GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    Giudice o giudici nell'Italia postmoderna? Le repliche e le conclusioni

    Giudice o giudici nell'Italia postmoderna? Le repliche e le conclusioni

    Le repliche.

    Antonio Ruggeri: Confesso di faticare non poco a seguire fino in fondo il ragionamento svolto da R. Bin, seppur come sempre argomentato e connotato da spunti di sicuro interesse. La ragione è presto spiegata: molto distanti sono le premesse teoriche (e, più ancora, metodiche) dalle quali muovono le nostre riflessioni che, per vero, tradiscono visioni parimenti diverse della Costituzione. Siamo stati chiamati a confrontarci sul ruolo del giudice ma, al fondo, abbiamo discusso – una volta di più – di teoria della Costituzione; ed è bene che chi legge le nostre risposte abbia piena consapevolezza della posta in palio.

    Le questioni poste da Bin nella sua sintetica ma densa esposizione sono molte e di tutto rilievo, ciascuna delle quali richiederebbe uno spazio ben più ampio di quello qui disponibile al fine di essere fatta oggetto di un non troppo approssimativo e sbrigativo esame. Mi limito, dunque, ora solo a fermare l’attenzione su quelle che ai miei occhi appaiono essere le più meritevoli di considerazione.

    Comincio col dire che non mi è chiaro il riferimento che vedo nella sua prima risposta al tentativo talora fatto dai giudici di liberarsi dal “vincolo alla legge”, allo stesso tempo considerandosi i richiami operati alla giurisprudenza delle Corti non nazionali “veri e propri abusi che offuscano il ruolo costituzionale del giudice e ne minano l’autorità”.

    Nessuno – a me pare – si sogna di ritenere il giudice legibus solutus, posto che il nostro è (e speriamo che resti…) uno Stato di diritto; è, però, uno Stato di diritto costituzionale e, come tale, prevede modi e condizioni per liberare il giudice dal rispetto di leggi contrarie a Costituzione, a partire ovviamente dalla risorsa costituita dal sindacato svolto dalla Consulta.

    Ora, la stessa Costituzione, innalzando agli artt. 10 e 11 al livello di principi fondamentali l’apertura al diritto internazionale e sovranazionale pone le basi per la trasformazione della propria struttura rispetto al modo con cui era intesa da una risalente tradizione teorica, oggi tuttavia inesorabilmente invecchiata. Si coglie qui il carattere “intercostituzionale” – come a me piace chiamarlo – della Costituzione, il suo rendersi cioè disponibile a farsi rigenerare semanticamente alla luce delle suggestioni ed indicazioni che vengono dalle altre Carte dei diritti, e segnatamente – per ciò che qui maggiormente importa – dalla CEDU e dalla Carta dell’Unione, allo stesso tempo in cui a queste ultime si offre, unitamente ad altre Carte costituzionali, al fine della loro rigenerazione, alla quale un apporto di non secondario rilievo è dato dalle c.d. tradizioni costituzionali comuni.

    Al riguardo debbo subito fare una triplice avvertenza, a scanso di ogni possibile equivoco.

    La prima è che l’apertura in parola – come mi sono sforzato qui pure di precisare – non è affatto senza condizioni o limiti, anche se non credo (e, ancora una volta, ribadisco di non credere) nella nota teoria dei “controlimiti”. I limiti, infatti, ci sono, ma non vanno rinvenuti, con la comune opinione, nel rispetto sempre e comunque dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale: un rispetto che è, invece, dovuto alla sola condizione che da questi ultimi, visti nel loro fare “sistema”, si reputi discendere una più adeguata tutela ai diritti evocati in campo dal caso di quella che potrebbe invece venire da Carta diversa dalla nostra. E però – qui è il punto – va presa in considerazione anche l’altra eventualità, salvo ad accedere ad un’idea mitica o sacrale di Costituzione, assumendo dunque che essa sia perfetta in sé e per sé, sempre perciò più attrezzata di ogni altra Carta a venire incontro alle attese dei diritti.

    La seconda, alla prima strettamente legata, investe il “metaprincipio” della massimizzazione della tutela: un canone fondamentale che Bin da tempo giudica (e qui pure tiene a ribadire con la sua consueta franchezza) teoricamente insostenibile, “sbagliato”. Peccato, però, che lo stesso sia espressamente riconosciuto dalle Carte sopra richiamate (part., all’art. 53 sia della CEDU che della Carta dell’Unione), alle quali – non è inopportuno rammentare – è stata data esecuzione in ambito interno con legge ed offerta “copertura” dall’art. 117, I c., Cost. (e, quanto alla seconda Carta, dall’art. 11) e, ancora prima (e di più), a mia opinione, dagli artt. 2 e 3, nel loro fare “sistema” con i principi fondamentali restanti (tra i quali, appunto, quello dell’apertura in parola).

    Detto altrimenti: tra i vincoli posti dalle leggi (e, risalendo, dalla Costituzione) c’è anche l’obbligo di portare ad effetto nella pratica giuridica le norme che ritagliano a beneficio di ciascuna Carta un ruolo “sussidiario”, in funzione della ottimale salvaguardia, in ragione delle peculiari e complessive esigenze di ciascun caso, dei diritti in campo.

    Si dirà che far valere il “metaprincipio” in parola è sommamente impegnativo e non di rado sofferto ed anche – per ciò che forse maggiormente preoccupa molti studiosi ed operatori – frutto di un insopportabile tasso di apprezzamento discrezionale, di modo che il rischio della deriva soggettivistica è sempre incombente.

