Il referendum sulla riduzione dei parlamentari*
Tre ragioni per il SÌ e tre per il NO.
Forum dei costituzionalisti Valerio Onida, Ida Nicotra, Alessandro Morelli e Lara Trucco
*In calce, il forum in formato pdf
Va ormai entrando nel vivo la discussione sul Referendum popolare confermativo relativo all'approvazione del testo della legge costituzionale recante «modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari».
Giustizia Insieme ha chiesto a quattro costituzionalisti di chiara fama di esprimere la loro opinione, in una prospettiva che non intende in alcun modo orientare le coscienze dei lettori, prediligendo una chiave di lettura del tema di natura composita - informativa, divulgativa e riflessiva - che, secondo le consuete linee editoriali, possa favorire una presa di coscienza piena delle questioni sul tappeto, delle ricadute che l’una soluzione o l’altra possono produrre sull’architettura costituzionale ma anche sulle persone che popolano il nostro Paese, fra le quali vi sono anche gli operatori del diritto, giudici, avvocati e docenti universitari.
Le risposte alla domanda che abbiamo posto nel titolo del forum – tre ragioni per il SI e tre per il NO- a Valerio Onida, Ida Nicotra, Alessandro Morelli e Lara Trucco consentono di ritenere pienamente raggiunto l’obiettivo perseguito e per questo va un grazie sincero a chi ha accolto con interesse questa iniziativa “di servizio”.
Tre ragioni per il NO
di Alessandro Morelli
1. Rivolgo un sentito ringraziamento alla Redazione della rivista Giustizia insieme per l’invito al presente forum. Trovo, innanzitutto, necessario fare una premessa all’esposizione dei principali motivi su cui si basa il mio giudizio negativo sul testo di legge costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari, in merito al quale il 20 e il 21 settembre saremo chiamati a pronunciarci.
Il testo in questione è stato approvato da un’ampia maggioranza soltanto nell’ultima deliberazione, ma non nella precedente, nella quale non aveva raggiunto i due terzi dei consensi. Il referendum – che dunque si potrà svolgere per il fatto di non essersi verificata la condizione in presenza della quale l’art. 138 Cost. lo esclude – è stato chiesto da 71 senatori, appartenenti a quasi tutti i gruppi parlamentari e partiti politici. La richiesta, avanzata dagli stessi parlamentari che hanno approvato il testo, tende a conferire alla consultazione tratti plebiscitari, che, tuttavia, non fanno venir meno, a mio avviso, quella che rimane la prima e ineliminabile funzione dello stesso strumento referendario: quella oppositiva.
L’ampia maggioranza raggiunta (per ragioni politiche del tutto contingenti), peraltro, non esime affatto i fautori del “sì” dall’onere di argomentare a favore della riforma.
L’idea che una cattiva riforma sia comunque meglio di nessuna riforma è discutibile già quando si parla di progetti di legge ordinaria, per i quali quella che, nell’analisi d’impatto della regolamentazione è chiamata l’“opzione zero” – ossia la scelta di non intervenire –, potrebbe essere superata (almeno in teoria, la pratica è un’altra cosa…) sulla base di motivi seri. Tale indirizzo è poi del tutto inaccettabile in materia costituzionale. Quando, infatti, si decide d’intervenire sulla legge fondamentale dello Stato, la cautela non è mai troppa.
Se guardiamo alle esperienze passate, del resto, troviamo diversi riscontri: le riforme costituzionali approvate negli ultimi decenni e quelle progettate e naufragate per un voto referendario contrario appaiono espressione per lo più di una tendenza, purtroppo ormai radicata, a porre la Costituzione al centro della contesa politica. Da decenni, ciascuna maggioranza tende a lasciare il proprio “segno politico” ai piani più alti dell’assetto normativo, quello costituzionale, senza il coinvolgimento delle opposizioni, salvo poi cercare una legittimazione plebiscitaria successiva attraverso l’uso, in senso confermativo, del referendum costituzionale.
Si dirà che, in questo caso, le cose non stanno così, visto che tutti i partiti hanno raggiunto, seppur soltanto alla fine, l’accordo sul testo approvato in via definitiva dalle Camere. In realtà, le dinamiche che hanno caratterizzato il passaggio dal Governo Conte I al Governo Conte II rafforzano il convincimento che la Costituzione abbia finito con l’essere ancora una volta – seppure in una versione inedita nelle modalità – oggetto di scambio politico.
Non appare accettabile, pertanto, l’idea per cui l’ampio consenso ottenuto dal testo di revisione (peraltro, ribadisco, soltanto nell’ultima votazione) sarebbe già una ragione sufficiente per sostenere la riforma. Al contrario, la peculiare vicenda politica che ha condotto all’approvazione della legge costituzionale dovrebbe indurre a valutare con maggiore attenzione il senso e il potenziale impatto della riforma. In sostanza, non occorrono buone ragioni per votare “no”, ma servono ottime ragioni per votare “sì”.
Sulla base di questa premessa, passo a esporre i tre motivi principali del mio “no”, precisando che diverse altre critiche, pur di minor peso, potrebbero essere mosse alla revisione in esame.
2. Una prima ragione è che quello prefigurato è un taglio dalle dimensioni sproporzionate e irragionevoli, che determina una drastica riduzione della rappresentatività delle Camere e può creare seri problemi al funzionamento delle stesse.
Non discuto l’argomento del taglio dei costi della politica che la revisione dovrebbe produrre, data la sua evidente debolezza (e, infatti, al di là della propaganda politica, è pressoché assente nel dibattito pubblico). Mi limito soltanto a rilevare che, a prescindere dall’entità irrisoria della riduzione di spesa che il taglio provocherebbe (si parla di una cifra pari allo 0,007 per cento della spesa pubblica), le istituzioni fondamentali della democrazia rappresentativa non possono essere depotenziate per mere esigenze di risparmio.
Per quanto riguarda, invece, il merito della riforma, diversi sostenitori del “sì” affermano che la revisione si porrebbe in linea con i vari progetti di ridefinizione del bicameralismo proposti in passato e che, ridimensionando un Parlamento pletorico, essa avrebbe l’effetto di allineare il nostro Paese alle altre democrazie europee.
Per quanto riguarda il primo argomento, si può rilevare che, nelle proposte finora avanzate, la riduzione del numero dei parlamentari eletti a suffragio universale era una conseguenza di un progetto di riorganizzazione complessiva dell’istituzione parlamentare, che, peraltro, in qualche caso avrebbe trovato compensazione nell’introduzione di un Senato rappresentativo delle istituzioni territoriali (così, ad esempio, nel progetto Renzi-Boschi, che pur presentava notevoli difetti). Questa volta, invece, la riduzione dei parlamentari è la riforma stessa.
Quanto, poi, alla comparazione con altri Stati, se non si vuole cadere in un uso retorico-persuasivo dello stesso argomento comparativo, occorre tenere conto, per un verso, dell’entità della popolazione dei singoli Paesi presi in considerazione e, quindi, del reale rapporto eletti/elettori in questi riscontrabile e, per altro verso, dei caratteri peculiari che, nei medesimi ordinamenti, contraddistinguono la forma di governo e il tipo di Stato. E, quindi, occorre distinguere almeno le repubbliche parlamentari da quelle presidenziali e semipresidenziali, così come gli Stati federali da quelli caratterizzati da un minore decentramento. In ciascun ordinamento, infatti, esistono varie forme di espressione della rappresentanza politica e il Parlamento si colloca in una propria e peculiare trama di rapporti con gli altri organi ed enti.
Il punto centrale è allora un altro: se certamente il numero dei parlamentari non può essere considerato come un dato intoccabile, occorre, tuttavia, verificare la sostenibilità della riduzione prodotta.
Tutti siamo d’accordo sul fatto che la diminuzione di poche unità sarebbe irrilevante e quindi innocua, così come tutti potremmo facilmente convenire sull’idea che un’ipotetica riduzione dei parlamentari a tre componenti per ciascuna Camera (sulla base dell’antico brocardo tres faciunt collegium…) integrerebbe gli estremi di un attentato alla Costituzione. Esclusi questi casi estremi, il problema è allora trovare un criterio per misurare la sostenibilità del taglio, uno strumento concettuale utile a capire quando la riduzione del numero dei parlamentari si fa irragionevole.
Sullo sfondo della questione sta la teoria della rappresentanza politica. Il problema non si pone, infatti, se si sostiene che la rappresentatività delle Camere non è funzione del numero dei loro componenti. Una tesi, quest’ultima, che sembra essere accolta da chi afferma che anche un taglio drastico come quello prefigurato dalla riforma (di ben un terzo dei parlamentari!) non inciderebbe negativamente sulla rappresentatività delle Assemblee legislative se i componenti di queste ultime, anche attraverso l’uso dei moderni mezzi telematici di comunicazione, riuscissero a mantenersi sufficientemente informati, vicini ai propri elettori e capaci d’interpretarne esigenze e interessi, dando loro risposte adeguate. E la stessa visione sembra stare sullo sfondo delle affermazioni di quanti reputano fungibile la rappresentanza delle Camere con quella di altri organi elettivi, come i Consigli regionali, i quali, tuttavia, come ha affermato anche la Corte costituzionale, non sono luoghi di espressione della rappresentanza politica nazionale, che solo nel Parlamento trova la propria sede istituzionale (sent. n. 106/2002).
