Il diritto internazionale nell’evoluzione del conflitto in Ucraina
Intervista di Giuseppe Amara a Pasquale De Sena*
*Pasquale De Sena, professore ordinario di Diritto internazionale presso l’università di Palermo. Presidente della Società italiana di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione europea (2021).
Giuseppe Amara Professor De Sena, buongiorno. Nelle ultime settimane abbiamo registrato dichiarazioni che sembrano ulteriormente aggravare lo scacchiere politico internazionale e che inducono taluno a ritener che sia in atto una “guerra per procura”. Penso, in particolare, alle parole del segretario della difesa Lloyd Austin il quale ha detto: “vogliamo vedere la Russia indebolita al punto di non poter fare il tipo di cose che ha fatto con l’invasione dell’Ucraina”. Queste dichiarazioni modificano gli scenari? Introducono logiche preventive compatibili con il diritto internazionale?
Giuseppe Amara L’art. 5 del Trattato Nato prevede che un attacco armato contro uno o più stati aderenti in Europa o nell'America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti e, di conseguenza, scaturirà un obbligo di assistenza, anche militare se necessario. Ritiene che tale disposizione possa essere attivata nell’attuale emergenza, anche a mente il successivo art. 6 e le dichiarazioni di Putin che, più volte, ha ribadito come verranno ritenuti obiettivi militari legittimi i mezzi di trasporto Usa-Nato che riforniscono di munizioni e armi il territorio ucraino?
Pasquale De Sena Alla prima questione vorrei rispondere più avanti, essendo questa strettamente legata alla conformità dell’azione del Governo italiano all’articolo 11 della Costituzione.
Sulla questione riguardante l’obbligo di assistenza militare, ex-art. 5 del Trattato NATO, va anzitutto detto che tale obbligo è destinato a scattare, non per un incidente – come può essere il caso di un veicolo NATO colpito per errore – né per una scaramuccia che corrisponda ad un uso “minimo” della forza. Ai sensi dell’art. 5, da interpretarsi in connessione con l’art. 51 della Carta dell’ONU (che stabilisce il principio della legittima difesa individuale e collettiva), per attacco armato deve intendersi l’uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato. L’art. 6 del Trattato NATO vi include sì, ed espressamente, i casi in cui un simile attacco sia condotto contro forze terrestri, navali o aeree o di uno degli Stati parti sul territorio di altri Stati parti; ritengo però difficile che la Russia si spinga sino a colpire - per esempio, in territorio polacco - mezzi di trasporto NATO che movimentino armi. D’altra parte, neppure in un caso del genere, l’art. 5 opererebbe automaticamente, se si tiene presente, che nel caso dell’intervento statunitense in Afghanistan, la sua attivazione fu oggetto di una specifica delibera del Consiglio Atlantico; delibera, quest’ultima, che dovrebbe intervenire, a maggior ragione, in un caso come il nostro, date le gravissime implicazioni che esso presenta. Inoltre, vi è da specificare che il Trattato NATO non impone ai membri dell’Alleanza, anche nel caso di attivazione dell’articolo 5, di mandare direttamente truppe in aiuto dell’aggredito. La partecipazione alla difesa militare di uno Stato membro può essere prestata in diverse forme. La mente corre, ancora una volta, all’invocazione dell’articolo 5 dopo l’attacco sul suolo USA alle “Twin Towers”, che fu imputato all’Afghanistan, e che vide i Paesi dell’Alleanza contribuire in forme diverse alle operazioni militari della NATO in quel Paese.
Giuseppe Amara Ancora, a mente le recenti dichiarazioni di Biden sulle conseguenze di un potenziale attacco cibernetico su larga scala, va modificata la nozione di attacco armato, intendendosi anche quello arrecato in via informatica?
