Il linguaggio tra diritto e psicologia. Incontro tra giuristi e psicologi giuridico-forensi [1]
Sommario: 1. Introduzione. Diritto e Psicologia: linguaggi diversi o epistemologie diverse? (A cura di Giuliana Mazzoni) – 2. Le parole del diritto e quelle della psicologia. (A cura di Santo Di Nuovo) – 3. Capacità di intendere e di volere e la criptica nozione di ‘discernimento’. (A cura di Vania Patanè) - 4. L’idoneità a rendere testimonianza. (A cura di Antonietta Curci) – 5. Il danno non patrimoniale. Il danno psichico e il nesso causale. (A cura di Ugo Salanitro) – 6. Modello giuridico e cognitivo del dolo eventuale. (A cura di Giuseppe Sartori) – 7. Esigenze della regolazione giuridica e concetti della psicologia. (A cura di Angelo Costanzo).
1.Introduzione. Diritto e Psicologia: linguaggi diversi o epistemologie diverse? (A cura di Giuliana Mazzoni)
La relazione tra psicologia e diritto è sempre esistita ed è implicitamente intrinseca alla natura e all’oggetto delle due discipline. Mi riferisco al fatto che, se ben si osserva, entrambe si occupano dell’essere umano e dei suoi comportamenti. La psicologia da una lato ha come oggetto lo studio dell’uomo, di cui descrive e spiega, oggi con una molteplicità di dati di ricerca sperimentale, i meccanismi di funzionamento. Partendo dall’osservazione del comportamento individuale e collettivo crea modelli teorici che permettono non solo di spiegare ma anche di predire il comportamento in situazioni che abbiano premesse ben specificate. D’altro canto, anche il diritto, sia pure con obiettivi diversi, fa necessariamente riferimento al comportamento umano (sia individuale sia collettivo), per normarne la accettabilità morale/etica e sociale. Entrambe le discipline presentano quindi la necessita’ di conoscere il principi di funzionamento che sottostanno il comportamento dell’uomo. Similmente, è propria anche di entrambe le discipline una valutazione sia implicita che esplicita sul che cosa si intenda con ‘normalità’ (normalità di un comportamento), e sulla sua accettabilità morale/etica e sociale. Non si parla qui solo del comportamento di pericolosità sociale, ad esempio, ma anche dei tanti comportamenti che possono creare ad una qualche livello nocumento o danno al soggetto, ad altri individui, e a cose.
Questa relazione tra le due discipline è implicitamente assunta e tacitamente accettata, ma viene raramente esplicitata. È vero che il diritto si deve confrontare con una molteplicità di discipline, dalla filosofia alle varie discipline scientifiche che con il diritto interagiscono, e oggi con l’intelligenza artificiale. Tuttavia ritengo importante che anche in questo ambito disciplinare la comprensione di come si debba concettualizzare, e comprendere, il comportamento umano individuale e collettivo diventi oggetto di una riflessione più meno occasionale e maggiormente basata sulle risultanze della ricerca psicologica. Pare, all’occhio dello psicologo, che nel diritto si assuma una concezione relativamente ingenua dell’essere umano e del suo funzionamento, che non tiene conto da quanto si è arrivati a conoscere grazie ai più di cento anni di ricerca sperimentale in psicologia. L’impressione è che diritto e psicologia appartengano a due mondi completamente diversi, con concezioni profondamente diverse dell’essere umano. Si ipotizza che questo possa essere dovuto al fatto che le due discipline hanno fatto propri approcci epistemologici e conoscitivi molto distanti tra loro, l’uno razionale/logico/argomentativo (diritto), l’altro sperimentale (psicologia).
Il convegno che ha dato origine a questo scritto, tenutosi a Catania nel Settembre 2024, è nato proprio come momento di dialogo aperto e costruttivo tra le due discipline sul modo di concepire alcuni costrutti teorici a cavallo tra diritto e psicologia. Il tentativo fatto è quello di iniziare a discutere sul significato rispettivamente attribuito a termini presenti nel diritto (quali idoneità a rendere testimonianza, capacita’ di intendere e volere, danno, dolo), che pero’ hanno importanti valenze e significati psicologici, e rispetto ai quali la scienza psicologica molto ha detto. Questi termini sono impiegati con connotazioni e denotazioni spesso assai diverse nelle due discipline, e ritengo che un chairimento sui differenti modi di intendere possa rappresentare un buon punto di partenza per un avvicinamento anche concettuale tra diritto e psicologia. Mi auguro che questo tentativo si sviluppi in uno scambio piu’ frequente sul significato attribuito a termini presenti e frequentemente impiegati nella giurisprudenza (es nelle norme e nelle sentenze), quali personalità, memoria, attitudine, volontà, intenzione, minore, vittima, comportamento aggressivo, ecc ecc.