Più in generale, una concezione della rappresentanza che trascuri la questione dell’effettiva capacità d’incidenza dei rappresentati nella scelta dei rappresentanti o che addirittura arrivi a postulare l’assoluta irrilevanza del rapporto tra elettori ed eletti non trova riscontri normativi nella nostra Costituzione. Essa, peraltro, rivela stretti legami con la visione “esistenziale” di Carl Schmitt e di Gerhard Leibholz della rappresentanza, intesa come rappresentazione simbolico-identitaria e fideistica del popolo, nella quale, come ha scritto Gianni Ferrara, si produce il “declassamento del rappresentato” per effetto della sussunzione di quest’ultimo nel rappresentante.
Se, invece, s’intende kelsenianamente la rappresentanza politica come una finzione giuridica necessaria al funzionamento della democrazia e si traduce la rappresentatività non come rappresentazione ma, con Temistocle Martines, come la consonanza tra l’attività dei rappresentanti e i valori e gli interessi della collettività rappresentata, non v’è dubbio che la stessa rappresentatività sia anche funzione del numero dei rappresentanti. Essendo, infatti, complessa e plurale la società da rappresentare, non può negarsi che vi sia un rapporto tra il numero dei parlamentari e la possibilità di dare espressione, all’interno delle Camere, alla pluralità e alla varietà degli interessi sociali.
Ciò posto, qual è il livello al di sotto del quale sarebbe irragionevole portare il numero dei componenti del Parlamento?
Si è riposto – ed è una conclusione condivisibile – che tale livello-limite coinciderebbe con quello al di sotto del quale si determinerebbero squilibri nella composizione degli organi di garanzia e nei meccanismi di funzionamento delle stesse istituzioni rappresentative (Pasquale Costanzo).
Se così è, per quanto rileva ai nostri fini, un indice dell’irragionevolezza del taglio prodotto dalla riforma di cui ci occupiamo è dato dal fatto che anche i promotori della stessa ammettono la necessità di una serie d’interventi sia sui regolamenti parlamentari, sia in materia elettorale, per far fronte alle disfunzioni che il taglio comporterebbe nei lavori parlamentari e alla stessa perdita di rappresentatività che la riforma produrrebbe. Tra i suddetti interventi si prospetta come indispensabile perfino un’ulteriore revisione costituzionale!
Nella proposta di legge costituzionale C. 2238 (Fornaro e altri), si propongono, infatti – cito testualmente dalla relazione di accompagnamento –, “alcune importanti modifiche che risultano oggi indispensabili in vista della prossima possibile promulgazione della legge costituzionale recante ‘Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari’”, la quale “pone il problema della rappresentatività delle assemblee legislative nazionali nei confronti del pluralismo degli interessi territoriali, politici e sociali espressi dal corpo elettorale, come anche la questione della funzionalità delle nuove Camere”. Nel testo, si prevede, in particolare, la sostituzione del principio di elezione a base regionale dei senatori con quello a base circoscrizionale e la riduzione di un terzo del numero dei delegati regionali nell’elezione del Presidente della Repubblica.
Quest’ultima modifica, peraltro, eliminando l’elezione a base regionale, determinerebbe un ulteriore allineamento del Senato alla Camera e un’accentuazione del bicameralismo perfetto, in senso difforme da quanto sostenuto da chi ritiene che il taglio del numero dei parlamentari agevolerebbe un ripensamento complessivo dell’organizzazione parlamentare, orientato verso una differenziazione del ruolo e delle funzioni delle Camere.
In conclusione, il taglio previsto produrrebbe un’irragionevole riduzione della rappresentatività delle Camere (con particolare riguardo alle minoranze politiche) e di alcuni territori regionali, che verrebbero penalizzati nella composizione del Senato.
Quanto, poi, agli effetti negativi che la riforma produrrebbe sul funzionamento degli organi interni alle Assemblee legislative (in primo luogo, le commissioni), si dovrebbe rimediare tempestivamente (cosa tutt’altro che agevole) con adeguate modifiche dei regolamenti parlamentari. Si tratta, è vero, d’interventi che non costituiscono oggetto della revisione costituzionale ma non può che suscitare preoccupazione – soprattutto per le esigenze di rappresentanza delle minoranze – l’incertezza sul modo in cui si provvederà.
3. Passando a una seconda ragione della mia contrarietà alla riforma, mi sembra consistente il rischio che il taglio produca effetti opposti a quelli che i suoi promotori vorrebbero perseguire, determinando non già un ridimensionamento del peso dei partiti bensì un rafforzamento del legame tra questi e i parlamentari di riferimento.
La revisione costituzionale è presentata soprattutto come un attacco alle caste politiche ma, al contrario, proprio il ridotto numero di rappresentanti favorirebbe un maggiore controllo degli stessi da parte dei rispettivi partiti, sia nella fase della selezione dei candidati (che presumibilmente sarebbero scelti sempre più tra i “fedelissimi”) sia in quella successiva dell’esercizio del mandato. Insomma, sembra corrispondere a una sorta di petizione di principio l’idea per cui riducendo il numero dei parlamentari si innescherebbe un processo virtuoso che indurrebbe i partiti a mandare in Parlamento i “migliori”.
Occorrerebbe semmai porre al centro del discorso sulle riforme il tema della democraticità interna dei partiti, condizione che sola consentirebbe di salvaguardare la partecipazione democratica di tutti i cittadini a fronte di interventi, come quello in discussione e altri progettati, diretti a ridimensionare ruolo e funzioni del Parlamento o il principio del divieto di mandato imperativo.
4. Una terza ragione attiene, infine, allo spirito antiparlamentare che anima la riforma sulla riduzione del numero dei componenti di Camera e Senato. Un taglio così consistente, propagandato come un intervento punitivo nei confronti della casta politica e promosso senza cura alcuna per i tanti effetti collaterali dannosi che esso provocherebbe, ha infatti il chiaro intento di svilire il ruolo del Parlamento, secondo un progetto che trova espressione anche in altre revisioni programmate, alcune delle quali hanno già iniziato il proprio iter di esame e d’approvazione.
Il punto merita un breve approfondimento.
È vero che quella di cui stiamo parlando è una revisione puntuale che, sotto questo aspetto, non suscita i problemi sollevati da una riforma ampia come quella bocciata dal referendum del 2016. E, tuttavia, questo carattere non deve indurre, per un verso, a sottovalutare l’importanza di una seria analisi preventiva d’impatto della stessa revisione e, per altro verso, a trascurare il quadro complessivo che potrebbe scaturire dalla di poco successiva approvazione di altre revisioni, prima fra tutte quella dell’art. 71 Cost. Una riforma, quest’ultima, che introdurrebbe l’istituto del referendum propositivo, azionabile qualora un disegno di legge d’iniziativa popolare non fosse approvato dalle Camere entro diciotto mesi. In questo caso, la consultazione, qualora avesse esito positivo, comporterebbe l’approvazione definitiva del testo di legge.
Appare evidente l’intento ancora una volta punitivo di quest’ultimo intervento nei confronti dell’istituzione parlamentare, che vedrebbe così ulteriormente ridursi il proprio ruolo, a fronte di un rischioso potenziamento di quella che Ernst Fraenkel ha definito la componente plebiscitaria dello Stato democratico.
Modelli come quello che si verrebbe a delineare, frutto di combinazioni degne del dottor Frankenstein, come ha scritto Gaetano Silvestri, hanno un fascino certamente superiore alle pur appassionate difese della Costituzione, ormai sempre più spesso etichettate come “conservatrici”, ma la loro attuazione minerebbe alle fondamenta le istituzioni della democrazia pluralista.
Né, d’altro canto, appare realistico pensare che la riforma potrebbe costituire, come pure si è sostenuto, l’occasione per un ripensamento complessivo del bicameralismo.
L’esperienza dimostra, innanzitutto, come simili “occasioni”, in passato, non siano mai state colte nel senso auspicato dai promotori delle riforme approvate. Si pensi alle consistenti modifiche apportate al Titolo V della Parte II della Costituzione nel 1999 e nel 2001, che avrebbero dovuto avviare un processo di sviluppo delle autonomie ma che sono rimaste in gran parte sulla carta: dalla previsione della successiva ulteriore riforma del bicameralismo perfetto, con l’introduzione del Senato delle regioni o delle istituzioni territoriali (in attesa del quale l’art. 11 della legge costituzionale n. 3/2001 prevedeva l’integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti delle Regioni e degli enti locali), alla previsione, ora contenuta nel riformato art. 116 Cost., del “regionalismo differenziato”, al quale si sta ancora faticosamente cercando di dare una prima attuazione. Ma si pensi anche alle sorti del più recente processo riformatore avviato dal Governo Renzi, naufragato nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, e alle leggi ordinarie precedentemente approvate, che anticipavano e presupponevano la stessa riforma costituzionale poi bocciata dalla consultazione popolare, tra cui soprattutto la legge Delrio (n. 56/2014) sull’assetto degli enti locali.
