I 30 anni della DNA, delle DDA e della DIA. 30 anni di legislazione contro il crimine organizzato: le origini e le evoluzioni del sistema antimafia*
di Giovanni Melillo
Saluto e ringrazio la Ministra della Giustizia, il Consiglio Superiore della Magistratura, la SSM e quanti contribuiscono con la loro partecipazione ai lavori di un corso così importante, poiché votato ad un ampio confronto sui tratti essenziali di una trentennale esperienza di contrasto della criminalità organizzata.
Avendo da pochi giorni assunto le funzioni di PNAA, dico subito che sono grandemente interessato ad ascoltare le tante e autorevoli voci raccolte attorno a quel progetto.
Seguirò attentamente, dunque, le varie sessioni del Corso, per trarne indicazioni utili al lavoro che a mia volta ho appena iniziato e che, come tutte le imprese umane appena complesse, abbisogna innanzitutto e soprattutto di ascolto.
Dallo sviluppo del dibattito verranno, infatti, indicazioni importanti anche nella prospettiva di lavoro della Procura nazionale, vale a dire dell’istituzione maggiormente dotata di carica innovativa fra quelle progettate per dare corpo, nel breve volgere di pochi mesi (dal marzo 1991, data di nascita dei servizi centrali di polizia, al novembre dello stesso anno, con l’istituzione della D.N.A., delle D.D.A. e della D.I.A.), ad un dispositivo antimafia che i fatti hanno dimostrato, anche in una prospettiva di comparazione europea e globale, essere stato il frutto di una coraggiosa e lungimirante azione riformatrice.
Un’azione riformatrice che complessivamente ruotava attorno ad una fondamentale intuizione di Giovanni Falcone, il quale capì, prima e meglio di tutti, che le indagini in materia di mafia hanno bisogno di una conoscenza profonda della struttura, delle regole e delle dinamiche di quelle organizzazioni criminali.
«In una società complessa come l’attuale, solo la specializzazione del sapere può consentire di comprenderla e dominarla» disse Falcone nel novembre del 1988.
Quella intuizione conduceva alla rottura di schemi tradizionali dell’organizzazione giudiziaria e delle sue gerarchie e regole interne.
Al mito del magistrato capace di applicare indifferentemente il diritto ad ogni caso sottoposto alla sua attenzione si sostituiva l’idea che le indagini antimafia, come già si era compreso per quelle sul terrorismo, possono essere condotte solo da magistrati capaci di comprendere e analizzare fenomeni criminali complessi.
L’architettura normativa delle funzioni del pubblico ministero si arricchiva così di nuovi e pregnanti concetti: la tempestività e la completezza delle investigazioni, l’effettività del coordinamento investigativo e della relativa, eteronoma funzione di garanzia, la funzionalità dell’impiego della polizia giudiziaria, la raccolta, l’analisi e l’elaborazione delle informazioni attinenti alla criminalità organizzata e l’intero complesso degli strumenti di orientamento e alimentazione delle indagini cui fu presto dato il nome di pre-investigazioni.
Non stupisce, pertanto, che, al di là delle stesse, laceranti polemiche che segnarono l’istituzione della D.N.A., la stessa concentrazione della legittimazione investigativa in capo alle sole procure distrettuali e per esse alle direzioni distrettuali antimafia fosse circondata da diffidenza e pregiudizio.
Non dimentico che, nel 1993, la prima circolare del CSM sull’organizzazione delle DDA fissò in soli sei anni il termine massimo di permanenza in tali strutture dei suoi magistrati e che tanto si motivava nella relativa delibera adducendo il timore della “formazione di centri di potere” e di “pericolose incrostazioni”.
In quel momento, per chi, come me, lavorava in una d.d.a., quelle parole apparivano incomprensibili.
Tant’è. Il sistema originato dalla legislazione del 1991 rivelò immediatamente, sia pure con non poche asimmetrie, obiettiva capacità di efficace interpretazione del ruolo del p.m. disegnato dall’allora nuovo codice di rito.
Divenne presto chiaro, in particolare, che l’effettività del coordinamento investigativo era essenziale per evitare di pagare un prezzo elevatissimo in termini di incisività delle indagini relative ai più gravi fenomeni criminosi, ma anche di credibilità del sistema giudiziario.
Dunque, specializzazione estrema del lavoro giudiziario, quale condizione del governo razionale di tecniche investigative sempre più sofisticate.
