Etica e deontologia nella professione del magistrato
di Gabriella Luccioli
Sommario: 1. L’etica e la deontologia dei magistrati. 2. I principi di imparzialità e indipendenza. 3. L’apparenza dell’indipendenza. 4. Il codice etico dei magistrati. 5. L’etica nella motivazione delle sentenze. 6. La questione del linguaggio. 7. Conclusioni.
1. L’etica e la deontologia dei magistrati
Ogni volta che la Scuola mi invita a parlare ai m.o.t. di etica e di deontologia avverto il peso di una grande responsabilità: la responsabilità di affidare a giovani che stanno per ricevere le funzioni giurisdizionali il messaggio giusto, di trovare parole che lascino il segno, le parole – tra le tante che possono dirsi parlando di etica e di deontologia – più efficaci a trasmettere un’idea di magistrato conforme al modello delineato in Costituzione. E questo senso di responsabilità si fa tanto più forte nell’attuale momento storico, in cui la magistratura sta affrontando il livello più basso di stima e di credibilità nel nostro Paese ed è oggetto di proposte di riforma tese a limitarne l’indipendenza.
A tale responsabilità non ho mai voluto sottrarmi, perché sono convinta della necessità di parlare a coloro che hanno appena vinto il concorso di deontologia prima ancora che di diritto[1], perché il rispetto delle regole deontologiche è condizione della credibilità del magistrato, perché credo che per superare la crisi che ci affligge e recuperare la fiducia che tanti cittadini ci negano sia indispensabile l’impegno di ciascuno ad esercitare al meglio le proprie funzioni e ad assumere un modello professionale che sappia coniugare preparazione, sobrietà, umanità, in adesione ai valori costituzionali dell’imparzialità, dell’indipendenza, della disciplina e dell’onore.
Proverò quindi a svolgere alcune riflessioni che, lontane da ogni moralismo, trovano aggancio nei principi costituzionali, ed in particolare nei principi di imparzialità e indipendenza, perché è la Costituzione che delinea lo statuto costituzionale del magistrato e che integra la prima fonte degli imperativi etici.
Cercherò di evitare le astrazioni, spesso ricorrenti quando si parla di etica, per soffermarmi su aspetti concreti dell’operare del magistrato.
2. I principi di imparzialità e indipendenza
Imparzialità e indipendenza sono nozioni concettualmente distinte, attenendo la prima alla posizione del magistrato in relazione a singole vicende giudiziarie e la seconda al rapporto tra ordine giudiziario e altri poteri dello Stato, ma entrambe costituiscono il fondamento della deontologia del magistrato.
All’imparzialità si riferisce l’art. 111, comma 2, Cost., che prevede il contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale; tale disposizione va letta in stretta connessione da un lato con il disposto dell’art. 54, comma 2, che fa carico a tutti i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche, in aggiunta al dovere generale di fedeltà alla Repubblica, di adempiere a dette funzioni con disciplina e onore, dall’altro lato con il principio di soggezione del giudice soltanto alla legge, di cui all’art. 101, comma 2. Va inoltre richiamato l’art. 97, comma 2, che trova applicazione anche in ambito giudiziario e che impone a tutti coloro cui sono affidate funzioni pubbliche di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.
Il principio di indipendenza è sancito dall’art. 104, comma 1, secondo il quale la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, e dall’art. 107, comma 3, il quale dispone che i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni. A tutela del valore supremo dell’indipendenza l’art. 98, ultimo comma della Costituzione sancisce che si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati. In adesione a tale previsione l’art. 3, comma 1, lett. h), del d.lgs. n. 109 del 2006 ha configurato come illecito disciplinare l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici.
A livello sovranazionale mi limito a richiamare come disposizioni di riferimento l’art. 10 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, l’art. 6, comma 1, della CEDU e l’art. 47, comma 2, della Carta di Nizza.
Nel dare concretezza a tali concetti mi preme chiarire innanzi tutto che imparzialità non vuol dire lontananza o indifferenza alle vicende politiche e alle questioni di rilevanza sociale che investono il Paese, perché un magistrato non attento al dibattito politico e culturale e disinteressato ai temi della giustizia sociale e della democrazia, un magistrato asceta, ove pure esistesse, non sarebbe un buon magistrato e neppure un buon cittadino. Il magistrato non è e non deve essere soltanto un tecnico che fa buon uso del ragionamento sillogistico, ma è una persona che ha le sue convinzioni politiche e i suoi orientamenti culturali, che acquista alcuni e non altri giornali, e che nel momento in cui giudica non può spogliarsi del proprio mondo interiore e della propria scala di valori[2]. Il modello di riferimento non può essere quello che Marco Ramat definiva magistrato di clausura, che come le suore vive nel chiosco e in tal modo si protegge da ogni contaminazione, o quello portatore di una coscienza solitaria ed autosufficiente, separata dal mondo che lo circonda. Si delinea pertanto il profilo per certi aspetti paradossale di un magistrato che è immerso nelle dinamiche politiche, culturali e sociali, ma nello stesso tempo deve essere rigorosamente terzo rispetto ad esse.