Se si guarda, insomma, alla storia delle riforme costituzionali degli ultimi decenni, si può ricostruire, come si è detto, un percorso ripetutamente interrotto da battute d’arresto e da spericolate inversioni, che ha scontato le conseguenze nefaste di un’immancabile eterogenesi dei fini.
Se anche volessimo dare seguito gramscianamente all’ottimismo della volontà, il pessimismo della ragione lascerebbe ben poco spazio alle speranze.
Ci siamo chiesti, peraltro, cosa accadrebbe se anche questo tentativo non andasse a buon fine? Se dopo l’approvazione referendaria della legge costituzionale di riduzione del numero dei parlamentari non si riuscisse a trovare l’accordo sulla nuova legge elettorale e non fossero approvate le necessarie revisioni costituzionali e le modifiche legislative e regolamentari?
È ragionevole immaginare che, quando fosse possibile, potrebbe intervenire la Corte costituzionale, che molto probabilmente sarebbe chiamata in causa ancora una volta sulla legge elettorale, per valutarne la compatibilità con il mutato parametro costituzionale. Con tutte le conseguenze negative che tale ulteriore intervento comporterebbe, sia riguardo all’ulteriore delegittimazione del Parlamento sia ai rischi di sovraesposizione politica della stessa Corte. Quando, invece, quest’ultima non potesse arrivare, rimarrebbero i guasti provocati dall’ennesima “occasione” non colta.
Il bilancio decisamente negativo dell’esperienza riformista degli ultimi anni dovrebbe indurre a riflettere sul metodo finora seguito e sull’opportunità di avviare un discorso pubblico volto a collocare il tema delle modifiche costituzionali su un piano diverso da quello della quotidiana contesa politica, anche al fine di restituire alla stessa legge fondamentale una legittimazione troppe volte messa in discussione dai numerosi tentativi falliti di revisionarne i contenuti.
Tre ragioni per il SÌ
di Valerio Onida
Il referendum che si terrà il 20 settembre è di tipo “confermativo” o “oppositivo”. Non è cioè un istituto di democrazia diretta volto a consentire l’espressione della volontà degli elettori su una proposta formulata dai promotori (come avviene nel referendum abrogativo di leggi in vigore). Al contrario, i promotori qui chiedono che gli elettori votino per opporsi (o invece non opporsi, confermandola) ad una deliberazione già assunta dal Parlamento, cui spetta in esclusiva in potere di approvare – salvo appunto conferma degli elettori, qualora venga chiesto il referendum – una legge costituzionale già deliberata dalle Camere. Infatti, come si sa, l’articolo 138 della Costituzione stabilisce che deliberare una legge costituzionale di modifica della Carta spetta alle Camere, le quali all’uopo deliberano due volte ciascuna, a distanza di almeno tre mesi fra la prima e la seconda deliberazione, per consentire ogni ripensamento, e la seconda volta a maggioranza dei membri di ogni Camera. La richiesta di referendum, che può essere avanzata da un quinto dei membri di una Camera, da cinquecentomila elettori o da cinque consigli regionali, è preclusa se in seconda deliberazione entrambe le Camere hanno approvato la legge con la maggioranza dei due terzi dei componenti.
Ora, nel nostro caso la legge costituzionale che riduce il numero dei componenti delle Camere (non userei la brutta espressione dl “taglio”) è stata approvata dal Senato la prima volta il 7 febbraio 2019 con 185 voti a favore (più della maggioranza assoluta), 54 contro e 4 astenuti su 243 votanti; dalla Camera la prima volta il 9 maggio 2018 con 310 voti a favore, 107 contrari e 5 astenuti su 417 votanti; dal Senato la seconda volta l’11 luglio 2019 con 180 voti a favore (maggioranza assoluta), 50 contrari, nessun astenuto, su 230 votanti; alla Camera la seconda volta con 553 voti a favore (più di due terzi, e precisamente il 97,5% dei votanti e l’87,7 per cento dei componenti), 14 contrari e due astenuti. Il referendum ha potuto essere chiesto, non senza qualche difficoltà per trovare i firmatari, da 71 senatori (di cui 42 di Forza Italia; cinque senatori hanno pure ritirato la loro firma dopo averla data); non vi è stata richiesta da parte di elettori (una raccolta di firme indetta dal Partito radicale ha raggiunto solo poche centinaia di firme) né da parte di consigli regionali.
Ho ricordato questi dettagli per mettere in evidenza come si tratti di una legge che ha raccolto il larghissimo suffragio del Parlamento (alla Camera in seconda votazione quasi l’unanimità dei votanti) al termine di un iter complesso che ha visto confluire nel voto positivo, da ultimo, entrambi gli schieramenti di maggioranza formatisi al tempo dei due Governi Conte, e i dissensi – per lo più taciti – ridotti al minimo.
Da ultimo, come si è detto, su questa legge si è manifestato il consenso praticamente di tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione (nelle due configurazioni successive), cioè una condizione che dovrebbe auspicabilmente sempre verificarsi quando si tratta di modificare la Costituzione, per evitare il rischio di riforme “di maggioranza”.
In queste condizioni, di fronte alla richiesta referendaria, fermi evidentemente la possibilità e il dovere di ogni elettore di orientarsi autonomamente in base alle proprie convinzioni, non si può non pensare che un voto negativo, diretto a smentire il pronunciamento compatto del Parlamento, dovrebbe trovare fondamento in solidi argomenti attinenti al merito della riforma, che cioè prospettino dei rischi di deterioramento delle istituzioni costituzionali.
Ora, la mia impressione è che gli argomenti portati in questi giorni a favore del no siano tutt’altro che convincenti. Non sono in gioco valori costituzionali primari. Non è in gioco l’equilibrio fra i poteri, non è in gioco il sistema parlamentare. Le assemblee parlamentari possono funzionare efficacemente sia con i numeri attuali, sia con i numeri ridotti proposti. Che la funzionalità di un’assemblea parlamentare dipenda dal numero dei suoi componenti, almeno entro certi limiti, non è vero (come dimostra tra l’altro il fatto che oggi Camera e Senato, che svolgono di fatto gli stessi compiti, e anche per prassi vengono trattati del tutto alla pari, funzionano altrettanto bene, o altrettanto discutibilmente, anche se la prima ha il doppio di membri del secondo). Semmai, si può ragionevolmente ritenere che l’approvazione della legge possa essere l’occasione (speriamo non sprecata) per mettere allo studio e per realizzare una serie di miglioramenti quanto alla loro funzionalità. Oggi assistiamo troppo spesso a dibattiti in aula che non sono veri confronti sia pure dialettici, ma mere occasioni di propaganda, in cui prevalgono le invettive, più che le critiche, nei confronti degli avversari politici; e a un lavoro legislativo quasi sempre volto solo ad approvare ed emendare testi governativi, per lo più decreti legge Anche se il prevalere dell’iniziativa legislativa del Governo è in qualche modo inevitabile nella legislazione corrente, non è bene che non restino spazi anche per approfondite riflessioni parlamentari su argomenti estranei all’indirizzo politico di Governo (si pensi al clamoroso silenzio del Parlamento “messo in mora” dalla Corte costituzionale sul delicato tema del fine vita, e più in generale a quante volte i “moniti” della Corte, che chiedono interventi legislativi, restino inascoltati).
Il rimedio è la riduzione del numero dei parlamentari? No, certo, ma può essere un’occasione da cogliere.
Si lamenta da parte dei fautori del “no” un indebolimento della “rappresentatività” del Parlamento, dovuto all’aumento del quoziente di rappresentanza, cioè del rapporto complessivo fra elettori ed eletti. Ma pensare che la rappresentatività delle Camere sia legata al fatto che ad eletto corrisponda un numero ristretto di elettori, è antistorico. Che a un deputato corrispondano 80.000 piuttosto he 128.000 elettori cambia poco o niente. Oggi la capacità delle assemblee di rappresentare effettivamente gli elettori, le loro idee, le loto istanze, i loro problemi, non è legata essenzialmente, specie in un Paese di decine di milioni di abitanti, ad una sorta di rapporto personale fra l’eletto e i suoi elettori, ma essenzialmente agli strumenti collettivi della rappresentanza politica, i partiti e le grandi organizzazioni sociali. Se c’è un difetto di rappresentatività questo è dovuto, indipendentemente dal numero degli eletti, al fatto che partiti e organismi intermedi non fanno bene il loro mestiere, a livello centrale e territoriale. Del resto la rappresentanza elettorale non si limita al Parlamento: ci sono assemblee elettive ai vari livelli territoriali. Non è che la “rappresentatività” di queste assemblee (come i consigli regionali e comunali) si sia ridotta a seguito delle leggi recenti (d.l. n. 138 del 2011) che hanno ridotto (fra l’altro in nome di esigenze di riduzione dei costi: la motivazione “anti casta” che oggi viene, giustamente, indicata come non valida rispetto alla riduzione del numero dei parlamentari!), il numero massimo di componenti delle assemblee locali. Piuttosto, una carenza di rappresentanza si è verificata con la legge “Del Rio” n. 56 del 2014 che ha abolito l’elezione diretta degli organi delle Province e delle Città metropolitane (e pochi hanno denunciato la riduzione, quella sì reale, della rappresentatività).
