GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura? La terza domanda

    La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura? La terza domanda

    La Carta UE dei diritti fondamentali fa gola o fa paura?

    Intervista di Roberto Giovanni Conti

    Prof. Paola Mori – ord.dir.Unione europea Univ.Catanzaro

    Prof. Bruno Nascimbene – già ord. Dir.Un.Europea Univ.Statale di Milano

    Prof. Roberto Mastroianni – ord.Dir.Unione europea Univ.Statale di Napoli

     

    3) A suo giudizio le sentenze nn.269/2017 e 20/2019 della Corte costituzionale consentono tuttora – e in che misura – il potere di disapplicazione della norma interna contrastante con la Carta UE da parte del giudice comune?

     

        Prof.Paola Mori

            L’obiter dictum contenuto nella sentenza 269/2917, ha destato forti incertezze sull’esistenza e sull’eventuale portata di un obbligo del giudice comune di sollevare, nei casi di doppia pregiudizialità, in via prioritaria la questione di legittimità costituzionale. Poco chiare anche le conseguenze dell’affermazione cui il giudice ordinario conserva la possibilità «di disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione». Apparentemente, tali affermazioni sembrerebbero ora stemperarsi alla luce delle recenti sentenze 20/2019 e 63/2019.

            Nella prima pronunzia, dopo aver richiamato le affermazioni contenute nella 269/2017, la Consulta ha infatti riconosciuto che «i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria. In generale, la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione italiana genera, del resto, un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione» (par. 2.3).

            Il principio è stato ribadito nella più recente sentenza 63/2019 là dove la Corte da un lato ha ribadito l’esclusione di qualsiasi preclusione ad esaminare «nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti», dall’altro lato conferma «il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta».

            La Consulta sembra dunque aver sfumato la posizione assunta nella sentenza 269, ritenendo che il giudice comune può in ogni momento (verosimilmente anche dopo il giudizio di legittimità costituzionale) rinviare alla Corte di giustizia ed eventualmente non applicare la normativa nazionale incompatibile con disposizioni della Carta direttamente efficaci. In altri termini, viene riconosciuto ai giudici nazionali di potersi adeguare ma, sembrerebbe, anche di non farlo, ai canoni che da Granital in poi hanno governato l’applicazione del diritto dell’Unione nell’ordinamento giuridico nazionale, nel rispetto degli obblighi derivanti dai Trattati istitutivi e dai principi fondamentali della Costituzione della Repubblica (art. 11 e 117, primo comma). Quest’ultima ipotesi mi sembra molto grave, e sul punto mi associo a Ruggeri, secondo cui «l’applicazione diretta non è un optional».

            Ritengo che in ossequio al principio fondamentale di cui all’art. 11 Cost. e in coerenza con la giurisprudenza della Corte di giustizia sulla preminenza del diritto dell’Unione (v. anche Dichiarazione sul primato (n. 17) all. all’atto finale della Conferenza intergovernativa Lisbona), in ogni situazione rientrante nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, il giudice comune non potrà sottrarsi al compito di non applicare la norma di legge in contrasto con disposizioni direttamente efficaci della Carta o con norme di diritto dell’Unione direttamente applicabili connesse alla Carta. Sarà ancora compito del giudice comune interpretare la misura nazionale in modo conforme con il diritto dell’Unione non direttamente applicabile rilevante, primario o derivato, alla luce della Carta e dei principi generali dell’Unione, e, in caso di incompatibilità della prima con il secondo, non risolvibile in via ermeneutica, trarne le dovute conseguenze: rinvio alla Corte di giustizia per l’interpretazione della norma europea o alla Corte costituzionale, per violazione degli articoli 11 e 117, 1° comma, Cost. della norma di legge.

            Poco chiaro è il ruolo che la Consulta intende definire per sé stessa. È soggetta anch’essa al rispetto di questi canoni?  Sembrerebbe di no. Il fatto di aver escluso ogni “preclusione” sembra infatti indicare la volontà della Corte costituzionale di esercitare il proprio sindacato anche in situazioni rientranti nel diritto dell’Unione in ogni ipotesi, in altri termini anche qualora il caso riguardi norme dell’Unione direttamente applicabili, realizzando una sorta di incorporazione della Carta che ne snatura l’autonomia.