I contributi che seguono chiariscono, in modo alternato da parte di giuristi e psicologi, il punto di vista dell’una e dell’altra disciplina. L’augurio e la speranza è che questi contenuti siano oggetto di riflessione, e che da questo articolo possano nascere commenti costruttivi che portino ad un avvicinamento fruttuoso tra psicologia e diritto.
2. Le parole del diritto e quelle della psicologia. (A cura di Santo Di Nuovo)
Nel mio intervento accenno ad alcune ‘parole’ che sia il diritto che la psicologia usano ma con accezioni diverse e potenzialmente contrastanti.
Responsabilità - Nell’accessione giuridica la responsabilità è il fondamento per l’imputabilità, l’attribuzione di colpa, la retribuzione della pena. Colpa e pena vanno attribuite a chi dell’atto deviante è dichiarato responsabile. Su questa base, la legge definisce la “irresponsabilità” del minorenne infraquattordicenne; fra i 14 e i 18 anni perché si ammetta la responsabilità richiede di dimostrare che il minore sia ‘capace di intendere e volere’. Al contrario, dopo i 18 anni va dimostrata l’incapacità per eludere la responsabilità del reo.
In termini psicologici, la responsabilità invece è considerata non un presupposto, ma una meta: far diventare le persone “responsabili” dei propri atti è un obiettivo educativo (e rieducativo). La responsabilità è collegata alla maturità e alla moralità, che non è più, come nel bambino piccolo, un insieme di prescrizioni e di divieti imposti dall’esterno, ma diviene autonoma, in quanto parte del Sé.
Nel sistema giuridico italiano si ammette che la capacità di intendere e volere (e quindi la responsabilità) può essere ridotta o del tutto annullata, da fattori diversi, attribuibili a fonti di incapacità relativa in generale al soggetto, stabilizzate nella sua personalità e quindi persistenti nel tempo (“infermità psichica”) oppure a fonti pertinenti alla specifica azione. La dichiarazione di incapacità parziale è una mediazione tra i due “linguaggi”: le categorie (giuridiche) in cui le persone vengono inserite si intersecano con altre categorie (comportamentali) che aggiungono al giudizio la dimensione della complessità tipiche delle scienze sociali.
Capacità e conseguente responsabilità vanno soppesati di volta in volta in relazione al soggetto in esame, al tipo di atto commesso, al contesto relazionale coinvolto al momento dell’atto medesimo. Il rischio è che nella valutazione giuridica della responsabilità si innestino elementi di idiograficità e di incertezza, possibili divergenze – anche radicali – tra giudici diversi, e questo mina il principio di nomoteticità dell’ordinamento giudiziario.
Pericolosità - Il codice penale distingue il reato commesso (come ‘sintomo’ di devianza in atto) e il reato potenziale (cioè la probabilità di commetterlo) definito come “attitudine alla reiterazione di fatti socialmente allarmanti”, tale da meritare interventi di prevenzione speciale, mediante neutralizzazione o riabilitazione della persona pericolosa.
Le misure di sicurezza – dalla libertà vigilata al trattamento sanitario obbligatorio, indipendenti o aggiuntive alla pena – sono mirate a far tornare (o diventare) la persona socialmente responsabile: obiettivo psicologico ed educativo.
In realtà a questa accezione psicosociale si sostituisce spesso l’accezione che vede le misure di sicurezza nei confronti della persona pericolosa come intervento di “difesa sociale” (peraltro per tempi non definibili a priori).
Tra il sorvegliare e punire di cui parlava Foucault si opta solo per il primo, o si abbina il primo al secondo. La sorveglianza e il controllo sono concetti psicosociali, che però intersecano il diritto, con esiti spesso discutibili.