Se poi si vuole dire che con meno eletti scende la possibilità che formazioni politiche molto piccole entrino in Parlamento, questo è vero, perché una frazione di un quattrocentesimo o di un duecentesimo di elettorato è inferiore a un seicentesimo o a un trecentesimo. Ma l’eccessiva frammentazione politica del Parlamento non è di per sé un bene: tanto che in sede di legislazione elettorale (poiché quella è la sede decisiva) sono prevalenti oggi le spinte a non favorire o a ridurre l’eccessiva frammentazione, attraverso sistemi in tutto o in parte maggioritari o attraverso clausole di sbarramento esplicite o implicite (in un sistema di circoscrizioni senza recupero di resti in sede nazionale, è impedito l’ingresso in Parlamento di eletti rappresentanti di forze politiche inferiori a certe dimensioni). Ferma l’esigenza di salvaguardare un buon livello di pluralismo, ridurre la frammentazione politica eccessiva è desiderabile.
Nemmeno è valido l’argomento per cui con la riduzione del numero di parlamentari si verificherebbe un’assenza di rappresentanza di territori specifici come quelli delle piccole Regioni. Infatti i deputati come i senatori “rappresentano la Nazione”, dovunque siano eletti, e non solo i territori in cui sono eletti. Il Senato poi è bensì eletto (già oggi) a base regionale, in vista di un arricchimento della rappresentanza legato alla specifica presenza dei corpi elettorali regionali nell’ambito del Parlamento. Oggi c’è chi vorrebbe eliminare questa caratteristica del Senato, da sempre presente, muovendo in senso contrario all’idea costituzionale di un ruolo anche nazionale delle Regioni. In ogni caso, la riforma attuale non intaccherebbe questo aspetto, posto che continuerebbe ad essere previsto un numero minimo di senatori per ogni Regione, indipendentemente dalla popolazione (oggi sono sette, diverrebbero tre), per cui resterebbe un diverso e più alto quoziente di rappresentanza proprio nelle Regioni più piccole.
Quindi: nessuno “sfregio” e nessuna “mutilazione” al Parlamento o alla Costituzione; nessuna significativa alterazione della rappresentanza degli elettori, anche nei diversi territori; nessun ostacolo al buon funzionamento delle Camere, ma semmai un’occasione di miglioramento da questo punto di vista.
Cosa resta allora degli argomenti per il “no”? Resta, paradossalmente, solo la condivisibilità della critica portata ad una delle motivazioni addotte dai fautori della riforma; la riduzione dei costi. I “costi” della politica” – ferma l’esigenza di evitare sprechi – non sono un motivo per ridurre il numero degli eletti (e da questo punto di vista si può notare che anche le forze politiche “tradizionali” non sono prive di colpe, come si è detto).
Il resto, smontate le motivazioni di merito, attiene alla valutazione degli effetti del voto sul panorama delle forze politiche in campo, sui rapporti fra le stesse e sulle sorti del Governo: argomenti che dovrebbero di massima restare estranei ad una scelta referendaria che si confronta con una volontà legislativa ampiamente [vo1] e ripetutamente espressa proprio da quel Parlamento che si afferma di voler difendere.
Tre ragioni per il NO
di Lara Trucco
“Un filosofo che non poteva camminare
perché si pestava la barba, si tagliò i piedi”
(A. Jodorowsky)
Desidero innanzitutto rivolgere un grazie sentito alla Rivista “Giustizia Insieme”, nonché al Presidente Onida ed ai Colleghi per questa opportunità di dialogo e di confronto.
Una tale occasione di approfondimento dei contenuti della proposta di riforma, peraltro, risulta tanto più preziosa in quanto all’ampio consenso ricevuto dalla stessa in aula non sembra avere corrisposto – da ultimo, complice, probabilmente, l’epidemia di covid-19 – un altrettanto importante coinvolgimento della pubblica opinione, così da apprendersi, a pochi giorni dalla consultazione, che molta parte degli elettori ancora non saprebbero che oggetto del voto è proprio l’«organo fondamentale nell’assetto democratico dell’intero ordinamento» (Corte cost., sent. n. 35 del 2017).
Peraltro, il titolo proposto – “tre ragioni per il sì e per il no al referendum” – benché orientato ad una qualche presa di posizione al riguardo, conduce, nondimeno, a svolgere un’indagine a più ampio spettro, che è quanto dunque ci si propone di fare nelle pagine che seguono.
1. La prima ragione per il no al referendum: la (solo) apparente chiarezza del quesito proposito
1.1. Dei suddetti tre “versanti tematici” su cui siamo chiamati ad esprimerci, un primo che a nostro avviso merita senz’altro attenzione è quello che riguarda i contenuti del quesito.
È stato, infatti, da più parti evidenziato come la proposta attuale abbia abbandonato l’approccio “organico” seguito in tempi recenti, optando per un intervento più mirato, con l’obiettivo di meglio rispondere alla struttura binaria del voto referendario, e di venire così incontro all’esigenza di porre gli elettori nelle condizioni di rispondere con un “sì” o con un “no” a quanto richiesto.
Su questa base, volendo rifarsi a categorie note rese dalla Consulta a tutela della “libertà di voto” in ambito referendario, il quesito risulta “omogeneo”, disponendo di una matrice razionalmente unitaria: la “riduzione del numero dei parlamentari”, per l’appunto (ormai impressa nell’immaginario collettivo con il “taglio” di forbici diffuso dai media, a cui pertanto ci si riferirà nel prosieguo). Un diverso discorso, invece, ci sembra che vada fatto per il profilo dell’“univocità” del medesimo quesito, essendo l’elettore chiamato, con un solo voto, a compiere una pluralità di scelte (ben visibili, del resto, nella delibera proposta di riforma costituzionale) su cui, dunque, a stretto rigore, a stare del suddetto obbiettivo, ci si sarebbe dovuti poter esprimere disgiuntamente, e cioè a dire:
- il numero dei deputati (art. 1);
- il numero dei senatori (art. 2);
- il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione estero (art. 2);
- le Province autonome (art. 2) ed
- i senatori a vita (art. 3).
Chi voterà, infatti, potrebbe volere la riduzione del numero di deputati ma non quella dei senatori, o viceversa. Ancora, perché incorporare in un solo quesito anche la rappresentanza estera? E riformare contestualmente quella delle Province autonome? E, poi, perché non dare modo agli elettori di lasciare inalterato il numero complessivo di senatori di nomina presidenziale?
Si osserva, peraltro, che se il quesito fosse stato effettivamente “spacchettato”, si sarebbe potuto assecondare, in qualche misura (s’intende: nell’ipotesi di un “sì” alla riduzione dei senatori e di un “no” a quella dei deputati) uno di quegli aspetti su cui si registra una maggiore condivisione in dottrina (cfr., ex multis, Cheli, Tesauro e Violante), e cioè a dire la differenziazione tra le due Camere; tendendo, invece, un siffatto “accorpamento” ad omologare gli esiti referendari nella direzione del consolidamento dell’attuale “bicameralismo paritario” (specie in combinato col d.d.l. Fornaro).
Ciò, ci pare, potrebbe forse già di per sé bastare a dar prova della reale complessità della revisione, a fronte di una semplicità del quesito solo apparente, che potrebbe indurre a sottovalutarne la portata o comunque soggetto a molteplici interpretazioni (cfr., variamente, Ainis, Cacciari, Morelli, Prodi, Spataro, Zagrebelsky). Potendo, quindi, guardarsi in quest’ottica all’auspicio del Presidente della Camera dello svolgimento di «un dibattito ampio e approfondito», così da mettere i cittadini nelle condizioni di «poter votare in modo pienamente informato e consapevole». Là dove poi della medesima necessità di chiarezza si è fatto soprattutto interprete e portavoce, sempre nei giorni scorsi, lo stesso Capo dello Stato, allorquando, nel discorrere del disposto relativo alla “decorrenza delle disposizioni” della riforma dalla prossima legislatura – norma rimasta fuori dal quesito ma pur sempre presente nel testo della legge (art. 4) – ha teso, a precisare che comunque vada «il Parlamento in carica resta legittimo».