            Tutto ciò, anche alla luce delle considerazioni svolte sopra, mi sembra prefigurare una torsione molto pericolosa dei principi costituzionali che regolano le dinamiche dei rapporti interordinamentali e che il Costituente ha voluto ispirate ai valori della coesistenza pacifica e alla promozione della cooperazione organizzata internazionale ed europea. Al fondo si vede crescere una visione nazionalistica dell’esperienza giuridica che sembra rispondere più a una preoccupante miopia politico-istituzionale che a una visione prospettica di ampio respiro. Con il rischio per la Consulta di finire alla periferia di quel processo costituzionale europeo di definizione dei diritti fondamentali a cui pure i giudici costituzionali intendono perentoriamente partecipare e, più in generale, di contribuire a ridurre la capacità dello Stato italiano di influire sui processi normativi e giudiziari europei e internazionali (v. Salerno, Diritto internazionale, Premessa alla quarta edizione, Padova, 2017).

     

        Prof.Bruno Nascimbene

            Nelle ipotesi in cui la Carta è applicabile e le norme sono direttamente applicabili (effetto diretto), ritengo che il giudice comune sia legittimato (continui ad esserlo) a seguito delle sentenze della Corte cost. 269/2017 e 20/2019. Se i dubbi del giudice riguardano il diritto UE, deve rivolgersi alla Corte di giustizia, come la giurisprudenza insegna, dai più datati leading cases quali Costa /Enel (C-6/64, sentenza del 3.6.1964, EU:C:1964:66) e Simmenthal (C-106/77, sentenza del 9.3.1978, EU:C:1978:49) al più recente Global Starnet (C-322/16, sentenza del 20.12.2017, EU:C:2017:985).

            Afferma, invero, la Corte di giustizia (ultima sentenza cit., punti 21-44) che “un giudice nazionale investito di una controversia concernente il diritto dell’Unione, il quale ritenga che una norma nazionale sia non soltanto contraria a tale diritto, ma anche inficiata da vizi di costituzionalità, non è privato della facoltà o dispensato dall’obbligo, previsti dall’articolo 267 TFUE, di sottoporre alla Corte questioni relative all’interpretazione o alla validità del diritto dell’Unione per il fatto che la constatazione dell’incostituzionalità di una norma di diritto nazionale è subordinata ad un ricorso obbligatorio dinanzi ad una corte costituzionale. Infatti, l’efficacia del diritto dell’Unione rischierebbe di essere compromessa se l’esistenza di un ricorso obbligatorio dinanzi ad una corte costituzionale potesse impedire al giudice nazionale, investito di una controversia disciplinata dal suddetto diritto, di esercitare la facoltà, attribuitagli dall’articolo 267 TFUE, di sottoporre alla Corte le questioni vertenti sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, al fine di permettergli di stabilire se una norma nazionale sia compatibile o no con quest’ultimo (sentenza del 4 giugno 2015, Kernkraftwerke Lippe‑Ems, C‑5/14, EU:C:2015:354, punto 34 e la giurisprudenza ivi citata)”. La Corte, nel brano che, per la sua rilevanza, ho voluto riportare per intero, sottolinea la cooperazione che deve esistere fra giudice nazionale e giudice dell’Unione: il funzionamento del sistema di cooperazione, nonché il principio del primato del diritto dell’Unione “esigono che il giudice nazionale sia libero di sottoporre alla Corte, in qualsiasi fase del procedimento che reputi appropriata, ed anche al termine di un procedimento incidentale di controllo di costituzionalità, qualsiasi questione pregiudiziale che esso consideri necessaria. Non si può compromettere e neppure far venire meno l’effetto utile del rinvio pregiudiziale “se a motivo dell’esistenza di un procedimento di controllo di costituzionalità, al giudice nazionale fosse impedito di sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte e di dare immediatamente al diritto dell’Unione un’applicazione conforme alla decisione o alla giurisprudenza della Corte” ( cfr. Kernkraftwerke Lippe‑Ems cit., punto 36). Il ruolo centrale del giudice nazionale è sottolineato dalla Corte nella sentenza, “rivisitando” l’istituto del rinvio pregiudiziale: se è vero che “costituisce uno strumento di cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali, grazie al quale la prima fornisce ai secondi gli elementi di interpretazione del diritto dell’Unione necessari a questi ultimi per risolvere la controversia che sono chiamati a dirimere, ciò non toglie che, quando non sia esperibile alcun ricorso giurisdizionale di diritto interno avverso la decisione di un giudice nazionale, quest’ultimo è, in linea di principio, tenuto a rivolgersi alla Corte ai sensi dell’articolo 267, terzo comma, TFUE, qualora venga sollevata dinanzi ad esso una questione di interpretazione del diritto dell’Unione (v. sentenza del 9 settembre 2015, Ferreira da Silva e Brito e a., C‑160/14, EU:C:2015:565, punto 37)”.

