Radici e valore del codice di procedura civile
di Paolo Spaziani
Sommario: 1. Le origini del “codice del 1940”. Il Ministero Oviglio, la sottocommissione C e il progetto Carnelutti. - 2. Il Ministero de Francisci, il legislatore solitario e il progetto Redenti. - 3. Il Ministero Solmi, una nuova commissione e i progetti preliminare e definitivo. - 4. Il Ministero Grandi, il comitato ristretto e il nuovo codice. - 5. Il codice di Chiovenda o il codice di Calamandrei? - 6. Calamandrei e i suoi maestri. La missione del giurista e il valore del codice.
1. Le origini del “codice del 1940”. Il Ministero Oviglio, la sottocommissione C e il progetto Carnelutti.
Ha ottantadue anni il codice di procedura civile, detto “del 1940”, ma in realtà entrato in vigore il 21 aprile 1942.
Il codice fu emanato in attuazione di una legge di delega approvata quasi un ventennio prima, la legge 30 dicembre 1923, n.2814[1].
Il primo tentativo di attuare la delega fu autorevolmente compiuto tra il 1924 e il 1926, nell’ambito della commissione per la riforma dei codici formata dal Ministro guardasigilli Aldo Oviglio[2].
Poiché i codici da riformare erano quattro, la commissione, presieduta dallo stesso guardasigilli, fu divisa in quattro sottocommissioni: la sottocommissione A (per il codice civile), presieduta da Vittorio Scialoja; la sottocommissione B (per il codice di commercio), presieduta da Mariano D’Amelio, primo presidente della Corte di cassazione; la sottocommissione C (per il codice di procedura civile), presieduta da Lodovico Mortara; la sottocommissione D (per il codice della marina mercantile), presieduta da Raffaele Perla, presidente del Consiglio di Stato.
La sottocommissione C aveva Giuseppe Chiovenda come vicepresidente e tra i componenti più autorevoli c’erano Francesco Carnelutti, Piero Calamandrei, Federico Cammeo ed Enrico Redenti.
La prima riunione si tenne il 25 e 26 giugno 1924 (giorni terribili per l’accidentata e dolorosa storia del nostro giovane Paese, recentissimamente ingiuriato nei suoi più profondi valori dall’infame assassinio di Giacomo Matteotti) e registrò una sonora sconfitta dell’oralità chiovendiana, in favore della quale si erano schierati Calamandrei, Menestrina e Zanolla[3], ma non gli altri, compreso Carnelutti, il quale aveva invece proposto una soluzione di compromesso, fondata sul principio dell’immediatezza temperata[4].
Chiovenda, deluso, rassegnò immediatamente le sue «irrevocabili dimissioni» dalla vicepresidenza e dalla sottocommissione[5], che poi ritirò dopo che il guardasigilli, con missiva del 23 luglio, aveva ribadito la sua intenzione di respingerle[6].
Nel frattempo, però, Mortara aveva istituito un comitato ristretto con il compito di predisporre uno schema di progetto, nominando relatore Carnelutti.
Carnelutti lavorò indefessamente per mesi e alla fine del mese di maggio del 1925 licenziò un imponente progetto del nuovo processo di cognizione di 426 densissimi articoli, cui sarebbero seguiti, l’anno successivo, 293 articoli sul processo di esecuzione.
Il progetto di Carnelutti, redatto, «con mirabile diligenza, pari alla dottrina»[7], rifletteva una concezione del processo non derivante «né dalla scuola esegetica né da quella sistematica», ma, «tutta e soltanto dal pensiero» del suo autore; per questo provocò sconcerto nell’ambito della sottocommissione, in seno alla quale sorsero «discussioni che restarono veramente memorande per chi ebbe la fortuna di parteciparvi»[8].
Le discussioni, tuttavia, quanto più erano ‹‹memorande›› tanto più nuocevano alla speditezza dei lavori, sicché il progetto fu presentato al Ministro solo il 24 giugno 1926, quando ormai Aldo Oviglio era stato sostituito da Alfredo Rocco, il quale ne rimase talmente insoddisfatto da relegarlo nel più buio dei cassetti ministeriali, destinato a non più riaprirsi[9].
2. Il Ministero de Francisci, il legislatore solitario e il progetto Redenti.
Il secondo tentativo si ebbe nel 1932.
Il 20 luglio, Alfredo Rocco apprese, dal giornale che stava leggendo sulla sua scrivania di Via Arenula, la notizia di essersi dimesso[10]. Sullo scranno ministeriale salì Pietro de Francisci, allievo di Pietro Bonfante, a sua volta allievo di Vittorio Scialoja.