    Non nego l’esistenza del pericolo che, nondimeno, non va fatto oggetto di esasperate valutazioni o, peggio, non dovrebbe portare alla negazione del “metaprincipio” in parola che – piaccia o no – ha, per il tramite della “copertura” offerta dagli artt. 2, 3, 10 e 11, rango costituzionale. D’altro canto, è risaputo che i giudici, al pari di ogni altro operatore istituzionale, pongono quotidianamente in essere attività non meccaniche e piattamente ripetitive, peraltro sempre ricorrenti nel mondo del diritto (l’interpretazione non è, forse, sempre… soggettiva?). Disponiamo, ad ogni buon conto, di rimedi idonei a contenere fin dove possibile gli eccessi come pure le carenze e le complessive distorsioni e forzature applicative.

    Torna qui prezioso proprio quel riferimento alla giurisprudenza delle Corti europee, tanto più laddove queste ultime diano vita ad orientamenti consistenti e sperimentati nella pratica giuridica a beneficio dei diritti, da Bin deplorato e bollato senz’appello come un “abuso”. Quel criterio dell’indirizzo “consolidato”, cui ha fatto – come si sa – richiamo Corte cost. n. 49 del 2015 con specifico riguardo al rilievo da dare alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, merita considerazione ben oltre l’ambito di esperienza nel quale è fatto valere ed appare espressivo del significato che intrinsecamente possiede il “diritto vivente”, in ciascuna delle sue manifestazioni.

    Ebbene, una delle più efficaci risorse di cui disponiamo avverso il rischio – questo sì, invero, micidiale – della innaturale commutazione della Corte costituzionale in un potere costituente permanente (un potere mostruoso, come ho in più luoghi fatto notare), siccome abilitata ad enunciare verità incontestabili di diritto costituzionale (art. 137, ult. c., Cost.), è dato proprio dal bisogno della Corte, al pari per questo verso di ogni altro operatore di giustizia, di doversi confrontare con i giudici europei, in ispecie appunto con i loro indirizzi maggiormente diffusi e radicati, “consolidati”, con i quali si dà voce ad autentiche consuetudini culturali invalse nel corpo sociale in fatto di riconoscimento dei diritti, specie dei “nuovi” o “nuovissimi”, dei quali non si ha testuale riscontro neppure nelle Carte di più fresca elaborazione rispetto alla nostra. Non posso, poi, qui soffermarmi su questioni pure meritevoli di attento vaglio critico, quale quella del diverso trattamento che, ad avviso del giudice costituzionale, dovrebbe considerarsi riservato alla giurisprudenza dell’una e dell’altra Corte europea (l’una vincolante solo laddove si esprima a mezzo di orientamenti “consolidati”, l’altra invece sempre, in ogni pronunzia di cui si componga) o l’altra questione relativa al significato che potrebbe avere nei prossimi sviluppi della pratica giuridica il punto di diritto enunciato in Corte cost. n. 43 del 2018, che parrebbe preludere a vincoli interpretativi discendenti anche da singole pronunzie della Corte di Strasburgo (quanto meno di quelle emesse dalla Grande Camera), laddove diano vita ad un novum (ciò che parrebbe quodammodo assimilarle ad un vero e proprio ius superveniens, accorciando – come si vede – la distanza rispetto alle decisioni della Corte dell’Unione).

    Insomma, il confronto intergiurisprudenziale può giocare, sì, nel senso del rinnovamento ma anche – ed è su questo che ora maggiormente mi sta a cuore di fermare l’attenzione – in quello della stabilizzazione degli indirizzi giurisprudenziali, alla lunga realizzando, a mio modo di vedere, più convergenze che divergenze tra le Corti: in un caso e nell’altro, sollecita queste ultime (per ciò che ora più mi preme mettere in chiaro, la Corte delle leggi) a non indulgere alla tentazione di porsi al vertice di una ideale costruzione piramidale in cui ciascuna di esse assuma, dal proprio punto di vista, di potersi fare portatrice di orientamenti venuti a maturazione in sovrana solitudine e sovranamente imposti agli operatori restanti (e, principalmente, ai giudici comuni, che si dispongono ai punti di partenza e di arrivo di ogni vicenda processuale, su di essi, a conti fatti, scaricandosi le tensioni e contraddizioni emergenti in seno al corpo sociale).

    Ovviamente, i casi di conflitto ci sono e ci saranno sempre, ma essi sono come le brutte notizie cui i giornali danno risalto: sono, cioè, fatti per fortuna eccezionali rispetto al quotidiano e fisiologico svolgimento della vita di relazione, che rimane sotto traccia e non viene portato alla luce proprio perché non fa notizia.

    La terza avvertenza è, dal mio punto di vista, la più rilevante. Bin è dell’idea, che qui pure non fa passare sotto silenzio, che la Costituzione non possa essere accostata alle altre Carte, o meglio che queste possano essere messe accanto e sullo stesso piano di quella.

    È chiaro che c’è una differenza di fondo, innegabile. La Costituzione incarna il modello mirabilmente enunciato nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 in entrambi gli elementi che lo compongono: è Carta dei diritti ed è anche Carta dei poteri, o meglio è fondamento e limite dell’esercizio dei poteri, le cui dinamiche hanno la loro sintetica e parziale rappresentazione nella parte organizzativa (parziale perché, come nell’iceberg, la parte maggiormente consistente rimane nascosta, risultando da regole non scritte, alcune ormai dotate di sufficiente stabilità, altre invece continuamente cangianti). Le Carte internazionali dei diritti, per quest’aspetto, sono Costituzioni – come dire? – “dimezzate”, fermandosi alla sola rappresentazione dei diritti da esse riconosciuti. E però si tratta proprio della parte più immediatamente e genuinamente espressiva della essenza della Costituzione, sol che si ammetta – come si deve – che la separazione dei poteri, il secondo frammento della definizione racchiusa nell’art. 16, sopra richiamato, è in funzione servente dei diritti che, senza di quella, sarebbero fatalmente abbandonati in balia del tiranno di turno.

