Sommario: 1. Formazione all’essere mediatori ancor prima di fare i mediatori - 2. Come realizzare il senso della mediazione con onore - 3. Il mio pensiero sulla formazione - 4. Esiti dell’indottrinamento - 5. Oltre lo strato raggiungere il substrato.
1. Formazione all’essere mediatori ancor prima di fare i mediatori.
Poco, mi pare, fin ora si sia riflettuto sulla formazione del mediatore dei conflitti e circolano proposte di formazione per gli aspiranti mediatori pericolose, imbarazzanti, costose.
Vanno fermate. Va viceversa ampliata l'offerta di proposte serie. Vanno diffusi tra chi vuole avventurarsi in questo campo, i criteri per scegliere tra le offerte formative più o meno commerciali e banali.
Questo mio contributo spera di dare un apporto alla riflessione e alla ricerca del modello di formazione idoneo a preparare seriamente questa figura professionale, nuova ed impegnativa ma utilissima, tenendo sullo sfondo la necessità di far conoscere alla società civile la natura del nuovo istituto giuridico e diffonderne la cultura.
La mediazione dei conflitti è UNA GIUSTIZIA ALTRA E ALTA. Anzi molto alta e difficile, come tutto ciò che mette al centro la persona con il suo mistero: una complicata macchina che ci tiene in affanno[1].
Si tratta quindi di una giovane scienza, che deve fare ancora tanto cammino. Quello finora avviato è niente rispetto a quello che ancora occorre. È niente rispetto alla ricerca teorica e pratica che nei secoli tanto ha riguardato la giustizia ordinaria e la sua giurisdizione. È niente rispetto alla creazione di un modello di formazione all’essere mediatori ancor prima di fare i mediatori.
Siamo nella linea di pensiero che costruisce una modalità inusuale di rispondere al bisogno di giustizia della persona e questa richiede una conversione culturale. Pone il valore dell'et et, della responsabilità al posto della delega, della cooperazione al posto del potere, della competizione e della sopraffazione. Valori che contrastano molto col pensiero comune.
Per promuoverli nei confliggenti nelle sedute di mediazione ben li deve prima praticare il mondo di chi a vario titolo si occupa di mediazione.
Quindi il tema della formazione deve essere radicalmente ripensato per qualità e quantità. Lo statuto epistemologico della formazione del mediatore deve divenire un urgente oggetto di studio e di elaborazione culturale. Attualmente si potrebbe osare chiedersi: What is?
Per questo occorre darsi il coraggio di aprirsi a questa sfida che appare titanica, la più grande del nostro tempo: cambiare il concetto stesso di giustizia, farlo evolvere, completarlo.
Questa rappresenta una vera aporia, quella che Jacques Derrida ha definito «l’esperienza dell’impossibile»[2].
Senza coraggio, senza il rischio e l’impegno si consegna all’insignificanza la riforma di civiltà che introduce pervasivamente il concetto di mediazione.
2. Come realizzare il senso della mediazione con onore
Definita l’epistemologia della mediazione il passaggio successivo sarà realizzarla con onore. Si è chiamati infatti a saper gestire un setting appropriato e sempre originale, così come unico è sempre un conflitto interpersonale, qualunque sia la materia del contendere.
Quando si riesce ad offrirlo, oltre ogni protocollo predeterminato e rigido, si restituisce alle parti la possibilità di trovare da sé la soluzione alla questione che li oppone, senza delegarla ad un terzo, il giudice, il professore, il dirigente, il genitore. Si accetta di vederne il significato relazionale che lo ha generato con il suo incepparsi tanto umano quanto frequente, fatto di malintesi, di malevoli intenzioni, di soprusi, di giochi di potere, di truffe, ecc. La diversità dei punti di vista diviene dialogo, confronto ed arricchimento e quindi rielaborazione e conseguente risoluzione del conflitto. A ciò può portare la mediazione solo se ogni applicazione è di spessore e induce un’esperienza di vita, veramente umana, che consente perfino a chi è stato ‘ingiusto’ di “riaggiustare” se stesso e la propria vita. Mediare, in tutti gli ambiti, significa pertanto realizzare una giustizia, profondamente anelata da ogni essere, che pone al centro la persona in carne ed ossa e la sua relazione con l'altro.
Il percorso può essere anche difficile, ma ne vale la pena in quanto è volto a rimuovere le cause del dolore che ogni conflitto, ogni contenzioso produce. Prendendosi cura dell’uomo, la mediazione è quindi la risposta più radicale e deflattiva, forse risolutiva del problema Giustizia.