            Il giudice nazionale deve rispettare, come ogni altro giudice, il diritto UE, anche perché esso appartiene al sistema giurisdizionale dell’Unione europea. Dispone l’art. 19, par. 1, 2° comma, che “gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione” e ciò comporta, come precisato nel par. 1 del medesimo articolo che, al pari della Corte di giustizia, deve essere assicurato “il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati” (per una recente presa di posizione sull’art. 19 cfr. le conclusioni dell’avvocato generale Tanckev in causa C-619/18, Commissione c. Polonia, EU:C:2019:325, punti 61-64). Che questo sia il compito del giudice, ma anche sullo stesso gravi una responsabilità sancita nel diritto nazionale, è deducibile da una norma emblematica, quale l’art. 2 della legge 13.4.1988, n. 117 sulla responsabilità civile dei magistrati. La violazione manifesta del diritto UE rappresenta “colpa grave” e rileva, per valutare la stessa, la “mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonché del contrasto dell'atto o del provvedimento con l'interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell'Unione europea”.

            I rilievi qui svolti, che tengono conto della giurisprudenza della Corte UE, oltre che (e non potrebbe essere diversamente) dell’interpretazione del Trattato nel quadro del processo di integrazione, sono utili a meglio comprendere, a mio avviso, l’affermazione della Corte cost. 20/2019, par. 2.3: “Resta fermo che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria. In generale, la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione italiana genera, del resto, un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione”.

    La risposta della domanda, in sintesi, è nel senso che si può intravedere il tentativo di avviare un processo di “costituzionalizzazione” della Carta, ma questo depotenzierebbe il ruolo della Carta e dei giudici comuni. Soprattutto si determinerebbe un risultato non in armonia, se non proprio collidente, con il diritto UE e le funzioni della Corte di giustizia.

     

        Prof.Roberto Mastroianni

            Il potere/dovere del giudice comune di disapplicare la norma interna incompatibile con le regole europee, qualora la prima sia capace di determinare un vulnus nei confronti della piena tutela delle posizioni giuridiche attribuite dal diritto dell’Unione, fa parte del “quadro costituzionale” che la Corte di giustizia ha elaborato sin dalla sentenza Simmenthal e successivamente riproposto in innumerevoli occasioni. Nella citata sentenza del 24 ottobre 2018, la Grande Sezione della Corte ha ribadito che allo scopo di garantire la preservazione delle caratteristiche specifiche e dell’autonomia dell’ordinamento dell’Unione, i Trattati hanno istituito un sistema giurisdizionale destinato ad assicurare la coerenza e l’unità nell’interpretazione del diritto dell’Unione. Tale sistema opera con il contributo dei giudici nazionali e della Corte, spettando ad entrambi, nell’ambito delle loro rispettive competenze, garantire la piena applicazione del diritto dell’Unione nell’insieme degli Stati membri, nonché la tutela giurisdizionale dei diritti spettanti agli amministrati in forza del diritto dell’Unione. In particolare, prosegue la Corte, i giudici nazionali incaricati di applicare, nell’ambito delle loro competenze, le norme del diritto dell’Unione hanno l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi contraria disposizione nazionale, senza chiedere né attendere la previa soppressione di tale disposizione nazionale per via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale.