Se allora imparzialità non significa assenza di pensieri, occorre intercettare un diverso significato della parola, che recepisca e rispetti i valori di terzietà, di parità, di solidarietà, di dignità delle persone che innervano la nostra Costituzione: occorre insomma riferire l’imparzialità alle parti del giudizio e ai loro contrapposti interessi, e non ai valori in gioco nel processo.
Ciò vuol dire operare con la massima onestà intellettuale, assicurare il rigoroso rispetto delle garanzie processuali ed attenersi saldamente al principio di soggezione soltanto alla legge, ricercando la verità nelle singole vertenze poste al proprio esame, valutandole con il loro carico di umanità e nella loro specificità ed unicità, senza trascurare il contesto giuridico e sociale in cui si manifestano, restando sempre immuni da vincoli esterni e da influenze che possono indurre a decidere in modo diverso da quanto suggerito dalla propria scienza e coscienza.
Vuol dire quindi mantenere salda durante il processo la determinazione a decidere solo sulla base delle prove legittimamente acquisite, liberandosi da preconvincimenti o pregiudizi che alterano l’oggettività del giudizio.
Ma che cos’è il pregiudizio?[3] Possiamo identificare il pregiudizio in un atteggiamento interiore, in un preconcetto culturale privo di fondamento scientifico che deve essere rimosso attraverso la sua percezione e la messa in discussione delle ragioni sulle quali presume di fondarsi. Se ne occuparono Voltaire e D’Holbach, e prima ancora Bacone e Cartesio. Norberto Bobbio lo considerava un errore più tenace e più pericoloso di qualsiasi errore di opinione, a causa della sua resistenza ad essere sottoposto al controllo della ragione. In quanto giudizio emesso prima, esso deve innanzi tutto essere percepito nella sua esistenza e poi razionalmente demolito, così che al pregiudizio si sostituisca il giudizio.
Il mio pensiero al riguardo non può non andare innanzi tutto al gender bias, il pregiudizio di genere, oggetto già dagli inizi degli anni ’80 del secolo scorso di analisi e di riflessioni negli USA: specifiche ricerche sul campo hanno messo in evidenza quanto sia forte nel sistema statunitense l’influenza del gender bias in tutti i tipi di processi e quanto tale fenomeno richieda di essere messo in luce e denunciato.
L’imparzialità va quindi identificata in quella posizione che rifiuta atteggiamenti partigiani o settari o ripiegamenti sul pensiero dominante, che prende le distanze da ogni valutazione che sia altra dall’accertamento dei fatti e dalla ricerca delle cause che in un determinato contesto li hanno determinati.
Imparzialità vuol dire inoltre disponibilità all’ascolto e alla considerazione di tutte le opinioni, anche di quelle più lontane dalle proprie, nonché accettazione sul piano epistemologico del carattere probabilistico, e non assoluto, della verità processuale, e quindi consapevolezza che la sentenza che reca la propria firma è una sentenza solo tendenzialmente giusta, in quanto condizionata dai limiti posti dal rito e dal quadro probatorio acquisito e corroborata da una motivazione plausibile. Ciò comporta avere ben presente il senso e il limite della funzione svolta e possedere una solida cultura della giurisdizione.
Questo significa coltivare il valore dell’umiltà, ricordando le parole di Piero Calamandrei: Signori giudici, il vostro potere è così grande che l’umiltà per voi è il prezzo dovuto perché siate legittimati ad esercitarlo.
Vuol dire ancora, secondo l’insegnamento di Luigi Ferrajoli[4], coltivare l’etica del dubbio, da assumere come aspetto fondamentale della deontologia giudiziaria, come abito mentale da non dismettere mai, rifiutando ogni tipo di arroganza o supponenza nell’attività investigativa ed in quella valutativa, rendendosi sempre pronti a rivedere le proprie opinioni, perché l’errore è sempre possibile.
Vuol dire altresì porsi di fronte all’imputato come di fronte ad un soggetto che forse ha sbagliato, ma che deve considerarsi innocente fino all’accertamento definitivo della sua colpevolezza e che deve essere giudicato per quanto ha commesso, e non per come è, in quanto si giudica il fatto, e non la persona.
Significa anche prendere le distanze dai verdetti popolari governati dall’emotività, in una degenerazione massmediatica del processo penale e in una spettacolarizzazione dei più eclatanti fatti di cronaca tesa ad individuare subito un colpevole e orientata a ritenere che soltanto se poi arriva una condanna giustizia è fatta.