Danno psichico – Si tratta di una alterazione delle abitudini di vita personale e relazionale che, anche senza patologie medicalmente accertabili (danno biologico), configura un danno non patrimoniale. In casi di danno psichico – derivante da il mobbing, stalking, stress lavoro correlato – va dimostrato il legame causale diretto tra l’evento che causa il danno e la conseguenza che sconvolge la vita del danneggiato: e questo richiede mezzi di prova anche psicologici che dimostrano spesso l’intervento di fattori multicausali.
Il contrasto fra il linguaggio giuridico e quello psicologico deriva da un piano epistemologico: la psicologia immette nel diritto nozioni complesse e non riducibili a causalità lineari, perché reazioni e controreazioni (feedbacks) comportano una causalità circolare o multi-fattoriale, che introduce nelle procedure giudiziarie non certezze ma ulteriori dubbi.
3. Capacità di intendere e di volere e la criptica nozione di ‘discernimento’. (A cura di Vania Patanè)
1. L’imputabilità è la prima condizione per esprimere la disapprovazione soggettiva del fatto tipico e antigiuridico commesso dall’agente e l’ipotesi della libertà di scelta è il presupposto logico dello stesso diritto penale. Tuttavia, parte della dottrina penalistica è portata a negare l’esistenza di una volontà libera, intesa come libertà assoluta di autodeterminazione ai limiti del puro arbitrio: si parla, piuttosto, di una libertà “relativa” o “condizionata” che presenta graduazioni diverse in funzione del livello di intensità dei condizionamenti, anche di natura inconscia, che il soggetto subisce prima di agire: quanto più forte è la spinta dei motivi, degli impulsi, degli istinti, tanto più difficile risulta lo sforzo di sottoporli al potere di autocontrollo. Secondo tale prospettiva, la libertà del volere andrebbe assunta, quindi, non come dato ontologico, scientificamente dimostrabile, ma come contenuto di un’aspettativa giuridico-sociale.
2. Il limite dell’imputabilità è fissato al compimento del quattordicesimo anno. Si tratta di una scelta di politica criminale, sicuramente arbitraria per la sua convenzionalità e la categoria dell’imputabilità minorile sconta tutte le possibili contraddizioni e ambiguità presenti in un giudizio penale fortemente individualizzato, oltre che le difficoltà di convergenza tra un’interpretazione motivazionale del comportamento, propria del codice psicologico, e una valutazione normativa, propria, invece, del paradigma giuridico. Questo rende discrezionale, in misura abnorme, tutto il percorso valutativo, consegnando alle opzioni culturali di ogni singolo magistrato il compito di definire in concreto il significato della capacità, gli ambiti di indagine e le relative metodiche di accertamento. Si utilizzano sempre più i contributi della psicologia dell’età evolutiva, secondo la quale il processo di maturazione non progredisce allo stesso modo rispetto a tutti i comportamenti dello stesso individuo nello stesso periodo, potendo progredire rispetto a determinati schemi comportamentali e ritardare rispetto ad altri, determinando l’esistenza di diversi e differenti livelli di maturità nello stesso individuo e nella stessa fase o stadio di sviluppo.
Attualmente, la responsabilità penale del minore ultraquattordicenne risulta subordinata al concreto accertamento della capacità di intendere e di volere. Invece, il codice Zanardelli poneva il “discernimento” (coscienza del carattere immorale e antigiuridico del fatto) quale condizione necessaria per l’imputabilità del minore a partire dal nono anno di età. In realtà, nonostante le buone intenzioni, la giurisprudenza e la dottrina, individuando nel concetto di maturità il nucleo essenziale della capacità di intendere e di volere del minore (e quindi della sua imputabilità), hanno, di fatto, riportato la situazione alla stessa indeterminatezza che connotava il concetto di discernimento vigente il codice Zanardelli. Concetto, peraltro, ripreso dalla recente l. n. 70 del 2024, che, modificando l’art. 25 del R.D.l. n. 1404 del 1934, prevede la possibilità di applicare misure rieducative, al minorenne che «dia manifeste prove di irregolarità nella condotta o nel carattere, ovvero tiene condotte aggressive…» financo a minori infra-dodicenni, se capaci di discernimento, senza, tuttavia, chiarire il significato preciso da attribuire a tale nozione.
3. Anche l’applicazione di una misura di sicurezza al minore non imputabile ma socialmente pericoloso è radicato non sulla responsabilità ma sulla pericolosità sociale, ossia su opinabili valutazioni prognostiche, fondate, paradossalmente, sulle stesse circostanze indicate nell’art.133 c.p. La conseguenza ha del paradossale, per soggetti non imputabili, come gli infra-quattordicenni, per i quali il giudizio di pericolosità sociale va fondato su quegli stessi elementi che rilevano per la pena e per la sua quantificazione, cioè per quella stessa sanzione penale per la quale sono ritenuti incapaci.
