In precedenza, sul medesimo tema, Il fine vita tra etica e diritto di Ignazio Fonzo e Il cammino incerto del diritto sul fine vita di Roberto Giovanni Conti.
Sommario: 1. Una necessaria premessa in ordine all’oggetto dell’indagine. – 2. Le prime decisioni dei giudici civili. – 3. La proposta di regolazione della morte volontaria medicalmente assistita.
1. Una necessaria premessa in ordine all’oggetto dell’indagine.
L’intervento dei giudici costituzionali quanto al procedimento penale instaurato nei confronti di chi, autodenunciatosi per avere aiutato altri a morire attraverso il suicidio assistito, era stato imputato, dopo una prima richiesta di archiviazione, del reato di cui all’art. 580 c.p. (istigazione o aiuto al suicidio), poi assolto in giudizio perché il fatto non sussiste, ha prodotto diversi effetti, alcuni immediati e diretti, altri successivi e riflessi ([1]). In merito, infatti, una volta approdata la questione dinanzi al giudice delle leggi, può essere considerata un mero punto di partenza la successiva declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219, recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche reputate dalla stessa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente ([2]).
In questa sede, ovviamente, non interessa porre l’accento sulla tecnica seguita, rappresentata, come è ben noto, da una prima decisione (ritenuta assai discutibile) con la quale si rinvia a un anno esatto dalla pronuncia la successiva trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, rilevando, per un verso, che la tesi del giudice rimettente, nella sua assolutezza, non può essere condivisa, ma evidenziando, per altro verso, che il carattere assoluto del divieto (penalmente sanzionato) di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie ([3]).
Interessa qui piuttosto segnalare, in termini di indicazione per il prosieguo del lavoro, la individuata (sia pure circoscritta) area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa di cui all’art. 580 c.p. Si tratta, in buona sostanza, proprio di quei casi (a cui appartiene anche la vicenda in esame) nei quali l’aspirante suicida si identifichi in una persona a) affetta da patologia irreversibile e b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma rimanga d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Ora, mentre oggi, per il tramite della già richiamata l. n. 219/2017, la decisione di morire potrebbe essere già presa dal malato, con la specifica richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua, non è invece consentito «al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. Pertanto, il paziente, per congedarsi dalla vita, è costretto a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care» ([4]). In tale direzione, allora, il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire la (preliminare) irrinunciabile condizione per consentire, poi, la scelta di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente ([5]).
Il richiamo, poi, alla l. n. 219/2017 serve a estendere alle situazioni corrispondenti a quella oggetto del giudizio la introdotta (nuova) procedura, fondata sul riconosciuto diritto ad ogni persona capace di agire «di rifiutare, in tutto o in parte, (…) qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso», nonché di «revocare in qualsiasi momento (…) il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento» (art. 1, comma 5 l. n. 219/2017). Tale procedura infatti consente, ad avviso del giudice delle leggi, di assicurare adeguata risposta a buona parte delle esigenze di disciplina che, indicate nella precedente ordinanza n. 207/2018, avrebbero dovuto essere tenute presente dal legislatore nella predisposizione della richiesta regolamentazione. Il riferimento è, in buona sostanza, alle modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto al suicidio, per garantirne cioè la assoluta lucida consapevolezza e la consequenziale conforme attuazione, dovendosi dunque assicurare in capo al paziente il permanente avvertito dominio sull’atto finale che consente la realizzazione del volontario proposito determinativo. In questo complesso percorso «la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve restare peraltro affidata – in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore – a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale» ([6]), con l’intervento peraltro di un organo collegiale terzo, a tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità, individuato (nelle more dell’intervento del legislatore) nel comitato etico territorialmente competente, le cui funzioni consultive, attribuite dalla specifica normativa di riferimento, sono dirette a garantire e tutelare i diritti e i valori della persona (in particolare quella vulnerabile).
