Perché gli adolescenti commettono reati? E come si può fare in modo che la domanda non espressa che sta alla base dell’atto deviante minorile venga riconosciuta e trovi una risposta all’interno del sistema penale minorile?
In questo scritto, che riassume decenni di esperienza clinica e scientifica e rielabora l’intervento svolto al Convegno annuale dell’AGIA in occasione della Giornata Mondiale per i Diritti dei Bambini e degli Adolescenti, Alfio Maggiolini dà alcune possibili risposte e indica una prospettiva di responsabilità comune.
Reati minorili e bisogni evolutivi degli adolescenti
di Alfio Maggiolini*
Sommario: 1. La devianza minorile come fenomeno multifattoriale: i diversi fattori di rischio. 2. La prospettiva psicologica: il reato come risposta deviante ai bisogni evolutivi non riconosciuti. 3. La risposta del sistema penale minorile: i tre livelli di intervento e la loro efficacia. La messa alla prova.
1. La devianza minorile come fenomeno multifattoriale.
La devianza minorile è un fenomeno multifattoriale, che può essere letto da molteplici punti di vista: giuridico, sociale, culturale, economico, psichiatrico, neurologico, antropologico e così via. La mia prospettiva di psicologo e psicoterapeuta è soprattutto attenta alla dimensione evolutiva, cioè alla relazione tra adolescenza e reati.
C’è un dato statistico consolidato che giustifica questo punto di vista. È la curva dei reati, che mostra come i reati tendano ad aumentare dall’ingresso in adolescenza e continuino a salire fino all’età del giovane adulto per poi progressivamente scendere. Non solo i reati sono più frequenti in questa fascia d’età, ma anche il rischio di recidiva è più elevato. Questo dato conferma in modo evidente che l’adolescenza è in sé un fattore di rischio per i reati minorili. Anche per questo la psicologia dello sviluppo e la psicopatologia evolutiva possono dare un contributo alla comprensione della delinquenza minorile.
L’adolescenza, in effetti, è una fase del ciclo di vita in cui c’è una particolare predisposizione alla trasgressività e all’impulsività. In primo luogo, il cambiamento puberale comporta un’attivazione ormonale che rende turbolenta la gestione degli impulsi, in particolare per i maschi, grazie all’aumento del testosterone. L’incremento dell’impulsività in adolescenza è un fenomeno biologico, che non riguarda solo gli uomini, ma anche altri mammiferi, che con l’ingresso in pubertà tendono a essere più esplorativi, a correre più rischi e a ricercare più gratificazioni nel loro rapporto con il mondo.
Oltre al cambiamento del corpo, tuttavia, è importante quello del cervello, che in adolescenza subisce una grande trasformazione: nella prima parte dell’adolescenza c’è una grande proliferazione neuronale, molto disordinata, una crescita che rende il cervello molto plastico, cioè disponibile a farsi modellare dalle esperienze, con una maturazione che parte proprio dalle aree più emotive e impulsive. Nella seconda parte dell’adolescenza, invece, c’è una fase di potatura sinaptica, che organizza il funzionamento cerebrale e che porta ad una maturazione delle capacità di controllo e di funzioni esecutive, che arrivano a compimento addirittura nell’età del giovane adulto. È così che gli adolescenti, non solo in senso metaforico, finiscono per “mettere la testa a posto”. È evidente che sarebbe stato più sensato se la natura avesse previsto una maturazione delle capacità di controllo prima dell’aumento dell’impulsività, ma questa apparente incongruità può avere una giustificazione: per crescere è necessario rischiare, uscire dalla zona di conforto famigliare e andare a cercare nuove fonti di gratificazione.
Gli adolescenti devono passare da una condizione in cui è prevalente l’eteroregolazione, da parte dei genitori e di altri adulti, a una capacità di autoregolazione e questo passaggio non può non comportare una fase di disordine, prima che si instauri un nuovo ordine. In questa transizione è inevitabile che le regole degli adulti siano messe in discussione. In società più primitive la complessità di questo passaggio è regolata dai riti di iniziazione, in cui gli adulti che rappresentano la società (non i genitori) sottopongono gli adolescenti a prove di coraggio, tolleranza del dolore, fino a stati alterati di coscienza, per conferire poi il riconoscimento di un nuovo status di adulto. Nel nostro contesto sociale i riti di passaggio sembrano svaniti e spesso sono gli stessi adolescenti che diventano degli “iniziatori”, alla ricerca di comportamenti a rischio, stati alterati da sostanze e segni sul corpo che certificano la nuova identità.