    Ora, alcuni studiosi particolarmente accreditati, tra i quali Bin, sono restii a riconoscere alle Carte diverse dalla Costituzione natura di documenti “tipicamente costituzionali”, per riprendere la qualifica datane da una discussa pronunzia del giudice costituzionale, la 269 del 2017: come tali, appunto, abilitate – a me pare – a porsi accanto alla Costituzione e giocarsi ogni volta con questa alla pari la partita sollecitata dai casi, in vista dell’appagamento ottimale da dare ai diritti dagli stessi emergenti.

    Non posso ora tornare a sottoporre a vaglio critico la tesi fatta propria dalla giurisprudenza costituzionale e dai suoi benevoli laudatores, secondo cui alla Costituzione sarebbe comunque da assicurare un “predominio assiologico” – come troviamo scritto in Corte cost. n. 25 del 2019, al p. 13 del cons. in dir. – malgrado la stessa giurisprudenza accomuni, come si diceva, i documenti in parola per il loro essere tutti materialmente costituzionali; tra l’altro – si presti attenzione – nella stessa decisione da ultimo richiamata troviamo l’ammissione della eventualità che la CEDU, nel suo farsi “diritto vivente” per il tramite della giurisprudenza venuta a formazione a Strasburgo, possa offrire, “in determinate fattispecie”, una “tutela più ampia” di quella apprestata secondo Costituzione.

    Non è di qui, dunque, verificare come possano stare assieme affermazioni così discordanti né è possibile ora intrattenersi su talune oscillazioni ed aporie di costruzione rinvenibili tanto nella giurisprudenza costituzionale quanto in certa dottrina che in essa mostra di riconoscersi. Trovo francamente singolare che la giurisprudenza costituzionale e quanti ad essa docilmente si accodano possano considerare reciprocamente conciliabili la premessa per cui anche le Carte dei diritti di origine esterna sono pur sempre documenti “tipicamente costituzionali” e la conseguenza che vede comunque le Carte stesse assoggettate all’osservanza della Costituzione, pur se in modo differenziato o – diciamo pure – “graduato”: la Carta dell’Unione essendo tenuta, al pari di ogni altra fonte di diritto eurounitario, a prestare rispetto ai soli principi fondamentali (i “controlimiti”, sopra evocati) e la CEDU (ed è da ritenere ogni altra Carta) invece sottomessa alla Costituzione in ogni sua norma. Immaginare che un documento “tipicamente costituzionale” possa sottostare ad altro documento della sua medesima natura appare ai miei occhi essere una palese contradictio in adiecto.

    Allo stesso tempo, ancora la giurisprudenza (specie a partire da Corte cost. n. 317 del 2009) si riconosce nella Grundnorm della massimizzazione della tutela, senza avvedersi – a quanto pare – del fatto che il canone fondamentale in parola scardina dalle fondamenta la costruzione del sistema delle fonti eretta su basi formali-astratte rimpiazzandolo con un sistema di norme, che si scompone e ricompone di continuo in ragione dei casi, norme tutte sollecitate a competere lealmente tra di loro nel mercato dei diritti, senza alcun ordine di priorità precostituito che rimandi alla loro origine o, appunto, alle forme di cui esse si rivestono.

    Il vero è che il modo di vedere le cose che punta a preservare comunque la primauté della Costituzione sulle altre Carte tradisce il viscerale attaccamento alla tradizione che vede nella Costituzione un unicum, la sola fonte fondante e non fondata, da cui l’intero ordinamento si tiene, anche nelle sue proiezioni al piano delle relazioni interordinamentali (illuminante, al riguardo, la lapidaria e tranciante risposta data da R. Bin alla domanda retorica se la Carta dell’Unione sia “un’altra Costituzione”: “neppure alla lontana”).

    Si tratta – va riconosciuto – di una tradizione nobile e gloriosa, che ha avuto la sua massima espressione con l’avvento dello Stato nazionale; e, però, è una tradizione ormai non riproponibile in un contesto segnato da una integrazione sovranazionale avanzata e dall’infittirsi dei vincoli discendenti dalla Comunità internazionale, nonché – per ciò che ora più importa – dal carattere plurale dei documenti “tipicamente costituzionali”,, che ha poi il suo immediato riflesso nella pluralità e parità dei loro garanti. Può piacere come non piacere che le cose stiano così ma è, appunto, innegabile che così stiano.

    Questo contesto esibisce al proprio interno numerosi aspetti negativi, la cui illustrazione ci porterebbe troppo lontano dall’hortus conclusus in cui questa succinta riflessione è obbligata a restare, ma presenta anche non pochi aspetti positivi, tra i quali – per ciò che qui maggiormente importa – è da annoverare (e sarebbe ingiusto non riconoscere) il contributo offerto alla crescita della pianta dei diritti proprio dal “dialogo” giurisprudenziale, dal quale sgorga la linfa vitale da cui la crescita stessa si alimenta e rigenera senza sosta.

    V’è poi un punto che, prima di chiudere questo mio succinto intervento finale, tengo qui nuovamente a rimarcare e che sarebbe bene non perdere di vista; ed è che la pluralità delle Carte dei diritti e il “gioco” senza fine al quale esse danno luogo, lungi dal determinare una deminutio capitis a detrimento della Costituzione, si dispone al servizio della Costituzione stessa e, ove se ne faccia un uso vigilato ed adeguato, può dunque risolversi in un complessivo beneficio per la persona e i suoi diritti. Forse, quanti si fanno portatori di un modello teorico che vede comunque la primauté della Costituzione senza se e senza ma farebbero bene a riflettere sul costo che siffatto loro orientamento (o, se posso esser franco, preorientamento) metodico-teorico fa pagare ai diritti costituzionalmente protetti per il fatto di privarli dei benefici che invece potrebbero ad essi venire da talune espressioni maggiormente avanzate e sensibili della giurisprudenza europea. Farebbero bene a considerare il fatto che, dando spazio a siffatte espressioni, possono in non poche circostanze servirsi al meglio i valori fondamentali di libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, dignità) nel loro fare “sistema” con i valori fondamentali restanti: valori che – non è inopportuno qui rammentare – sono anche i nostri, anzi sono proprio il cuore pulsante dell’ordinamento repubblicano.