            Queste precisazioni sono senz’altro riferibili anche alla Carta, alla quale la Corte di giustizia ha immediatamente riconosciuto la capacità di produrre effetti diretti negli ordinamenti interni, attribuendo, anche nei rapporti interindividuali, diritti e doveri che i giudici nazionali sono chiamati a tutelare. Tuttavia, il potere di disapplicazione può entrare in conflitto con il sistema interno di scrutinio centralizzato della legalità costituzionale, in particolare qualora il conflitto riguardi una norma interna che rientra nel campo di applicazione della Carta, ad esempio in quanto adottata per dare attuazione ad una direttiva comunitaria (è questo il caso della norma prima citata in materia di  abuso di informazioni privilegiate, oggetto dell’intervento della Corte nella sentenza n.63 del 2019). In casi del genere il potere di disapplicazione, per così dire, concorre con il meccanismo di controllo centralizzato affidato alla Corte costituzionale. La novità della recente giurisprudenza della Corte costituzionale sta tutta nel riportare (è il sistema pre-Granital, evidentemente) queste ipotesi di conflitto nell’ambito dei poteri di intervento della Corte costituzionale, che si ritiene oggi competente a giudicare della norma utilizzando come potenziali parametri per il giudizio di costituzionalità sia le regole costituzionali interne (nella sentenza n. 63 del 2019, l’art.3,  Cost.), sia la stessa Carta, parametro interposto di costituzionalità richiamato dagli artt. 11 e 117 Cost.

            Questa nuova (o meglio, ritrovata) ricostruzione del sistema porta con sé un evidente rischio di confliggere con la diversa posizione assunta dalla Corte di giustizia, la quale – sia pure in parte co-responsabile della svolta con le discutibili posizioni assunte nel filone inaugurato con la citata sentenza Melki e Abdeli del 2010 - ha sempre insistito sulla indispensabilità del pieno, immediato ed effettivo esercizio dei poteri attribuiti dall’ordinamento dell’Unione ai giudici nazionali, eventualmente con la sponda della Corte di giustizia attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale in presenza di dubbi sulla effettiva portata della regola europea da applicare. Se le pronunce n. 269 del 2017 e 20 del 2019 sembravano aprire la strada ad un ridimensionamento dei poteri del giudice comune, la pronuncia più recente – la più volte citata n. 63 del 2019 – pur presentandosi come adottata nel solco delle precedenti, appare muoversi nella direzione di ristabilire, almeno in parte, il necessario ordine. 

            Certamente, la sentenza n. 63 conferma la svolta operata dalla 269 del 2017, in quanto ritiene ammissibile la qlc relativa ad un asserito contrasto tra la legge interna e l’art. 49, par. 1, della Carta, nella parte in cui vieta (anche) agli Stati membri, qualora operino, come in quella particolare situazione, per dare attuazione alle regole dell’Unione,  di disporre il divieto di retroattività delle norme penali più favorevoli. La Corte risponde all’eccezione di inammissibilità, sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, ribadendo che “a questa Corte non può ritenersi precluso l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti”. A questa inequivocabile affermazione si aggiunge però una precisazione che sembra superare la rigidità presente nel dictum della sentenza 269 del 2017: rimane infatti fermo “il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta”. Al giudice comune viene quindi riconosciuto sia il potere di rivolgersi alla Corte di giustizia (prima o dopo la pronuncia della Corte costituzionale, con la possibilità, implicita nel secondo caso, di ottenere da Lussemburo una riposta diversa da quella offerta dalla Corte costituzionale, sia, anche a prescindere dal rinvio, di disapplicare la regola interna incompatibile con la Carta. A quest’ultima viene quindi riconosciuta senza dubbio alcuno la capacità di produrre effetti diretti, rispetto ai quali il potere di disapplicazione riveste un ruolo meramente strumentale.