In questa prospettiva va gestito il delicato rapporto con le vittime e con le parti civili: essere imparziale comporta assumere un atteggiamento di comprensione e di attenzione nei loro confronti, ma anche di pacato distacco, atteso che essi, devastati dalla sofferenza loro inflitta, si aspettano dal p.m. e dal tribunale verdetti di condanna rapidi e severi pur a fronte di indagini delicate e complesse ed in tale risultato processuale ripongono ogni speranza di sopravvivere al dolore. E quando la condanna non è pronunziata, perché mancano elementi a sostegno della responsabilità dell’imputato, o quando ritengono inadeguata la misura della pena inflitta rispetto all’incommensurabilità della loro afflizione, sono non di rado inclini ad accusare quel p.m. o quel tribunale di incapacità ad espletare la funzione o anche a sollecitare, con il supporto di una stampa compiacente, la proposizione di implausibili azioni disciplinari.
Ritengo inoltre, ricordando gli ammonimenti di Alessandro Pizzorno, che l’imparzialità si sostanzi nel rifiuto di ogni forma di protagonismo o di atteggiamenti da giudice star, e anche nel rifiuto di incarnare un potere buono contro i mali del mondo, erigendosi ad esclusivo custode e difensore della virtù e della moralità pubblica. Mi riferisco a quelle forme di protagonismo becero che si traducono in una esibizione narcisistica della propria persona, dando sfogo ad incontenibili pulsioni egotiche e ad altrettanto incontenibili ricerche di notorietà, talvolta garantite dalla partecipazione a talk show televisivi in cui si mettono in scena processi paralleli, in una inaccettabile rappresentazione scenica dei fatti.
Significa ancora – e qui mi rivolgo in particolare a chi svolgerà funzioni requirenti – evitare di esercitare la giurisdizione in termini di lotta al crimine o a generici fenomeni criminali, dell’uno contro tutti, di assumere un ruolo salvifico che impone di cercare il reato anche in mancanza di notitia criminis, di considerare il processo come un’arena da combattimento in cui si vince o si è abbattuti, piuttosto che come strumento per il ripristino della legalità violata da fatti specifici previsti come reati, nel rispetto delle garanzie difensive e del principio del contraddittorio.
Vuol dire inoltre restare lontani dall’ossessione della carriera – che non è configurabile nel nostro lavoro – e del successo personale, recuperando le acquisizioni e lo spirito del congresso di Gardone ed impegnandosi a non utilizzare l’attività svolta in ambito associativo per trarne indebiti vantaggi professionali.
Imparzialità vuol dire altresì rifiutare il modello di giudice burocrate sul quale si appuntavano le critiche, ancora così attuali, di Dante Troisi nel suo indimenticabile Diario di un giudice: giudice burocrate è quel giudice pigro, opaco e ripiegato su se stesso che cerca riparo in adeguati presidi difensivi, sepolcro imbiancato che facendosi schermo dell’indipendenza orienta la sua condotta verso un tranquillo quieto vivere e verso ogni forma di disimpegno, fino a scadere nel conformismo che non nuoce a nessuno e quindi non può danneggiare chi lo pratica; un giudice che tende esclusivamente alla conservazione dello status quo limitandosi a svolgere un’attività avalutativa e meccanica; un giudice che tiene molto al proprio stipendio e molto meno alla qualità del lavoro, che coltiva una asfittica prospettiva sindacale di tutela dei vantaggi, economici e non solo, della professione.
Vorrei allora proporvi un’altra dimensione dell’imparzialità, come capacità di operare in silenzio, lontano dai clamori dell’informazione e dalla tentazione del consenso popolare, che è effimero e a volte male informato e può servire forse a rassicurare gli insicuri, ma non può riempire le lacune probatorie o infirmare le prove acquisite. Il consenso popolare è la fonte della legittimazione democratica della politica, non della giurisdizione; gli applausi che scaturiscono da certe decisioni vanno stigmatizzati non solo perché sono la spia di un eccesso di aspettative, del tutto improprie, nell’intervento del giudice, ma anche perché esprimono la tensione verso il raggiungimento di determinati risultati totalmente estranei alla giurisdizione, che non è e non può essere – come ci ricorda Franco Ippolito – una istituzione di scopo, che sceglie i mezzi più idonei al conseguimento del fine prefissato.
Quanto all’indipendenza, sia quella esterna rispetto agli altri poteri dello Stato sia quella interna, va ricordato che essa non costituisce un privilegio di casta, ma è strumento di garanzia dell’eguaglianza di tutti i cittadini: ed è proprio in ragione dello stretto nesso esistente tra tutela dell’indipendenza e qualità del servizio reso alla collettività che essa non può essere mai subordinata alle direttive e neppure agli umori del potere politico o alle attese dell’opinione pubblica.
Essere indipendente significa non porsi pregiudizialmente dalla parte del potere, ma neppure sentirsi in via preconcetta contropotere.
Significa essere affrancati da condizionamenti o contiguità o collateralismi con qualsiasi tipo di potere, sia esso politico che economico che religioso o di affari.