Esponente di primo piano del regime[11], il nuovo guardasigilli non era simpatico a Calamandrei, il quale tramanda un episodio, accaduto quando de Francisci aveva concluso l’esperienza ministeriale, raccontato da Codignola e asseritamente confermato da Gentile, secondo cui l’ex Ministro, rifiutatosi a causa dell’età e delle condizioni di salute di sottoporsi alle prove atletiche riservate ai gerarchi fascisti, sarebbe stato irriso da Starace in presenza degli altri gerarchi. Calamandrei commenta con disgustata ironia, non già il fatto che de Francisci aveva rifiutato di esibirsi nelle stucchevoli prove atletiche ideate da Starace, quali il salto delle baionette e quello del cerchio in fiamme, ma il fatto che l’ex Ministro della giustizia, rettore dell’Università di Roma e presidente dell’istituto di cultura fascista, non aveva saputo proferire alcuna parola di protesta per l’irrisione di Starace, non ostante lo «sconcio suon di risa» degli altri gerarchi[12].
De Francisci, storico del diritto romano, considerato, nel settore di sua competenza, un vero e proprio «rinnovatore»[13], in tre discorsi tenuti al Parlamento tra il 1933 e il 1934 illustrò le sue idee sul codice di procedura civile del futuro, le quali erano fondate su tre punti fondamentali: il rafforzamento dei poteri del giudice (sia sotto il profilo della direzione processuale che sotto il profilo delle iniziative istruttorie e decisorie); la responsabilizzazione delle parti (con la previsione di un sistema di sanzioni volte a dissuaderle dalla proposizione di domande temerarie, di eccezioni dilatorie e, in genere, di condotte contrarie alla buona fede processuale); l’eccezionalità dell’appello[14].
Per l’attuazione della delega, diversamente da Oviglio, che aveva istituito un’apposita sottocommissione di cui avevano fatto parte tutti i più importanti processualisti, de Francisci preferì rivolgersi ad un unico studioso, un legislatore solitario. La scelta, verosimilmente caldeggiata dall’ormai non più giovane ma sempre influente Vittorio Scialoja, cadde su un membro della scuola dell’anziano maestro: Enrico Redenti, discepolo di quel Vincenzo Simoncelli che di Scialoja era stato allievo, collega e genero[15].
La chiamata di de Francisci giunse a Redenti sul finire del 1932 e Redenti consegnò il suo progetto alla fine del 1934. Nel mese di ottobre di quell’anno, quando era giunto quasi alla fine del lavoro, scrisse che la novità saliente del venturo processo sarebbe consistita nella previsione che il giudice e le parti (evidentemente, prima di dar corso alla trattazione e all’istruzione, ma dopo aver veduto «le carte della causa») si mettessero seduti «intorno ad un tavolo» al fine di «sfrondare tutto quello che non serve», «cavare il nocciolo o il gariglio da ogni questione» e far emergere, «in molti casi, anche la verità dal metaforico pozzo»[16].
Peraltro, il Ministro de Francisci, ricevuta una copia del progetto, fece appena in tempo ad inviarla a Chiovenda con la preghiera di fargli avere il suo parere[17], prima di essere a sua volta “dimissionato”.
Agli inizi del 1935 a Via Arenula arrivò un altro storico (questa volta non di diritto romano ma di diritto comune), anch’egli professore all’Università di Roma (di cui de Francisci era stato nel frattempo nominato Rettore), nonché esponente del regime.
Anche Solmi, ça va san dire, era antipatico a Calamandrei, il quale, quattro anni dopo (il 23 luglio 1939), ne avrebbe salutato le dimissioni dicendo che il «grasso liberalone che si era messo a far lo squadrista e a metter la sua firma alle leggi razziste per il gusto di passare alla storia» era stato «scacciato via» senza che gli fossero dati «neanche gli otto giorni, come uno stalliere»[18].
Solmi pubblicò il progetto già redatto da Redenti durante il Ministero de Francisci[19], ma, prima, nominò una nuova commissione (di cui faceva parte lo stesso Redenti) con il compito di redigere un nuovo progetto.
Chiunque lesse i 745 articoli del corposo testo legislativo, dunque, sapeva di leggere un testo già vecchio, destinato ad essere superato dai lavori della nuova commissione ministeriale[20].
3. Il Ministero Solmi, una nuova commissione e i progetti preliminare e definitivo
Il progetto preliminare redatto dalla Commissione nominata da Solmi[21] – siamo al terzo tentativo di attuare la legge di delega – fu pubblicato al principio dell’estate del 1937, anno che aveva già visto impoverirsi la scienza processuale nel mese di gennaio, per essere venuto a mancare Mortara[22], e che l’avrebbe vista impoverirsi ulteriormente nel mese di novembre, quando sarebbe mancato anche Chiovenda[23].
Il progetto preliminare Solmi, perseguendo l’intento di attuare la c.d. concezione pubblicistica del processo, presentava una marcata connotazione autoritaristica, configurando decisamente il giudizio civile quale giudizio inquisitorio ad impulso d’ufficio[24].
