Violenza di genere tra natura e cultura
di Gabriele Pinto, psicologo e psicoterapeuta, Associazione Senza Violenza
Ugo (nome fittizio) 45 anni, architetto, sposato nel 2017 dopo 8 anni di fidanzamento, ha usato violenza contra la moglie in tre occasioni, una nel 2018 e due nel 2019. Si rivolge al nostro Centro (Senza Violenza – http://www.senzaviolenza.it/) perché durante l’ultimo agito violento “non mi sento ascoltato… mi sento preso in giro”, si è reso conto “di aver stretto troppo” il collo della moglie e si è spaventato. “Ho delle esplosioni… Ho paura di perdere il controllo” – mi dice – e “ho bisogno di aiuto”.
Luca (idem) 67 anni, medico in pensione, sposato da più di 35 anni, due figli. Durante una discussione con la moglie le da uno “schiaffone” perché “quando mi ha detto così non ci ho visto più”. La moglie, con sua sorpresa, minaccia di andarsene, non si sente più sicura, ha paura di lui. La fiducia è infranta. Luca non vuole perdere la relazione con lei e decide di contattarci per iniziare un percorso.
Elio (idem) 26 anni, operaio, ha “sempre avuto relazioni difficili con le donne”. Durante una discussione con la sua ultima ragazza, oltre alle urla e alle offese, la spinge sul letto. “Voleva uscire, ma era tardi, allora l’ho bloccata prendendola per il collo”. Raccontando l’accaduto si giustifica… “non mi può prendere per il culo” e “quando fa così mi si chiude la vena”.
Alfredo (idem) 30 anni, impiegato, condannato per maltrattamenti, sceglie la sospensione condizionale della pena e ci contatta per iniziare un percorso. Mai agito violenza prima.
La ragazza con la quale aveva iniziato una relazione, in una situazione un po' ambigua, decide di interromperla. Lui l’aspetta nell’atrio del palazzo in cui abita e la sbatte contro il muro. Urlando la minaccia stringendole il viso con una mano… “non ti permettere di farlo mai più”.
Possiamo davvero ridurre i comportamenti violenti di questi diversi uomini a un unico e solo problema/disagio psicologico? A qualcosa che riguarda esclusivamente la loro biografia? La violenza che agiscono contro le partner può essere circoscritta unicamente alle esperienze di vita che li hanno condizionati nella costruzione della loro identità? Possiamo sostenere che esiste un divario irriducibile tra gli uomini che agiscono violenza e coloro che non la usano?
Affermare con certezza che i maschi che usano la violenza nelle relazioni intime appartengono a un mondo, concreto e simbolico, completamente altro da quello dei maschi che la usano?
Penso che qualsiasi riduzione della violenza maschile contro le donne ad un problema/disagio/patologia di ordine psichico è una ridefinizione ideologica e tradisce la verità che il sapere delle donne ha inconfutabilmente dimostrato, attraverso un immenso lavoro di analisi/ricerca/riflessione antropologica, sociale, politica e psicologica. Questo sapere, che ha il nome di femminismo, dimostra che la violenza maschile contro le donne è radicata profondamente nella cultura che chiama patriarcale.
Patriarcato è il potere dei padri: un sistema socio-familiare, ideologico, politico, in cui gli uomini – con la forza, con la pressione diretta, o attraverso riti, tradizioni, leggi, linguaggio, abitudini, etichetta, educazione e divisione del lavoro – determinano quale ruolo compete alle donne, in cui la femmina è ovunque sottoposta al maschio.
Adrienne Rich[1]
Il genere, come la sessualità, non è una proprietà dei corpi o qualcosa che esiste in origine negli esseri umani, bensì, “l’insieme degli effetti prodotti nei corpi, nei comportamenti e nelle relazioni sociali”, come dice Foucault, dallo spiegamento di “una complessa tecnologia politica”.