Ora, considerato che sinora il legislatore non è riuscito a intervenire, nonostante il deciso e ripetuto monito giudiziale, la situazione che si è venuta a creare, da un lato, rinviene nel decisum della Corte costituzionale un termine di riferimento ineliminabile sul versante penalistico; dall’altro, però, ha (forse indebitamente) determinato, proprio in ragione dei falliti tentativi di regolazione (su cui si avrà modo di riferire nel prosieguo del lavoro), il ricorso alla giustizia ordinaria civile per ottenere, prospettando un vero e proprio diritto di morire, l’ausilio sanitario pubblico. Proprio ai rapporti tra le prime intervenute decisioni giudiziali e le proposte regolative in materia è dedicato quanto segue.
2. Le prime decisioni dei giudici civili.
Nelle more (purtroppo assai lunghe) della richiesta legiferazione sono già state rese alcune decisioni giudiziali che hanno dimostrato la complessità di dovere affrontare una materia di tal sorta in assenza di una qualsivoglia disciplina regolativa e facendo esclusivamente perno sull’intervento della Corte costituzionale. Da un lato, infatti, non sembra riscontrarsi una unanimità di vedute (probabilmente in ragione della diversità dei percorsi interpretativi) rispetto ai criteri ordinanti di riferimento; dall’altro, altresì, si è probabilmente dato luogo a una sovrapposizione di piani, con il rischio concreto di un ampliamento di fatto di quello spazio entro il quale era stato rigorosamente circoscritta e confinata l’area di non punibilità dell’aiuto al suicidio, ossia quelle misure poste a tutela, nello specifico e stretto àmbito penalistico, dei soggetti più fragili.
Emblematica in tal senso risulta la vicenda sottoposta al vaglio della giustizia marchigiana, che rigetta il ricorso proposto in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c. per ottenere da parte dell’Azienda sanitaria unica regionale (ASUR Marche), all’esito degli accertamenti previsti dagli artt. 1 e 2 l. n. 219/2017, la prescrizione del farmaco da assumere per porre fine all’esistenza del ricorrente secondo una modalità «rapida, efficace e non dolorosa», contribuendo peraltro a fare chiarezza su presupposti procedurali di operatività e situazioni giuridiche soggettive interessate ([7]). In disparte i rilievi di parte resistente, sostanzialmente diretti a delineare il reale àmbito di incidenza della decisione costituzionale, il possibile accesso da parte del paziente a quanto già possibile (ossia il rifiuto di trattamenti sanitari e l’accesso alle terapie del dolore), nonché il ritenuto utilizzo improprio dello strumento cautelare, può evidenziarsi da parte dell’organo giudicante, anzitutto, la appropriata delimitazione del richiamato oggetto del decisum costituzionale. Al riguardo, infatti, si esclude correttamente che la Corte costituzionale abbia fondato il diritto del paziente, ricorrendo le ipotesi in cui l’aiuto al suicidio può oggi ritenersi penalmente lecito, «ad ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la sua decisione di porre fine alla propria esistenza» ([8]); ciò, sia rispetto alla diretta somministrazione del farmaco sia rispetto alla sua preliminare prescrizione.
La successiva ordinanza collegiale, emessa all’esito del giudizio di reclamo, pur confermando l’esclusione di un obbligo in capo al servizio sanitario nazionale, in presenza delle tassative circostanze fissate dalla Corte costituzionale, di prestare assistenza a chi richieda aiuto a morire, ha accolto l’istanza di accertamento della sussistenza dei suddetti presupposti quale verifica il cui esito è, in buona sostanza, pregiudiziale alla non punibilità del concreto aiuto al suicidio ([9]). Si è così escluso il riconoscimento in capo al malato di un vero e proprio diritto di potere scegliere quando e come morire, avvertendosi altresì la problematicità dell’estensione della copertura costituzionale dell’irresponsabilità penale al di fuori dell’àmbito strettamente penalistico. Peraltro, unitamente al rilevato tratto della portata non completamente esaustiva della decisione della Corte costituzionale, si è appropriatamente ribadito il già espresso chiaro distinguo tra ciò che l’attuale disciplina contenuta nella l. n. 219/2017 consente (ossia l’interruzione su richiesta del paziente dei trattamenti di sostegno vitale e la sottoposizione a sedazione profonda continua, producendosi uno stato di incoscienza che poi conduce alla morte) e ciò che invece essa non consente (ossia mettere a disposizione da parte del medico nei confronti del paziente trattamenti atti a determinarne la morte). La tesi pertanto dell’organo collegiale è che «dal “diritto a morire rifiutando i trattamenti” (già riconosciuto dal Legislatore) non si può desumere il riconoscimento del diritto a essere lato sensu “aiutati a morire”, persino tramite il ricorso al Servizio sanitario nazionale, in una modalità di esercizio della libertà personale dal carattere marcatamente pretensivo» ([10]); parimenti, che «non si può ritenere (in materia di prestazioni terapeutiche) che tutto ciò che è tollerato o lecito sia altresì dovuto» ([11]).