4. L’idoneità a rendere testimonianza. (A cura di Antonietta Curci)
Da tempo la psicologia scientifica ha abbandonato l’idea che la memoria sia un archivio ordinato e fedele degli eventi, anzi è soggetta a varie forme di errori a causa della sua natura ricostruttiva e non riproduttiva. Schachter (2022) definisce questi errori i “sette peccati” della memoria, tre di omissione e quattro di commissione. Gli errori di omissione comprendono la transitorietà, la distrazione e il blocco; gli errori di commissione riguardano l’errata attribuzione, l’effetto bias e credenze, la credenza nella persistenza dei ricordi traumatici e la suggestionabilità[2].
I testimoni di un processo sono chiamati a rievocare esperienze spesso stressanti, a limite traumatiche, in un contesto altamente formalizzato e potenzialmente ostile. La capacità mnestica di un teste è, dunque, un tema di grande rilevanza per la ricerca e le applicazioni forensi. Negli anni Ottanta, si sviluppò negli Stati Uniti un dibattito sull’accuratezza dei ricordi traumatici, che va sotto il nome di memory wars. Da una parte, alcuni ricercatori ritenevano che i traumi producano ricordi indelebili, al punto da lasciare una cicatrice nei tessuti cerebrali; all’altro, utilizzando il paradigma lost-in-the-mall (Loftus e Pickrell, 1995), altri studiosi hanno dimostrato che è possibile impiantare falsi ricordi. Gli studi più recenti sulla memoria autobiografica mostrano come i processi di memoria siano costruttivi e ricostruttivi, in quanto condizionati dalla moltitudine di fattori che intervengono a livello di codifica e di recupero (Conway e Loveday, 2015). L’esperto chiamato a valutare l’idoneità di una persona vulnerabile (es., minore, anziano, persona con disabilità ecc.) deve, pertanto, considerare la sua capacità mnestica declinata su due fronti, “l’attitudine del bambino a testimoniare, sotto il profilo intellettivo ed affettivo, e la sua credibilità” (Cass. Pen., Sez. III, n. 8962/1997).
L’esperto, quindi, dovrà ricorrere al proprio bagaglio di conoscenze scientifiche al fine di indagare: a) le capacità cognitive generali del testimone, valutandone la competenza (o l’accuratezza) che riguarda il rapporto tra ciò che è successo e ciò che si ritiene sia successo (realtà oggettiva vs realtà soggettiva); b) la credibilità clinica, che riguarda il rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e la motivazione a dichiararlo (realtà soggettiva vs realtà riferita). In questo senso, come anche definito dalle Linee Guida Nazionali per l’Ascolto del Minore Testimone (2010), la valutazione si focalizza sull’accertamento delle capacità cognitive “generali”, come memoria, attenzione, capacità di comprensione e di espressione linguistica, source monitoring, capacità di discriminare realtà e fantasia, verosimile da non verosimile, livello di maturità psico-affettiva ecc.; riguarda, tuttavia, anche le capacità “specifiche”, che corrispondono alle abilità di “organizzare e riferire un ricordo in relazione alla complessità narrativa e semantica delle tematiche in discussione ed all’eventuale presenza di influenze suggestive, interne o esterne, che possono avere agito” . Ciò che il consulente non può fare è estendere la sua valutazione al terreno della decisione giudiziaria ed esprimersi sulla credibilità del teste intesa come attendibilità rispetto ai fatti reato. La scienza cognitiva può supportare la decisione, ma il giudizio finale resta ai giudici. L’intervento dell’esperto può, in certa misura, contribuire alla formazione di quelle “massime di esperienza” (nel caso specifico psicologica) che il giudice usa per fondare il suo convincimento. Ciò che resta imprescindibile è la corretta formazione scientifica dei consulenti, che non si perda nel contrasto tra posizioni o scuole di pensiero, ma che sia in grado di fornire un contributo utile, onesto e oggettivo al giusto processo.