Significa ancora tenere un atteggiamento di massima prudenza nell’accettare inviti o nell’instaurare nuovi rapporti amicali ed evitare di essere invischiati in situazioni che comportino debiti di riconoscenza o restituzione di favori.
Significa altresì non sollecitare appoggi correntizi per la progressione o per altre esigenze di carriera, perché ogni forma di aiuto, anche all’interno dell’ordine giudiziario, ha dei costi ed incide sul principio di indipendenza, oltre che sulla dignità di chi quell’aiuto richiede.
3. L’apparenza dell’imparzialità e dell’indipendenza
Gaetano Silvestri ha in più occasioni affermato, evocando il pensiero di Piero Calamandrei, che i magistrati non devono cercare il consenso, ma devono operare in modo da essere credibili; l’impegno in tale direzione esige il rispetto anche dell’apparenza, e non solo della sostanza dell’imparzialità. All’apparenza fanno riferimento gli artt. 8 e 9 del codice etico; inoltre tra i principi di condotta giudiziaria fissati nella Risoluzione di Bangalore approvata dai presidenti delle Corti Supreme dei Paesi di civil law nell’ambito della tavola rotonda svoltasi a L’Aja il 25-26 novembre 2002 è stato attribuito valore primario non solo al concetto di propriety, ma anche a quello di appearance of propriety, a tutela del bene dell’immagine, indispensabile per la fiducia nel sistema.
Credo che questo richiamo all’apparenza, che Mario Serio definisce formula fortunata[5] in ragione della sua generale e reiterata utilizzazione, un concetto recepito in Italia dal sistema anglosassone nel quale ha trovato da tempo cittadinanza, esiga qualche puntualizzazione. Se è vero infatti che il criterio dell’apparenza attiene essenzialmente a condotte estranee all’esercizio delle funzioni, ed in particolare ai comportamenti dei giudici lato sensu politici ed alla loro partecipazione alla vita sociale e culturale, allo scopo di evitare che a causa di detti comportamenti possa fondatamente dubitarsi della loro imparzialità e indipendenza, va tenuto conto che i magistrati godono degli stessi diritti di libertà garantiti a tutti i cittadini, ma che la funzione svolta impone un bilanciamento tra interessi diversi, facendo salvo da un lato l’esercizio di detti diritti di libertà ed assumendo dall’altro il criterio dell’apparenza non come valore in sé, ma come sintomo della sussistenza o insussistenza dell’imparzialità e dell’indipendenza nell’esercizio delle funzioni.
Si tratta allora di coniugare etica della convinzione ed etica della responsabilità, secondo l’insegnamento di Max Weber. In forza del dovere non solo di essere, ma anche di apparire imparziale e indipendente ogni magistrato deve farsi custode della sua immagine in ogni contesto di vita professionale e sociale.
Sembrano ancora attuali le affermazioni contenute nella remota sentenza della Corte costituzionale n. 100 del 1981, lì dove affermava che l’equilibrato bilanciamento degli interessi tutelati non comprime il diritto alla libertà di manifestare le proprie opinioni, ma ne vieta soltanto l’esercizio anomalo e cioè l’abuso, che viene ad esistenza ove risultino lesi gli altri valori.
Più di recente la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 224 del 2009 ha ricordato che i magistrati devono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni cittadino e che quindi possono non solo condividere un’idea politica, ma anche manifestare espressamente le proprie opzioni al riguardo, ma che le funzioni esercitate e la qualifica rivestita … non sono indifferenti e prive di effetto per l’ordinamento costituzionale: ciò comporta appunto l’esigenza di bilanciare dette libertà con quella di assicurare la terzietà e anche l’immagine di terzietà dei magistrati.
4. Il codice etico dei magistrati
Lo strumento con il quale i principi costituzionali si traducono in specifiche regole di condotta è costituito dal codice etico dei magistrati.
Nel 1994 i magistrati italiani si sono dotati di un proprio codice etico, il primo della magistratura in ambito europeo: un testo elaborato in un momento di profonda crisi morale dei partiti e della pubblica amministrazione scaturita, come è noto, dalle indagini del pool di pubblici ministeri milanesi.
La stesura del testo ha costituito puntuale adempimento di una prescrizione contenuta nella legge n. 421 del 23 ottobre 1992, che delegava il Governo ad emettere un decreto legislativo che attribuisse alla Presidenza del Consiglio il compito di adottare un codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni; in attuazione della delega l’art. 26 del d.lg. 23 dicembre 1993 n. 546 ha inserito nel d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 sul pubblico impiego l’art. 58 bis, secondo il quale anche le associazioni di categoria delle varie magistrature[GL1] [G2] e dell’Avvocatura dello Stato erano tenute ad adottare un codice etico, da sottoporre all’adesione degli appartenenti alla magistratura interessata.