Il ragionamento così sviluppato conduce a concludere, in maniera assolutamente condivisibile e limitatamente a quest’ordine di problemi, che il duplice intervento del giudice delle leggi «consente oggi di escludere, sussistendo determinate condizioni, la punibilità di un’eventuale condotta di assistenza al suicidio, ma non consente, altresì, di riconoscere un vero e proprio diritto soggettivo (azionabile in giudizio) ad essere assistiti nel suicidio (attraverso la prescrizione/somministrazione di un “farmaco letale”), a cui corrisponda, dal lato passivo, un obbligo del personale sanitario» ([12]). A questa chiara ed esplicita presa di posizione, peraltro in linea con quanto già statuito in sede reclamata, segue tuttavia una, per così dire, riparametrazione dell’oggetto del giudizio instaurato, rispetto cioè alla richiesta da parte del reclamante nei confronti della struttura sanitaria pubblica di effettuare tutte le verifiche previste dalla stessa decisione dei giudici costituzionali affinché il soggetto interessato possa accedere al suicidio assistito e nessuno sia esposto al rischio di incorrere nella fattispecie penalmente rilevante dell’aiuto al suicidio. Viene così riformata l’ordinanza reclamata, ordinandosi all’Azienda sanitaria unica regionale (ASUR Marche) di accertare quanto richiesto dal paziente tetraplegico, ossia la sussistenza dei presupposti fissati dal giudice delle leggi ai fini della non punibilità dell’aiuto al suicidio e, altresì, la verifica dell’idoneità e dell’efficacia delle modalità e del farmaco individuati ad assicurare una morte il più rapida, indolore e dignitosa possibile, previa acquisizione del relativo parere da parte del Comitato etico territorialmente competente. A fronte del successivo parere favorevole reso il 9 novembre 2021 dal Comitato etico dell’ASUR Marche, quest’ultima con un comunicato del 23 novembre 2021 ha chiarito che sarebbe stato il giudice anconetano a decidere se il paziente richiedente avrebbe avuto diritto o meno al suicidio medicalmente assistito. È stata infine la stessa ASUR Marche alla fine del gennaio 2022 a individuare il farmaco corretto, ossia «il tiopentone sodico, che appare idoneo a garantire una morte rapida e indolore ad un dosaggio non inferiore a 3-5 grammi per una persona adulta del peso di 70 kg. La modalità di somministrazione è quella dell’auto-somministrazione mediante infusione endovenosa».
3. La proposta di regolazione della morte volontaria medicalmente assistita.
Si è già sottolineato l’enorme ritardo che contraddistingue ancora una volta, nonostante i reiterati moniti della Corte costituzionale, l’operato del legislatore. Può in merito rilevarsi che il 13 dicembre 2021 è iniziata nell’aula parlamentare (peraltro semideserta) della Camera dei deputati, e subito rinviata ad altra seduta, la discussione del testo della proposta di legge contenente disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita, varato dalle Commissioni giustizia e affari sociali a più di tre anni dalla prima sollecitazione in tal senso ad opera della Corte costituzionale. I lavori sono poi ripresi il 9 febbraio 2022 e nuovamente rinviati ad altra seduta del mese successivo, a testimonianza dell’attuale assenza di un accordo di fondo tra le forze politiche. In attesa pertanto della conclusione di questo lungo iter parlamentare (nuovamente ripreso il 13 ottobre 2022, all’inizio della nuova legislatura, con la riproposizione dello stesso testo) è possibile richiamare sinteticamente i tratti salienti della prospettata regolamentazione onde rappresentare termini e contenuto del possibile intervento finale del legislatore.