1.2. Peraltro, ad un esame più approfondito della proposta di riforma ci si avvede delle ulteriori implicazioni che l’eventuale vittoria del “sì” avrebbe sui contenuti della Carta.
La riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e di quello dei senatori da 315 a 200 comporterebbe, infatti, innanzitutto, una variazione del corpo votante per l’elezione del Presidente della Repubblica (ex art. 83 Cost.), il quale si vedrebbe, per l’appunto, “tagliato” da 1009 a 664 elettori, con la conseguenza che le maggioranze richieste si abbasserebbero, rispettivamente, a 443 voti (invece di 673) per i primi tre scrutini e 333 (invece di 505) dal quarto. Col che, si osserva, non solo i 58 delegati regionali avrebbero un peso maggiore sul totale degli aventi diritto al voto, ma l’ammontare complessivo dello stesso elettorato finirebbe per coincidere col numero di voti che decretarono l’elezione dell’attuale Capo dello Stato (n. 665, alla quarta votazione).
A ben vedere, sarebbero tutte le maggioranze richieste per le deliberazioni del Parlamento in seduta comune a venire incise: l’elezione di cinque giudici della Corte costituzionale (art. 135 Cost.), quella di un terzo dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura (art. 104 Cost.) e, non in ultimo, la messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica (art. 90 Cost.). Inoltre, verrebbero toccati i quorum di garanzia e in tutte le circostanze in cui siano richieste maggioranze qualificate e valori numerici assoluti (spec. artt. 62, 64, 72, 73, 79, 94 Cost.), nonché la stessa organizzazione interna, non escluse le dinamiche procedimentali, delle Camere (con la riduzione, tra l’altro, dei componenti e, correlativamente, dei quorum deliberativi delle commissioni). Ma, del resto, è la stessa avvertita necessità di ridefinire il rapporto percentuale tra senatori di diritto ed eletti a vita (v. supra) a dimostrare l’impatto che la riforma avrebbe sui rapporti numerici «armonicamente connessi» al tessuto della Carta (Costanzo, Volpi).
Pertanto, in questo quadro, nemmeno la revisione costituzionale verrebbe risparmiata (ex art. 138 Cost.), così che mentre da un lato sarebbe più facile da parte dei parlamentari fare domanda di referendum popolare (dal momento che la soglia si abbasserebbe da 126 deputati e 64 senatori a, rispettivamente, 80 deputati e 41 senatori), dall’altro lato e contestualmente sarebbe più a portata di mano la possibilità di non fare luogo a referendum, dato che per raggiungere la soglia dei due terzi dei voti basterebbero ora solo 267 deputati e 137 senatori (invece che, rispettivamente, 420 deputati e 214 senatori com’è stato sino adesso).
Pertanto, a tutto concedere, tassello dopo tassello, indipendentemente dal fatto di condividerne o meno il contenuto, sembra oggettivamente difficile valutare come sostanzialmente «insignificante» l’impatto della riforma (…).
2. La seconda ragione per il no al referendum: l’inadeguatezza del metodo di reclutamento “promesso” per la rappresentanza politica ridimensionata
2.1. Il secondo profilo tematico su cui s’intende portare ora l’attenzione è dato dall’incidenza della proposta di riforma in esame sulla rappresentanza politica e la rappresentatività dello stesso organo parlamentare.
Anche a questo proposito nelle argomentazioni del “sì” come in quelle del “no” è rilevata (e comunque continua a rilevare) la centralità del dato numerico, con le prime orientate dall’idea che il nostro Parlamento conti troppi componenti e le seconde, invece, schierate nel senso di ritenerlo in linea rispetto agli altri Paesi europei. È stato soprattutto nelle ultime settimane che (anche) da parte dei media si è teso a fare chiarezza sul punto, evidenziandosi la correlazione degli esiti delle analisi svolte con i metodi di comparazione adottati (v. grafici che seguono, basati sui dati forniti dai dossier dal Servizio Studi di Camera e Senato).


Come emerge dai grafici, infatti, la situazione cambia completamente a seconda che venga preso a riferimento il numero assoluto di componenti degli organi parlamentari considerati (grafico n. 1); o quello complessivo per frazione (ad esempio) di 100mila abitanti (grafico n. 2); piuttosto che, ancora, quello delle sole camere basse, sempre per 100mila abitanti (grafico n. 3). Col risultato che il Parlamento italiano compare ai primi posti della classifica “per eccesso” solo nel primo caso, risultando, invece, negli altri perfettamente in linea con le altre democrazie europee, se non addirittura sottorappresentato.
Ad ogni modo le cifre segnalano che se la revisione dovesse andare in porto il rapporto del numero degli abitanti per deputato aumenterebbe, passandosi da all’incirca da 96mila a 151mila ed analogamente avverrebbe per l’altra camera, con un innalzamento da 188mila a 302mila unità per senatore. Correlativamente, mentre sul versante dell’elettorato “attivo” si assisterebbe alla diminuzione della capacità dei singoli elettori di influire sull’esito dell’elezione, su quello “passivo” si avrebbe un innalzamento del consenso necessario per essere eletti (secondo dinamiche che verrebbero perdipiù assecondate dalla più ampia estensione dei collegi elettorali). Si osserva, peraltro, come parte della dottrina ritenga un siffatto ridimensionamento di «dubbia costituzionalità» in mancanza di un «chiaro disegno razionalizzatore», vedendosi, dapprima nel rapporto sancito dalla Costituente (di un deputato ogni 80mila abitanti per la Camera dei deputati e di un senatore ogni 200mila abitanti per il Senato) e, quindi, nell’ammontare fisso stabilito in sede di revisione (alla ricerca dell’equilibrio tra rappresentatività e funzionalità) una «soglia minima invalicabile per non compromettere il principio democratico» (Costanzo).
Ciò considerato, pare oggettivamente difficile contestare il fatto che alla “riduzione” del numero di parlamentari corrisponderebbe una “diminuzione” della rappresentatività dell’organo (cfr. Morelli). Per cui si condivide l’auspicio (cfr. Cacciari, De Marco, Lanchester) che al “taglio” si accompagni un sistema elettorale in grado di compensare quanto andrebbe perso (v. infra) nonché, in vista del dichiarato obbiettivo di una maggiore efficienza dell’azione di governo, un impianto istituzionale idoneo ad incanalarne gli esiti (v. infra). E, questo, indipendentemente dall’idea, di alcuni Costituenti, che «se nella Costituzione si stabilisse la elezione di un Deputato per ogni 150 mila abitanti, ogni cittadino considererebbe questo atto di chirurgia come una manifestazione di sfiducia nell’ordinamento parlamentare» (Terracini).
In questo modo, le stesse occasioni di partecipazione politica, rese possibili, come osservato da parte della dottrina, dal rinnovato panorama istituzionale (spec. rappresentanza “multilivello”) e tecnologico (spec. sviluppo delle telecomunicazioni ed avvento del digitale), lungi dall’assumere una valenza surrogatoria o compensativa ne uscirebbero arricchite (cfr., variamente, sul punto, De Siervo, Nicotra, Onida).
2.2. Il fatto è che ci pare lecito avere qualche dubbio sull’idoneità dei sistemi elettorali messi ad oggi in campo a conseguire il suddetto obbiettivo, sia in termini “quantitativi” sia “qualitativi”, nella direzione della preservazione del pluralismo e, nel contempo, della valorizzazione della meritocrazia e della responsabilizzazione sul piano politico.
Va preliminarmente osservato come la riduzione stessa del numero di scranni comporti un aumento della soglia implicita di elezione in direzione “maggioritarizzante” (particolarmente “avvertibile” al Senato), dal momento che alla diminuzione dell’“offerta elettorale” a disposizione corrisponderebbe un aumento del costo di ciascun seggio in termini di voti, a beneficio delle forze politiche maggiori (cfr. Carlassare).
Ciò posto, secondo un primo scenario, sia che venga ripristinata la “legge Mattarella” (A.C. 2346), sia che si reintroduca il premio di maggioranza di lista e di coalizione (A.C. 2562), sia, ancora, che si segua la via della valorizzazione dell’uninominale prevista dal sistema attuale (A.C. 2589), ciò che rileva è – si precisa, in vario modo e diversa misura, in ragione delle caratteristiche di tali sistemi – l’accentuazione dell’impatto “dis-rappresentativo” della riforma costituzionale in esame. E ad un esito analogo condurrebbe il secondo scenario che si aprirebbe se venisse approvata la proposta di legge proporzionale in discussione alla Camera (A.C. 2329), data la difficoltà (spec. al Senato) di procedere alla “proporzionalizzazione” di liste (più) corte (di prima), e la previsione di una soglia di sbarramento esplicita (ad oggi fissata al 5%), che andrebbe a sommarsi a quella implicita di cui si diceva, a scapito delle forze minoritarie (di qui la necessaria previsione di un “diritto di tribuna”).