Ma anche possesso di profonde conoscenze interdisciplinari, aprendosi il bagaglio culturale del magistrato al sapere sociologico e economico, necessario alla comprensione di fenomeni e dinamiche criminali complessi, sempre più proiettati su scala transnazionale e perciò bisognosi di un’intensa azione di cooperazione internazionale, sviluppata attorno ai medesimi cardini del coordinamento investigativo interno: la condivisione tempestiva delle informazioni e delle analisi e la capacità di efficace concertazione delle diverse, autonome iniziative.
Profetica fu l’attenzione riservata nel pensiero di Falcone al valore cruciale delle tecnologie poste al servizio delle indagini.
Alle norme del 1991, infatti, si deve l’introduzione nel codice del concetto di banche dati.
Un valore, quello delle tecnologie, ancor più decisivo oggi, nel tempo dell’Intelligenza Artificiale, destinato a determinare la trasformazione delle categorie del diritto penale classico, ma anche a divenire strumento formidabile di prevenzione e repressione di condotte criminali del tutto nuove.
Un terreno, quello attraversato dalle tecnologie impiegate a fini investigativi, tanto delicato, anche per la sorte delle garanzie individuali, quanto cruciale e perciò bisognoso di consapevoli e unitari approcci organizzativi degli uffici del pubblico ministero.
Soprattutto in questo ambito, infatti, alla subalternità cognitiva del pubblico ministero corrisponde un obiettivo rischio di svuotamento della funzione di direzione delle indagini che la legge gli assegna. Non poche, recenti vicende processuali offrono emblematica rappresentazione della concretezza di quel pericolo.
Quelle medesime categorie concettuali - specializzazione, interdisciplinarietà, capacità di governo delle tecnologie e di proiezione internazionale delle indagini – conservano tutto il loro fondamentale valore per affrontare le sfide che abbiamo di fronte.
Ma sono strumenti essenziali anche per preservare e valorizzare il nucleo originario della missione dell’ufficio che ho assunto la responsabilità di dirigere.
Perdonerete, se il mio intervento introduttivo esigerà ancora qualche minuto, ma l’occasione è importante anche per offrire, innanzitutto ai procuratori distrettuali, alcune osservazioni utili ad una prima definizione delle linee di orientamento futuro dell’azione della D.N.A., come tali suscettive di poter divenire immediatamente oggetto di confronto con i magistrati delle procure distrettuali.
Non nasconderò, infatti, il mio convincimento che occorra costruire un rapporto nuovo con gli uffici distrettuali.
Un rapporto che deve ispirarsi ad una visione orizzontale dei rapporti di coordinamento, lontana da pulsioni e impronte autoritarie, burocratiche e autoreferenziali, perché basata sulla condivisione di analisi, metodi e obiettivi del lavoro investigativo delle procure distrettuali.
Banalmente, vi è concreto e urgente bisogno:
- di aprire l’organizzazione della DNA alla partecipazione dei magistrati delle procure distrettuali: la sua stessa organizzazione interna non è pensabile, a mio avviso, prescindendo dal confronto con i procuratori distrettuali;
- di ridurre le distanze dal lavoro e dai bisogni delle procure distrettuali,
- di operare il coordinamento partendo dalle strategie investigative degli uffici distrettuali,
- di sostenere le indagini delle procure distrettuali, per estenderne la portata e svilupparne gli obiettivi, ma soprattutto per evitarne l’isolamento cognitivo e la frammentazione, rafforzandone la capacità di individuare le componenti più sofisticate del ciclo criminoso e, nello stesso tempo, impegnandosi a controllare i rischi propri di pericolose frammentazioni.
Dunque, occorre che la Procura nazionale pianti fermamente i piedi nel faticoso terreno delle indagini e dei processi.
In una battuta: meno intelligence e più lavoro giudiziario, negli uffici distrettuali, accanto agli uffici distrettuali, per gli uffici distrettuali, ripudiando ogni visione competitiva ed espansiva del ruolo processuale della DNA, rafforzando l’effettività delle funzioni di impulso e coordinamento investigativo.
In questa prospettiva, appare necessario sia consolidare le esperienze positive che innovare profondamente, nel segno di una funzione di servizio che è propria della giurisdizione e che deve esercitarsi secondo le rigorose logiche della giurisdizione, evitando il rischio di scivolamento in una impropria dimensione di prevenzione criminale lontana dalle concrete prospettive del lavoro delle procure distrettuali.