Migliora la società costruendo le basi di un nuovo umanesimo, su un piano vicino ai valori più alti.
Quindi va ben indagato il modello operativo da applicare, che la collochi in un orizzonte di valore che è interessante ricercare e perseguire perché possa essere un volano di cambiamento migliorativo della risposta al bisogno di giustizia della persona.
Io studio e applico il modello umanistico-filosofico che mi consente di arrivare a livelli profondi della contesa, è un modello che evita che un procedimento, nato per consentire un confronto libero tra i protagonisti delle vicende conflittuali, condizione che permette quel sostanziale riavvicinamento che un procedimento formalizzato, qual è il giudizio, impedisce, diventi una prassi di seconda categoria. Sarebbe questa un’opportunità persa. Una risposta mancata.
Il nostro senso di responsabilità dovrebbe chiamarci tutti a sentirci coinvolti in questa svolta di civiltà che l’istituto della mediazione, ben attuato, consente. Ognuno è chiamato a conoscerla, a capirne la portata e difenderla. Tutti dobbiamo convergere verso un modello che eviti che la società abbia un servizio “povero”, orientato solo al "fare".
3. Il mio pensiero sulla formazione[3]
La formazione è un’operazione complessa che non può essere confusa con l’informazione, con una dotta lezione frontale, con il riassunto di una buona lettura fatta o di un buon testo di cui il docente è autore. Questo può essere consegnato allo studio individuale, oltretutto più proficuo: il corsista, di solito un laureato, sa bene capire quel che legge, soffermandosi, sottolineando, metabolizzando e mettendo in discussione. Non ha bisogno di un docente che gli offra una sintesi.
È inaccettabile che i cenni di operatività, ove presenti, i momenti di laboratorio, si concentrino sulle tecniche. Restino ancorati solo nel campo del fare. Spesso vengono solo presentati con slides o con qualche esercitazione imitativa.
Attualmente ci sono molti modelli operativi. Per padroneggiarli è necessario mettersi in situazione e provarsi. Utile in formazione è incontrarne più di uno. Forse occorrerebbe tutto il monte ore totale degli attuali corsi solo per scoprire le potenzialità di ognuno di questi. Certamente comunque non basta ascoltarne la presentazione. Né si tratta di addestrarsi. Ogni mediazione è un “vestito su misura”. Ogni conflitto è unico anche se i motivi oggettivi sono sempre gli stessi. Quelli soggettivi sono sempre diversi. Scoprire più protocolli operativi è certamente il modo di attrezzarsi con strumenti molteplici che poi, di volta in volta, il mediatore sfodererà e userà al momento opportuno. Una varietà da cui ciascun corsista partirà, che poi porterà a sintesi fino a giungere a costruire un proprio stile. Vanno tutti bene, nella logica del modus pensandi della mediazione: et et.
Inoltre mi piace invocare più che un modello di tecniche di mediazione, un mediatore che crea modelli di tecniche.
Quel che lascia sconcertati per la pericolosità e la banalità che sottende, è il modo prevalente di apprendere e di insegnare tali modelli nelle proposte di corsi.
Va di moda la scaletta di “istruzioni per”, tanto amate, in vero, dai corsisti che si sentono rassicurati da un elenco di pratiche vincenti, di frasi fatte che magicamente sgretolano i contrasti, di stock di procedure da imitare. Ma il formatore deve sapere resistere a questa richiesta. Assecondarla sarebbe un tranello: come dare una sicurezza illusoria e deludente a breve e a lungo termine.
Onestamente, chi ne ha letta qualcuna, può dire di essere riuscito ad applicarla ottenendo le promesse di efficacia che prometteva? È riuscito a diventare abile e ad applicare le istruzioni così lusinghiere ricevute? Di solito no, semmai ha aumentato il senso di frustrazione: “credo di sapere come si fa, eppure…”
Allo stesso modo la visione di un tutorial insinua l’idea di diventare subito esperti nella gestione delle più disparate questioni conflittuali, come se fosse ovvio ed automatico sapere come e dove “mettere le mani”.
Il giudizio su molte offerte di formazione non muta qualora a sostegno dei programmi didattici vi siano slides o filmati, né quando i corsi hanno assunto tratti più operativi, addestrando – mediante riprese video di simulazioni ‘interpretate’ dagli stessi discenti – all’acquisizione delle tecniche, indipendentemente dal modello di mediazione a cui esse si riferiscono o dall’ambito in cui le stesse dovrebbero essere applicate.