5. Il danno non patrimoniale. Il danno psichico e il nesso causale. (A cura di Ugo Salanitro)
Va preliminarmente osservato che non vi è impermeabilità tra il diritto e le altre culture, essendo anzi usuale che il diritto assuma nozioni e categorie tratte da altri settori della conoscenza. Tuttavia, la trasmissione non è necessitata e richiede un processo di mediazione, giacché il diritto ha la specifica funzione di risolvere conflitti di interessi, per cui non bisogna stupirsi che il giurista adotti una visione diversa del concetto utilizzato dai processi di conoscenza della realtà diffusi in ambito scientifico e sociale.
Nella sfera del danno psichico, gli psicologi tendono a sostenere che i modelli causali utilizzati dai giuristi non siano appropriati perché caratterizzati da un nesso lineare, inidoneo a leggere le tecniche di concatenazione che spiegano le conseguenze dei traumi sulle condizioni mentali delle vittime, le quali sarebbero piuttosto caratterizzate da un andamento circolare, in cui assume rilevanza la predisposizione naturale. In questa prospettiva, anche quando svolgono attività di consulenza in ambito forense, gli psicologi sembrano essere più attratti dall’idea, che percepiscono più vicina ai modelli di ragionamento scientifico, secondo la quale il danno andrebbe risarcito in modo proporzionale al contributo causale e si sorprendono nel costatare che la maggioranza dei giuristi propende per la tesi secondo la quale, anche in caso di concausa naturale, debba ricadere per intero sull’autore del fatto illecito la responsabilità risarcitoria (all or nothing rule).
In realtà, l’idea di una causalità proporzionale non è legata al mondo della psicologia ed è stata accolta in passato non solo dalla dottrina giuridica, ma anche dalla giurisprudenza di legittimità, sino a essere ripresa da ultimo dalla Cassazione con la sentenza 16 gennaio 2009, n. 975. Oggi, tuttavia, è considerata superata, essendo consolidata (ad esempio, Cass. 24 febbraio 2023, n. 5737) la diversa visione, che affonda le radici nella tradizione, di chi nega che il concorso di una causa naturale possa essere rilevante ai fini della riduzione del risarcimento: visione che trae argomento dagli artt. 1227 e 2055 c.c., i quali sono interpretati quali espressioni di una policy che intende risolvere, a favore del primo, il conflitto tra l’interesse del danneggiato incolpevole a ottenere l’integrale risarcimento del danno e l’interesse del danneggiante, al quale è imputato l’illecito, a non assumere un carico di responsabilità superiore al suo apporto causale.
È rimasto isolato anche il tentativo di tenere conto del contributo della concausa naturale in sede di determinazione del danno, avvalendosi dei poteri equitativi del giudice ai sensi dell’art. 1226 c.c., nel caso deciso da Cass. 29 febbraio 2016, n. 3893: soluzione che può ritenersi corretta, ma che avrebbe meritato altra argomentazione, poiché si discuteva di una forma di asfissia prenatale provocata da errore medico e produttiva di lesioni cerebrali che incidevano sulla condizione di un neonato già affetto da sindrome di Down. Proprio con riferimento a questa vicenda, infatti, si sarebbe potuto tenere conto che la giurisprudenza e una parte della dottrina articolano il nesso causale in due segmenti con diversi sistemi di regole: oltre al nesso tra il fatto illecito e la lesione, si rinviene una connessione tra la lesione e le conseguenze risarcibili. È in quest’ultima sfera che la giurisprudenza più recente, a partire da Cass. 11 novembre 2019, n. 28986, ha attribuito rilevanza alla preesistenza di una menomazione, sottraendo al danno, calcolato sulla condizione finale della vittima, la quota di risarcimento riferibile alla situazione preesistente.
Tuttavia, non è da questa giurisprudenza che, almeno di regola, si possono trarre argomenti per una riduzione delle conseguenze risarcitorie del danno psichico. Diverso tipo di problema ricorre, infatti, nel caso in cui il danno psichico sia stato provocato da un intervento traumatico illecito che si evolve a causa della predisposizione naturale della vittima: qui non assume rilievo, almeno in via tipica, il nesso causale tra lesione e conseguenza dannosa sulla vita di relazione, ricadendo, piuttosto, tale fatto nel segmento della concatenazione tra illecito e lesione, soggetto, come si è illustrato, alla regola all or nothing.