Esiste, peraltro, io credo, una diffusa e crescente domanda, oserei dire, di maggiore immersione della Procura nazionale nella dimensione operativa delle indagini che impegna e affanna quotidianamente le procure distrettuali.
Una domanda per certi versi paradossale e per altri molto confortante:
- paradossale, perché resiste al pur deciso incremento delle prerogative processuali della Procura nazionale realizzatosi nel tempo;
- confortante, perché ormai sostenuta da una diffusa e matura consapevolezza dell’importanza del ruolo della PN negli uffici distrettuali, superandosi le resistenze e gli ostacoli che, più o meno apertamente, il suo esercizio incontrava in passato.
Le procure distrettuali hanno ormai imparato a lavorare insieme.
Lo dimostra la pratica assenza negli ultimi anni di casi di contrasto, ma soprattutto una comune, costante vocazione a condividere obiettivi e metodi di lavoro, necessaria per isolare e contrastare ogni spinta contraria, di per sé generatrice di aporie, contraddizioni, tensioni e conflitti, tanto incomprensibili all’opinione pubblica quanto capaci di minare la credibilità della nostra azione.
Disponiamo per fortuna di patrimonio di esperienze comuni di straordinario rilievo, come non mancheranno di sottolineare le relazioni affidate ai Procuratori distrettuali, di ieri e di oggi.
Un patrimonio fondamentale per affrontare le sfide poste dalla velocità delle trasformazioni dei fenomeni criminali, su scala regionale e globale.
Molti ancora pensano che le mafie siano espressione di società dal tessuto economico debole e arretrato.
Una sorta di riflesso della povertà di quelle società.
La realtà dimostra invece che quelle organizzazioni criminali sono invece espressione e strumento di ricchezza economica e di raffinati processi di espansione speculativa.
Falcone diceva dei mafiosi che “avranno sempre una lunghezza di vantaggio su di noi”.
Un modo semplice per indicare un dato assai più complesso, che attiene alla capacità delle organizzazioni criminali di agire nel mercato, di immettere nel mercato la loro intelligenza, la loro conoscenza della modernità e delle sue tecnologie, il loro spirito di intraprendenza e la loro spregiudicata capacità di cogliere ogni opportunità di profitto.
Avere chiaro questo punto è essenziale per comprendere i nuovi scenari.
Ma anche per esplorare le difficoltà del ragionamento probatorio alle prese con fenomeni in costante trasformazione.
Un’analisi realistica di tali realtà ci indica la necessità di saggiare prudentemente il già visibile rischio di inadeguatezza di non poche categorie del diritto penale classico a riflettere e ad abbracciare ruoli e condotte propri della sempre maggiore complessità dei sistemi di relazioni che ruotano attorno a presenze e interessi prettamente mafiosi.
Sul primo versante, si staglia in tutta la sua impellente necessità, l’importanza di costruire impianti investigativi nutriti dalla consapevolezza della complessità degli scenari relazionali che connotano l’incontro fra organizzazioni mafiose, impresa e mercati e funzioni pubbliche di controllo.
In particolare, emerge l’importanza di adottare modelli interpretativi di quella così complessa realtà idonei a cogliere gli snodi dei reali processi decisionali che governano relazioni sempre più complesse e che sfuggono sovente alle categorie concettuali del delitto associativo.
Molti si affannano a stilare classifiche di pericolosità delle mafie, quasi ci fosse una speculare graduatoria di tollerabilità dei fenomeni mafiosi.
Per questa via si perdono di vista i processi di integrazione dei mercati e di strutture criminali delle quali si è grandemente espansa la dimensione transnazionale.
Anche questo ci aiuta a dire che le mafie non sono questioni solo italiane e tanto meno solo del Mezzogiorno d’Italia.
Sono questioni europee e internazionali, che investono le responsabilità di tutti gli Stati e della comunità internazionale.
A questa idea è indissolubilmente legato il destino dei processi di integrazione europea che anche la drammatica realtà di queste settimane di guerra ci dimostra sempre più necessari ed urgenti: in sintesi estrema, ci aiutano le parole di Mireille Delmas Marty, il superamento della logica della souveraineté solitaire”, in vista della creazione in Europa di una souveraineté solidaire.
Le mafie non sono un’emergenza.
Tanto meno un’emergenza cui alcuni Stati possono guardare con preoccupazione minore.