Nell’ultimo secolo l’ingresso nella pubertà è stato anticipato di qualche anno, per maschi e femmine, ma la durata dell’adolescenza non si è ridotta, anzi tende ad essere prolungata, come se servisse un tempo più lungo per maturare. L’anticipazione della pubertà ha un particolare rilievo per i reati minorili, perché può far pensare che si costituisca come una ragione per una corrispondente anticipazione dei reati, così come per altri comportamenti che hanno una significativa componente impulsiva, come quelli sessuali. In realtà, sia per i comportamenti aggressivi, sia per quelli sessuali non vi è stata un’anticipazione significativa.
I maschi tendono ad avere maggiori problemi di comportamento delle femmine, una differenza che è ben rispecchiata dalla sproporzione tra reati minorili maschili e femminili. Anche le ragazze possono essere trasgressive e violente, ma la loro violenza è più spesso verbale che fisica, la loro ostilità è indirizzata più a persone conosciute che ad estranei e, infine, manifestano di preferenza una disregolazione dei comportamenti sessuali, più che aggressivi. Per tutte queste ragioni è meno probabile che la trasgressività delle ragazze entri in conflitto con la legge.
Perché questa propensione fisiologica degli adolescenti alla trasgressività si trasformi in antisocialità occorre comunque che si combini con altri fattori di rischio.
Alcuni fattori sono temperamentali e possono essere presenti fin dalla nascita. Ci sono adolescenti che sono trasgressivi e che commettono reati, che sono stati bambini senza particolari problemi di comportamento, mentre altri fin dall’infanzia hanno mostrato alcuni tratti temperamentali, che sono poi associati in adolescenza ad una tendenza antisociale. Il tratto principale è l’impulsività, l’intolleranza alle frustrazioni e fragilità emotiva impulsiva e mentale, ma alla fragilità psicologica possono contribuire anche l’emotività negativa e la difficoltà a elaborare cognitivamente gli stimoli.
Una situazione famigliare attenta e accudente riesce ad annullare l’effetto negativo di questi tratti: una madre sufficientemente sensibile e disponibile progressivamente è in grado di aiutare il bambino ad avere più fiducia nel mondo, a tollerare le frustrazioni, ad imparare a regolarsi e così via. Ma ci possono essere molti fattori che impediscono questo sviluppo positivo. L’elenco può essere lungo: una madre giovane e sola, una madre depressa o con problemi mentali, un sovraccarico dovuto ad altri figli piccoli, conflitti coniugali, problemi economici, un padre assente o poco capace di fornire supporto, a causa di problemi con le sostanze o altro ancora, e così via. Tutti questi fattori hanno come esito una riduzione della capacità di accudimento e, a meno che il figlio abbia già in sé una buona capacità di resilienza, possono portare a una tendenza a essere impulsivo e a interpretare in modo ostile e antagonistico le interazioni con gli altri, che in adolescenza possono contribuire allo sviluppo di uno stile antisociale di personalità.
Oltre a questi fattori individuali, il gruppo ha una grande influenza sulla devianza minorile. Per tutti gli adolescenti il gruppo è un grande supporto, perché serve per raggiungere una maggiore autonomia e per la costruzione di una nuova identità sociale. Ma il gruppo può essere anche un fattore di rischio. In primo luogo, può avere un effetto di diffusione di responsabilità, che riduce l’attenzione alle conseguenze dei comportamenti, e in secondo luogo propone normalmente un codice di gruppo, dei valori che spingono verso comportamenti a rischio. Un adolescente, infatti, è in grado di valutare i rischi dei suoi comportamenti, ma quando è in gruppo la necessità di mostrare di non avere paura o il bisogno di non essere un bambino dipendente lo portano a sottovalutare i rischi che corre.
Oltre a fattori individuali, famigliari e gruppali, anche fattori sociali, economici e culturali influiscono sui comportamenti a rischio e sulla propensione a commettere reati. La maggior parte dei reati minorili ha motivazioni appropriative: furti, rapine o spaccio. Gli adolescenti cercano così una via per diventare adulti ed essere indipendenti, per raggiungere un’autonomia e un’identità sociale in modo “deviante”, perché non pensano di avere altre vie per crescere.