Lo schema approvato dalla Camera dei deputati nel marzo 2022 e trasmesso al Senato per la successiva discussione (ma poi mai varato) si articola in una pluralità di previsioni, che possono essere ricondotte, in maniera assolutamente generale, a profili procedurali-organizzativi, sulla base peraltro di specifici presupposti normativi, nel quadro di un modello che tende a coniugare aspetti di tutela individuale (sia del richiedente sia del personale sanitario) con aspetti di rilevanza collettiva (socio-sanitaria). In questo complesso di regole, volte ad assicurare per legge l’accesso al suicidio assistito, si staglia la peculiare caratterizzazione in chiave procedimentalizzata dell’evento morte, esito cioè di un percorso con presupposti e modalità di esercizio della riconosciuta facoltà della persona richiedente.
Secondo una tecnica di redazione dei testi di legge ormai consolidata, indirizzata ad esplicitare il senso della prediposta normativa, viene premessa la relativa finalità, avendo ad oggetto la disciplina in esame «la facoltà della persona affetta da una patologia irreversibile e con prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile di richiedere assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente e autonomamente alla propria vita» (art. 1). I primi tratti definitori sono poi diretti alla descrizione dell’evento finale, ossia la morte volontaria medicalmente assistita come «il decesso cagionato da un atto autonomo con il quale, in esito al percorso disciplinato dalla presente legge, si pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole, con il supporto e sotto il controllo del Servizio sanitario nazionale» (art. 2). Vengono, infine, individuati i relativi presupposti, unitamente alla sussistenza delle richieste condizioni, ricalcando (in buona sostanza) quanto disposto dal giudice delle leggi nelle già richiamate decisioni in merito alla declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. (istigazione o aiuto al suicidio).
La richiesta di morte volontaria medicalmente assistita deve infatti provenire da una persona maggiore di età, capace di intendere e di volere e in grado, in quanto pienamente cosciente e padrona di sé, di assumere decisioni libere, attuali e consapevoli, sulla base di adeguate informazioni ricevute e fatte proprie e in ragione dell’intervenuto coinvolgimento in un percorso di cure palliative (destinate, ovviamente, a lenire il suo stato di sofferenza), anche se eventualmente esplicitamente rifiutato (art. 3, comma 1). Mentre, tuttavia, nella prospettiva assunta e formalizzata dal giudice delle leggi, l’accesso alle cure palliative costituisce una pre-condizione (dunque un pre-requisito) della eventuale successiva scelta del suicidio assistito, secondo la predisposta regolamentazione è sufficiente che il malato sia a conoscenza del diritto di accedere alle cure palliative, anche se poi o non risulti essere stato mai in carico alla relativa rete di assistenza oppure abbia espressamente rifiutato tale percorso assistenziale. Tale diversità di formulazione rappresenta uno dei nodi irrisolti dell’attuale dibattito legislativo. La richiesta di morte volontaria medicalmente assistita può essere presa in considerazione, nelle forme e nel rispetto della procedura che a breve saranno richiamate, solo ove la persona si trovi nelle seguenti (concomitanti e non, dunque, alternative) condizioni, ossia sia affetta da patologia (o condizione clinica) irreversibile e con prognosi infausta, con sofferenze fisiche e psicologiche assolutamente intollerabili da parte della medesima, e venga tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, la cui interruzione ne provocherebbe il decesso (art. 3, comma 2).