6. Modello giuridico e cognitivo del dolo eventuale. (A cura di Giuseppe Sartori)
Il dolo eventuale richiede che l'agente, pur non volendo direttamente l'evento, accetti il rischio che esso si verifichi come conseguenza della sua condotta. La sentenza Tyssengroup ha introdotto la teoria del bilanciamento, dove l'agente, dopo aver valutato gli interessi in gioco, accetta consapevolmente l'evento dannoso come prezzo per raggiungere il proprio scopo. La prova del dolo eventuale è indiziaria ed è basata su una serie di fattori come: 1) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa, 2) la personalità e le pregresse esperienze dell'agente, 3) la durata e la ripetizione dell'azione, 3)il comportamento successivo al fatto, 4) la probabilità di verificazione dell'evento e infine 5) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione.
La sentenza Thyssenkrupp ha quindi spostato l'attenzione dal concetto di "accettazione del rischio" a quello di "accettazione dell'evento", richiedendo una maggiore attenzione alla volontà dell'agente e al suo effettivo processo decisionale. Il dolo eventuale ha come suo elemento centrale la “rappresentazione” delle possibili delle alternative, rappresentazione che è alla base della valutazione della probabilità delle conseguenze.
Le ricerche cognitive rilevanti per il dolo eventuale.
Gli studi cognitivi sfidano la presunzione di razionalità implicita nelle teorie giuridiche del dolo eventuale. Daniel Kahneman ha introdotto i concetti di Sistema 1 e Sistema 2 per spiegare le modalità di pensiero umano. Il Sistema 1 è rapido, automatico e intuitivo, mentre il Sistema 2 è lento, deliberato e analitico. La teoria dell'azione ragionata (TRA) spiega come le decisioni senza pressione temporale siano basate su valutazioni ponderate delle conseguenze e può essere vista come il corrispondente scientifico della teoria del bilanciamento adottata dalla sentenza Thyssenkrupp. Entrambe le teorie (giuridica e scientifica) presuppongono un agente razionale che valuta le conseguenze delle proprie azioni nel caso di decisioni senza pressione temporale. Il modello Tyssengroup, quindi, si può dire abbia una base scientifica quando si applica a processi decisionali che ricadono nell’alveo del sistema 2.
Tuttavia, in situazioni di emergenza o sotto pressione temporale, il cervello tende a usare strategie decisionali semplificate e impulsive (Sistema 1) , mettendo in discussione la capacità del diritto penale di valutare correttamente la volontà e l'intenzionalità dell'agente. Il Sistema 1 è rapido, automatico e intuitivo. Opera in modo inconscio e istintivo, permettendo di prendere decisioni immediate senza un grande sforzo cognitivo. Questo sistema si basa su euristiche, cioè scorciatoie mentali che ci aiutano a navigare nel mondo quotidiano. Ad esempio, riconoscere un volto familiare o reagire rapidamente a un pericolo sono compiti tipici del Sistema 1 così come ogni situazione in cui si reagisce d’impulso ad un pericolo. Tuttavia, proprio per la sua natura automatica, il Sistema 1 può essere soggetto a bias e errori di giudizio. Le scienze cognitive evidenziano come le decisioni umane siano spesso influenzate da fattori emotivi e irrazionali, aprendo nuove sfide per l'accertamento del dolo eventuale e suggerendo un approccio più integrato che tenga conto della complessità dei processi decisionali umani. In breve, quando la decisione avviene sotto pressione temporale, si dimostra empiricamente che manca la rappresentazione delle conseguenze e la loro valutazione del rischio rendendo così empiricamente inapplicabile il modello Thyssenkrupp.
Il contributo delle scienze cognitive alla comprensione del dolo eventuale offre una prospettiva innovativa, sfidando i modelli giuridici razionali. Questo apre nuove opportunità per sviluppare criteri più sofisticati per distinguere tra dolo eventuale e colpa cosciente, promuovendo un approccio ancorato ai dati empirici e scientifici disponibili.
7. Esigenze della regolazione giuridica e concetti della psicologia. (A cura di Angelo Costanzo)
Il linguaggio giuridico si serve sia del linguaggio comune, sia del linguaggio scientifico, sia di propri termini tecnici. Tuttavia, permane una differenza di obiettivi fra la conoscenza (o la terapia) e la regolazione giuridica delle condotte. Accade anche che, utilizzando termini dei quali andrebbe valutata la corrispondenza alle categorie scientifiche, il diritto produca ambiguità o che una condotta sia collocabile in due quadri di riferimento (non teorie compiute) auto-consistenti ma fra loro incompatibili[3].