Il Ministro chiese alle Università di esprimere il loro parere. La Regia Università di Firenze – ovverosia, Piero Calamandrei – non mancò di far sentire la sua voce fermamente critica.
Calamandrei osservò che la soppressione del principio dispositivo avrebbe avuto effetti sciagurati, poiché esso principio rappresentava la proiezione sul piano processuale del principio sostanziale della disponibilità dei diritti soggettivi; pertanto, la sua totale sostituzione con il «principio d’ufficialità» avrebbe significato, in sostanza, «abolire il diritto privato», «trasformare in diritto pubblico tutto quanto il diritto civile», e, in definitiva, fare come «quei regimi in cui si è voluto totalmente e consapevolmente abolire la proprietà privata ed in generale il diritto soggettivo individuale»[25].
Il parere di Calamandrei – particolarmente per il riferimento al codice sovietico – lasciò il segno, poiché il «concittadino di Farinata»[26], che aveva nella scrittura «un dono che depongono gli Dei nella culla»[27], era sapientemente riuscito a toccare il nervo scoperto del regime: l’ossessione per la ineluttabilità delle lotte di classe preconizzate da Marx, che sarebbe stata alla base di tutti gli obiettivi di politica legislativa di diritto privato del regime: dall’unificazione dei codici, alla “commercializzazione” della disciplina civilistica tradizionale dei contratti e delle obbligazioni, alla sostituzione della nozione di commerciante con quella generica e totalizzante di imprenditore.
Solmi fece dunque macchina indietro[28] e, nel gennaio del 1939, pubblicò un progetto definitivo[29] (quello che, secondo Redenti, sarebbe poi divenuto il «codice vigente»[30]) in cui era stato raccolto il suggerimento di Calamandrei di introdurre «una netta distinzione tra il gruppo di controversie su rapporti indisponibili o intransigibili … e quello di tutte le altre controversie su rapporti di mero diritto privato», facendo in modo che, solo per il primo il principio inquisitorio potesse essere «rigidamente attuato», mentre, per il secondo, i poteri istruttori del giudice restassero «necessariamente» più limitati[31].
4. Il Ministero Grandi, il comitato ristretto e il nuovo codice
Peraltro, il progetto definitivo Solmi non divenne il nuovo codice, perché nel luglio del 1939, come si è detto, anche Solmi fu “dimissionato”. Al Ministero di grazia e giustizia fu chiamato Dino Grandi, il quale, essendo dotato di uno spessore politico ben più rilevante di quello dei predecessori, capì che, se si fosse veramente voluto fare il nuovo codice di procedura civile – siamo al quarto tentativo – non solo sarebbe occorso riunire in una virtuosa alleanza tutti e tre i più autorevoli processualisti (Carnelutti, Calamandrei, Redenti), ma sarebbe stato necessario altresì metterli dinanzi ad un obiettivo ben determinato e, per loro, indisponibile.
In altri termini, non si poteva chiedere ai tre grandi di preparare il codice da capo perché ciò, non solo avrebbe prolungato i tempi, ma avrebbe probabilmente suscitato discussioni che sarebbero state non meno memorande di quelle che, tredici anni prima, avevano condannato all’insuccesso il tentativo di Carnelutti e al fallimento il Ministero Rocco.
Facendo di necessità virtù, bisognava invece lavorare su quello che c’era. Quello che c’era era il progetto definitivo Solmi.
Pur nominando una nuova commissione, formata – sembra – da nove persone[32], Grandi si affidò ad un comitato ristretto: nell’ottobre del 1939 chiamò a sé in un incontro riservato Calamandrei, a cui era legato da rapporti di reciproca stima e finanche di amicizia, e gli disse – sono parole dello stesso Calamandrei – che «un suo incaricato, Conforti, avrebbe rielaborato il progetto Solmi, avvalendosi delle critiche mie, di Carnelutti e di Redenti»[33].
In altre e più chiare parole, il progetto Solmi, dopo essere stato diligentemente riordinato da Leopoldo Conforti (che, quale magistrato della procura generale presso la Cassazione, si occupava prevalentemente di diritto penale!), avrebbe potuto essere eventualmente interpolato, integrato e persino rielaborato sulla base delle osservazioni dei tre processualisti.
I lavori, iniziati sullo scorcio del 1939, si svolsero speditamente e il nuovo codice fu pubblicato il 28 ottobre 1940, per entrare in vigore, dopo una lunga vacatio, il 21 aprile 1942, accompagnato dalla celeberrima Relazione, scritta – come tutti sanno – da Calamandrei.
5. Il codice di Chiovenda o il codice di Calamandrei?
In una bellissima lettera del 14 febbraio 1955 a Luigi Preti, Calamandrei, con la solita incisività della sua inimitabile prosa, nel difendere il codice da chi lo apostrofava come “fascista”, avrebbe detto che esso costituiva l’eredità di un cinquantennio di studi[34].