Successivamente la legge 6 novembre 2012, n. 190 (cd. anticorruzione), nel riscrivere con il suo art.1, comma 44, l'art. 54 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 (testo unico dei dipendenti pubblici), ha recepito la precedente disposizione, analogamente prevedendo che per ciascuna magistratura e per l’Avvocatura dello Stato gli organi delle associazioni di categoria adottano un codice etico a cui devono aderire gli appartenenti alla magistratura interessata.
Tale percorso si allinea pienamente al disposto della Magna Carta dei giudici adottata dal Consiglio Consultivo dei giudici europei il 17 novembre 2010 , la quale all’art. 18 ha affermato che l’azione dei giudici deve essere guidata da principi di deontologia, distinti dalle norme disciplinari. Tali principi devono emanare, quanto a redazione, dagli stessi giudici e debbono costituire oggetto della loro formazione.
Il potere di autoregolamentazione attribuito per la magistratura ordinaria all’ANM si basa quindi su una specifica disposizione normativa. L’avere il legislatore affidato l’adozione del codice etico alla stessa associazione rappresentativa dei magistrati, come depositaria degli interessi e dei valori dell’intera categoria, a prescindere dal vincolo formale di iscrizione, non solo comportava il riconoscimento del ruolo storico dell’associazionismo italiano e della sua funzione istituzionale, ma stava anche a dimostrare che lo stesso legislatore considerava l’autodisciplina come lo strumento più idoneo a garantire l’indipendenza del corpo dei magistrati e ad assicurare la maggiore efficacia delle norme autonomamente adottate, promuovendo la maturazione di un’autocoscienza professionale.
È appena il caso di puntualizzare che l’essere stato il codice etico, per espressa previsione normativa, elaborato dall’ANM – designata dal legislatore, come già osservato, quale soggetto strutturalmente depositario ed interprete dell’etica professionale del magistrato – ed approvato dai suoi organi rappresentativi non esclude la sua generale applicabilità a tutti i magistrati, a prescindere dalla loro iscrizione al sodalizio. L’articolato non può pertanto definirsi, come talvolta avviene, il codice etico dell’ANM, ma come il codice etico della magistratura italiana.
A distanza di 16 anni, il 13 novembre 2010, l’ANM ha approvato un nuovo codice etico, dichiaratamente volto – come si legge nella sua premessa – ad aggiornare la figura del magistrato, inserito in una società ormai in continua evoluzione [6]: il nuovo testo riscrive il precedente con alcune modifiche, che tengono conto delle criticità emerse nell’applicazione di quello del 1994 e recepiscono nuove istanze e sensibilità al tema, con particolare riferimento ai settori dell’informazione, della comunicazione e dell’organizzazione, e pongono ulteriori precetti, puntualizzando anche i doveri dei dirigenti.
Il codice etico, da alcuni definito come una sorta di patto con i cittadini, fornisce alla collettività la conoscenza delle regole cui i magistrati sono tenuti, così offrendo elementi di chiarezza sulla condotta che essi devono assumere in ogni contesto esperienziale e consentendo ai consociati di pretendere il rispetto degli impegni in esso indicati; al tempo stesso indica a tutti i magistrati la cifra della loro condotta quotidiana, la possibilità di costruirsi un abito mentale e di formarsi una comune coscienza etica, indirizzando i loro comportamenti verso un modello ideale di operatore della giustizia. Per questa via ciascun appartenente all’ordine giudiziario si colloca all’interno di una casa comune e si rende parte attiva di un sistema che lo unisce a tutti i suoi colleghi intorno ad un nucleo di valori condivisi.
Va precisato che le norme etiche si collocano su un piano distinto, per diversità di natura e di funzione, rispetto alle regole disciplinari: esse esprimono il dover essere di chi esercita la giurisdizione, sono norme di autocontrollo e non sono provviste di sanzione, onde la loro efficacia strutturante è sostanzialmente rimessa alla sensibilità e all’impegno di ogni magistrato, mentre le regole disciplinari, che individuano il c.d. minimo etico, incidono più direttamente sull’interesse della generalità dei consociati e sono per questo riservate alla competenza del legislatore (il d.lgs.2006 n. 109), sono caratterizzate dal principio di tassatività e presidiate da sanzioni; la circostanza che della materia disciplinare si occupano ben due articoli della Costituzione (artt. 105 e 107) vale ad evidenziarne la rilevanza nel quadro costituzionale[7]. Le condotte disciplinarmente sanzionabili sono dunque soltanto quelle previste nel d.lgs. 2006 n. 109.
Peraltro l’inclusione delle norme etiche nel comparto della soft law non esclude l’esistenza di zone di contiguità e di parziali sovrapposizioni tra le due sfere, tanto che in alcuni casi la violazione di esse può integrare anche un illecito disciplinare o addirittura un illecito penale.