Esse sono connotazioni strutturali di parte significativa dei processi economici che si realizzano in ambiti nazionali, regionali e globali.
Alle organizzazioni mafiose corrisponde il movimento di autentiche costellazioni di imprese, che continuano a nutrirsi dei profitti delle tradizionali attività illegali, ma che operano nei mercati utilizzando con naturale abilità gli strumenti della frode fiscale e della corruzione, che sono largamente conosciuti e praticati nel mercato e dal mercato.
In altre parole, dinanzi alla pressione esercitata dai flussi di denaro provenienti dai grandi traffici criminali e dalle correlate strategie di reinvestimento speculativo, occorre riconoscere che non siamo in presenza di fenomeni e fattori di oppressione dei mercati legali, quanto di sistemici e raffinati processi di alimentazione finanziaria e di intermediazione relazionale del sistema economico e finanziario di parte significativa dell’Europa.
Da ciò l’importanza di disporre di regole comuni, per ridurre le asimmetrie e le contraddizioni dei sistemi nazionali.
L’efficacia e la maturità del dispositivo antimafia italiano consente di guardare con fiducia alle sfide che abbiamo di fronte. A condizione che siano preservate alcune condizioni del suo efficace dispiegamento.
Il nostro sistema sarà presto chiamato a dare coerente attuazione alla trama di principi delineata dal magistero costituzionale per superare la logica dell’assoluta ostatività delle condanne per delitti di mafia e terrorismo alla concessione di benefici e misure alternative alla detenzione.
Nell’imminenza del varo delle nuove norme, sono dunque necessarie analisi non condizionate da illusioni e pregiudizi, poiché ciò è essenziale per abbandonare le sponde dell’allarme catastrofista, ma anche per conservare consapevolezza che la materia è intrisa di delicati e complessi significati simbolici dei quali occorre tenere il massimo conto, poiché l’efficacia complessiva dell’azione di contrasto delle mafie e del terrorismo dipende anche dalla difesa di alcuni valori emblematici dell’attuale legislazione.
Una consapevolezza che, tuttavia, non sembra riflessa pienamente nella scelta prefigurata nel testo approvato dalla Camera dei Deputati di prevedere, ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari, una distinzione fra condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico, a seconda che tali delitti siano stati commessi o meno mediante “atti di violenza”.
Sembra quasi un’eco distorta di quelle dottrine d’oltralpe in tema di asilo, in passato invocate per negare all’Italia cooperazione giudiziaria, ma che anche in quei sistemi non hanno mai trovato espressione legislativa.
Soprattutto non posso tacere le mie preoccupazioni sulla capacità del sistema penitenziario e giudiziario di reggere adeguatamente il peso del prevedibile impatto applicativo delle norme oggi prefigurate, in mancanza di urgenti adeguamenti delle infrastrutture tecnologiche, dei sistemi informativi e delle risorse complessivamente disponibili per l’esercizio dei nuovi compiti affidati alla magistratura di sorveglianza.
I dati aiutano a misurare il potenziale impatto applicativo delle nuove disposizioni.
Sono circa 16mila i detenuti per delitti di cui all’art. 4-bis o.p., dei quali circa 10mila condannati definitivamente; di essi circa 13mila sono tali per delitti di cui al primo comma dell’art. 4-bis (dei quali circa 8mila condannati definitivamente), essendo poco più di 1.200 i detenuti per delitti di cui all’art. 4-bis condannati alla pena dell’ergastolo.
Per la sua cronica debolezza strutturale, ben difficilmente il sistema penitenziario potrà rivelare piena e immediata capacità di restituire informazioni qualificate e affidabili sulla condotta inframuraria e gli esiti del trattamento di un tal numero di persone detenute per delitti di mafia.
Soprattutto, ciò che preoccupa è la visione delle reali condizioni di lavoro della magistratura di sorveglianza, alla quale si richiede di assumere una straordinaria responsabilità.
Responsabilità tanto più gravosa se si considera, da un lato, il deciso innalzamento degli oneri motivazionali e, dall’altro lato, la previsione della potestà di disporre (e di valutare) complessi e defatiganti accertamenti patrimoniali, reddittuali e sul tenore di vita delle persone legate al condannato da vincoli familiari.
Certo colpisce che, mentre chi sceglie la collaborazione con la giustizia è tenuto ad integrale e immediata esposizione delle informazioni relative alle proprie ricchezze, per chi sceglie di non collaborare l’accesso ai benefici risulta svincolato da ogni onere di allegazione su un versante invero sovente decisivo per valutare l‘effettiva recisione dei legami criminali.