Al fine di assicurare che il percorso volitivo interno della persona malata e sofferente si traduca in una corrispondente e chiara manifestazione esterna, si prevede che la richiesta in questione presenti alcuni caratteri (o requisiti), sia cioè contraddista dall’essere attuale, informata, consapevole, libera ed esplicita (art. 4, comma 1, prima parte), traducendo in buona sostanza la stessa rappresentazione fornita dal legislatore in tema di consenso (o dissenso) informato rispetto all’inizio o alla prosecuzione di ogni trattamento sanitario a norma della l. n. 219/2017. La volontà deve essere esteriorizzata nella forma scritta (atto pubblico o scrittura privata autenticata) e può essere posta nel nulla in qualsiasi momento e senza particolari formalità, purché comunque ciò avvenga con un mezzo idoneo a manifestare tale volontà contraria (art. 4, comma 1, seconda parte). Emerge dunque, a fronte del richiesto formalismo per introdurre nell’ordinamento una volontà positiva (di accesso, cioè, alla morte volontaria medicalmente assistita), il diverso (e opposto) principio della libertà delle forme per esplicitare una volontà negativa (di revoca, cioè, della richiesta di accesso precedentemente formalizzata). Tale soluzione, che si comprende in una logica di salvaguardia del desiderio di rimanere in vita e che, per certi versi, risulta anche apprezzabile, può tuttavia porre qualche problema di concreto accertamento della (diversa) volontà di revoca, anche se la formula approntata, ossia «con ogni mezzo idoneo a palesarne la volontà», sembra sufficientemente ampia per potere ricomprendere la molteplice varietà delle possibili tipologie.
L’inoltrata richiesta (al medico di medicina generale o al medico che ha in cura il paziente) mette in modo la prevista procedura che si articola in più momenti e coinvolge, correlativamente, più soggetti, individuati rispetto al ruolo che sono chiamati a svolgere nell’àmbito delle competenze assegnate. Il medico (di medicina generale o curante) che riceve la richiesta predispone e invia un rapporto dettagliato e documentato al Comitato etico di valutazione clinica territorialmente competente (organismo multidisciplinare, autonomo e indipendente, la cui istituzione è prevista entro centottanta giorni dall’entrata in vigore della legge), a cui è affidata la redazione di «un parere motivato sulla esistenza dei presupposti e dei requisiti stabiliti dalla presente legge a supporto della richiesta di morte volontaria medicalmente assistita e lo trasmette al medico richiedente e alla persona interessata» (art. 5, comma 5). Nel caso di parere favorevole il medico provvede alla trasmissione dell’intero incartamento «alla direzione sanitaria dell’azienda sanitaria locale o alla direzione sanitaria dell’azienda ospedaliera di riferimento» (art. 5, comma 7), affinché si provveda al fine di garantire che «il decesso avvenga (…) presso il domicilio del paziente o, laddove ciò non sia possibile, presso una struttura ospedaliera e sia consentito anche alle persone prive di autonomia fisica» (art. 5, comma 7). Laddove, invece, il parere sia contrario (oppure il medico non ritenga di trasmettere la richiesta al Comitato per la valutazione clinica), viene comunque riconosciuta al paziente richiedente la possibilità «di ricorrere al giudice territorialmente competente, entro il termine di sessanta giorni dalla data di ricezione del parere» (art. 5, comma 8). In merito può, però, osservarsi che nel progetto di legge non viene chiarito da che cosa sia determinata la competenza territoriale (ossia se, ad esempio, il luogo del domicilio o della residenza del paziente oppure il luogo, diverso dal primo, in cui questi si trovi, ad esempio proprio per ragioni di salute). Parimenti, mentre è previsto che il parere del Comitato per la valutazione clinica venga trasmesso (oltre che ovviamente al medico anche) alla persona interessata, con la riconosciuta possibilità, in caso di valutazione negativa, del ricorso giudiziale; nulla, invece, viene disposto con riguardo alla conoscibilità della motivata decisione con la quale il medico ricevente decida di non trasmettere la richiesta al Comitato per la valutazione clinica al fine di ottenere il prescritto parere (art. 5, commi 4 e 8), rispetto alla quale statuizione è tuttavia riconosciuta la possibilità (come nell’ipotesi di parere non favorevole del Comitato per la valutazione clinica) del ricorso giudiziale (art. 5, comma 8). La persistente decisione di morte volontaria medicalmente assistita, unitamente alla permanente e attuale sussistenza di tutte le condizioni di ammissibilità della richiesta di cui all’art. 3, è oggetto di previo accertamento da parte del medico presente all’atto del decesso (equiparato a tutti gli effetti di legge al venir meno per cause naturali), con la possibilità di avvalersi anche della collaborazione di uno psicologo (art. 5, comma 10).