Il codice etico – un testo breve, di soli 14 articoli – compendia una summa di regole che hanno riguardo ad uno spettro assai ampio di comportamenti dei giudici e dei pubblici ministeri, inclusi i capi degli uffici. I valori e principi in esso dettati devono improntare la condotta del magistrato nell’esercizio delle funzioni, nei rapporti con le istituzioni, con i cittadini e con gli utenti della giustizia, con gli altri operatori del settore, con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione, nonché nella vita sociale. Le varie previsioni costituiscono un catalogo che sostanzialmente riproduce le regole di condotta che ho prima richiamato nel parlare di imparzialità e indipendenza.
I valori dell’indipendenza e dell’imparzialità sono infatti assunti nell’articolato come fondamentali criteri ispiratori della condotta dei magistrati; è inoltre ricorrente nel testo il riferimento al concetto di disinteresse personale, quale prerequisito di ogni corretto comportamento nella vita professionale e sociale.
Dalla sua impostazione complessiva si rileva la tendenza non solo o non tanto a tutelare valori generali ed astratti, quali il prestigio, il decoro e la dignità dell’ordine giudiziario, come evocati in passato nell’art. 18 della legge sulle guarentigie, ma piuttosto a garantire attraverso il rispetto di tali valori il buon funzionamento, l’efficienza, la tempestività e la correttezza del servizio reso alla collettività. Ne risulta così valorizzata la concezione dell’attività giudiziaria come servizio e la tensione alla effettività della tutela dei diritti.[8]
Un elemento di modernità del codice etico sta nella previsione di cui all’art. 9, primo comma, concernente il dovere di restare immuni da ogni tipo di pregiudizio, e in primo luogo dai pregiudizi di sesso.
Emerge dalla trama dei precetti la figura ideale di un giudice diligente ed operoso, equidistante, che osserva gli orari delle udienze e delle altre attività di ufficio, che assicura alle parti la possibilità di svolgere pienamente le loro difese, che è rispettoso delle opinioni di tutti, che è disponibile a rivedere i propri convincimenti, che esamina attentamente gli atti e le prove acquisite, che coltiva il valore del dubbio senza esserne sopraffatto, che garantisce la segretezza delle camere di consiglio, che utilizza correttamente le risorse dell’amministrazione, che coltiva costantemente lo studio e l’aggiornamento professionale e partecipa alle iniziative di formazione e all’attività organizzativa dell’ufficio.
Restano per contro nella sfera dell’irrilevanza dal punto di vista etico i comportamenti strettamente attinenti alla vita privata e familiare, in passato considerati potenzialmente lesivi della dignità dell’ordine giudiziario ed oggetto in non pochi casi di sanzioni disciplinari, nello spirito di una tutela ossessiva e pruriginosa di certi valori tradizionali.
Mi preme segnalare che l’art. 14 del codice etico, concernente i doveri del dirigente, pone nell’ultima parte del terzo comma (di nuova formulazione rispetto alla stesura del 1994) il dovere di curare l’inserimento dei giovani magistrati, cui va assicurato un carico di lavoro equo. L’obiettivo di detta disposizione è chiaramente quello di assicurare una adeguata formazione dei colleghi più giovani, che tenga conto della loro inesperienza e delle difficoltà insite negli inizi di un percorso così impegnativo, facilitando il loro inserimento nell’ambiente di lavoro e nella giurisdizione attiva.
Il codice etico dovrebbe essere a mio avviso aggiornato sul tema dell’utilizzazione dei social media da parte dei magistrati. Non ho il tempo di soffermarmi su tale delicata problematica, che è stata oggetto recentemente di un interessante convegno organizzato dal CSM[9]; mi limito in questa sede a suggerire la massima prudenza nell’uso di tali mezzi di comunicazione, molto spesso ricettacolo di volgarità e di pesanti aggressioni verbali, sovente stimolate da un’ansia di velocità della risposta e corroborate da sterminati anomali plebisciti. In quella sede convegnistica Massimo Luciani ha parlato di strumenti di comunicazione primitivi e nell’invitare alla cautela nel loro uso ha rilevato che le opinioni espresse nei social sono destinate a restare in eterno, con grande rischio di decontestualizzazione.
Osservo al riguardo che la genericità delle previsioni contenute nell’art. 6 del codice etico, concernente i rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa, rende dette previsioni del tutto inadeguate a disciplinare la materia ed integra un vuoto nel sistema dei doveri deontologici del magistrato che dovrebbe essere tempestivamente colmato con specifiche disposizioni relative all’utilizzo dei social. È interessante sul punto ricordare che il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa ha adottato in data 25 marzo 2021 una delibera contenente linee guida sull’utilizzo dei social media.
È importante infine segnalare che l’art. 9 dello Statuto dell’ANM, nel testo modificato il 14 settembre 2019, ha disposto che costituisce illecito disciplinare la violazione del codice etico dei magistrati, nonché la commissione di illeciti penali dolosi. Tale previsione conferisce una nuova valenza alle prescrizioni del codice etico, in quanto ora presidiate – ovviamente nei soli riguardi degli appartenenti all’ANM, essendo la nuova disposizione contenuta nello statuto dell’associazione – dalle sanzioni previste dall’art. 10 dello stesso statuto (censura, interdizione temporanea dai diritti sociali, espulsione dal sodalizio).