    Come qui pure mi sono sforzato di mostrare, è dunque umiliandosi e riconoscendo che ab extra, in talune congiunture e con riferimento a taluni diritti, può venire (e talora effettivamente viene) una tutela maggiormente adeguata di quella apprestata dalle norme di diritto interno alle complessive esigenze del caso che la Costituzione si esalta e realizza al meglio di sé, pur alle difficili e talvolta persino proibitive condizioni del tempo presente, di certo non benigno per i diritti stessi (specie di alcuni).

    Occorre, a mia opinione, far luogo ad un profondo svecchiamento di mentalità, di metodo ancora prima che di teoria, nel modo d’intendere e far valere la Costituzione, anche nelle sue proiezioni al piano delle relazioni interordinamentali, dismettendo un animus potenzialmente conflittuale che porta naturalmente ad assumere atteggiamenti “difensivistici” e, di contro, accedendo all’ordine d’idee per cui al di fuori delle mura della cittadella statale possono maturare orientamenti ancora più favorevoli alla causa dei diritti di quelli emergenti in ambito interno. Certo, occorre essere molto oculati, vigili, non preorientati in un senso o nell’altro. Per questo, come dicevo, il compito del giudice si è fatto sempre più arduo ed impegnativo: un tempo, avere come unico punto di riferimento solo la Carta costituzionale semplificava molto il lavoro dell’operatore; oggi è, ovviamente, terribilmente più complesso tener presenti congiuntamente più Carte dei diritti idonee a convergere ed a piegarsi sul caso e in esso lasciare l’impronta della loro formidabile forza di qualificazione dell’esperienza. Notevole e non di rado sofferto è, infatti, lo sforzo prodotto dagli operatori chiamati ad orientare verso ciascuna di esse l’interpretazione dei testi di legge nel tentativo di conciliarli con tutte, il che poi nei fatti vale come conciliare le Carte inter se.

    I casi cambiano, come sappiamo, di continuo e, perciò, possono cambiare anche le combinazioni dei materiali normativi che li riguardano. La soluzione ideale, come vado dicendo da tempo, è quella che non obbliga a scelte laceranti ed esclusivizzanti all’insegna della “logica” dell’aut-aut bensì l’altra di fare simultanea e congiunta applicazione di più Carte, reciprocamente integrate nell’interpretazione (secondo la efficace formula contenuta in Corte cost. n. 388 del 1999), viste cioè nel sostegno e concorso alla rigenerazione semantica che ciascuna di esse può offrire alle altre.

    Al piano istituzionale, poi, la soluzione ideale è quella che si ha laddove riesca a prendere forma un’equilibrata e sana cooperazione tra legislatore e giudici da un canto, giudici e giudici dall’altro.

    Per il primo aspetto, da tempo mi faccio portatore di un modello che veda il legislatore far luogo ad una disciplina duttile ed essenziale, per principia, fissando in essa l’ottimale bilanciamento degli interessi meritevoli di tutela e demandando quindi ai giudici lo svolgimento della disciplina stessa a mezzo di regole congrue rispetto alle peculiari, non di rado complesse, esigenze del caso. Dunque, nessuna sostituzione è da me patrocinata – come, invece, Bin mi mette in bocca in una sua recente riflessione apparsa su Dir. cost., 1/2019 e dallo stesso richiamata nella sua risposta al primo quesito – del bilanciamento operato dal giudice nei riguardi di quello del legislatore bensì una normazione in progress, che si fa per gradi discendenti di generalità e che vede comunque il giudice vincolato all’osservanza di leggi che, per loro natura e indeclinabile vocazione, sono chiamate a non irrigidire le discipline riguardanti i diritti (e doveri) della persona, a pena di esporsi alla sanzione della loro forzata flessibilizzazione ad opera del giudice costituzionale, quando non – e questo è davvero deprecabile – direttamente ad opera dei giudici comuni, a mezzo di un uso improprio delle tecniche d’interpretazione. D’altro canto, numerosi esempi possono addursi a sostegno di quest’assunto: la stessa pratica delle additive di principio ne dà eloquente testimonianza.

    Per il secondo aspetto, poi, non dovrebbe mai perdersi di vista la tipicità dei ruoli rispettivamente spettanti alle Corti europee rispetto ai giudici nazionali e, quanto a questi ultimi, ai giudici comuni rispetto alla Corte costituzionale. Di contro, disponiamo di molti segni, specie nella più recente giurisprudenza costituzionale, della tendenza di quest’ultima ad attrarre su di sé la cognizione di questioni la cui soluzione invece, secondo modello, dovrebbe considerarsi riservata ai giudici comuni (si pensi solo alla svolta segnata da Corte cost. n. 269, che ha ora avuto una ulteriore accelerazione con la sent. n. 20 del 2019).

    La tipicità dei ruoli istituzionali è un bene prezioso, da preservare e trasmettere anche alle generazioni che verranno: è parte integrante, costitutiva dell’idea stessa di Costituzione consegnataci dai rivoluzionari francesi e mirabilmente scolpita nell’art. 16 della Dichiarazione del 1789. Senza la tipicità dei ruoli non v’è infatti garanzia effettiva dei diritti fondamentali e, perciò, non v’è neppure Costituzione. La tipicità, però, non esclude, ed anzi implica, la collaborazione di tutti gli operatori nell’intento di dare l’ottimale appagamento, alle condizioni oggettive di contesto, ai bisogni elementari dell’uomo, senza alcuna pretesa di prevaricazione da parte di questo o di quello sugli altri.