Un’affermazione di difesa, formulata da colui che Salvatore Satta avrebbe ammirato come «uomo d’azione» e «giurista martire»[35]; e tuttavia un’affermazione difficilmente contestabile, ove si pensi a tutti i tentativi di riforma susseguitisi dalla fine della prima guerra mondiale, che avevano visto impegnato il gotha della processualcivilistica italiana e che erano sfociati nei progetti di Chiovenda, di Mortara, di Carnelutti e di Redenti, dei quali, non ostante il contesto autoritario e illiberale in cui era venuta maturando, non poteva non essere restata traccia nella nuova opera legislativa.
Ma chi era il vero “padre” del nuovo codice?
Se Redenti e Carnelutti non esitarono, il primo a prenderne le distanze[36], il secondo a proclamare la paternità delle idee e dei principi in esso recepiti[37], Calamandrei si schermì, affermando che il nuovo codice prendeva a base gli insegnamenti di Chiovenda[38].
A tale affermazione lo studioso fiorentino diede sostanza, citando sette volte il Maestro di Premosello nella Relazione, così consentendo il radicamento della diffusa ed autorevole opinione secondo cui il “codice del 1940” sarebbe il codice di Chiovenda[39].
In realtà, lo stesso Calamandrei era ben consapevole che più che degli altri grandi processualisti, il “codice del 1940” era il suo codice.
Non tanto per essere riuscito – sapientemente eludendo la ricezione nel testo normativo degli eccessi autoritaristici del progetto preliminare Solmi – nell’intento di mantenere la struttura tradizionale del processo civile quale processo dispositivo ad impulso di parte (artt.99, 112, 115, 306 ss. c.p.c.), limitando il modello inquisitorio ad un novero circoscritto di procedimenti dettati per la tutela di particolari situazioni soggettive, deputate alla protezione di interessi superiori ed indisponibili[40], nonché di conservare il principio della procedimentalizzazione dell’esercizio dei poteri del giudice, dinanzi alla possibilità di ampliarne a dismisura la discrezionalità e di consentirne persino l’arbitrio[41]; ma anche per aver vissuto, con consapevolezza e dignità, il dramma morale dello scienziato che si pone al servizio di un regime illiberale per dare ai suoi concittadini un codice migliore o, comunque, per risparmiargliene uno peggiore.
6. Calamandrei e i suoi maestri. La missione del giurista e il valore del codice.
Nel risolvere in senso positivo l’interrogativo etico se dovesse o meno rendere la collaborazione richiestagli da un governo che aveva ingiuriato i valori della libertà e della democrazia, quando essa collaborazione sarebbe potuta servire al miglioramento del Paese, Calamandrei mostrò di aver recepito le idee tramandategli dai suoi due grandi maestri in ordine alla missione del giurista.
Il 16 gennaio 1920, nel proludere dalla cattedra della facoltà giuridica di Siena[42], egli aveva ricordato, con commozione, la prolusione che ventidue anni prima aveva tenuto, dalla stessa cattedra, il suo «indimenticabile maestro», Carlo Lessona.
In quella circostanza Lessona, nell’indicare L’indirizzo scientifico della procedura civile, aveva posto in luce la posizione di grande responsabilità della scienza processuale, la quale avrebbe dovuto fondarsi sul «metodo storico, che ci rivela la evoluzione e le leggi del pensiero giuridico applicato al giudizio civile» e sull’analisi della legislazione comparata, per guidare il legislatore all’adozione, «sull’esempio degli altri Stati», dei «principi giuridici che vi fecero buona prova». Lessona aveva quindi concluso che egli studiava «pel vantaggio della Scienza e della Patria»[43].
Il riconoscimento alla scienza giuridica del ruolo di motore della crescita morale e civile del Paese si sarebbe ritrovato, di lì a qualche anno, anche negli scritti di Chiovenda, nei quali sarebbe stato espresso con le stesse parole utilizzate da Lessona.
Lo studioso di Premosello, infatti, aveva chiuso la celeberrima Prefazione alla terza edizione dei Principii del 1923, con l’avvertenza che quel lavoro trovava il suo ultimo fondamento nel «desiderio vivissimo di servire con tutte le [sue] forze la [sua] Scienza e la [sua] Patria»[44].
La comparazione tra la Prolusione lessoniana del 1898 e la Prefazione chiovendiana del 1923 consente di apprezzare che i due esponenti di scuole antagoniste, pur nell’ambito di contrapposte concezioni metodologico-scientifiche, avevano avuto tuttavia la medesima visione della scienza giuridica quale strumento indispensabile della crescita morale della Nazione e, dunque, l’identica sensibilità per la delicatezza e la responsabilità del ruolo del giurista, chiamato a servire non solo la Scienza ma anche la Patria.