Teresa De Lauretis[2]
L’essere umano è un primate molto speciale. L’evoluzione ci ha portato a sviluppare una capacità cognitiva unica tra tutti gli altri animali, quella dell’autocoscienza che è la capacità di significare l’esperienza in modo simbolico e di comunicare le nostre rappresentazioni, i nostri vissuti, le nostre mappe del mondo ai nostri simili. Siamo la specie narrante. Il linguaggio, una nascita prematura e un tempo di crescita rallentato, una plasticità cerebrale unica e una capacità di apprendere eccezionale, sono i frutti straordinari della nostra biologia neotenica.
La nascita prematura e il rallentamento evolutivo ci rendono più esposti/e alle sollecitazioni ambientali, più aperti/e all’apprendimento e più dipendenti dalle cure parentali. Siamo animali biologicamente sociali e culturali[3]. Nasciamo e cresciamo in un mondo che qualcun altro/a ha già significato per noi e disciplinato in saperi e poteri che, uniti al bisogno di cure e di appartenenza, ci condizionano inevitabilmente nella costruzione della nostra identità sessuale e di genere. Saperi e poteri sono ancorati ad una rappresentazione simbolica del reale che chiamiamo cultura. A fondamento di tutte le culture c’è una interpretazione del Maschile e del Femminile come archetipo della differenza.
Si crede di stare continuamente seguendo la natura, e in realtà non si seguono che i contorni della forma attraverso cui la guardiamo. Un’immagine ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio e questo sembrava ripetercela inesorabilmente.
Ludwig Wittgenstein[4]
Qual è l’immagine del Maschile e del Femminile e della loro relazione che sta a fondamento del nostro linguaggio e della nostra cultura? E solo della nostra?
Un paradigma simbolico che sancisce la superiorità, il dominio, il primato del genere maschile su quello femminile, come legittimi e naturali. Secondo questo paradigma il Femminile è subordinato al Maschile per valore e possibilità. Il Femminile è posto come naturalmente ancillare rispetto al Maschile mentre il valore del Maschile è costruito sulla svalutazione del Femminile. Una differenza originaria che viene normata e narrata come naturale (in alcune versioni anche soprannaturale: Deus vult) disparità e diseguaglianza tra i generi.
In questo quadro simbolico la violenza contro il femminile è stata stabilita, per millenni, come ordinatore legittimo delle relazioni tra i generi e garante della distribuzione asimmetrica dei poteri e delle funzioni, cioè di ruoli e compiti.
La costruzione sociale dei generi procede dall’attribuzione ideologica del potere al Maschile. Il potere così attribuito alimenta il sapere che lo giustifica e lo conferma.
La violenza è la risposta che il sistema patriarcale ha normato per ristabilire il giusto ordine naturale quando il Femminile lo trasgredisce. Quando osa narrare un’altra possibile interpretazione di sé e della realtà; quando osa creare un linguaggio che veicoli una nuova immagine del Maschile e Femminile e quindi un nuovo ordine possibile di saperi e poteri, identità e relazioni, ruoli e compiti. Alla secolare normalizzazione della violenza contro le donne corrisponde la secolare impunità e deresponsabilizzazione degli uomini.
La violenza contro le donne è la logica conseguenza di questo paradigma simbolico, la matrice patriarcale che informa da sempre ogni ambito del nostro vivere. La strategia del potere/sapere che considera le donne come le uniche colpevoli delle violenze che subiscono perché uniche e sole responsabili della violazione dell’ordine naturale delle cose. Le narrazioni di questo tipo sono molteplici, da quelle dei media e dei giornali a quelle ricorrenti nelle varie professioni. In ambito giuridico, oltre ai riferimenti contenuti nel documentato articolo di Sara Posa e Lucia Spirito[5], è interessante ed emblematica la recente relazione della Commissione Parlamentare di Inchiesta su Feminicidio e Violenza di genere 2022[6].