    Qualcuno dirà che sono un inguaribile ottimista o, diciamo pure, un ingenuo avulso dalla realtà, che mi sono costruito un modello ideale nel quale toto corde mi riconosco e del quale tuttavia non v’è traccia nell’esperienza.

    Non nego – sia chiaro – le non poche storture e deviazioni in quest’ultima riscontrabili, per il cui superamento il “dialogo” intergiurisprudenziale – per quanto qui specificamente importa – può, una volta di più, offrirsi quale risorsa preziosa da portare a frutto come si conviene. Allo stesso tempo, tuttavia, una disincantata osservazione della realtà porta – a me pare – a concludere nel senso che, attraverso ed a seguito degli incontri e degli scontri tra le giurisprudenze, alla lunga i diritti sono cresciuti per numero e per opportunità di appagamento delle aspettative che ad essi fanno capo: anche quei diritti sociali della cui sorte Bin si mostra – e qui ha ragione – preoccupato (lo sono anch’io ma in relazione ad indirizzi dei decisori politico-istituzionali, non dei giudici). Se ne vuole una conferma? Ebbene, possono aversene due particolarmente attendibili che vengono sia dalla teoria che dalla pratica: quanto all’una, è sufficiente anche una rapida scorsa ai Commentari alla CEDU ed alla Carta di Nizza-Strasburgo, alcuni dei quali corposissimi, per avvedersi del rilievo attribuito agli indirizzi dell’una e dell’altra Corte europea nei campi più varî di esperienza, del concorso da essi dato all’affermazione dei diritti della più varia natura e specie; quanto all’altra (ed è ciò che qui maggiormente importa), si considerino gli innumerevoli casi in cui pronunzie dei giudici nazionali – a partire, ovviamente, da quelle del giudice della legittimità – si presentano infarcite di richiami non ad pompam a questa o quella Carta ed a questa o quella Corte europea, a beneficio non di rado proprio delle persone maggiormente deboli ed esposte, e chiediamoci: che ne sarebbe stato dei loro diritti senza il sostegno venuto ab extra?

    È una coincidenza, insomma, che la pianta dei diritti sia vistosamente cresciuta dopo che la Carta costituzionale è stata affiancata, sorretta, alimentata dalle Carte di origine esterna, così come queste hanno tratto beneficio dalle Costituzioni nazionali, e, dunque, in buona sostanza, dopo che gli operatori hanno potuto (e possono) giovarsi dello strumento di un “dialogo” intergiurisprudenziale fattosi col tempo viepiù fitto, fecondo, coraggioso, lungimirante?

    Roberto Bin: “Poco ho da replicare ad Antonio Ruggeri che non sia già scritto nella mia risposta alle domande posteci. Mi limiterò a commentare alcuni suoi passi:

    1. “La pluralità delle Carte, in realtà, può, per un verso, spianare la via agli operatori istituzionali nell’esercizio delle loro funzioni e, per un altro verso, però rendere l’esercizio stesso ancora più impegnativo ed oneroso”. Come ho osservato, che i giudici siano “operatori istituzionali” che esercitano loro “funzioni”, e che queste consistano nella “massimizzazione della tutela dei diritti fondamentali, alla cui luce vanno condotte le operazioni di ponderazione, assiologicamente connotate, dei beni costituzionalmente protetti”, è un’idea che a me sembra profondamente sbagliata. I giudici non si confondono con gli altri “operatori istituzionali”, perché i giudici non hanno la “funzione” di “massimizzare i diritti”, ma quella di applicare obiettivamente la legge, che rappresenta non la massimizzazione di un diritto, ma la sua disciplina equilibrata, ossia bilanciata con gli altri interessi e diritti potenzialmente concorrenti. La logica della “massimizzazione” è popolare presso i penalisti e i tributaristi, che sono educati a accentrare la tutela dell’inquisito/imputato/condannato secondo un modello culturale liberale che vanta le sue glorie, ma non ha valore assoluto ed è comunque fortemente ideologico: esiste la vittima, come esistono gli interessi della collettività alla sicurezza e alla certezza della pena oppure alla giustizia impositiva e a che tutti ottemperino alla obbligazione fiscale. Massimizzare la tutela dei primi significa sacrificare la tutela dei secondi: è questo il compito del giudice? Penso di no, bilanciare gli interessi è compito del legislatore, spettando però al giudice l’impugnare la legge che fissi un punto di equilibrio pregiudizievole per qualcuno degli interessi (costituzionalmente rilevanti) in gioco.

    2. “Nessun giudice, dunque, può rivendicare per sé il monopolio della interpretazione costituzionale (sintagma che qui intendo in senso materiale, riferendolo appunto ad ogni documento – per dirla con la Consulta: sent. n. 269 del 2017 – “tipicamente costituzionale”, qual è appunto una Carta dei diritti); e, se ciò pretendesse, sarebbe un ingenuo o un folle”. Non discuto la pretesa “monopolistica” dell’interpretazione (che non è rivendicata dalla Corte costituzionale – vedi infatti l’invito all’“interpretazione conforme” costantemente rivolto a tutti i giudici – mentre lo è invece, per le rispettive Carte, dalla Corte EDU e dalla Corte di giustizia: e questo è un aspetto che andrebbe valutato attentamente), ma contesto la parificazione delle altre Carte alla Costituzione. Come ho già cercato di spiegare nelle mie risposte, né la CEDU né la Carta di Nizza hanno davvero carattere costituzionale (se non nel senso generico per cui anche lo Statuto del Coni ne rappresenta “la costituzione”). Non solo per le caratteristiche genetiche che la storia ha assegnato ad esse, ma anche perché dietro ad esse non c’è un legislatore democratico che possa decidere come attuarne le norme o modificarle: è questo un aspetto che ad un costituzionalista non può sfuggire. L’interpretazione data dai giudici e dalla Corte costituzionale ad una disposizione costituzionale non è definitiva, perché il legislatore può sempre intervenire: gli stessi meccanismi democratici non valgono né nella CEDU né nella UE, e ciò per la loro perdurante natura internazionalistica, che richiede sempre il consenso unanime degli Stati.