Né, per vero, a conclusioni molto diverse si arriverebbe nel “terzo scenario” che si aprirebbe se, invece, com’è probabile, non si facesse a tempo a modificare il Rosatellum-bis, per cui si avrebbe l’entrata in gioco delle norme già predisposte dal legislatore “per assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari” (legge 27 maggio 2019, n. 51, sul cui impatto si rinvia, volendosi, a Trucco). In particolare, si guarda problematicamente alla perdurante vigenza (spec. qui), delle liste bloccate, il cui bilancio, a distanza di tempo, non può che essere valutato negativamente in termini di risultati ottenuti. Con l’aggiunta, perdipiù, in caso pur sempre di mantenimento dell’attuale sistema, di quel meccanismo parimenti critico che è la “multicandidabilità” (la cui portata, peraltro, risulterebbe ora amplificata dalla mancata “riproporzionalizzazione” del numero di “multi-candidabili” nel quadro del nuovo impianto).
Per cui, ciò che se ne conclude è la (ulteriore) dilatazione del potere delle segreterie e soprattutto dei singoli leader nella selezione degli stessi parlamentari che potrebbe verosimilmente prodursi all’indomani della riforma, con ricadute che pare possibile preconizzare come non molto diverse da quelle attuali (cfr. Clementi, Dogliani, Morelli). Ci si limita, peraltro, a rilevare come la stessa riduzione dei parlamentari, combinata ai suddetti meccanismi maggioritarizzanti e blindati – in mancanza, com’è attualmente, di correttivi “di peso” – potrebbe verosimilmente portare ad una compressione – ed in fin dei conti al peggioramento – della situazione concernente la rappresentanza femminile (anche) in Parlamento. Il tutto, mentre il tema della regolamentazione “dei partiti” risulta essere uscito completamente di scena.
Non in ultimo, sul piano più propriamente tecnico si rileva il rischio (remoto ma comunque non trascurabile, stante la situazione politica attuale) del possibile innesco, a seguito di una ipotetica vittoria del “sì”. di un black-out istituzionale, nel lasso di tempo intercorrente tra la data di entrata in vigore della legge costituzionale modificativa del numero dei parlamentari e quella di entrata in vigore del decreto legislativo di ridefinizione dei collegi elettorali, per il fatto che, se per qualsiasi ragione si dovesse andare ad elezioni, il sistema di voto con l’attuale formato circoscrizionale non potrebbe funzionare (art. 3 della l. n. 51 del 2019, cit.).
2.3. Quanto testé osservato ci induce ad un ulteriore esame dell’impatto che la riduzione che deriverebbe “dal taglio” – pari, in termini percentuali, al 36,5% degli attuali componenti elettivi – avrebbe sull’autonomia territoriale, con specifico riguardo dunque alle Regioni ed alle “Province autonome” (v. il “nuovo” art. 57 della Costituzione).
Da uno sguardo complessivo rileva, infatti, la sofferenza che ne deriverebbe per quelle regioni nelle quali la parvità di seggi non consentirebbe di garantire una adeguata “copertura”, in termini di rappresentanza, all’intero territorio (si pensa, solo per fare un esempio, alla Liguria che, con la “disponibilità” di soli 5 seggi vedrebbe “scoperto” l’intero collegio al confine con la Francia).
Più nello specifico, risulta controversa la scelta politica relativa al mantenimento delle soglie minimali di seggi nella stessa norma costituzionale, ritenendosi maggiormente confacente al principio di eguaglianza un riparto puramente proporzionale dei seggi sulla base della popolazione dei vari territori. Così, com’è noto, la formulazione del nuovo disposto manterrebbe un numero minimo di senatori (pari però ora non più a sette ma a tre) “per Regione o provincia autonoma”, lasciando al contempo immodificata la previsione vigente dell’articolo 57, terzo comma della Costituzione relativa alle rappresentanze del Molise (2 senatori) e della Valle d’Aosta (1 senatore). Vero è, peraltro, che un siffatto rinnovato quadro vedrebbe alcune regioni meglio allineate al quoziente di rappresentanza medio (dato dal rapporto tra seggi e abitanti) rispetto alla situazione attuale. Tuttavia continuerebbero a vigere discrasie di rilievo nel quadro della rappresentanza regionale, per cui a beneficiare della situazione sarebbero, rectius: resterebbero (cfr. Conte), in particolare, Valle d’Aosta, Molise, Umbria e Basilicata, mentre a perdervi sarebbero Liguria, Abruzzo, Calabria e Sardegna (v. le tabelle che seguono).

Nel suddetto quadro, a far discutere sono soprattutto le province autonome di Trento e di Bolzano, in ragione non solo e non tanto, sul piano sostanziale, del perdurante favor rispetto agli altri territori (dato che in base alla popolazione esse dovrebbero beneficiare, al più, di un solo seggio), quanto, soprattutto, sul quello formale, per l’equiparazione che ne deriverebbe con le altre regioni.
La menzione, infatti, da parte del “nuovo” disposto costituzionale, proprio in vista della “ripartizione dei seggi” delle “Province autonome” insieme alle “Regioni” viene da alcuni (Besostri) ritenuto in contraddizione con la considerazione delle medesime – alla stregua di enti “compresi” nella (ovvero distinte ed autonome dalla) Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol – da parte dello Statuto speciale della Regione (agli artt. 1 e 3), oltre che dello stesso dettato costituzionale (all’art. 116, c. 2, Cost.).
3. La terza ragione per il no al referendum: la “cieca” razionalizzazione della forma di governo
3.1 Quanto osservato ci porta, da ultimo, a considerare una delle principali argomentazioni addotte dai sostenitori del “sì” e cioè a dire la maggiore funzionalità dell’organo e, correlativamente, il migliore rendimento della più ampia forma di governo che dalla riduzione preconizzata potrebbero verosimilmente scaturire (Nicotra).
Ciò si dovrebbe, in particolare, all’automatismo insito nella maggiore facilità che si avrebbe, al cospetto di numeri (più) ridotti, nel trovare l’accordo politico. Tesi, questa, che si condivide con riguardo a contesti in cui vigano rapporti personali votati alla collaborazione, ma che non ci pare possa essere data per scontata in contesti conflittuali, in cui “la personalizzazione” della scelta potrebbe anzi acuire la polarizzazione dello scontro, a fronte, invece, dei benefici che potrebbero derivare dal maggiore anonimato indotto dall’ampiezza dei consessi (Villone).
Più nello specifico, circa la funzionalità dei due rami del Parlamento è possibile pensare che molto dipenderà dalla (ulteriore) riforma che si vorrà fare dei regolamenti parlamentari (cfr. Clementi, Pertici). Mentre sembra trovare tutti d’accordo la necessità di concentrarsi più che sulle questioni legate alle tempistiche ed alla quantità di leggi approvate (cfr. Cassese), soprattutto sulla loro qualità (col che ritornandosi a quanto si osservava infra, circa l’importanza del sistema di reclutamento dei parlamentari). È noto, peraltro, il monito sui rischi di un rallentamento dei lavori e addirittura sui rischi di disfunzionalità che una riforma così tranchante potrebbe comportare soprattutto al Senato, data l’oggettiva difficoltà in cui le Commissioni potrebbero venirsi a trovare di adempiere ai propri incarichi (cfr. Azzariti, Violante). A tale riguardo, un profilo che, ci pare, sta passando sottotraccia è dato dall’ulteriore indebolimento che (pure in un contesto sovranazionale che vorrebbe valorizzarne il ruolo) deriverebbe sui rapporti intrattenuti dal nostro Parlamento col Parlamento europeo, e, più in generale, con le Istituzioni eurounitarie e le organizzazioni internazionali (cfr. Ceccanti). Col che riecheggiano le parole di chi in Assemblea Costituente avvertiva sull’opportunità che “il numero dei componenti un’assemblea risulti in certo senso proporzionato all’importanza che ha una nazione, sia dal punto di vista demografico, che da un punto di vista internazionale” (Terracini).
Voci critiche di rilievo, poi, si sono levate anche in merito alla presunta maggiore efficienza dell’azione di governo a cui “il taglio” condurrebbe (Buzzacchi, Violante). In questo senso, si è osservato problematicamente come la riforma in esame tenda al suddetto traguardo attraverso uno svuotamento non meglio razionalizzato dell’organo, dal momento che l’«evidente perdita di ruolo che il Parlamento subirebbe non potrebbe non avere ricadute sulla dialettica col Governo, spostando il baricentro del sistema a favore dell’Esecutivo» (Algostino, Costanzo, Gambino, Tripodina, Volpi).