L’eredità ricevuta dai suoi grandi maestri, fondata sul comune riconoscimento alla riflessione giuridica della dignità di strumento del progresso civile e politico della Nazione e sulla comune attribuzione al giurista del ruolo di propulsore della coscienza sociale nella direzione di quel progresso, non soltanto era stata posta da Calamandrei a presupposto di quella osmosi tra i due insegnamenti e i due metodi che ritroviamo alla base della sua opera più importante, il Trattato in due volumi su La Cassazione civile[45]; ma costituì anche il fondamento morale della scelta di collaborare in maniera decisiva ai lavori della commissione Grandi, impegnandosi in misura superiore agli altri studiosi nell’ambito del comitato ristretto, al fine di dar vita ad una legge che non fosse l’espressione di un regime, ma, appunto, delle diverse generazioni di studi che avevano fatto l’età aurea della scienza processuale italiana[46].
Il codice del 1940, sorto dal «desiderio vivissimo di servire la Scienza e la Patria», nel bene nel male (tra recriminazioni talora stucchevoli e progetti di cambiamento talora improponibili), governa ancora oggi le nostre controversie civili.
Indebolito certo, ma non ancora, per fortuna, travolto da propositi di riforma male intesi e peggio attuati.
[1] Legge 30 dicembre 1923, n. 2814: Delega al Governo per emendamenti al codice civile e per la pubblicazione dei nuovi codici di procedura civile, di commercio e per la marina mercantile in occasione della unificazione legislativa con le nuove Provincie, in G.U. 8 gennaio 1924, n.6.
[2] Aldo Oviglio, dapprima membro del partito radicale, poi militante nelle file dei nazionalisti, infine “fascista di maniera” (così, citando una frase attribuita al prefetto di Bologna, F. Conti, in Dizionario biografico degli italiani, Treccani, vol. 80, 2014), pur giustificando inizialmente le azioni squadriste, recuperò dignità umana e politica indignandosi per il delitto Matteotti e facendosi espellere dal partito per aver contrastato in sede parlamentare un disegno di legge lesivo dell’indipendenza della magistratura. Fu Ministro di grazia e giustizia del Regno d’Italia nel primo governo Mussolini, dall’indomani della marcia su Roma al 5 gennaio 1925.
[3] G. Tarello, L’opera di Giuseppe Chiovenda nel crepuscolo dello Stato liberale, in Materiali per una storia della cultura giuridica, III, 1, 1973, 766 ss.
[4] F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi - La procedura civile nel Regno d’Italia (1866-1936), Milano, 1991, 264.
[5] La decisione, manifestata oralmente all’esito della deludente seduta del 26 giugno 1924, fu poi formalizzata in una lettera del 2 luglio successivo, che Cipriani ha rinvenuto tra le Carte di Chiovenda a Premosello (cfr. F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 265, nota 23).
[6] Le dimissioni di Chiovenda, dapprima reiterate con lettera dell’8 luglio, furono revocate qualche settimana più tardi, dopo che il Ministro Oviglio aveva ribadito la sua intenzione di respingerle con due missive del 4 e del 23 luglio (cfr. F. Cipriani, ult. cit.).
[7] Così, nella veste di presidente della sottocommissione C, L. Mortara, Relazione al Ministro, in Commissione reale per la riforma dei codici. Sottocommissione C, Codice di procedura civile, Progetto, Roma, 1926, III-IV.
[8] Così P. Calamandrei, Note introduttive allo studio del progetto Carnelutti (1928), ora in Opere giuridiche, cit., I, 187 ss., part.197.
[9] Nel 1936 Mortara ci avrebbe informato che il progetto, «conosciuto sotto il nome autorevole del Carnelutti», era stato posto «in disparte» dal guardasigilli Alfredo Rocco (cfr. (L. Mortara), Recensione a Ministero di grazia e giustizia, Codice di procedura civile, in Giur. it., 1936, IV, 110). L’anno successivo Mariano D’Amelio, primo presidente della Corte di cassazione e già presidente della sottocommissione B, avrebbe, inoltre, rivelato che lo stesso Rocco, evidentemente insoddisfatto del progetto presentatogli, si era posto personalmente all’opera per scrivere un nuovo codice di procedura civile «omogeneo, italiano, fascista» (cfr. M. D’Amelio, Codice di procedura civile. Progetto del Ministro guardasigilli Alfredo Rocco, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 3).
[10] A. Barbera, Nazione e Stato in Alfredo Rocco, Andria, 2001, 99.
[11] Sebbene de Francisci fosse fedelissimo di Mussolini, va tuttavia ricordato che la sua dottrina sarebbe stata riconosciuta e onorata anche in epoca post-fascista: nel 1956 gli sarebbero stati consegnati i quattro volumi degli Studi in onore, con le adesioni, tra gli altri, di Carnelutti e Redenti; non avrebbe aderito, invece, Calamandrei.