    3. Che esistano “norme self executing della Carta di Nizza-Strasburgo” è fortemente contestabile; esistono semmai pretese delle relative Corti di accreditare una generale prevalenza e applicazione diretta delle norme dei loro rispettivi ordinamenti (norme in larga parte create da quelle stesse Corti, per di più); ma sono pretese indebite, vagamente imperialistiche, che la Corte costituzionale bene fa ad arginare e contrastare. Posso sommessamente ricordare che la Dichiarazione relativa alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, allegata al Tr. Lisbona, pone la regola (già anticipata nell’art. 6.2 del TUE) per cui “La Carta non estende l'ambito di applicazione del diritto dell'Unione al di là delle competenze dell'Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l'Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati”? La Carta dovrebbe valere come parametro di legittimità degli atti della UE (il che però è avvenuto in un numero di casi che si possono contare sulle dita di una mano monca), anche se la giurisprudenza della Corte di giustizia tende a ampliarne la funzione con la stessa progressione con cui estende l’ambito di applicazione del diritto dell’UE – ambito di applicazione che costituisce una delle nozioni cruciali e però meno definibili del diritto UE, lasciata nelle mani “espansionistiche” della Corte di giustizia (consigliabile a proposito la lettura dell’unica ricerca sistematica di questa giurisprudenza: M.E. BARTOLONI, Ambito d’applicazione del diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali. Una questione aperta, Napoli 2018). La stessa questione degli effetti diretti delle norme UE va rimessa dentro limiti rigorosi, che sono poi quelli tracciati dalla Corte di giustizia sin dalla mitica Van Gend en Loos e mai più cambiati sino agli anni più recenti: checché ne pensi la sezione tributaria della Cassazione, le direttive UE hanno effetto diretto solo se si abbia a che fare con norme che siano “chiare, complete e incondizionate” (che non richiedano quindi un’integrazione da parte delle autorità amministrative o legislative, altrimenti il giudice invaderebbe la discrezionalità di altri poteri dello Stato) e purché sia il privato a richiederne l’applicazione a tutela dei propri diritti. Per le norme del Trattato valgono condizioni più elastiche, anche se non esattamente circostanziate e quindi sempre discutibili (vedi il caso Taricco, infatti).

    In altre parole, che esista un “canone fondamentale dell’applicazione diretta che – come si sa – è l’autentico cuore pulsante dell’Unione, la ragion d’essere della sua esistenza… (che) risponde ad un preciso ed indeclinabile obbligo discendente dal principio fondamentale di cui all’art. 11 della Carta, nel suo fare ‘sistema’ con i principi fondamentali restanti” a me appare un vero e proprio abbaglio. Dall’art. 11 potrà semmai essere tratto il principio della prevalenza del diritto della UE, sempre che esso resti nei confini delle attribuzioni conferite alle sue istituzioni (il principio di attribuzione è il perno del sistema dei Trattati, proprio in quanto “trattati”), ma certo non quello degli effetti diretti, che è un principio tutto giurisprudenziale escogitato per affidare ai privati il controllo sull’efficacia delle norme europee che fondino diritti individuali (si parla infatti di private enforcement del diritto UE).

    4. È probabile che io possa apparire affetto da “un autentico crampo mentale” se non addirittura da “un malinteso nazionalismo costituzionale (non meno pernicioso del nazionalismo tout court…)”, ma forse si tratta di una reazione autoimmune al dilagante prolasso intellettuale che sembra causare la perdita della percezione di quali siano le coordinate teoriche dei rapporti tra ordinamenti e la comprensione della funzione di clausole passerella come quelle dell’art. 11 e (ora) 117.1 Cost. Non credo che la nostra Costituzione sia “in ogni caso maggiormente attrezzata culturalmente e positivamente… rispetto alle altre Carte al fine di poter rendere un servizio adeguato ai beni della vita dei quali si reclama di volta in volta tutela”: che significa? La Costituzione porta i segni della cultura e dell’esperienza in cui è stata scritta, e allora? La Costituzione degli USA è ancora meno “attrezzata”, in fondo. Della CEDU non parliamone, non sembra che la sua scrittura sia un’esplosione di senso, e nemmeno la Carta di Nizza: per non parlare dell’evidente deficit che esse hanno rispetto a tutto ciò che si sintetizza nell’etichetta “diritti sociali”. Tutte queste carte però vivono della giurisprudenza che su di esse si forma. Debbo davvero ritenere che i giudici di Lussemburgo siano culturalmente “meglio attrezzati” dei nostri? Ma avete mai letto che cosa intendono loro per “lavoro” e per i relativi diritti? Mai sentito parlare delle sentenze Viking, Laval, Rüffert… Perché mai una Corte formata tutta – a causa della scarsa attenzione che vi prestano gli Stati nel nominarli – da studiosi di diritto internazionale e di diritto comunitario, fermamente convinti che l’ordinamento che amministrano debba espandersi e prevalere senza limiti, portando con sé una assurda teoria monistica degli ordinamenti e, il che ha maggior peso, la più esasperata logica liberista: perché mai una Corte del genere ci dovrebbe dare garanzie migliori di quanto possano offrirci la nostra Costituzione e i nostri giudici costituzionali? Questo mi sembra un preconcetto un po’ provinciale. E non parliamo della Corte EDU e della giurisprudenza creativa che hanno prodotto giudici provenienti da 47 paesi di incerta tradizione giuridica e democratica, che sembrano più timorosi di pestare i piedi dei vari dittatori o aspiranti tali che di contraddire le scelte compiute dai nostri legislatori democratici.