Più in generale, ritenendosi illusorio che il taglio di per sé solo possa bastare ad innescare la governabilità si è portati anche qui (v. supra) ad estendere lo sguardo alle (altre) proposte di riforma costituzionale in itinere, al fine di rinvenirvi qualche collegamento utile a rassicurare sull’idoneità della riduzione numerica del Parlamento al mantenimento delle promesse attese. Col risultato, tuttavia, di (ri)trovare (nel paragrafo della nota di aggiornamento del “DEF 2018” dedicato al programma di riforme istituzionali che il Governo intende attuare) tra le linee di intervento volte al “miglioramento dell’efficacia dell’attività del Parlamento” proprio la stessa e sostanzialmente sola “riduzione del numero dei parlamentari” (riguardando, le altre tre linee di intervento, rispettivamente: il potenziamento degli istituti di democrazia diretta, la soppressione del CNEL e l’introduzione del ricorso diretto alla Corte costituzionale sulle deliberazioni assunte dalle Camere in materia di elezioni e cause di ineleggibilità e incompatibilità dei membri del Parlamento).
3.2. Volendo, con la necessaria sintesi, tirare le fila del discorso, le tre “ragioni” di cui si è discusso, conducono, in ultima analisi, a rilevare problematicamente l’approccio riduzionista e fideistico della riforma, rispetto, peraltro, a quella stessa rappresentanza politica che sia “col sì” sia “col no” si mirerebbe variamente ed in certa misura a “sanzionare” politicamente.
Ciò, a nostro avviso, può già valere a motivare la diversa posizione assunta ora da parte di quella dottrina che in occasione della cd. “riforma Renzi-Boschi” si era dimostrata invece favorevole alla riduzione del numero di parlamentari; mentre, d’altra parte, non pare sufficiente a far concludere per una valutazione di puro conservatorismo della posizione di chi entrambe le volte si sia dichiarato contrario alla revisione…data la necessità, per l’appunto, in tutti i casi di considerare contestualmente – in disparte le motivazioni politiche – le ragioni di metodo e di merito sottese alle stesse riforme istituzionali.
Un denominatore comune che emerge dal confronto tra i diversi interventi svolti nel presente forum, sembra essere dato dal rilievo dell’importanza di avviare un discorso pubblico sul tema delle modifiche costituzionali. Col che, prendendosi atto di come il cammino delle riforme sia andato e vada nella direzione della riduzione della consistenza numerica dei parlamentari (v. tabella del Servizio studi della P.C.M.), si ritiene imprescindibile – sia che vinca “il sì”, sia che vinca “il no” –la ripresa del percorso delle riforme costituzionali avviato nel corso della XVII Legislatura, da parte dapprima dei due Gruppi di lavoro sui temi istituzionali ed in materia economico-sociale ed europea, e quindi della Commissione di esperti per le riforme costituzionali.
Può infatti pensarsi che quell’esperienza, interrottasi proprio alla soglia d’ingresso del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali, offrisse le più adeguate garanzie sotto ambo i profili più sopra menzionati, come del resto può dirsi spia l’importanza riconosciuta al dibattito in seno alla società civile (con la previsione, tra l’altro, di una procedura di consultazione pubblica) sulle stesse riforme.

Si riporta la tabella del Dossier della PCM
“Rassegna stampa” richiamata
M. Ainis, Un voto per la Costituzione, in La Repubblica, 1° settembre 2020
A. Algostino, Contro la riduzione del numero dei parlamentari, in nome del pluralismo e del conflitto, in Questione Giustizia, 10 febbraio 2020
G. Azzariti, La modifica del sistema elettorale secondo la proposta di legge dell’attuale maggioranza, in Consulta OnLine, 8 giugno 2020
G. Azzariti, I costituzionalisti critici spiegano in No ma i giornalisti non leggono più, in Il Manifesto, 10 agosto 2020
G. Azzariti, Riforma improvvisata per motivi strumentali, in La Stampa, 29 agosto 2020
F. Besostri, Il taglio dei parlamentari è anti costituzionale e il referendum non si può tenere lo stesso giorno delle amministrative, in articolo21.org, 14 luglio 2020
C. Buzzacchi, Se la rappresentanza diventa solo un inutile costo: ancora ragioni per il ‘no’, in Lacostituzione.info, 22 agosto 2020
M. Cacciari, Il referendum e le distopie dei populisti, in La Stampa, 22 agosto 2020
L. Carlassare, Referendum, Carlassare: “Se passa il No nulla verrà più cambiato. Meno parlamentari? Quel che conta è il loro rapporto con gli elettori”, in IlFattoQuotidiano.it, 30 agosto 2020S. Cassese, L’attività e l’efficacia del nostro Parlamento, in Corriere della Sera, 2 settembre 2020
S. Ceccanti, Taglio parlamentari, il costituzionalista Ceccanti a TPI: Chi votò Sì alla riforma Renzi dovrebbe rifarlo oggi. Ma preferisce attaccare il M5s, in tpi.it, 26 agosto 2020
S. Ceccanti, Sì perché cresce il peso di ciascun parlamentare, in Il Mattino, 27 agosto 2020
E. Cheli, con il taglio si può arrivare alle Camere unite”, in Il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2020
F. Clementi, Con questo taglio non ci sono pericoli, in La Stampa, 29 agosto 2020
F. Conte, Taglio dei Senatori: chi perde (la Basilicata) e chi guadagna (la Valle d’Aosta) in termini di rappresentanza, in Lacostituzione.info, 29 agosto 2020
F. Contini, Riduzione dei Parlamentari: cause ed effetti di una pseudo-riforma, in Lacostituzione.info, 22 agosto 2020
P. Costanzo, Quando i numeri manifestano principi ovvero della probabile incostituzionalità della riduzione dei parlamentari, in Consulta OnLine, 31 gennaio 2020
E. De Marco, Riduzione del numero dei parlamentari e riforma del sistema elettorale. Qualche considerazione su un abbinamento contrassegnato da criticità, in Consulta OnLine, 4 settembre 2020
U. De Siervo, Non occorre più un Parlamento così ampio, La Repubblica, 27 agosto 2020
S. Gambino, Quale centralità del Parlamento se si procedesse al taglio del numero dei parlamentari? in Consulta OnLine, 1° settembre 2020
F. Lanchester, Le due emergenze e la necessità del pilone della legge elettorale, in Il Dubbio, 1° settembre 2020
U. Magri, Mattarella e l’ipotesi di vittoria del Sì. Il Parlamento in carica reta legittimo, in La Stampa, 30 agosto 2020
N.d.r., Numero di deputati in relazione alla popolazione, in La Repubblica, 4 settembre 2020
L. Milella, Referendum, con il Sì Italia ultima nella Ue per rappresentanza, in La Repubblica, 28 agosto 2020
I. Nicotra, Serve un sì al referendum per un Parlamento più efficiente, in Il Foglio Quotidiano, 26 agosto 2020
V. Onida, Con il taglio le camere potranno funzionare meglio anche senza correttivi, in La Repubblica, 25 agosto 2020
V. Onida, Il taglio dei parlamentari non pregiudica il ruolo costituzionale delle Camere, in Il Sole24ORE, 28 agosto 2020
A. Pertici, Il taglio dei parlamentari non è una scelta da “antiparlamentarismo”, in huffingtonpost.it, 31 agosto 2020
A. Pertici, Referendum, il taglio non svilisce le Camere, in Il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2020
R. Prodi, Referendum Prodi: “ecco perché voto no. Il numero dei parlamentari non è il vero problema”, in ecomy.it, 28 agosto 2020
A. Spataro, Tagliare gli eletti è solo pubblicità ingannevole, in La Repubblica, 27 agosto 2020
G. Tesauro, Referendum se vince il sì il parlamento darà per censo, in La Repubblica, 25 agosto 2020
C. Tripodina, Riduzione del numero dei parlamentari, tra riforma costituzionale ed emergenza nazionale, in AIC, Osservatorio, fasc. 3/2020
L. Trucco, Audizione in merito al d.d.l. n. 881 “Legge elettorale: per una determinazione dei collegi indipendente dal numero dei parlamentari”, in Consulta OnLine, I/2019, 10 gennaio 2019
M. Villone, Per il costo di un caffè all’anno si ammutoliscono gli italiano, in La Repubblica, 25 agosto 2020
L. Violante, Sei motivi per votare No, in La Repubblica, 27 agosto 2020
M. Volpi, La riduzione del numero dei parlamentari e il futuro della rappresentanza, in Costituzionalismo.it, n. 1/20
G. Zagrebelsky, Se la Costituzione resta nascosta dietro una diatriba tutta politica, in La Repubblica, 23 agosto 2020
Tre ragioni per il SÌ
di Ida Angela Nicotra
Votare SÌ per allineare il Parlamento italiano agli standard degli altri Stati europei. Dal confronto con i Paesi del Vecchio Continente, quello italiano con i suoi 945 parlamentari è il più pletorico. L’Italia ha più parlamentari degli Stati Uniti, del Brasile e della Dieta nazionale del Giappone. Nel mondo, l’organo legislativo italiano risulta il terzo per numero di componenti. L’assemblea nazionale del popolo cinese è la più popolosa con quasi 3000 componenti, seguita dal Parlamento del Regno Unito la cui numerosità dipende dalla Camera dei Lord; l’Assemblea di origine medievale composta da 800 membri non scelti dai cittadini mediante elezioni e designati a vita.
