Bruno Capponi intervista Bruno Sassani
Lo scorso novembre il prof. Bruno Sassani ha cessato, per raggiunti limiti di età, l’insegnamento di ruolo del diritto processuale civile presso l’Università degli Studi di Roma 2 - Tor Vergata. Studente a Perugia, era stato indirizzato verso la non facile materia da due grandi giuristi: Alessandro Giuliani e Nicola Picardi.
È autore di un manuale adottato in molte Università ed è stato tra i primi a capire le potenzialità del web fondando Judicium. Il processo civile in Italia e in Europa, in assoluto una delle nostre prime riviste elettroniche e di certo oggi una delle più diffuse.
Bruno Sassani non ama le chiacchiere e non fa chiacchiere, come dimostrano le risposte che leggiamo di seguito, ognuna delle quali è un distillato del suo pensiero.
Oralità, concentrazione, immediatezza: cosa ti sembra sia rimasto della forza di tali principi, che continuiamo a trasmettere agli studenti come fossero le stigmate del processo civile “moderno”?
Praticamente nulla. Tutto si regge su una bugia mantenuta per la fascinazione di un mito fondativo che ci lusinga e nobilita. Si salva solo il procedimento cautelare. Fino a poco tempo fa funzionavano discretamente i procedimenti in camera di consiglio che oggi però sono diventati più lenti e improduttivi. Il rito ordinario è un’agonia, tanto in primo grado che in appello. E anche l’incremento dell’uso della procedura dell’art. 281-sexies esprime sempre più spesso la volontà di trattare cause complesse banalizzandole in modo da proteggersi dal gravoso lavoro di sciogliere i nodi. Nodi che così vengono tagliati, quando non evitati: la cultura della motivazione “per precedenti” aiuta moltissimo.
Cosa pensi degli ultimi pronunciamenti della Cassazione sulla giurisdizione, che hanno aperto una nuova linea di conflitto con il Consiglio di Stato coinvolgendo la Corte di giustizia UE?
Mi viene in mente la mossa dei signori rinascimentali che, in guerra tra loro, chiamavano in proprio aiuto il re di Francia o di Spagna. Certamente la decisione del Consiglio di Stato che ha originato la vicenda è una bestemmia, ma le SU avrebbero avuto tutti i mezzi per cassarla senza tante storie, al più spiegando come i limiti di principio posti dalla sentenza della Corte costituzionale ne giustificavano una disapplicazione nel caso di specie. Non solo invece hanno voluto regolare i conti con il Consiglio di Stato, ma hanno chiesto alla Corte di Giustizia di dare una lezione alla stessa Corte costituzionale, cioè all’ordinamento costituzionale italiano che viene presentato come non compliant con l’ordinamento comunitario.
Non vorrei essere nelle vesti del povero Avvocato dello Stato alle prese con il conflitto interno a Lussemburgo.
Più in generale, cosa pensi dell’attuale funzionamento della Corte di Cassazione quale “organo della nomofilachia”?
Posso appellarmi al V emendamento? Se non posso, come mi pare, mi limito a dichiarare che non sono convinto che si tratti di una esperienza positiva. Per molte ragioni che ho cercato di spiegare più volte nei luoghi opportuni (a partire dal grande equivoco sull’idea di “precedente”). Ormai però il treno è partito e – motus magis velocior – non si vede chi lo possa fermare. Non linee di pensiero dissenzienti nella magistratura (non ne vedo); non la nobile dottrina del processo civile che, salvo poche eccezioni, pensa ad altro; non la classe forense, divisa, disinteressata e inconcludente (si è fatta espellere dalla partecipazione alla Camera di consiglio senza fiatare, anzi collaborando alla sua eliminazione con appositi Protocolli).
Cosa pensi dell’attuale orientamento sul “pregiudizio effettivo”, allorché si faccia questione di violazione delle norme processuali?
Discorso delicato. Senza mediazioni culturali, il tradizionale vizio formalistico della nostra giurisprudenza è stato doppiato (doppiato, non soppiantato, intendiamoci) dall’inebriamento per un vago antiformalismo. Nelle sue espressioni generalizzanti, proprie delle massime correnti, l’orientamento è pericoloso, laddove il rimedio all’abuso sta piuttosto nell’art. 156 c. 3 del codice di rito e nella consapevole degradazione di molte pretese nullità a vizi non invalidanti.