Una ambiguità è produttiva, se viene risolta. Ma può anche mantenersi essere tollerata e preservata per evitare il palesarsi di incompatibilità disturbanti che richiedano scelte che non si è in grado di affrontare[4].
Del resto, se saperi diversi possono comprendere solo l’oggetto al quale i loro strumenti consentono di accedere, può fra loro stabilirsi un dialogo effettivo, individuando una lingua-franca (o lingua-ponte) per il diritto e le scienze della mente, come strumento di comunicazione tra soggetti di differente lingua-madre dotato di accettabile precisione?
Questo strumento dovrebbe privilegiare la direzione (i termini, i concetti) che va dal diritto alle scienze della mente o la direzione contraria? Chi ne ha proposto l’adozione ha ritenuto che dovrebbe basarsi su concetti neuroscientifici. Ma, presumibilmente, altre branche delle scienze della mente potrebbero proporre soluzioni. Differenti.
In ogni caso, se dei concetti giuridici non risultano abbastanza specifici da consentire una appropriata traduzione in termini dotati di significato per gli scienziati, allora gli esperti non devono fornire ai giuristi e loro opinioni sulla scorta di tali concetti.
In questi ambiti, ci si deve accontentare di una sorta di pidgin (il linguaggio che si forma mescolando lingue di popolazioni differenti, a seguito di migrazioni, colonizzazioni, commerci), che conduce a mere ipotesi su ciò che l’altra parte intendere significare, con rischi per l’adeguato trattamento dei casi giuridici[5].
Anche se non è auspicabile che la definizione dei presupposti della regolazione giuridica rimanga impermeabile alla evoluzione delle conoscenze, il legislatore e i suoi interpreti non sono tenuti a mutare le proprie categorie, perché, nel frattempo vanno emergendo nuove (non sempre consolidate) acquisizioni scientifiche[6].
Intanto, le valutazioni derivanti approccio scientifico a volte entrano surrettiziamente nei processi, travestite da massime di esperienza, con l’uso (più o meno appropriato) di termini mutuati dalle scienze della mente per introdurre opzioni soggettive, facendo leva sulla ambiguità dei significati e sulla facile traducibilità dei concetti utilizzati dallo psicologo in conoscenze diffuse (ma non per questo a tutti comuni).
Invece, le conoscenze specialistiche degli esperti non dovrebbero entrare nei processi per vie surrettizie e neanche attraverso le perizie e le consulenze in sé (che sono solo atti dei periti e dei consulenti), ma acquisite tramite l’esame degli esperti nel contraddittorio tra le parti, con il metodo dialettico, nella linea del razionalismo dialettico che informa la nostra cultura giuridica e che raccomanda di non trascurare i diversi apporti delle scienze e, al contempo, le conoscenze comuni.
[1] Incontro promosso dalla sezione di Psicologia Sperimentale della Associazione Italiana di Psicologia Sperimentale (AIP) e il Centro di ricerca sulla giustizia dei minori e della famiglia “Enzo Zappalà” dell’Università di Catania e svoltosi il 26 settembre 2024 presso il Dipartimento di Giurisprudenza.
[2] Riferimenti bibliografici: Conway, M. A. e Loveday, C. (2015). Remembering, imagining, false memories & personal meanings. Consciousness and Cognition, 33, 574-581.
Loftus, E. F. e Pickrell, J. E. (1995). The formation of false memories. Psychiatric Annals, 25(12), 720-725.
Schacter, D. L. (2022). The seven sins of memory: An update. Memory, 30(1), 37-42.
[3] G. Lolli, Ambiguità. Un viaggio fra letteratura e matematica, Bologna, Il Mulino, 2017, p. 22, 88, 146, 183 ss., 195 ss, 203.
[4] S. Argentieri, L’ambiguità, Torino, Einaudi, 2008, pp.100-113.
[5] J. W. Buckholtz -V. Reyna- C. Slobogin, A Neuro-Legal Lingua Franca: Bridging Law and Neuroscience on the Issue of Self-Control, Working Paper Number 16-32, in: Mental Health Law & Policy Journal.
[6] B., Magro, Scienze e scienza penale. L’integrazione tra saperi incommensurabili nella ricerca di un linguaggio comune, in: Archivio penale, 2019, n, 1, pp. 1-37.