[12] P. Calamandrei, Diario 1939-1945, a cura di G. Agosti, I, Firenze, 1982, 57.
[13] S. Riccobono, Studi in onore di Pietro de Francisci, I, Milano, 1956, VIII.
[14] Dei discorsi tenuti da de Francisci alla Camera e al Senato tra il 1933 e il 1934 ci informa F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti (e alle radici del codice di procedura civile) (2005 con postilla 2006), in Scritti in onore dei Patres, Milano, 2006, 347-348.
[15] Redenti si laureò a Roma con Vicenzo Simoncelli con una tesi su I magistrati del lavoro. Simoncelli, già allievo di Vittorio Scialoja, ne divenne il genero, sposandone la figlia Giulia (cfr. G. Chiovenda, Commemorazione di Vincenzo Simoncelli, letta nell’Aula Magna della R. Università di Roma il 14 febbraio 1918).
[16] Così E. Redenti, Sul nuovo progetto del codice di procedura civile, in Foro it., 1934, IV, 181. Pur nella forma enfatica dell’esposizione (che era figlia dei tempi e che ha indotto molti studiosi moderni – a cominciare da F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 354 – a ritenere che il legislatore si muovesse nel quadro di una concezione autoritaria del processo civile che non prometteva nulla di buono per i diritti e le facoltà delle parti), la comunicazione di Redenti esprimeva un’esigenza reale, ancora oggi avvertita come attualissima: l’esigenza che il giudice arrivi alla trattazione della causa, adeguatamente informato sugli esatti termini della stessa, al fine di potere esercitare con proficua consapevolezza e auspicabile fruttuosità i poteri direttivi, istruttori, decisori e, prima ancora, conciliativi, non semplicemente formulando alle parti l’auspicio di mettersi d’accordo ma ponendole dinanzi ad un’ipotesi concreta di soluzione della controversia fondata su una prognosi allo stato degli atti, tenendo conto dell’effettivo thema decidendum e dello specifico thema probandum e, quindi, del (pur vago) fumus di fondatezza o infondatezza delle domande e delle relative eccezioni. Ciò che, a sua volta, presuppone, ovviamente, da un lato, che il giudice faccia uno studio preventivo delle carte di causa e, dall’altro, che al momento dell’inizio della trattazione in udienza, le parti abbiano già detto tutto, sia sul piano assertivo che sul piano istruttorio, nell’ambito di una discovery già adeguatamente compiuta.
[17] La circostanza risulta da una lettera del 2 febbraio 1935 del nuovo Ministro Arrigo Solmi allo stesso studioso di Premosello, rinvenuta da Cipriani tra le Carte Chiovenda e pubblicata da F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 355.
[18] P. Calamandrei, Diario, I, 1939-1941, Roma, 2015, 62.
[19] Ministero di grazia e giustizia, Lavori preparatori per la riforma del codice di procedura civile. Schema di progetto del libro primo, Roma, 1936.
[20] Sotto il profilo strutturale, i 745 articoli del progetto Redenti non apparivano particolarmente innovativi: era previsto che, dopo gli atti introduttivi, le parti si ritrovassero dinanzi al giudice in una «udienza preparatoria» (peraltro fissata dal presidente con rescritto, e non individuata dall’attore con la citazione), conclusa la quale, se non si fosse addivenuti alla conciliazione, il presidente, sull’accordo delle parti, avrebbe fatto proseguire la causa dinanzi al giudice istruttore che, all’esito dell’assunzione delle prove, l’avrebbe rimessa al collegio. In caso di disaccordo, invece, le parti sarebbero state rimesse immediatamente al collegio per la trattazione delle questioni insorte, che sarebbero state decise con sentenza parziale, impugnabile solo con quella definitiva e previa riserva.
Sotto il profilo funzionale, invece, le novità erano molte giacché, nella prospettiva del rafforzamento dei poteri del giudice e della responsabilizzazione delle parti, era stabilito un sistema di preclusioni che impediva, in linea di principio, la modificazione delle conclusioni o la produzione di nuovi documenti; pertanto all’udienza preparatoria si arrivava con una discovery piena sia dal lato assertivo che dal lato istruttorio e con un thema decidendum e un thema probandum già sostanzialmente cristallizzati.
Il quadro era completato da un giudizio di impugnazione che si caratterizzava per un, piuttosto rigido, divieto di ius novorum, conformemente all’idea originariamente espressa da de Francisci di rendere l’appello un mezzo eccezionale, comunque configurato non come novum iudicium ma come mera revisio prioris instantiae.
[21] La Commissione, presieduta dallo stesso Solmi, era composta da tre magistrati (Gaetano Azzariti, Gaetano Cosentino, Giusepe Lampis) e da un avvocato (Guido Dallari) cui si aggiungeva, come detto, Redenti (unico professore).