Come è evidente, attraverso la suindicata riformulazione dell’art. 9 si è rinvigorita l’effettività del codice etico, non più configurabile per gli iscritti come summa di regole morali incoercibili. Ai singoli precetti di detto codice è stata ora agganciata una sanzione che non è automatica, ma è rimessa prima all’apprezzamento del Collegio dei Probiviri ed in seconda battuta alla delibera del Comitato Direttivo Centrale dell’ANM.
5. L’etica nella motivazione delle sentenze
Ritengo opportuno svolgere qualche breve riflessione sull’importanza della motivazione, che l’art. 111, co.6, della Costituzione prevede come obbligatoria per tutti i provvedimenti giurisdizionali e la cui stesura costituisce un momento delicatissimo del lavoro del giudice ed assorbe molto tempo e molte energie della sua attività.
La motivazione è il più importante banco di prova del rigore logico e del livello professionale del giudice, oltre che della sua imparzialità. Se è vero infatti che la più rilevante fonte della legittimazione del magistrato consiste nella autorevolezza e persuasività delle decisioni adottate, è evidente la necessità che egli presti la massima cura nella redazione degli atti.
Scriveva Michele Taruffo che la motivazione svolge innanzi tutto una funzione endoprocessuale, in quanto costituisce strumento di controllo della decisione nelle fasi di impugnazione, ma anche una funzione extraprocessuale, perché offre la possibilità di una valutazione esterna dell’operato del giudice da parte della collettività, cosi fornendo una garanzia di trasparenza della giustizia di fronte all’opinione pubblica, in adesione ad una concezione democratica dell’esercizio della giurisdizione. Va altresì ricordato che la sentenza non va intesa come opera del suo estensore, ma quale emanazione dell’ufficio cui egli appartiene, come la stessa intestazione del documento lascia chiaramente intendere: ciò vuol dire che quando si scrive una sentenza si dà voce non già alla propria personale opinione, ma all’organo giudiziario di appartenenza. Appare pertanto non corretta quella tendenza, ispirata certamente ad esigenze di semplificazione, ad individuare le sentenze, specie quelle della Corte di Cassazione, con il nome del loro estensore.
Resta il dovere primario per ogni giudice di adottare motivazioni chiare, comprensibili non solo ai soggetti che ne sono destinatari e che generalmente non sono giuristi, ma a tutti i cittadini; che si esprimano in uno stile sobrio; che riflettano fedelmente, nel caso di decisioni collegiali, il dibattito della camera di consiglio e le conclusioni ivi raggiunte; che siano concise, secondo il chiaro disposto degli artt. 132, secondo comma, n. 4 c.p.c. e 118, secondo comma, disp. att. c.p.c., e quindi non contengano obiter e ripetizioni di concetti, né si dilunghino in dotte disquisizioni teoriche utili per una tesi di laurea o per una nota in una rivista giuridica, in quanto concisione espositiva non vuol dire incompletezza, ma padronanza della tematica e adeguato utilizzo degli argomenti pertinenti.
Mi preme anche ricordare che le parole vanno usate con accortezza e misura, avendo sempre presente che un termine o un’espressione aspri e non giustificati nell’economia della decisione possono causare ferite indelebili e ingiuste ai soggetti che ne sono destinatari.
Va inoltre rispettato il ruolo del presidente nel delicato compito di correttore di una pronuncia che reca anche la sua firma. La comune tensione verso il risultato di una sentenza corretta, puntuale e logicamente argomentata, che oltre che giuridicamente controllabile deve essere anche persuasiva, vale certamente il prezzo di qualche ferita alla vanità dell’estensore.
6. La questione del linguaggio
Ancora un breve cenno alla questione del linguaggio, che ha anch’essa a che fare con l’indipendenza del magistrato, in quanto le parole ci indicano, quando le scegliamo, la prospettiva che le ispira e le sostiene. È necessario essere consapevoli del ruolo potente giocato dal linguaggio nella rappresentazione della realtà e dei rapporti tra le persone e della sua capacità di riprodurre pregiudizi e stereotipi, o al contrario di diventare strumento di emancipazione e di parità. In forza di questa consapevolezza spetta ai magistrati nella scrittura delle sentenze, ma non solo, liberarsi di consolidate abitudini linguistiche di stampo androcentrico e usare un lessico che non renda invisibili le donne.
Ciò significa fare un uso corretto della lingua come veicolo di trasmissione di significati e di visioni e rifiutare l’assunto, da alcuni sostenuto anche sulla base di un’erronea lettura del testo della Costituzione, che il termine al maschile sia corretto in quanto identificativo dell’istituzione, e non del soggetto che la rappresenta, e che in ogni caso la coniugazione di un termine al maschile o al femminile sia del tutto priva di rilevanza. È per contro vero che, come affermava Luce Irigaray[GL3] , il parlare non è mai neutro e che ciò che non è rappresentato nel linguaggio non esiste.