In disparte le disposizioni finali, contenute nell’art. 9, deputate a prevedere in capo al Ministro della Salute, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, una serie di incombenze (di non poco momento) per assicurare, sia dal punto di vista organizzativo-sanitario sia dal punto di vista procedurale-informativo, il funzionamento del sistema così predisposto (non ultima la prevista relazione annuale sullo stato di attuazione della legge), di rilievo appaiono la predisposta possibilità di ricorso all’obiezione di coscienza per il personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie (art. 6) e l’introdotta esclusione di punibilità, in particolare ma non con tratti di esclusività, per il medico e il personale sanitario e amministrativo che abbiano dato corso alla procedura di morte volontaria medicalmente assistita (art. 8).
La possibilità di ricorrere all’obiezione di coscienza risulta assolutamente in linea con quanto già formalizzato dal legislatore in ordine a precedenti previsioni normative su temi eticamente sensibili. Il riferimento è, esemplificativamente, alla disciplina contenuta nella legge 22 maggio 1978, n. 194, recante norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza; alla legge 12 ottobre 1993, n. 413, sull’obiezione di coscienza alla sperimentazione animale e alla legge 19 febbraio 2004, n. 40, in tema di procreazione medicalmente assistita. Anche in questo caso vengono dettate una serie di prescrizioni per rendere operante l’efficacia dell’atto di obiezione, richiedendosi una preventiva dichiarazione (sempre revocabile) da parte del personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie, da comunicare entro tre mesi dall’adozione del previsto regolamento ministeriale «al direttore dell’azienda sanitaria locale o dell’azienda ospedaliera, nel caso di personale dipendente» (art. 6, comma 1); pur tuttavia, il mancato rispetto del termine indicato non ne preclude la proponibilità, ma solamente la postergazione della relativa efficacia, ossia dopo un mese dalla intervenuta presentazione (art. 6, comma 2).
Il rispetto delle previsioni di nuovo conio è il presupposto per escludere l’applicabilità, anche con efficacia retroattiva, delle disposizioni contenute negli artt. 580 c.p. (che punisce, tra l’altro, l’aiuto al suicidio) e 593 c.p. (che sanziona penalmente l’omissione di soccorso) «al medico e al personale sanitario e amministrativo che abbiano dato corso alla procedura di morte volontaria medicalmente assistita nonché a tutti coloro che abbiano agevolato in qualsiasi modo la persona malata ad attivare, istruire e portare a termine la predetta procedura» (art. 8, comma 1). Nella medesima direzione, del resto, sia pure con riferimento a quanto deciso dal giudice delle leggi e rispetto ai profili disciplinari, si era già mosso il Consiglio nazionale della Federazione degli Ordini dei Medici (FNOMCeO) che all’unanimità ha approvato il 6 febbraio 2020 la modifica dell’art. 17 del codice di deontologia medica, rubricato «Atti finalizzati a provocare la morte». Ai sensi del nuovo testo «Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte. La libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (sentenza 242/19 della Corte Costituzionale e relative procedure), va sempre valutata caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare».
Non è ovviamente possibile in questa sede esaminare nel dettaglio le soluzioni adottate dalla proposta di legge (qui assai rapidamente riferite) rispetto agli ordini di problemi che la materia in esame pone; può semplicemente evidenziarsi che il quadro delineato rende ancora più necessaria (e in tempi necessariamente da contingentare) la chiusura del percorso legislativo. Ciò, con maggior precisione, per almeno due ordini di ragioni che corrispondono ad altrettante questioni concrete.