Le Camere basse hanno in media 418 componenti, le Camere alte, rappresentative dei territori, 143. Qualora il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari venisse approvato, il parlamento italiano con 400 deputati e 200 senatori si collocherebbe nella media degli altri ordinamenti dell’UE.
L’integrazione europea e le sfide internazionali richiedono, infatti, la presenza di organismi politici sani, capaci di fornire prestazioni in termini di efficienza e capacità decisionale. Le inefficienze del Parlamento italiano hanno conseguenze anche sul corretto funzionamento delle istituzioni comunitarie. Il ruolo costituzionale del Parlamento è risultato infiacchito oltre che dalla scarsa qualità della rappresentanza, dalla sua composizione pletorica che ha comportato distorsioni sulla stessa funzionalità, producendo una legislazione bulimica, sovente incomprensibile e disordinata anche in settori nevralgici per la società e per l’economia.
La difficoltà di mediazione politica in un mutato clima istituzionale produce una legislazione confusa e contorta finalizzata a dar conto di interessi settoriali e di ristretti gruppi di potere, perdendo di vista la realizzazione dell’interesse generale. L’elevato numero di parlamentari esaspera la propensione della classe politica a condividere logiche particolaristiche attraverso la presentazione di micro – emendamenti che individuano precisamente i destinatari in gruppi di interessi ben delineati. Ciò produce una normazione spesso oscura e contraddittoria, con gravi ripercussioni sulla certezza del diritto e sulla relazione di fiducia tra cittadini e istituzioni, che comporta una disaffezione generalizzata verso le sedi di rappresentanza politica e robusti anticorpi al modello di democrazia rappresentativa.
Votare SÌ per adeguare, attraverso una riforma puntuale, il Testo Costituzionale ai mutamenti istituzionali e sociali. Infatti, la Costituzione italiana del 1948, nella sua versione originaria, non prevedeva un numero prestabilito di parlamentari. La riforma avvenuta con la legge costituzionale n. 2 del 9 febbraio del 1963, che – oltre a parificare la durata delle due Camere, fino ad allora diversificata in quanto di sei anni per il Senato – introdusse il numero fisso in Costituzione per i componenti delle Camere, si inquadrava in un contesto ordinamentale e politico assai peculiare.
In primo luogo, si viveva in piena guerra fredda, all’interno di un modello di democrazia bloccata in cui era inibito ad alcune forze politiche di far parte della compagine di Governo e dunque il Parlamento costituiva l’unico spazio riservato a quei gruppi politici costretti a svolgere costantemente un ruolo di opposizione. La composizione pletorica delle Camere, dunque, costituiva una sorta di correttivo che, a seguito dell’affermarsi della conventio ad excludendum, serviva a dare ascolto alle forze politiche emarginate in modo permanente dall’area di governo. Una sorta di diritto di tribuna per coloro cui era preclusa la guida del Paese.
Inoltre, pesava sulla scelta del numero dei parlamentari l’assenza di altri centri di rappresentanza; in particolare le Regioni, con i Consigli regionali, vennero istituite solo nel 1970, mentre si dovette attendere il 1979 per la prima elezione diretta, da parte di tutti i cittadini degli Stati membri dell’Unione, del Parlamento europeo, che passò da un organismo di membri designati a sede di rappresentanza politica europea.
Fino ad allora, la produzione legislativa delle Camere era pressoché esclusiva, il Parlamento godeva di una sorta di monopolio in materia di produzione legislativa.
Prima della riforma del Titolo V della Costituzione, approvata con l. cost. n.3 del 2001, l’originario Testo costituzionale attribuiva il potere di fare le leggi in via pressoché esclusiva allo Stato, riconoscendo alle Regioni una residua e marginale potestà legislativa. In questo senso, infatti, il principale fondamento costituzionale della potestà legislativa era rinvenibile nella previsione dell’art.70 Cost., il quale prevedendo che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” legava inscindibilmente la funzione di legiferare al relativo potere, individuato nelle due Assemblee parlamentari. Dopo la riforma del titolo V l’assetto della potestà legislativa risulta profondamente mutato. Infatti, il nuovo articolo 117 ridimensiona nettamente la potestà legislativa statale a fronte dell’ampliamento di quella regionale. La rinnovata disciplina costituzionale della potestà legislativa quindi mette in luce come la categoria delle leggi statale e regionale sono poste sullo stesso piano, segnando il superamento dell’originario disegno della legge statale come fonte a competenza generale. Parallelamente, l’evoluzione del sistema giuridico comunitario ha portato ad un rapido sviluppo degli atti legislativi dell’Unione europea direttamente applicabili negli Stati membri. I progressi della governance multilivello richiedono un adeguamento delle Camere anche in termini numerici. La diminuzione del numero dei parlamentari va letta anche alla luce della devoluzione e del trasferimento di competenze in altri luoghi della rappresentanza.
Il numero dei parlamentari risulta ancor più sproporzionato alla luce dell’incongruenza che risiede nella circostanza che si tratta di una rappresentanza esclusivamente politica e non anche territoriale come avviene, di solito, negli ordinamenti a struttura bicamerale, incidendo sul rapporto tra eletti ed elettori e sullo stesso principio di democrazia che, per essere autenticamente effettivo, dovrebbe comportare l’inclusione delle istanze provenienti dai territori e non estromettere le stesse dalla massima sede di rappresentanza politica.
Favorire la caratterizzazione territoriale delle Camere attraverso un reale significato del potere di iniziativa legislativa delle Regioni e un coinvolgimento più intenso dei delegati regionali in occasione dell’elezione del Capo dello Stato condurrebbe ad un allargamento dello spazio per il concreto esercizio del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione tra Stato e Regioni.
Una delle conseguenze della riduzione andrebbe ad incidere sulle maggioranze per l’elezione del Presidente della Repubblica, con un mutamento di proporzione che avrebbe l’effetto di dare più voce alle Regioni sull’elezione della Prima Carica dello Stato: cambierebbe infatti la proporzione che l’attuale Costituzione fissa in 58 su 945 (più i senatori a vita), con la revisione sarebbe di 58 su 600 (più cinque senatori a vita). Ad ogni modo se si volesse ripristinare l’equilibrio iniziale dei delegati regionali nel Parlamento in seduta comune per la scelta del Capo dello Stato basterebbe un intervento legislativo a partire dall’elezione successiva a quella delle nuove Camere a composizione ridotta.
Votare SÌ al referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari potrebbe costituire la prima tappa di un percorso di riforma delle istituzioni (parificazione dell’elettorato attivo per la Camera e per il Senato a 18 anni, legge elettorale e bicameralismo paritario), affinché il sentimento antiparlamentarista e antipolitico, molto forte in Italia negli ultimi decenni, possa lasciare il posto a un clima di rinnovata fiducia verso la massima sede di democrazia rappresentativa.
Questa riforma non svuota la rappresentanza ma la riempie di un nuovo spessore. Perché il Parlamento possa riacquistare dignità ed autorevolezza bisogna, infatti, nuovamente intraprendere il percorso, tante volte interrotto, delle riforme istituzionali. La rappresentanza non rinverdisce attraverso consessi pletorici e sovrabbondanti, che anzi, proprio nell’incapacità decisionale, finiscono per smarrire legittimazione e credibilità.
Invero, il tema di una adeguata definizione del rapporto tra eletti ed elettori si ripercuote anche sul principio di responsabilità e sul miglioramento delle performance dei rappresentanti. Lo snellimento dell’istituzione parlamentare potrebbe costituire l’occasione per accrescere sia le capacità di lavoro dei singoli deputati e senatori, sia il peso nel veicolare in modo corretto le istanze di cui sono portatori, producendo maggiore efficienza e prestigio dei due rami del Parlamento.
Un minor numero di parlamentari potrebbe costituire un buon viatico per ciascun rappresentante, sia di maggioranza che di opposizione, a svolgere la propria funzione in modo maggiormente responsabile, secondo la fedele osservanza del precetto secondo cui “i Parlamentari rappresentano la Nazione e svolgono le loro funzioni senza vincolo di mandato” contenuto nell’art.67 della Costituzione.
Più proporzionato è il numero dei parlamentari più sarà incisivo il peso del potere legislativo rispetto a quello esecutivo. Il prestigio (e la capacità di stimolo sul governo) del Senato americano composto da 100 senatori non ha uguali nel mondo.
Come l’emergenza sanitaria da Covid ha ampiamente dimostrato occorre un Parlamento efficiente e snello perché le decisioni fondamentali per la vita sociale non siano prese altrove, attraverso provvedimenti dell’esecutivo sottratti al controllo parlamentare, ma rimangano ancorate alle rassicuranti garanzie previste per le leggi, dalla verifica del Capo dello Stato in sede di promulgazione al controllo di legittimità della Corte Costituzionale.