Il contesto socioeconomico attuale nella società occidentale è paradossale. Da una parte abbonda di beni di consumo, anche perché è sul consumismo che si regge il funzionamento della nostra economia, dall’altra per molti giovani questi consumi così attraenti sono proibiti, perché costosi. Gli ultimi dati sullo sviluppo economico in Italia, contenuti nel recente rapporto Caritas, mostrano non solo che il divario tra ricchi e poveri è in aumento, ma che i giovani hanno sempre meno probabilità di essere in grado di costruirsi un futuro, e sono così costretti a dipendere dai genitori. L’ascensore sociale funziona al contrario e i figli dei poveri rischiano di essere ancora più poveri. Una condizione socioeconomica di questo tipo può evidentemente spingere un adolescente a pensare di non avere altre vie se non illegali per potersi procurare certi beni, che certamente non hanno solo un valore economico, ma anche di status, perché è quello che consumiamo che sempre più dice chi siamo.
Altri fattori di rischio sono culturali. La generazione attuale, detta generazione Zeta, è indubbiamente prima di tutto una “generazione internet”, perché la costruzione dell’identità sociale dei giovani d’oggi passa sempre di più attraverso i social e la rete. La nascita di internet aveva portato a profetizzare due esiti negativi: l’esposizione dei giovani ai contenuti violenti in rete li avrebbe resi più violenti, per l’incapacità di distinguere tra virtuale e reale, e anche il facile accesso alla visione dei contenuti pornografici avrebbe comportato un’anticipazione dei comportamenti sessuali e una loro maggiore disregolazione.
In realtà queste due profezie non si sono avverate. Nei ragazzi che vivono la loro realtà in rete aumenta il vissuto di esclusione, e sono portati a vivere emozioni come la tristezza o la vergogna più che la rabbia. La rete non si è rivelata un istigatore di comportamenti violenti o sessualmente impulsivi. Le esperienze fatte in internet, infatti, tendono a restare nella rete, a espandersi nel virtuale, più che a passare direttamente nella realtà. I reati minorili negli ultimi decenni sono diminuiti e non aumentati e una possibile spiegazione è che ciò sia dovuto proprio a internet. È evidente che alcuni reati si stanno spostando nella rete, ma al momento l’aumento dei reati virtuali non compensa la diminuzione di quelli fisici.
L’effetto di internet più che di istigatore ai reati è di amplificatore. Una rissa tra gruppi viene convocata in rete e viene subito filmata e postata, come se l’obiettivo dello spettacolo diventasse primario sulle ragioni del conflitto. La reazione ad un’umiliazione subita in classe da un’insegnante si trasforma in una campagna di odio, che attira molti utenti, un’ampia platea, quando in passato si sarebbe forse limitata a una scritta offensiva nel bagno della scuola.
Altri fattori di rischio ancora sono circostanziali. L’epidemia da Covid, per esempio, ha avuto un impatto importante sul malessere degli adolescenti. Il loro disagio si esprime soprattutto con un aumento di ansia e depressione, ritiro sociale, comportamenti autolesivi, disturbi alimentari. Tra i comportamenti esternalizzanti che hanno avuto un incremento a seguito del Covid c’è il fenomeno delle risse, che è anche un modo dei ragazzi di riprendersi le piazze, in una logica da branco, un effetto dell’assenza dei presidi sociali, in primo luogo della scuola. Un altro fenomeno è la violenza filio-parentale o parental abuse. Il lockdown ha costretto alla vicinanza forzata molti nuclei famigliari, consentendo in alcuni casi di riscoprire il valore dello stare insieme, ma nelle situazioni ad alta conflittualità ha inevitabilmente esasperato i comportamenti violenti tra i diversi ruoli affettivi famigliari. La violenza dei figli contro i genitori è sicuramente un fenomeno sommerso, da tempo presente e sottovalutato, ma che è stato incentivato dal lockdown.