Per un verso, infatti, si sono già richiamati i primi interventi dei giudici civili che, nelle more della richiesta legiferazione da parte del giudice delle leggi, hanno dovuto (sia pure in modo diverso) fare fronte alle prime richieste di intervento del servizio sanitario nazionale, in un non facile contesto decisionale; senza peraltro dimenticare che, nel frattempo, continuano a porsi all’attenzione giudiziale vicende che paiono travalicare i confini tracciati dal giudice delle leggi per escludere la punibilità della condotta ([13]).
Per altro verso, poi, non possono di certo ritenersi sopite le spinte eutanasiche. Vero è che la Corte costituzionale, dinanzi alla quale pendeva il giudizio di ammissibilità in ordine al proposto referendum sull’eutanasia, ha ritenuto inammissibile, nella riunione in camera di consiglio del 15 febbraio 2022, il quesito referendario, ma è stato già preannunciato dai relativi promotori che non demorderanno e che torneranno, dunque, alla carica. Va al riguardo ricordato che la denominazione del quesito referendario proposto dal comitato Eutanasia legale era «Abrogazione parziale dell’articolo 579 del Codice penale (omicidio del consenziente)». Lo aveva stabilito l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione che, con ordinanza depositata il 16 dicembre 2021, aveva respinto la proposta del comitato promotore di integrare la denominazione con l’espressione «Disponibilità della propria vita mediante consenso libero, consapevole e informato». Si era infatti in merito precisato che la proposta locuzione, la quale nell’intenzione dei promotori intenderebbe rendere chiaro il principio giuridico che l’abrogazione parziale vuole introdurre, ossia la disponibilità della propria vita (in presenza, per l’appunto, di un consenso valido, libero e informato), non trova rispondenza né nella natura abrogativa del referendum (che non è certamente propositivo) né, tanto meno, nella nota decisione del giudice delle leggi, dove il bilanciamento operato non comporta «un varco all’autodeterminazione e alla disponibilità della vita» ([14]).
Proprio richiamando il dibattito innescato dalla proposta consultazione popolare si era rilevato che una legge condivisa sul suicidio assistito avrebbe potuto bloccare la ritenuta deriva referendaria, dovendosi pertanto preferire una disciplina che tenga comunque conto dei principi fondamentali dell’ordinamento e dei diritti della persona a una competizione referendaria (dall’esito incerto) che potrebbe aprire la strada a un caos giuridico con il rischio di liberalizzare l’omicidio di una persona consenziente anche se in buona salute ([15]). La Corte costituzionale ha invece ritenuto inammissibile il quesito referendario perché, a seguito dell’abrogazione, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili.
*Ordinario di Diritto civile nell’Università degli Studi di Catania
([1]) Si tratta della ben nota vicenda che ha visto protagonisti, da un lato, Fabiano Antoniani (noto come dj Fabo), deceduto in Svizzera con ricorso alle pratiche di suicidio assistito; dall’altro, Marco Cappato, accompagnatore del primo per consentire la realizzazione del proposito suicidario. La originaria richiesta di archiviazione da parte dei pubblici ministeri titolari dell’inchiesta era stata motivata nel senso che le pratiche di suicidio assistito non costituiscono una violazione del diritto alla vita quando esse siano connesse a situazioni oggettivamente valutabili di malattia terminale o gravida di sofferenze o ritenuta intollerabile o indegna dal malato stesso, atteso che la condotta di chi rifiuta una terapia salvavita costituisce esercizio di un diritto soggettivo riconosciuto in ottemperanza al divieto di trattamenti sanitari coattivi, sancito dalla Costituzione; si affermava, altresì, che la giurisprudenza (costituzionale e sovranazionale) avrebbe inteso affiancare al diritto alla vita il diritto alla dignità della vita inteso come sinonimo dell’umana dignità. Per una ricostruzione dei fatti e per una prima, relativa riflessione sia consentito il rinvio a G. Di Rosa, Profili giuridici dell’esistenza, Torino, 2022, p. 112 ss.