Pasquale De Sena Non vi sono precedenti che attestino una conclusione del genere. Per quanto riguarda specificamente il trattato NATO, l’articolo 5 è stato attivato – come ho appena detto - solo nel contesto della reazione rispetto all’attacco alle “Twin Towers”, e la sua formulazione testuale risale a un periodo in cui lo stato della tecnologia era molto meno avanzato rispetto ad oggi. Nel 2007 l’Estonia subì una paralisi del suo sistema informatico, di cui quel Paese accusò la Russia, in prima battuta. In assenza di prove inequivocabili di un coinvolgimento russo (diretto o indiretto), l’articolo 5 non venne però invocato. Nell’ipotesi in cui un attacco cibernetico ad un Paese NATO risultasse certamente riconducibile alla Russia, bisognerebbe dunque vedere, se i membri dell’Organizzazione sarebbero pronti ad un’interpretazione estensiva (se non proprio a un’applicazione analogica) dell’articolo 5. Mi pare, peraltro, che una simile operazione risulterebbe giuridicamente plausibile, solo ove l’attacco fosse in grado di produrre effetti affini a quelli di un attacco armato, rivelandosi in grado di pregiudicare l’esercizio delle funzioni sovrane essenziali dello Stato destinatario, ovvero di attentare alla sua indipendenza politica. In mancanza, un attacco cibernetico direttamente sferrato - o tollerato – dalla Russia, pur non rilevando come attacco armato, potrebbe costituire comunque un illecito internazionale, configurandosi, per esempio come una violazione del divieto di ingerenza negli affari interni (se direttamente sferrato), o, secondo alcuni, come una violazione del divieto di utilizzare il proprio territorio per atti nocivi nei confronti di uno Stato straniero (se operato da privati).
Giuseppe Amara Come cambierebbe lo scenario internazionale con un eventuale ingresso nella NATO di Svezia e Finlandia e, a mente il disposto di cui all’art. 10 del Trattato, norma che richiede un accordo unanime, come spiega la posizione della Turchia?
Pasquale De Sena A stare alle dichiarazioni del Presidente della Federazione russa, questa prospettiva non verrebbe considerata, di per sé, una minaccia per la sicurezza di quel Paese. In altri termini, un’eventuale reazione militare parrebbe destinata a commisurarsi rispetto alle implicazioni concrete della partecipazione di Svezia e Finlandia (ad es., installazione di basi missilistiche lungo il confine russo-finlandese), ferma restando, naturalmente, l’eventualità dell’adozione di ritorsioni di vario genere (un cenno non meglio precisato è stato fatto alla prospettiva dell’adozione di reazioni di carattere politico). Sul piano giuridico, non vi è dubbio poi che anche l’opposizione di una sola parte sia in grado di bloccare l’ingresso dei due Stati in questione nell’Alleanza, in virtù della disposizione sopra richiamata. Né vi è dubbio che il processo di adesione alla NATO possa prendere un certo tempo, com’è accaduto, del resto, per la stessa vicenda relativa all’adesione dell’Ucraina. Di questo Erdogan è perfettamente consapevole, benché non sia chiaro se la dichiarata contrarietà della Turchia alla prospettiva in questione costituisca una mossa “tattica”, ovvero rivesta un valore strategico. Vi è peraltro da sottolineare che un modello in qualche misura alternativo rispetto all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO è ricavabile dallo “Statement” bilaterale fra Regno Unito e Finlandia dell’11 maggio scorso. “Statement” nel quale i due Stati hanno stabilito di assistersi vicendevolmente, anche sul piano militare, nel caso di un attacco esterno. Per quanto tale “Statement” non rivesta un carattere formalmente vincolante (né intenda sostituirsi al sistema NATO), esso è senz’altro significativo, e può costituire, per l’appunto, un modello di cooperazione bilaterale, eventualmente suscettibile di essere riprodotto anche sotto forma di trattato, ed idoneo ad operare, già prima che l’ingresso nell’Alleanza si realizzi, ovvero, in grado di affiancarsi a quest’ultima, ove tale ingresso non si realizzasse.
Giuseppe Amara Intravede, dal segno opposto, un disegno unitario di Cina e Russia per ridiscutere l’ordine giuridico e politico internazionale costituito?