2. Il reato come risposta deviante ai bisogni evolutivi non riconosciuti.
Al di là dei fattori di rischio, in una prospettiva di psicologia evolutiva e di psicopatologia evolutiva, è fondamentale prestare attenzione ad un’altra dimensione: i bisogni evolutivi che sono alla base dei reati. Un reato per un adolescente è anche un modo disfunzionale di cercare di realizzare un compito evolutivo, in un certo senso è un modo di diventare grande: la devianza è una scorciatoia per lo sviluppo.
Quali sono i bisogni evolutivi degli adolescenti? I ragazzi devianti spesso sentono di dover crescere in fretta, di non poter aspettare ad essere indipendenti, e in questo modo la loro ricerca di autonomia, di valore sociale, di una positiva identità, finisce per portare alla costruzione di un’identità antisociale.
Prestare attenzione ai bisogni evolutivi significa capire quali sono le motivazioni soggettive che sono alla base dei reati e non solo prestare attenzione ai comportamenti, cioè ai reati, o ai fattori di rischio che vi sono associati. Questo punto è importante: in questo modo, paradossalmente, si cerca di capire quali sono le motivazioni “positive” che hanno portato a delinquere, come un bisogno di autonomia o di valore sociale.
Un reato come espressione di un bisogno è l’equivalente di una domanda, che tuttavia non è formulata perché i ragazzi antisociali non chiedono (se mai pretendono): “Non ho bisogno di niente, se sono forte me la posso cavare, devo essere io a farmi valere, posso contare solo sugli amici, …”, queste sono le convinzioni tipiche degli adolescenti antisociali.
L’attenzione ai bisogni evolutivi è alla base di un intervento efficace del sistema penale. In passato era molto diffuso il pessimismo sull’efficacia della riposta penale ai reati minorili, come anche sui risultati della psicoterapia dei disturbi antisociali. Oggi c’è un maggiore ottimismo sia sulla psicoterapia dei disturbi esternalizzanti sia sull’efficacia del sistema penale, che può raggiungere i suoi obiettivi se segue tre principi fondamentali.
Il primo principio è l’attenzione ai fattori di rischio e di protezione. Una risposta efficace, infatti, non è solo proporzionata al reato e alla sua gravità, ma prende in considerazione i fattori di rischio di recidiva, sulla cui base regola la risposta. In pratica questo significa che, a parità di reato, l’intensità della risposta deve essere commisurata al livello di rischio.
Il secondo principio indica l’importanza dell’attenzione ai bisogni che sono alla base del reato, che nella letteratura anglosassone sono definiti criminogenic needs.
Il terzo principio, infine, sostiene che è fondamentale costruire un’alleanza con l’adolescente autore di reato, in modo da arrivare ad un progetto condiviso e commisurato alle sue possibilità di risposta (responsiveness). Questi principi possono apparire utopici, ma il codice di procedura penale minorile italiano è allineato a questa prospettiva.
3. I tre livelli di intervento del sistema penale minorile e la loro efficacia. La messa alla prova.
In pratica, il sistema penale può agire a tre diversi livelli. Ad un primo livello la risposta è reattiva. Di fronte ad un adolescente impulsivo, che non sa controllare il proprio comportamento, che non ha sensi di colpa e che non valuta le conseguenze del reato, l’intervento penale interviene controllandolo, attraverso misure restrittive della libertà, giudicandolo colpevole e cercando di svolgere una funzione di deterrenza con la pena. Questa risposta è inevitabile per fermare il comportamento distruttivo e è giustificata socialmente, perché lo Stato si assume una funzione di giustizia sociale, avocando a sé l’erogazione di punizioni, per evitare il rischio di una catena di vendette private.
Questa risposta basata su una logica accusatoria, sanzionatoria e di controllo sociale è inevitabile, ma non è in grado di produrre una riduzione delle recidiva, che rischiano in realtà di aumentare, con un effetto iatrogeno.
Un secondo livello di risposta è rieducativo o riabilitativo, perché non si limita a reagire al comportamento deviante per controllarlo, ma cerca di insegnare al minore ad acquisire maggiori capacità di controllo e una maggiore sensibilità alle conseguenze del proprio comportamento. Questo intervento, che può essere realizzato con progetti di diverso tipo e con interventi educativi, sociali o terapeutici, è in realtà efficace. E tuttavia è basato sul presupposto di una “correzione” degli errori del minore, che per raggiungere gli obiettivi prefissati deve riconoscere una propria mancanza o deficit, che necessita di un intervento riabilitativo. Non sempre, tuttavia, anche quando riconoscono il reato e sono disposti a pagarne le conseguenze, gli adolescenti sono pronti a considerare davvero il disvalore sociale dei loro comportamenti.