[22] Lo studioso mantovano morì nelle prime ore del 1937, circondato dall’affetto dei familiari. Lo avrebbero ricordato sia Carnelutti (F. Carnelutti, Lodovico Mortara, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 103) che Calamandrei (P. Calamandrei, Lodovico Mortara, ora in Opere giuridiche, X, Napoli, 1985, 156) ma, in primis, proprio quel Chiovenda (G. Chiovenda, Lodovico Mortara, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 102) che era stato il rivale di una vita, il quale, a dispetto dell’usuale lenta meditazione con cui accompagnava l’uscita dei suoi studi, scrisse l’indimenticabile necrologio per Mortara in pochissimi giorni e lo declamò dalla cattedra l’11 gennaio 1937, alla ripresa delle lezioni dopo le vacanze natalizie.
[23] Lo studioso di Premosello morì il 7 novembre 1937. Lo avrebbero ricordato sia Carnelutti che Calamandrei nei memorabili necrologi pubblicati l’uno di seguito all’altro sulla Processuale (F. Carnelutti, Giuseppe Chiovenda, in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 297 ss.; P. Calamandrei, Il nostro Maestro (Ricordo di Giuseppe Chiovenda), in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 301 ss.) ed avrebbe avuto, sempre, negli anni, l’imperituro affetto e la commovente devozione tanto dei suoi allievi, quanto degli allievi degli allievi. Peraltro, il regime dell’epoca (che, nell’Università di Roma, attraverso il rettore Pietro de Francisci, aveva uno dei suoi esponenti più rappresentativi) non solo omise di onorarlo, ma non si peritò di ferire i suoi familiari nel momento del dolore, negando loro il permesso di svolgere la cerimonia funebre all’interno dell’ateneo. La circostanza non deve meravigliare, giacché Chiovenda, pur provenendo dalla stessa scuola di de Francisci, ne aveva preso abbondantemente le distanze e, sul piano politico, era uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce nel 1925. Ma l’immagine, dipinta con la consueta incisività da Calamandrei (P. Calamandrei, Giuseppe Chiovenda (5 novembre 1937- 5 novembre 1947), in Riv. dir. proc., 1947, I, 169 ss., part.171), della salma che si avviava verso il camposanto, seguita dagli amici e dai discepoli piangenti, dopo che il rettore fascista non aveva permesso che il feretro sostasse nell’atrio dell’Università per ricevere i tradizionali onori funebri, restituisce al “nostro Maestro” un onore ancora più grande, quale persona che aveva camminato sulla via della scienza in piena dignità e libertà morale.
[24] Secondo F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 361, il progetto preliminare Solmi costituiva il «trionfo dell’autoritarismo processuale». Per V. Andrioli e G.A. Micheli, Riforma del codice di procedura civile, in Ann. dir. comp., 1946, 209, si trattava addirittura di un progetto «poliziesco» perché non solo prevedeva il rafforzamento dei poteri d’impulso, dispositivi ed istruttori del giudice a discapito delle facoltà delle parti, soggette ad un rigido sistema di preclusioni, ma anche, a carico di queste e dei difensori, pesanti sanzioni pecuniarie, nonché l’abolizione dell’azione civile contro i giudici e la sostanziale impraticabilità della ricusazione.
[25] P. Calamandrei, Sul progetto preliminare Solmi, Relazione approvata dalla Facoltà di giurisprudenza della R. Università di Firenze nella seduta del 28 luglio 1937, ora in Opere giuridiche, cit., I, 295 ss.
[26] Così S. Satta, Interpretazione di Calamandrei, Discorso commemorativo letto nell’aula magna dell’Università di Firenze il 30 aprile 1967, in Soliloqui e colloqui di un giurista, Nuoro, 2004, 401 ss., part. 401 e 410.
[27] Così E. Redenti, In memoria di Piero Calamandrei, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 2.
[28] G. Monteleone, L’apporto di Piero Calamandrei al progetto definitivo Solmi del codice di procedura civile, in Giust. proc. civ., 2011, 2, 429 ss.
[29] Ministero di grazia e giustizia, Codice di procedura civile. Progetto definitivo e relazione del guardasigilli on. Solmi, Roma, 1939.
[30] E. Redenti, Sul nuovo progetto di codice di procedura civile (1962), in Scritti e discorsi giuridici di un mezzo secolo, II, Milano, 1962, 731 ss., part.757.
[31] P. Calamandrei, Sul progetto preliminare Solmi, cit., 310.
[32] Cfr., al riguardo, G. Melis-A. Meniconi, Il professore e il Ministro. Calamandrei, Grandi e il nuovo codice, in Piero Calamandrei e il nuovo codice di procedura civile (1940), a cura di Guido Alpa, Silvia Calamandrei e Francesco Marullo di Condojanni), Bologna, 2018, 125 ss..