Soprattutto, le esigenze di garanzia di una corretta ed uniforme attuazione delle scelte legislative che si profilano esigono, in particolare, l’urgente apprestamento presso i tribunali di sorveglianza di interventi di deciso potenziamento delle infrastrutture tecnologiche nonché l’apporto di risorse analoghe a quelle destinate agli altri uffici giudicanti per le attività proprie dell’Ufficio per il processo.
Rispetto alle difficoltà che possono scorgersi attraverso la lente delle concrete condizioni gestionali di quei tribunali, appare di gran lunga meno preoccupante la pur rilevantissima difficoltà delle verifiche e degli adempimenti cui saranno chiamati la procura nazionale e le procure distrettuali, poiché, in ogni caso, quel che dovrà farsi, sarà fatto, e sarà fatto per il meglio, per gravoso che sia.
Anche questo contribuisce a rendere attuale il cruciale valore della relazione fra effettività della giurisdizione e capacità di governo razionale della sua organizzazione.
Una relazione che interroga innanzitutto la visione del lavoro giudiziario di ciascun magistrato, riflettendo quella, più profonda, che esiste fra lo statuto di indipendenza della magistratura e la sua responsabilità dinanzi alle domande sociali di trasparenza ed efficienza, ma anche di rigore e compostezza dei comportamenti individuali, imponendosi di tenere distanti da sé la tentazione di presentarsi come depositari dell’etica pubblica e di cedere alla vanità e ai precari vantaggi del circuito mediatico.
Una relazione - quella fra efficacia dell’intervento giudiziario e modernità dei suoi assetti organizzativi - che mal sopporta il peso della continua moltiplicazione degli adempimenti burocratici e della conservazione di approcci corporativi e autoreferenziali ai problemi dell’organizzazione degli uffici giudiziari.
Un peso che rischia di accrescere se venisse data attuazione ad una direttiva di delega contenuta nelle pieghe della legge di riforma dell’ordinamento giudiziario appena approvata dal Parlamento che mi sembra essere sfuggita all’attenzione generale.
Mi riferisco alla disposizione (art. 1, comma 2, lett. c) che prevede di subordinare l’efficacia dei provvedimenti organizzativi fondamentali degli uffici giudiziari, anche di quelli requirenti - a meno di dover attendere la necessaria approvazione del CSM e, dunque, la positiva conclusione di un procedimento dai tempi assai lunghi - alla condizione che non vi siano osservazioni dei magistrati e che il Consiglio Giudiziario abbia espresso parere favorevole all’unanimità.
Non credo vi siano altri esempi di organizzazioni umane che subordinino al consenso unanime dei loro componenti la tempestività e dunque la pratica efficacia delle misure necessarie al loro buon funzionamento.
Né credo che una regola del genere sia in grado di assecondare l’adozione delle misure organizzative maggiormente proiettate verso il cambiamento di un sistema, come quello giudiziario, quanto mai bisognoso di rafforzare i propri legami di responsabilità sociale.
Eppure, la storia della magistratura dimostra quanto quei legami siano importanti per l’efficienza e la trasparenza della giurisdizione e persino come e quanto tale importanza sia stata immediatamente chiara anche alle organizzazioni criminali che hanno avuto ragione di temerne la capacità di innovazione organizzativa.
Mi riferisco, in particolare, al lugubre comunicato di Prima Linea, con il quale 42 anni fa veniva rivendicato il feroce assassinio di Guido Galli, additato, testaulamente, come giudice “impegnato in prima persona nella battaglia per ricostruire l’ufficio istruzione di Milano come un centro di lavoro giudiziario efficiente, adeguato alle necessità di ristrutturazione, di nuova divisione del lavoro dell’apparato giudiziario, alle necessità di far fronte alle contraddizioni crescenti del lavoro dei magistrati di fronte all’allargamento dei terreni d’intervento e … alla contemporanea, crescente paralisi del lavoro di produzione legislativa delle camere…”.
Si potrebbe dire che anche i terroristi di allora erano un passo avanti a noi, come i mafiosi nella definizione di Falcone che ho prima ricordato e che sarebbe buona cosa non dimenticare mai.
*Intervento introduttivo al Corso della Scuola Superiore della Magistratura, Roma, 20 giugno 2022.