Stereotipate formule di rito riscontrabili spesso nei video che tanto copiosi, quanto ripetitivi, sono reperibili in rete o in libreria, o peggio, i software di gestione del procedimento, la cui supponente pretesa è ‘ammaestrare’ i mediatori, mostrando loro ‘come si fa”, o peggio, ‘cosa si deve replicare’.
A volte gli interessati hanno pensato perfino di poter strutturare la propria identità di mediatore e le necessarie capacità attraverso l’interazione con immagini e situazioni cui si attribuiscono in modo fabulistico ed autoreferenziale le fattezze che si desiderano, ‘giocando’ così in forma anche piacevole ed accattivante con trame che hanno l’unico difetto di essere tanto finte, quanto superficiali: dei videogames che, in definitiva, creano la falsa convinzione di acquisire tecniche di relazione serie ed efficaci. Una contraddizione in termini, un paradosso.
Simulare virtualmente può risultare, al di là di ogni ingenua speranza, un triste imbroglio autoconsolatorio.
4. Esiti dell’indottrinamento
Il risultato che ne segue è un superficiale indottrinamento, che tanto danno ha arrecato alla professionalità e all’autorevolezza che invece la collettività deve riscontrare nel ruolo di mediatore. È troppo alto il numero di mediatori inidonei in quanto sprovvisti tanto di una adeguata consapevolezza del loro delicato ruolo, quanto di una reale preparazione. Così si determina, amaramente, lo status di una professione di secondo piano, o, addirittura, di un istituto subìto che si squalifica degradandosi in un involontario ostacolo all’accesso alla giustizia. Persino può divenire uno strumento per addomesticare il riconoscimento dei diritti in nome di una salomonica ‘via di mezzo’, di rinunce più o meno pesanti magari con blandizie e manipolazioni, o semplicemente forme di sdolcinato buonismo.
In questo modo chi ha l’onore e il privilegio di elaborare l’offerta formativa, risulta protagonista, più o meno consapevole ma gravemente colpevole, dello screditamento del ruolo dei mediatori, oltre che della stessa mediazione.
Il formatore inoltre è altro dal docente. Il compito del buon formatore, e bene lo sa chi offre corsi di formazione d’eccellenza, di cui cura perfino i minimi dettagli, è di creare degli allievi non imitatori ma autonomi generatori di procedure. Per questo è auspicabile in una buona proposta formativa che il docente si astenga, non solo dal porsi come modello da imitare ma anche dal solo raccontare quello che lui ha fatto nelle varie situazioni: ciò può bloccare nell’allievo il suo processo creativo e progettuale, senza il quale non può avvenire la formazione vera.
5. Oltre lo strato raggiungere il substrato
Comunque sia il tema delle tecniche è quel che io considero lo “strato”. Oltre, e prima, c’è il “substrato”: il modo di essere nel profondo del mediatore, che attiene ai concetti dell’antropologia filosofica. Io ho raccolto i concetti più significativi e per ciascuno ho strutturato un seminario intensivo di due giornate dove le alimentazioni culturali sono solo l’input di un lavoro che poi si svolge tutto nell’interiorità, nella scoperta dei preconcetti e delle convinzioni sedimentate, delle paure e dei blocchi. Nel vivere esperienze strutturate ad hoc per far fare contatto con il proprio sé, dove ogni cosa assume una cifra diversa, una connotazione emotiva personale, una forza inibente squisitamente propria e spesso indicibile.
Infatti la consapevolezza della propria dimensione umanistica la si sviluppa e la si raggiunge non attraverso il detto ascoltato ma attraverso il proprio sentito, attraverso un fare riflessivo, attraverso un “gioco” sapientemente guidato dal formatore e delicatamente commentato nel gruppo. Il tutto frutto di una conoscenza della scienza della formazione, che tenga conto della persona umana e dei suoi vissuti soprattutto conflittuali.
Ovviamente questa formazione richiede la presenza fisica. Non può essere fatta on line. Simbolicamente è coadiuvante che il corsista “esca” da casa, interrompa il ritmo quotidiano, e “vada verso” una occasione di cura di sé, di introspezione, di riflessione, di silenzio. Che “resti” in un “luogo “protetto” dove possa guardare ed essere guardato dai compagni di questa avventura e provarsi anche in simulazioni che possono prevedere la messa in gioco del corpo, lo scambio relazionale, con più persone del gruppo o con un partner.
Uscire da, andare verso, restare nel, luogo protetto, scambi relazionali, rimandano a concetti, che altrove abbiamo già sviluppato, e che sono i pilastri della mediazione. Il luogo protetto è la stanza della mediazione, in esso si sosta nel conflitto e si prova ad uscire da sé per incontrare l’altro.