[33] V. G. Melis-A. Meniconi, Il professore e il Ministro, ecc., cit., 131: Calamandrei avrebbe rilasciato queste dichiarazioni nella deposizione resa il 27 novembre 1947 dinanzi alla Corte d’assise speciale di Roma.
[34] P. Calamandrei, Lettera del 14 febbraio 1955 a Luigi Preti, in Lettere, Firenze, 1968, II, 446 ss., part. 450.
[35] S. Satta, Interpretazione di Calamandrei, cit..
[36] Nelle osservazioni inviate al Ministero il 12 agosto 1940 (citate da F. Cipriani, Alla scoperta di Enrico Redenti, cit., 369) Redenti scrisse di essere stato contrario ad alcune scelte «totissimis viribus».
[37] F. Carnelutti, Istituzioni del nuovo processo civile italiano, Roma, 1941, V.
[38] P. Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale civile secondo il nuovo codice, Padova, 1941.
[39] V. M. Taruffo, Calamandrei e le riforme del processo civile, in Piero Calamandrei. Ventidue saggi su un grande maestro, a cura di P. Barile, Milano, 1990, 167 ss.
[40] Anche in questi procedimenti, che la dottrina avrebbe poi classificato nella categoria unitaria dei processi a contenuto oggettivo (cfr., sul tema, E. Allorio, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 116 ss.; L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ., 1986, I, 596; F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, in Riv. dir. civ., 1988, I, 495 ss., 695 ss.) non si sarebbe rinunciato, peraltro, alla tecnica processuale dell’iniziativa di parte, seppur temperata dall’allargamento della categoria dei legittimati a proporre la domanda o dal conferimento del diritto di azione al pubblico Ministero, nonché dalla limitazione (ma mai dalla completa disapplicazione) dei principi della disponibilità delle prove e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Se non erro, le ipotesi di processo officioso puro storicamente conosciute dal nostro ordinamento sono state tre: quella prevista dall’art.6 legge fall. in ordine all’iniziativa per la dichiarazione di fallimento; quella prevista dall’art.8 della legge sull’adozione dei minori in ordine alla dichiarazione di adottabilità; quella prevista dall’art.29 della legge n. 1766 del 1927 in tema di promozione dei giudizi dinanzi ai commissari per gli usi civici. E di queste tre, le prime due (l’art.6 legge fall., nella sua formulazione originaria, è stato sostituito dall’art.4 del d.lgs. n.5 del 2006; l’art.8 legge sull’adozione legittimante, nel suo testo iniziale, è stato sostituito dall’art.8 della legge n.149 del 2001) sono state poi eliminate.
[41] Tra i punti in cui il nuovo codice si differenzia nettamente dalla concezione calamandreiana vi è quello, importantissimo, del ricorso e del giudizio di cassazione: il pensiero di Calamandrei, lucidamente esposto nel grande trattato del 1920, che, da costituente, egli avrebbe avuto modo di contribuire a scolpire nel monistico art. 111 della Costituzione (ove la violazione di legge sarebbe stata individuata come unico motivo di ricorso), nel codice di procedura civile del 1940 sarebbe stato sconfessato dal pluralista art. 360, che non solo avrebbe aggiunto alla violazione di legge la diversa fattispecie della falsa applicazione, ma avrebbe anche aperto al sindacato in cassazione degli errores in procedendo, nonché, recependo prassi giurisprudenziali sviluppatesi nel vigore del vecchio codice – ma da Calamandrei fermamente contestate –, al controllo, ancor più penetrante, della motivazione.
[42] P. Calamandrei, L’avvocatura e la riforma del processo civile (1920), ora in Opere giuridiche, II, 12 ss..
[43] C. Lessona, L’indirizzo scientifico della procedura civile, in Scritti minori, S. Maria Capua Vetere, 1911, 279 ss., part. 287-297.
[44] G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Terza ed., Napoli, 1923, XLIII-1328, part. XXIV.
[45] Sul punto ci si permette di rinviare alle osservazioni svolte nel nostro Rileggendo la Prefazione a La Cassazione civile: Calamandrei «allievo di due maestri», in Riv. dir. proc., 2020, 3, 1156 ss., part. 1172-1173.
[46] Per un più approfondito esame di tali tematiche – e, più in generale, per una analisi (attraverso il racconto delle opere, delle gesta e della vita dei protagonisti) di quella che è stata autorevolmente definita (A. Proto Pisani, Il processo civile di cognizione a trent’anni dal codice, in Riv. dir. proc., 1972, 37; C. Consolo, Il nuovo codice di procedura civile, in Piero Calamandrei e il nuovo codice di procedura civile (1940), cit., 229) l’età d’oro della scienza processuale italiana – ci si permette di rinviare al nostro I processualisti dell’età aurea – romantici, martiri ed eroi della procedura civile, Bari, 2021.