([2]) Il riferimento è a Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242, in Nuova giur. civ. comm., 2020, p. 368 ss., con ampio dibattito, ivi, p. 418 ss. Per un primo (autorevole) commento si rinvia ad A. Nicolussi, Lo sconfinamento della Corte costituzionale: dal caso limite della rinuncia a trattamenti salva-vita alla eccezionale non punibilità del suicidio medicalmente assistito, in Corti supreme e salute, 2019, p. 201 ss.; nonché Id., Suicidio medicalmente assistito e autonomia della deontologia medica, in Medicina e Morale, 2019, p. 367 ss.; di rilievo, altresì, L. Violini, Elementi di criticità della vicenda Cappato: una ipoteca sul futuro del “diritto a morire”?, in Corti supreme e salute, 2020, p. 313 ss., che evidenzia profili di criticità sia sul versante sostanziale sia su quello processuale.
([3]) Si tratta di Corte cost. (ord.), 16 novembre 2018, n. 207, in Nuova giur. civ. comm., 2019, p. 549 ss., con commento (previo) di M. Azzalini, Il “caso Cappato” tra moniti al Legislatore, incostituzionalità “prospettate” ed esigenze di tutela della dignità della persona, ivi, p. 540 ss. e in Guida al diritto, 1° dicembre 2018, nn. 49-50, p. 16, con commenti di A. Natalini, Ordinanza monito con rinvio a data fissa, un caso da manuale; A. Porracciolo, Quel dilemma della libera scelta del paziente e G.M. Salerno, Nei principi direttivi indicazioni utili per la futura decisione.
([4]) Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242, cit.
([5]) Si tratta di un profilo, come del resto sottolineato dallo stesso giudice delle leggi, messo in evidenza già dal Comitato nazionale per la bioetica nel parere reso il 18 luglio 2019, dal titolo Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito, ove una particolare (appropriata) insistenza sul tema della informazione e dell’accesso alle cure palliative.
([6]) Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242, cit.
([7]) L’ordinanza è di Trib. Ancona, 26 marzo 2021, in www.ilcaso.it.
([8]) Trib. Ancona (ord.), 26 marzo 2021, cit.
([9]) Si tratta della decisione di Trib. Ancona (ord.), 9 giugno 2021, in Corr. giur., 2021, p. 1544 s., con nota di I. Cubicciotti, Il tema del suicidio assistito tra il valore della vita ed il valore della dignità.
([10]) Trib. Ancona (ord.), 9 giugno 2021, cit.
([11]) Trib. Ancona (ord.), 9 giugno 2021, cit.
([12]) Trib. Ancona (ord.), 9 giugno 2021, cit.
([13]) Secondo quanto riportato nell’articolo a firma di F. Ognibene, «Mario» suicida, senza regole, in Avvenire, 17 giugno 2022, p. 12, la morte di Federico Carboni (vero nome di “Mario”), tetraplegico da 11 anni a seguito di un incidente stradale, è stato un suicidio attuato con un potente barbiturico e un apposito macchinario (con l’assistenza di un medico anestesista), attraverso l’attivazione meccanica da parte dello stesso del sistema di somministrazione, ma in assenza dei criteri fissati dalla Corte costituzionale per escludere la ricorrenza della fattispecie penalmente rilevante, mancando il requisito della dipendenza da supporti vitali; da qui il dubbio della ricorrenza, in assenza di qualsivoglia regola in merito, del primo suicidio assistito in Italia.
([14]) Si tratta di quanto riportato nell’articolo a firma di G. Razzano, Referendum, nel nome niente «consenso libero» al fine vita, in Il Sole 24 ore, 17 gennaio 2022.
([15]) Il riferimento è ai numerosi interventi da parte del presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, ultimo tra i quali quello oggetto di un’intervista raccolta da A. Picariello e pubblicata in Avvenire, 14 gennaio 2022, p. 10.