Pasquale De Sena Non vi è dubbio che Cina e Russia siano portatrici di una visione dell’ordine giuridico-politico internazionale che diverge da quello consolidatosi al termine della guerra fredda, all’insegna dell’unipolarismo statunitense. Una visione che, perlomeno per ora, non sembrerebbe intesa a pregiudicare le Nazioni Unite, e la vigenza dello stesso divieto dell’uso della forza, peraltro clamorosamente violato con l’invasione. Come si evince da un importante documento congiunto fra i due Paesi, adottato il 4 febbraio scorso, si tratterebbe di dar vita ad un assetto non più riconducibile al solo predominio degli Usa e dei loro alleati occidentali, ma multipolare; tale da ammettere, cioè, due o tre poli e le rispettive aree di influenza, connotate dai loro diversi modelli di “democrazia”, dalla parziale diversità dei diritti fondamentali tutelati. L’affermazione di una simile prospettiva è da mettersi anche in correlazione con lo scenario indo-pacifico, nel quale la Cina è interessata ad impedire il costituirsi di alleanze sul modello NATO, e dove la competizione con gli USA è fortissima: ciò spiega l’appoggio dato all’esigenza, fatta valere dalla Russia, di contrastare l’espansione della NATO in Europa orientale. È difficile dire, peraltro, se la visione in questione darà vita ad una vera e propria strategia unitaria da parte dei due Stati, ed, in particolare, se essa sarà in grado di incidere significativamente – ed in che modo - sulle nozioni di sicurezza internazionale e di minaccia alla pace (art. 39 Carta Onu), così come queste si sono venute configurando negli ultimi trent’anni. È però un dato di fatto che la Cina, non solo si è costantemente astenuta sui progetti di risoluzione di condanna dell’aggressione russa - sia in Consiglio di Sicurezza, che in Assemblea generale ONU - ma si è costantemente opposta alle sanzioni adottate dagli Stati occidentali e dall’Unione europea contro la Russia. Ed è ugualmente un dato di fatto che il numero di Stati che si sono astenuti, insieme alla Cina, in Assemblea generale, non solo è stato di per sé consistente (si pensi che la decisione di sospendere la Russia dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite è stata adottata con 24 voti contrari e ben 58 astensioni), ma corrisponde altresì a più di un terzo della popolazione mondiale. Non ci è concesso invece di prevedere con certezza se quest’insieme di Stati sarà in grado di costituire un ampio blocco contro-egemonico, fondato sui principi cui accennavo poc’anzi, e guidato, in qualche modo, da Cina e Russia.
Giuseppe Amara “Considerando la catastrofe che investirebbe tutta l’umanità nel caso di un conflitto nucleare e la conseguente necessità di compiere ogni sforzo per stornarne il pericolo e di prendere le misure atte a garantire la sicurezza dei popoli”. Questo l’incipit del Trattato di non proliferazione nucleare sottoscritto a Londra, Mosca e Washington il 1° luglio 1968. Ritiene che, oggi, vi sia un pericolo reale di un conflitto nucleare e cosa potrebbe provocarlo?
Pasquale De Sena È una domanda cui, da giurista, non mi riesce facile rispondere. Ciò premesso, mi preoccupa che l’utilizzazione dell’arma nucleare sia stata chiaramente prospettata, in alcune dichiarazioni ufficiali di organi di vertice della Federazione russa, sia pure come “extrema ratio” difensiva, nel caso in cui “interessi vitali”, ovvero l’esistenza di quello Stato dovessero esser messi in pericolo. È chiaro, infatti, che a decidere sul ricorrere di una simile ipotesi non potrebbe che essere la stessa Federazione russa; ed è chiaro, altresì, che la percezione complessiva di una sorta di accerchiamento sanzionatorio e strategico (si pensi, per l’appunto, alla prospettiva di adesione alla NATO di Svezia e Finlandia), da parte occidentale, in risposta all’invasione dell’Ucraina, potrebbe costituire il presupposto di una simile – folle – decisione.
Giuseppe Amara Esistono – quanto meno in astratto – giustificazioni giuridiche nel diritto internazionale alla guerra di Mosca, con peculiare riferimento alla situazione che, dal 2014, nella regione del Donbass vede contrapporsi forze separatiste filorusse ed esercito ucraino e che, poi, nel febbraio di quest’anno, aveva condotto al riconoscimento delle repubbliche di Lugansk e Donetsk da parte di Mosca ed alla firma di accordi di «amicizia e mutuo soccorso» usati come pretesto per l’inizio dell’invasione?