            Rispetto al ruolo da rivestire nella specifica fattispecie, la Consulta conclude attribuendo in sostanza il proprio coinvolgimento alla scelta operata dal giudice remittente: “Laddove però sia stato lo stesso giudice comune a sollevare una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta, questa Corte non potrà esimersi, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), con conseguente eliminazione dall’ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione”.

            La nuova posizione della Corte costituzionale consente di mettere da parte molte delle critiche che erano state giustamente rivolte alla precedente sentenza n. 269 del 2017. Rimane tuttavia da capire se la scelta di affidarsi allo scrutinio centralizzato ovvero al potere di disapplicazione immediata (previo eventuale rinvio pregiudiziale) sia affidata alla sola sensibilità del giudice comune ovvero se sia più utile che la Corte costituzionale stessa fornisca delle “istruzioni per l’uso” di carattere generale. A mio modo di vedere, la seconda soluzione è senz’altro da preferire, ma rimane la non banale difficoltà di individuare i principi di fondo in base ai quali guidare le scelte. Alla luce di alcune pronunce della Corte (ad esempio, la celebre sentenza Akerberg Fransson) avevo suggerito di ricorrere al “principio di prossimità”: in presenza di fattispecie che possono in ipotesi essere sottoposte ad entrambi i sistemi di tutela dei diritti fondamentali (e  quindi potenzialmente ad entrambe le Corti), la scelta dovrebbe essere guidata da un’analisi obiettiva della maggiore vicinanza della fattispecie ad un ordinamento piuttosto che all’altro. Nel caso, prima ricordato, di disposizioni interne finalizzate a dare recepimento ad una direttiva, potrebbero presentarsi due situazioni distinte: se la disposizione interna di cui si sospetta l’incostituzionalità riprende fedelmente il testo di una norma contenuta in una direttiva, allora il sistema di garanzia applicabile è unicamente quello europeo, trattandosi di valutare la legittimità dell’operato delle istituzioni rispetto ai superiori parametri del diritto europeo: l’art. 267 del TFUE, come interpretato da una giurisprudenza pluridecennale inaugurata con la sentenza Fotofrost,  richiede che solo la Corte di giustizia sia competente ad operare questa valutazione, per cui il giudice comune – o la Corte costituzionale, se la questione viene sollevata davanti ad essa - non potrebbe evitare di sospendere il giudizio e chiedere l’intervento decisivo ed incontestabile del giudice europeo. Qualora, invece, la questione di legittimità costituzionale investa una disposizione interna che, se pure adottata allo scopo di dare attuazione ad una direttiva, interviene negli spazi di manovra che quest’ultima riconosce al legislatore nazionale in sede di recepimento (è il caso, valutato nella sentenza 63 del 2019, delle misure sanzionatorie adottate per reagire a violazioni di obblighi imposti da una direttiva), allora il sistema interno di tutela dei diritti fondamentali può essere considerato in linea di principio preferibile come “prima barriera”. La scelta della Corte costituzionale come luogo in cui viene espressa la “prima parola” (così la sentenza 20 del 2019) sulla tutela dei diritti fondamentali non deve però pregiudicare l’unità, l’autonomia e l’efficacia dell’ordinamento dell’Unione, per cui vanno fatti salvi: la possibilità di adottare misure provvisorie;  il ricorso alla Corte di giustizia tramite il rinvio pregiudiziale; la disapplicazione della regola nazionale da parte del giudice nazionale a seguito dell’intervento della Corte costituzionale (così richiede la Corte di giustizia nella sentenza Melki e Abdeli). Di certo si tratta di un sistema che, volendo tenere insieme tutti i pezzi del mosaico, ridimensiona il ruolo del giudice comune, con il rischio di perdere qualcosa in termini di immediatezza della tutela e di arricchimento nei risultati. L’impressione sempre più netta è che la fase della “maturità” del rapporto tra ordinamenti si voglia inaugurare, a Lussemburgo come nella capitali nazionali, con un rapporto più diretto ed immediato tra i garanti dei diritti, a livello nazionale ed europeo. Il tempo dirà se la scelta sarà in grado di portare buoni frutti.

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