Ricordo da ultimo, a conferma di tanta resistenza al cambiamento, che si è reso necessario un parere dell’Accademia della Crusca, sollecitato da una richiesta del Comitato pari opportunità presso la Corte di Cassazione, per consentire ad una collega di firmare le sentenze da lei redatte qualificandosi al femminile.
7. Conclusioni
Concludo. In una situazione così delicata e complessa io credo che vengano soprattutto in gioco la professionalità e l’impegno di ogni magistrato. Alla base delle vostre scelte comportamentali deve essere il convincimento che il rispetto degli utenti e della collettività si ottiene con il sapere, il costante aggiornamento professionale, la capacità di ascolto, oltre che con l’esempio di una condotta irreprensibile anche fuori delle aule giudiziarie e che la fiducia delle parti e dei cittadini nei loro giudici è il parametro fondamentale della legittimità della giurisdizione. Occorre allora tener sempre presente che dalla conduzione dell’udienza, con le sue forme e i suoi tempi, dall’interlocuzione attenta e rispettosa con le parti e con il foro, dal rispetto delle garanzie processuali, dalla redazione di motivazioni chiare e comprensibili, dalla sobrietà nella vita privata passa il difficile percorso per il recupero della fiducia dei cittadini. Come ricorda Alfonso Amatucci, il rispetto non è un diritto esigibile in ragione della qualifica rivestita, ma è un valore che può scaturire soltanto dal riconoscimento da parte dei cittadini della professionalità e dell’esemplarità della condotta del magistrato.
Vorrei infine osservare che, superato da tempo l’assioma di stampo illuminista del giudice bocca della legge, meccanico applicatore di un enunciato normativo astorico e atemporale, il magistrato dei nostri tempi deve essere anche giudice europeo, confrontandosi con un diritto positivo sempre più complesso, segnato dalla sovrapposizione di norme nazionali, comunitarie e sovranazionali, e sensibile ai grandi mutamenti della coscienza sociale, ed è spesso chiamato a dare riconoscimento e tutela a nuovi diritti, che il legislatore non è stato capace o non ha voluto disciplinare, lasciando sola la giurisdizione nel compito di rendere risposte di giustizia adeguate, salvo più tardi contestarle di aver svolto un ruolo di supplenza non richiesto e non gradito.
È peraltro chiaro che il potenziamento del ruolo dei giudici nella costruzione del diritto vivente a tutela dei diritti fondamentali implica un aumento di responsabilità,
che a sua volta richiede un forte lavoro di affinamento della professionalità ed una particolare attenzione al rispetto dei valori di autonomia e indipendenza.
Testo rielaborato della relazione svolta il 12 dicembre 2024 presso la SSM nel corso di formazione per i m.o.t. dell’11-13 dicembre 2024 sui temi dell’etica, della deontologia e della responsabilità disciplinare dei magistrati.
[1] V. in tal senso AMATUCCI, L’etica del magistrato. Esiste ancora?, in Giustizia Insieme, 5 luglio 2020.
[2] V. sul punto RORDORF, L’imparzialità del giudice: il punto di vista di un civilista, in Questione Giustizia, Trimestrale, n. 1.2/2024.
[3] V. sul tema DELL’UTRI, Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico, in Giustizia Insieme, 1 giugno 2021.
[4] Cfr. Dieci regole di deontologia giudiziaria, conseguenti alla natura cognitiva della giurisdizione, in L’etica giudiziaria, Quaderno n. 17 della SSM, p. 25 e ss.
[5] In L’apparenza dell’imparzialità del giudice: i pericoli di una formula fortunata, in Questione Giustizia, 23 ottobre 2024. V. altresì sul tema, di recente, GIOSTRA, Essere e apparire imparziali: garanzia di valori diversi, in Questione Giustizia, 5 dicembre 2024.
[6] Sull’esigenza di una rivisitazione del codice etico del 1994, al fine di adeguarlo alle nuove problematiche dell’esercizio della giurisdizione, e sulla effettività di esso v. NATOLI e BIFULCO, Il codice etico dei magistrati tra effettività, prassi e tempo, in Giustizia Insieme, 2010, n. 1, p. 27 e ss.
[7] V. sul punto SALVATO, Due interrogativi sulla relazione tra etica, deontologia professionale e responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari, in Giustizia Insieme, 19 gennaio 2021.
[8] V. in tal senso BINI, Le regole deontologiche dei magistrati: dalla Costituzione ai codici etici, relazione al seminario svoltosi nel gennaio 2007 presso l’Università degli Studi di Genova, www.costituzionale.unige.it/dottorato/BINI.html.
[9] La magistratura e i social network, 17 maggio 2024.
Immagine: particolare da Piero del Pollaiolo, La Giustizia, 1470, Galleria degli Uffizi, Firenze.