Pasquale De Sena No, a mio avviso, nessuna delle circostanze fatte valere dalla Russia costituisce, sul piano del diritto internazionale vigente, una valida causa di giustificazione dell’intervento armato in Ucraina. Non lo è l’argomento della legittima difesa preventiva (argomento già prospettato, in passato, dagli Stati Uniti, nel contesto della “guerra al terrorismo”, seguita all’attacco alle “Twin Towers” del 2001); né lo è il preteso genocidio delle popolazioni russe del Donbass. Ove pure il sussistere di tale genocidio (sconfessato, per ora, sia pure “prima facie”, in sede cautelare, dalla stessa Corte internazionale di giustizia, chiamata a decidere su una controversia fra Russia ed Ucraina a questo riguardo) dovesse essere provato, non vi è alcun elemento certo per concludere che esso avrebbe giustificato l’intervento russo. A parte la circostanza che tale intervento - perlomeno nella sua prima fase – ha interessato in realtà tutto il territorio ucraino, è da ritenersi che l’uso della forza militare a fini umanitari sia tutt’altro che consolidato sul piano del diritto internazionale, se si pensa che lo stesso intervento militare NATO in Jugoslavia del 1999 – effettuato in assenza di un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza - venne avversato da una parte consistente della comunità internazionale. Proprio l’insostenibilità delle ragioni fatte valere dalla Russia sul piano giuridico, evidenziano, invece, a mio avviso, come la controversia con l’Ucraina sia essenzialmente una controversia di carattere politico, avente ad oggetto, cioè, il progressivo schierarsi di questo Stato con gli Stati europei occidentali e con la NATO, ed il suo progressivo inserimento nella sfera di influenza degli Stati Uniti, già evidenziato dal ruolo giocato da questi ultimi nei fatti di Piazza Maidan del 2014.
Giuseppe Amara Lo scorso 22 aprile è stato firmato un secondo decreto interministeriale sugli aiuti militari per l’Ucraina con apposizione del vincolo di segretezza concordato con il Copasir. Cosa ne pensa? Ha senso parlare di una distinzione nell’invio tra armi difensive ed armi offensive e fino a che punto tali politiche sono compatibili con l’art. 11 Cost.?
Pasquale De Sena Sul decreto interministeriale del 22 aprile, mi chiedo se il coinvolgimento del COPASIR – che è composto paritariamente da maggioranza e opposizione, e che, come si è giustamente osservato (De Fiores) non è dotato di poteri di indirizzo, essendo preordinato al controllo dei servizi segreti - esaurisca davvero il ruolo che sarebbe proprio del Parlamento. Quanto alla seconda questione, mi pare che, più che sulla distinzione fra armi offensive e armi difensive, abbia senso concentrarsi sulla finalizzazione dell’aiuto militare occidentale all’Ucraina. A seguito delle dichiarazioni rese il 27 aprile scorso dal Segretario alla Difesa americano, Austin, nonché a seguito del vertice NATO allargato di Ramstein ci si può chiedere infatti se tale aiuto, nel suo complesso, abbia solo carattere difensivo, ovvero miri ad una sorta di logoramento della Federazione, onde prevenire altre possibili aggressioni da parte della Russia ad altri Stati, come espressamente affermato da Austin. Così l’azione di legittima difesa tenderebbe a trasformarsi in azione preventiva, in contrasto col diritto internazionale, giacché la prevenzione di aggressioni future attraverso (l’uso e) il contributo all’uso della forza armata non è consentita né dal diritto delle Nazioni Unite (art. 51 della Carta), né dal diritto internazionale generale, che permettono eccezionalmente l’uso della forza, solo in risposta ad attacchi armati già sferrati. Agire a titolo di protezione preventiva di altri Stati finirebbe per assomigliare parecchio, e paradossalmente, proprio all’azione “preventiva”, invocata, come ho detto poco sopra, in modo insostenibile da Putin, per giustificare l’attacco russo, nonché, già in precedenza, dal presidente americano G.W. Bush, per fondare giuridicamente la “preemptive war”, come mezzo di reazione, da parte degli Stati Uniti, al terrorismo internazionale. Malgrado siffatto precedente, però, né la Carta delle Nazioni Unite, né il diritto internazionale generale permettono – lo ribadisco - di usare la forza o di contribuire all’uso della forza a fini di prevenzione di attacchi armati, per di più a protezione di altri Stati. Ne consegue che, se l’aiuto militare occidentale va orientandosi davvero in questo senso, la partecipazione italiana è suscettibile di entrare in conflitto con l’articolo 11, dal momento che tale disposizione va interpretata alla luce della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale. L’esigenza di un dibattito parlamentare e un voto sono [sarebbero] di importanza fondamentale, anche perché la continuazione del supporto militare italiano potrebbe fuoruscire, in questa ipotesi, dal (sia pur ampio) mandato conferito al Governo dal Parlamento con la Risoluzione del primo marzo scorso.
