it, 29 gennaio 2025.
[17] V. R. Spagnolo, Il testimone. “Ho visto Almasri, picchiava i migranti”, 30 gennaio 2025, Avvenire.