    Ma non è questo il mio argomento. Il punto è che non si devono abbondare gli assi portanti del sistema giuridico, del ruolo che in esso svolgono gli atti e i loro rispettivi fondamenti. Che UE e CEDU siano organizzazioni internazionali, come tali istituite da trattati la cui interpretazione e applicazione devono essere basate sul rigoroso rispetto del principio di attribuzione; e che i giudici italiani e la Corte costituzionale debbano difendere questo sistema e i limiti e le regole che ne derivano: tutto ciò a me sembra non essere sintomo di nazionalismo ma solo il modo corretto in cui un giurista dovrebbe concepire gli spazi e i ruoli. È un’impostazione costituzionale dei rapporti che corrisponde ai principi tradizionali dello Stato di diritto della cui salvaguardia i giudici dovrebbero essere i principali responsabili.

    5. Su un punto però convergo con Ruggeri, ed è sul rilievo circa il pessimo stato della tecnica legislativa attuale: “la opacità del linguaggio delle leggi e le loro complessive carenze risultano foriere di gravi incertezze”. È verissimo, ed è la causa prima dell’incertezza del diritto e della pressione costante sui giudici perché allarghino le maglie della legge laddove essa oscura o la integrino laddove essa è assente. La pressione sociale insiste sul tessuto giudiziario cercando risposte alla domanda incessante di riconoscimento di “nuovi diritti”, sollecitata soprattutto dalle nuove tecnologie, e di estensione dei diritti già riconosciuti. Al giudice si accede solo per tutelare il proprio interesse, per ampliarne la tutela; e questo “sbilancia” la risposta data dalle istituzioni: sbilancia perché il giudice non può – e non deve – sostituirsi al legislatore nell’opera di fissare il punto di bilanciamento tra gli interessi in competizione e, di conseguenza, di fornire ad essi una disciplina equilibrata (costituzionalmente equilibrata). È però anche evidente che se il legislatore non adempie al suo ruolo non per questo le rivendicazioni sociali cessano: esse si indirizzeranno ai tribunali, i quali saranno indotti a ricercare nella Costituzione i principi da cui derivare la “norma del caso”. Solo un’immagine ristretta della funzione del giudice, del resto, può concepire la “applicazione della legge” come un processo che non sia mediato dalla individuazione della “norma” da applicare come premessa maggiore del sillogismo: il problema è quanto sia distante tale “norma” – prodotto dell’interpretazione – dalle disposizioni di legge. E talvolta la distanza è siderale. Ed è anche evidente che a coprire questa distanza, a confortare il percorso mentale del giudice, possa essere utile il richiamo a giurisprudenze straniere o a quelle delle corti europee. Non sto smentendo quanto sostenuto in precedenza: infatti cose ben diverse sono cercare argomenti per fornire una risposta alla parte ricorrente in assenza di una regola legislativa precisa (e costituzionalmente corretta, ovviamente), un’altra è cercare oltre confine lo stimolo per sovvertire l’equilibrio dei poteri e “liberarsi” del vincolo della legge.

    Le Conclusioni

    Sono in debito di riconoscenza verso Ruggeri e Bin.

    Con le loro risposte, per versi diversi appassionate, essi hanno entrambi mostrato di “interpretare” le domande loro poste nel miglior modo possibile, con generosità offrendosi vicendevolmente alle critiche anche aspre espresse, evidentemente frutto di ben radicate – e conosciute – diversità di vedute non solo e tanto sul ruolo del giudice ma, prim’ancora, sulla funzione e portata della Costituzione.

    Questa logica del parlar chiaro credo sia il primo dei tanti frutti fecondi di questa conversazione a distanza, mostrando come entrambi gli accademici siano ben consapevoli della posta in gioco.

    Senza infingimenti, Ruggeri mostra apertamente la sua idea di Costituzione aperta a ricevere i contributi di altri documenti dotati di portata costituzionale – le Carte dei diritti sovranazionali, essenzialmente – ed intravede nel ruolo del giudice un anello importante della catena che si compone instancabilmente dei risultati e degli apporti delle giurisdizioni, nazionali e sovranazionali, rivolti ad operazioni ermeneutiche che muovono indiscutibilmente dalla legge, ma che per effetto delle Carte dei diritti e dei diritti viventi sono aperti e pronti a valutare la conformità della legge a questi plurimi parametri attraverso meccanismi di varia matrice, fra i quali spicca l’interpretazione orientata alla massima protezione dei diritti della persona.

    Meccanismi che per Ruggeri non sono per nulla eversivi, in quanto riconosciuti dalla Costituzione e dal “suo” giudice – appunto la Corte costituzionale –.

    Non si tratta, peraltro, di una laudatio incondizionata al giudiziario. Tutt’altro!

    Ruggeri mette in evidenza a quali pericoli il giudice superficiale e/o malaccorto si espone e si è concretamente esposto oltrepassando i limiti – che pure esistono nella sua visione  dell’attività interpretativa – fino a sfociare nel soggettivismo puro.

    Responsabilità delle delicate funzioni esercitate, equilibrio, conoscenza matura e continua della complessità del cangiante e variegato panorama normativo e giurisprudenziale. Ruggeri appare – e si dichiara – tuttavia un inguaribile ottimista e in questo sembra nutrire egli stesso un debito per quei piccoli giudici comuni che, con umiltà, vestono i panni dei decisori di casi spesso  difficili e complicati e si aprono al confronto senza preorientamenti, ma unicamente votati ad offrire alle persone la migliore tutela possibile.

    Per questo Ruggeri si sforza di offrire consigli utili, è aperto al dialogo ed al confronto costruttivo, confidando in un giudice che sia capace di radicare “una mentalità ispirata, a un tempo, al senso del limite ed alla consapevolezza delle risorse di mente e di cuore di cui ciascun operatore può (e deve) essere dotato e che vanno fino in fondo portate a frutto.