Giuseppe Amara La Corte penale internazionale il 28 febbraio ha aperto un’indagine sui crimini di guerra commessi dalla Russia nell’invasione dell’Ucraina. È noto come, nel 2014 e nel 2015, l’Ucraina – che non è parte della Convenzione di Roma – ha accettato con due dichiarazioni la competenza della Corte per i crimini commessi dalla Russia sul proprio territorio. In particolare, la seconda dichiarazione non indica un limite finale di tempo, divenendo così la base giurisdizionale per la Corte per perseguire (e indagare) i crimini commessi nel territorio ucraino, ad eccezione di quello di aggressione (art. 15 bis paragrafo 5 statuto di Roma). Cosa ne pensa e come opera il personale chiamato ad indagare per garantire un accertamento imparziale?
Pasquale De Sena Io credo che la repressione dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi dai russi, e da chiunque altro sul territorio ucraino (non bisogna dimenticare che gravi violazioni dei diritti umani erano state documentate da una missione OSCE, a carico di milizie ucraine nel corso del conflitto civile nel Donbass), sia una questione seria ed importante; e ritengo altresì che gli accertamenti compiuti dall’Ufficio del Procuratore della Corte penale internazionale diano adeguate garanzie di imparzialità. Mi auguro che altrettante garanzie siano offerte dagli investigatori ucraini - visto che i primi procedimenti per crimini di guerra iniziano ad essere intentati, proprio nell’ambito della giurisdizione ucraina – nonché dagli investigatori russi che, a quanto se ne sa, si stanno occupando di crimini commessi da parte ucraina. A tal fine, come suggerito il 12 aprile scorso da una specifica missione di controllo dell’OSCE, sarebbe opportuno che entrambe le parti indagassero anche su violazioni commesse da propri soldati o ufficiali. E questo, fermo restando che la stessa missione cui mi riferisco, pur ritenendo ancora incerta l’ipotesi di un attacco sistematico alla popolazione civile ucraina – tale, cioè, da far presumere la commissione di crimini contro l’umanità - ha già verificato l’esistenza di violazioni estesissime dei diritti di detta popolazione, da parte russa, tali da far presumere, invece, la commissione, su larga scala, di crimini di guerra, peraltro da accertare caso per caso. Fermo restando che la raccolta delle prove esige un’estrema rapidità, resta allora il dubbio che una fretta eccessiva nell’operare la repressione dei crimini in questione nasconda in realtà - da parte ucraina e da parte russa - la volontà di sanzionare la controparte, più che quella di raggiungere un accertamento obbiettivo di fatti e responsabilità individuali. Ci si può chiedere poi se l’accento, posto da più parti, sull’esigenza di far operare le responsabilità personali del presidente della federazione russa e dei vertici politico-militari di quest’ultima, pur ispirandosi a principi fondamentali del diritto internazionale vigente, sia tempestiva. Da questo punto di vista, qualche perplessità in effetti, neppure manca di porsi; basti pensare che la prospettiva che si verifichi un “regime change” in Russia non è particolarmente verosimile, e che, perciò, è ipotizzabile che, proprio con costoro, una composizione del conflitto dovrebbe essere negoziata… Simili perplessità investono quindi anche la proposta, avanzata da Gordon Brown, e sottoscritta da molti prestigiosi colleghi di vari Paesi, di istituire un tribunale “ad-hoc” per giudicare il crimine di aggressione commesso da Putin e dai componenti delle istituzioni russe che hanno deciso l’intervento in Ucraina. A parte la difficoltà di immaginare il meccanismo giuridico di creazione di un tribunale di questo tipo (essendo irrealistico, per ovvie ragioni, che sia il Consiglio di Sicurezza a poterlo istituire, ed essendo assai difficile che, in assenza di un “regime change”, un processo possa essere celebrato su altre basi, per esempio convenzionali - come nel caso del Tribunale di Norimberga – ovvero sul presupposto di una risoluzione dell’Assemblea generale, totalmente sprovvista di competenze al riguardo), mi pare evidente che un giudizio a carico di Putin, in questa fase, sarebbe senza dubbio in grado di recare nocumento a qualsiasi prospettiva di tipo negoziale.