A questi due livelli di intervento è possibile aggiungere una terza prospettiva, che è attenta ai bisogni evolutivi che sono alla base dei reati. Se un reato è anche un modo, per quanto disfunzionale e deviante, per tentare di realizzare un bisogno evolutivo, allora l’intervento del sistema penale può essere orientato a farsi carico di questo bisogno, indicando nuove vie per realizzarlo. Questa prospettiva non è solo correttiva, ma è progettuale, perché cerca proprio di aiutare l’adolescente a raggiungere il compito evolutivo che cercava di realizzare in modo disfunzionale con il reato.
La messa alla prova prevista dal codice di procedura penale minorile è in linea con questi principi e livelli di intervento, perché non ha solo una funzione rieducativa, ma è orientata da obiettivi positivi, di costruzione di un progetto di sviluppo e di responsabilizzazione sociale, che riapra la speranza di una realizzazione personale. In questa prospettiva l’obiettivo del sistema penale non è di colpevolizzare o punire il minore, ma nemmeno solo di rieducarlo, bensì di capire i bisogni che sono nascosti nel gesto deviante per aiutarlo a trovare nuove soluzioni.
La messa alla prova ha un alto tasso di esiti positivi, intorno all’80%, ma non è esente da difficoltà. Pur essendo in grado di realizzare una riduzione del tasso di recidiva, se confrontata con interventi punitivi o anche con il perdono, non è certamente in grado di azzerarlo.
La logica della messa alla prova è soprattutto basata sull’obiettivo di responsabilizzare il minore sulle conseguenze del suo comportamento, anche attivando funzioni riparative. Comprensibilmente l’attenzione è, quindi, rivolta al minore. In molti casi questi obiettivi possono essere raggiunti, seppure con molte difficoltà e attraverso percorsi non certo lineari, ma irti di ostacoli.
In molti altri casi, tuttavia, si rischia di sottovalutare alcuni problemi. In primo luogo, soprattutto nella prima parte dell’adolescenza, le capacità di responsabilizzazione sono ancora in fase di sviluppo e il rischio dei progetti di messa alla prova è di chiedere troppo al minore, colludendo in fondo con l’immagine che ha di sé, di qualcuno che se la può cavare da solo.
In secondo luogo, sulla spinta della responsabilità individuale del reato, si finisce per sottovalutare il peso del contesto, in primo luogo della famiglia, come fattore che è alla base dei comportamenti devianti. Molte messe alla prova non hanno l’esito sperato o possono comunque portare a recidive non solo per una mancata adesione del minore, ma per problemi all’interno della famiglia, un mancato supporto al progetto di messa alla prova o più in generale alle esigenze evolutive del figlio.
È fondamentale, quindi, che per raggiungere l’obiettivo di una responsabilizzazione del minore sul suo comportamento, siano prima di tutto gli adulti a responsabilizzarsi, la famiglia innanzitutto, ma anche tutto il sistema penale.
I ragazzi che commettono reati pensano spesso di poter fare da soli e non chiedono aiuto. È importante, invece, che imparino a fidarsi di qualcuno, che imparino a chiedere e per questo la presenza di adulti che si assumono la propria responsabilità per lo sviluppo dell’adolescente è il primo requisito perché l’adolescente stesso possa a sua volta sviluppare un senso di responsabilità sociale.
*Alfio Maggiolini è psicoterapeuta e socio dell’Istituto Minotauro di Milano. Ha insegnato psicologia dell’adolescenza e del ciclo di vita presso l’Università di Milano-Bicocca. Da molti anni lavora con un modello di intervento psicologico efficace con i ragazzi che commettono reati come consulente nei Servizi della giustizia minorile di Milano.
Recentemente ha pubblicato: Senza paura, senza pietà. Valutazione e trattamento degli adolescenti antisociali (Raffaello Cortina, 2014); I sogni tipici. Metafore affettive della notte (Angeli, 2021). In corso di pubblicazione: Pieni di rabbia. Comportamenti trasgressivi e bisogni evolutivi degli adolescenti (Angeli, 2023).