    Bin muove da una prospettiva che pare profondamente ancorata a sentimenti di diffidenza verso la giurisdizione del terzo millennio. Una giurisdizione abusante, incantata oltre che da qualche cattivo maestro, soprattutto dalle sirene delle Carte sovranazionali e dalle giurisprudenze che ne alimentano un uso incostituzionale e contrario all’art.101 Cost., incapace di cogliere il vero ed autentico ruolo della Costituzione. Costituzione, tiene a sottolineare Bin, per nulla confondibile con le altre Carte dei diritti, non dotate di valore costituzionale, immutabili per struttura se non per effetto di nuovi trattati internazionali che presuppongono l’unanimità del consenso dei contraenti ed in ogni caso sottratte al gioco democratico della modificabilità.

    Una giurisdizione comune fuzzy che, dice Bin, per buona parte – molti tribunali, alcune sezioni della Cassazione, compresa la sezione tributaria, per ripetere le sue espressioni – asseconda l’idea della sostituzione del dato normativo interno rincorrendo i precedenti delle corti sovranazionali e a queste ultime attribuendo un’efficacia vincolante che, paradossalmente, non caratterizza nemmeno le sentenze della Corte costituzionale.

    Nessun bilanciamento spetta al giudice, essendo tale attività riservata in via esclusiva al legislatore, né il giudice può o deve tendere alla massimizzazione delle tutele dei diritti fondamentali, a pena di perdere la sua essenza che è quella di comporre interessi nel nome della giustizia.

    Effimera, quindi, l’idea – proposta dal suo interlocutore Ruggeri – di una crescita della pianta dei diritti per effetto dell’interazione fra le Carte sembra dire Bin assistendosi, anzi, ad una enfatizzazione di tutele marginali da parte della Corte edu ed orientate massimamente a proteggere il mercato più che i lavoratori ed i loro sacrosanti diritti da parte della Corte di giustizia.

    Anche Bin offre la sua ricetta al giudice, in una prospettiva rivolta al recupero di quell’autorevolezza ed autorità per buona parte perduta. Ritornare ai sacri principi della divisione dei poteri.

    Molto altro, in realtà, hanno scritto Ruggeri e Bin anche quanto ai suggerimenti rivolti ai giudici.

    Giudici comuni che Ruggeri sembra, in definitiva volere assolvere con formula piena e promuovere per il ruolo che essi svolgono, ma sub condicione, purché essi lo esercitino in modo accorto.

    Giudici che Bin sembra, invece, voler condannare – con scarse possibilità di ribaltamento della decisione in appello –, magari concedendo loro le attenuanti generiche in relazione al panorama normativo che sembra costituire, ai suoi occhi, non la giustificazione di uno straripamento di potere che rimane abusivo, ma almeno la ragione che induce seppur innaturalmente il giudice a supplire alle carenze di vario ordine ascrivibili al potere legislativo.

    Ed è in quest’ultimo passaggio che si intravede, in controluce, un punto sul quale Ruggeri e Bin concordano (al quale, forse, si affianca la comune preoccupazione di una congiuntura storico- politica oscura per la democrazia).

    Dove sta il giusto e lo sbagliato? Bin e Ruggeri non sembrano avere dubbi. Ma la parola, ancora una volta, passa ai giudici.

    Non intendo, alla fine, sconfinare dal piano dell’intervistatore a quello dell’intervistato.

    Soltanto una considerazione ed una citazione a margine sento di dovere fare.

    La prima con riguardo al silenzio degli intervistati sulle sentenze della Corte costituzionale che, per rimanere sul tema del ruolo della CEDU e del suo diritto vivente, hanno espressamente attribuito al giudice comune il compito di interpretare la legge in chiave convenzionalmente orientata. Agevole, sul punto, il rinvio alle numerose sentenze susseguitesi a partire dalle gemelle del 2007 ( nn.348 e 349), ponendo espressamente l’attività interpretativa sotto la copertura di quello stesso art.101 Cost. del quale si è più volte detto-cfr. Corte cost., n.68/2017, p.7 cons. in diritto, e Corte cost. n.109/2017, p.3.1 cons. in diritto -.

    Prospettiva quest’ultima– o scivolamento, a seconda dei punti di vista – che non sembra nemmeno aliena al legislatore, il quale ha innovato la disciplina in tema di rimedi offerti al detenuto in relazione alle condizioni di sovraffollamento carcerario, imponendo al giudice di ristorare le violazioni dell’art.3 CEDU  come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo’– art.35 ter l. ord. pen. –.

    La seconda riporta un passo del discorso pronunziato qualche giorno fa dal Presidente della Repubblica all’inaugurazione dei corsi di formazione  della Scuola della Magistratura dell’anno 2019, ove si è affermato che “Il giudice, nel suo operare, è chiamato sovente ad effettuare un bilanciamento tra i diversi diritti tutelati dalla Costituzione e dalla legge”.

     Per il resto, estremamente liquido risulta lo scenario che riguarda la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ed il suo ruolo, al quale pure hanno fatto rimando tanto Bin che Ruggeri.

    Ma su questo occorre attendere le prossime due interviste dedicate a tale tema. Per intanto, un grazie caloroso e sincero da parte di tutti quei piccoli giudici che sapranno fare tesoro delle riflessioni alte di due studiosi che si sono messi ( anche) al loro servizio con umiltà e sincerità.

     

    User Rating: 0 / 5

    CATEGORIA LE INTERVISTE DI GIUSTIZIA INSIEME

    Please publish modules in offcanvas position.

    × Progressive Web App | Add to Homescreen

    Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona. Progressive Web App | Share Button E poi Aggiungi alla schermata principale.

    × Installa l'app Web
    Mobile Phone
    Offline: nessuna connessione Internet

    Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.