Giuseppe Amara Il segretario generale dell’ONU Guterres, all’indomani della visita a Kiev conclusasi con il lancio di missili russi sulla capitale, ha parlato di fallimento del consiglio di sicurezza. Cosa ne pensa e come l'organizzazione delle nazioni unite può ancora entrare nel conflitto per risolverlo e ristabilire la pace e della sicurezza mondiale?
Pasquale De Sena In realtà il Consiglio di Sicurezza è stato messo fuori gioco più volte nel corso degli anni 2000; basti solo pensare che l’intervento in Irak del 2003 (cui sono seguiti quasi centomila morti), e lo stesso intervento della NATO in Jugoslavia del 1999, sono stati entrambi effettuati senza il suo avallo. Espressa in questi termini, mi sembra dunque che l’opinione di Guterres provi … troppo rispetto al conflitto in corso, e … troppo poco rispetto al pregresso. D’altro canto la portata dell’aggressione russa è apparsa, sin dall’inizio, tale da poter mettere in discussione – come ho già osservato – non tanto l’ONU in sé e per sé, ma proprio l’evoluzione dell’azione Consiglio di sicurezza prodottasi negli ultimi trent’anni; come pensare, dunque, che proprio il Consiglio di sicurezza avrebbe potuto, in qualche modo, “governare” una crisi simile? A questo si aggiunge poi un‘altra considerazione; e cioè che il Consiglio di Sicurezza, pur essendo stato pretermesso - sul piano delle decisioni relative all’uso della forza - sia nella vicenda irachena che in quella jugoslava, si è comunque ritagliato un ruolo, in entrambe le vicende, intervenendo variamente a regolare le situazioni post-conflittuali determinatesi nei territori coinvolti, una volta cessate le ostilità. Un’analoga prospettiva può forse immaginarsi anche per il conflitto in Ucraina; sempre, però, che le condizioni politiche per il raggiungimento della pace vengano a maturare. A tal fine ben poco può il Consiglio, inteso come organo dell’ONU, e cioè come organo di un ente distinto rispetto agli Stati che ne sono membri; è a questi ultimi che spetta operare.
Giuseppe Amara Cosa ne pensa della questione della qualificabilità e del trattamento come terroristi dei miliziani di Azovstal?
Pasquale De Sena Anzitutto non mi sembra condivisibile l'argomento secondo cui, seppure i membri del battaglione Azov avessero compiuti atti di terrorismo, essi non sarebbero punibili dalla Russia, perché ricadrebbero nella giurisdizione ucraina (S. Cassese). A parte che l'affermazione è priva di fondamento (dal momento che senz'altro di tali atti saranno stati vittime anche soldati russi, giustificandosi così l'esercizio della giurisdizione da parte di quel Paese, in base al principio della personalità passiva), ragionare in termini di "terrorismo", in un contesto di conflitto armato internazionale, non ha molto senso. Ed infatti, seppure tale battaglione non risultasse inquadrato nell'apparato militare ucraino (ciò che è da accertare), esso si qualificherebbe, con ogni probabilità, come un movimento di resistenza organizzata (ciò che può, certo, non piacere viste le sue tendenze ideologiche), e, dunque, come gruppo di legittimi combattenti. Naturalmente se si accertasse che tale formazione si è comportata in violazione delle norme del diritto di guerra, i suoi membri non avrebbero diritto a beneficiare della protezione dovuta ai combattenti legittimi (art. 4, lettera A, 2), della Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra del 1949).