Inoltre vedo due macroaree nella formazione. La parte destruens, che svela e scardina le categorie culturali di provenienza, i motti e le regole dalla famiglia e del contesto sociale, i pregiudizi e le paure. E la parte costruens che fonda i nuovi pensieri evolutivi, le nuove mappe mentali più rispondenti alle istanze del nostro tempo.
Questo il lavoro a cui ritengo debba essere dedicato il miglior tempo concesso dalle indicazioni ministeriali. Su questa base di formazione, comune a tutti gli ambiti di applicazione della mediazione, si innesta facilmente e senza ostacoli l’apprendimento delle tecniche, specifiche e differenziate.
Ma cosa significa studiare se stesso secondo il punto di vista antropologico e filosofico?
Significa imparare a conoscere come si reagisce, non solo a livello razionale ma soprattutto emotivo ed affettivo, nella dinamica relazionale. Con se stesso e con gli altri.
Mediante gli stimoli forniti da un formatore che ben padroneggi queste manifestazioni, si impara a intercettarne gli aspetti problematici, li si sperimenta in primis sulla propria pelle. Sono molteplici, per questo la formazione richiede tempi lunghi e lenti, ha bisogno di corsi ricorrenti. Fatti di un lavoro mai ripetitivo, perché centrato sulla persona, sempre originale e quindi irripetibile; che sceglie di fare un cammino dove nessuno può barare, né con gli altri, né tantomeno con se stesso. Pena il fallimento.
Si tratta di un piano di formazione continua, che non finisce mai se è vero che occorre rinforzare quanto acquisito e rinnovarlo nel tempo, per evitare che la formazione raggiunta si isterilisca determinando una sorta di analfabetismo di ritorno.
Gli aspetti problematici della relazione sono tanti e complessi. Il percorso di formazione li deve tutti sondare. Per dare un’idea dell’impegno serio e profondo richiesto ai corsisti e al formatore stesso si può avviare un parziale elenco di alcuni concetti come:
vincere/perdere/donare/ben-essere/responsabilità/diversità/dignità/autostima/spaziovitale/giusta distanza/compassione/intelligenzaemotiva/comunicazioneprofonda/silenzio/autenticità/identità/ascolto empatico/nongiudicare/nonconsigliare/fiducia/cambiamento/paura/coraggio/limite/forza/autodeterminazione/relazione/prepotenza/gelosia/invidia/aggressività/furbizia/sotterfugio/menzogna/vendetta/sopraffazione.
Sono tante le sfumature che intervengono nelle criticità della vita relazionale, dove si manifestano situazioni di luce e zone d’ombra. Fanno parte della nostra vita quotidiana e per questo non possono mancare nella formazione del mediatore che si trova ad affrontare nel suo lavoro questa complessità. Ormai è noto a tutti, anche se nella prassi sembriamo dimenticarcene, che nella comunicazione quel che conta non è quel che si dice ma quel che si è. Importante è quindi l’intenzione che sta dietro a ciò che diciamo.
Per questo il mio convincimento, correndo il rischio della ripetitività, come un mantra, è: se si sa “essere”, gli strumenti operativi diventano efficaci, come avviene per gli strumenti musicali. Le loro potenzialità si esprimono in base a chi li suona, c’è chi li suona in modo scolastico, chi da grande maestro, chi da eccellenza assoluta. Chi da apprendista stregone.
“Piuttosto che niente preferisco piuttosto” recita un detto popolare; relativamente ad un professionista mediatore che ha conosciuto solo il fare, io dico senza dubbio: “meglio il niente”.
[1] Giovanni Cosi, Potere diritto interessi. Introduzione alla gestione dei conflitti, Libreria Scientifica, 2011; L'accordo e la decisione. Modelli culturali di gestione dei conflitti, Utet 2017.
[2] Jacques Derrida, Forza di legge. Il Fondamento mistico dell'autorità, Bollati Boringhieri, 2003; Confessare l'impossibile. Pentimento e riconciliazione, Cronopio, 2018 ; Dal diritto alla filosofia, Abramo, 1990.; Al di là delle apparenze. L'altro è segreto perché è l'altro, Mimesis, 2010.
[3] Il tema è trattato più dettagliatamente nel saggio La formazione del mediatore, Utet giuridica, 2013 e in Il senso della mediazione dei conflitti, Giappichelli, 2024.
Immagine: Sebastiano del Piombo, Giudizio di Salomone, 1505-1510 circa, olio su tela, Kingston Lacy, Wimborne Minster, Regno Unito.