Tornando alla nostra biologia neotenica, la nascita prematura, un cervello straordinariamente plastico, che si sviluppa per 2/3 anni dopo la nascita, l’infanzia prolungata, sono caratteristiche che ci rendono soggetti estremamente condizionati dalle esperienze che viviamo nella costellazione di relazioni di chi si prende cura di noi – genitori, famiglia, comunità, società – laddove, come già si diceva, la significazione delle nostre esperienze infantili avviene all’interno di una matrice sociale e culturale costruita a priori.
I legami sociali sono “la matrice originaria in cui si formano il sé, il ‘carattere’, la struttura della personalità di colui o colei che un giorno si rapporterà in modo più o meno felice con ‘le difficoltà del vivere’”[7] .
Considerato che uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano quando nasce e cresce è quello di sentirsi riconosciuto e di appartenere, i messaggi e le narrazioni che lo nutrono, oltre al cibo, diventano la materia vivente che il/la bambino/a utilizza per costruire la propria identità. E l’identità è sempre sessuata, mai neutra, e sempre relazionata ad una “famiglia affettiva” che l’ha condizionata con aspettative, divieti, ricompense, punizioni, permessi, privilegi, discriminazioni, critiche, valorizzazioni e svalutazioni. L’angoscia più tremenda per un/una bambino/a – ma anche per un/una adulto/a – è il rifiuto, l’abbandono, la solitudine, l’esclusione[8]. Pur di evitare questa angoscia il/la bambino/a è disposto/a a sacrificare parti importanti di sé e a plasmarsi sui modelli attesi dalla famiglia, dalle comunità (scolastica, religiosa, sportiva, dei pari…) e dalla società.
È una lunga costruzione creativa in cui le prime rappresentazioni sono di tipo affettivo-motorio[9], completate successivamente da quelle di tipo cognitivo. I significati che il/la bambino/a attribuisce alle sue esperienze sono inscritti nella sua mente e nel suo corpo, e vanno a costituire la percezione che ha di sé, come maschio e come femmina, in relazione al mondo che lo/a circonda.
Se dunque la matrice culturale allargata (società) e quella più ristretta (famiglia e comunità di appartenenza) ci hanno guidato nella costruzione della nostra identità – a volte implicitamente a volte esplicitamente – ad ancorare il nostro valore di maschi e di uomini ad un senso di superiorità/dominio rispetto al femminile, è più facile capire come Ugo, Luca, Elio, Alfredo, e la maggior parte degli uomini, possano sentirsi dolorosamente minacciati quando la loro partner li fronteggia affermando una soggettività libera di autodeterminarsi socialmente, economicamente e sessualmente. Quando il nostro valore, o il nostro rispetto, dipende da un elemento esterno a noi, siamo condannati a inseguirlo per riprenderlo continuamente, in un processo che avrà fine – forse – solo con la sua eliminazione; oppure in un percorso di ricostruzione della nostra identità maschile fondata su un’immagine del Maschile e del Femminile completamente altra da quella patriarcale, dove la differenza di genere non sia sinonimo di disparità e dove il nostro valore sia fondato su una nuova percezione di noi stessi e delle donne che ci stanno di fronte.
[1] Rich A., Nato di donna, Milano, Garzanti, 1976.
[2] De Lauretis T., Sui Generis. Scritti di teoria femminista, Milano, Feltrinelli, 1996.
[3] Gould S. J., Questa idea della vita, Torino, Codice edizioni, 2022.
[4] Wittgenstein L., Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1953.
[5] https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/137-violenza-di-genere/2569-stereotipi-e-pregiudizi-di-genere-una-storia-ancora-attuale?hitcount=0
[6] https://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/docnonleg/42711.htm
[7] Gualandi A., Psicoanalisi neotenia e comunicazione, in Cavazzini A. et al., L’eterocronia creatrice, Milano, Unicolpi, 2013.
[8] Helliger B. e Ten Hovel G., Riconoscere ciò che è, Milano, Feltrinelli, 2001.
[9] Downing G., Il corpo e la parola, Roma, Astrolabio, 1995.