Quale pensi sia stato il contributo degli studiosi della tua generazione allo studio del processo civile?
Anche questa è una domanda scivolosa, anche essa da V emendamento. Ma in definitiva mi consolo immaginando che non ci sia stata una “mia generazione”. Sono portato a porre idealmente fuori nella generazione precedente quei giuristi come (exempla nominis) Francesco Luiso o Nicolò Trocker che – loro sì – hanno segnato un progresso rispetto alle generazioni precedenti, ancora impregnate di costruttivismo sistematico senza ripudiarne il cospicuo lascito (per il primo, penso alla liberazione del contraddittorio dalle pastoie dell’efficacia riflessa in cui giurava il suo stesso mondo culturale; per il secondo penso alla forza che dato alla dimensione costituzionale ed europea della tutela giurisdizionale). Altri della stessa fascia temporale non hanno “fatto generazione” (se mi si consente) nel senso che potrebbero ben brillare accanto agli esponenti delle generazioni a cui debbono la cattedra.
Dopodiché la dottrina del “diritto processuale” oggi si accontenta di recitare il ruolo di “formante secondario” (si passi l’orrido termine di Sacco), dal momento che “formante primario” è diventata (più che la giurisprudenza) la c.d. “dottrina delle corti”. E questo malgrado il grande dispendio di cultura, passione e intelligenza di moltissimi dei più giovani.
Che valutazione dai dell’attuale normativa emergenziale sul COVID-19 e dei provvedimenti “normativi” che sono stati adottati da vari Uffici giudiziari? Cosa pensi dell’udienza da remoto sulle piattaforme informatiche?
Normativa, appunto, emergenziale: tutti abbiamo trovato buchi da rammendare ma sarebbe ingeneroso guardarla al microscopio. Questo vale anche per la legiferazione fiorita negli uffici giudiziari, talora unilaterale ma spesso frutto di protocolli concordati con gli Ordini forensi. L’importante è che la applichi senza fanatismi e rigorismi, del tutto inappropriati.
Non vedo di malocchio né l’udienza scritta, né quella da remoto che, paradossalmente, permette a mio avviso una migliore partecipazione dell’avvocato.
Restando sull’uso delle piattaforme, cosa pensi dei corsi universitari impartiti da remoto?
Meglio che niente: ancora dieci anni fa avremmo chiuso e basta. Distinguerei, comunque. Molti studenti giudicano positivamente l’esperienza: la lezione può essere seguita in una situazione comoda e la registrazione dà la possibilità di riprendere il filo e di calarsi nel flusso della lezione. Per il docente è una posizione innaturale: la mancanza di una platea viva rende tutto più difficile. Abituato a parlare a braccio, aiutato da un pubblico reattivo, ho sentito ben presto il bisogno di un testo completo da seguire (e quindi da preparare ad hoc), pena la perdita della concentrazione. È stancante, comunque.
Che idea hai della sinteticità degli atti processuali e degli strumenti idonei a perseguirla?
Dell’atto sintetico, tutto il bene possibile; in genere la lunghezza non è approfondimento e il suo miglior destino è far da barriera a chi sa di aver torto. Naturalmente il problema non può essere affrontato con il sistema metrico decimale, e la ragionevolezza del caso concreto dovrebbe regnare sovrana.
Quanto alla sinteticità della decisione, si tratta spesso di una comoda scappatoia, in un contesto che mira a premiare la motivazione pigra, più che la motivazione puntuale. E una motivazione pigra è sovente il sintomo di scelte mal difendibili. Ma la crisi oggi investe lo stesso concetto di motivazione.
Quali dovrebbero essere le caratteristiche di chi, oggi, si appresta a studiare il processo civile?
La pazienza e l’umiltà. Quelli che hanno cominciato quando io ho cominciato, erano stati attratti tanto dalla bellezza della costruzione, che sembrava mettere alla prova l’ingegno di chi vi si avvicinava, quanto dalla forza morale delle parole d’ordine ricordate nella prima domanda, quanto ancora dalle nuove sfide sociali che si affacciavano (erano gli anni del “nuovo processo del lavoro”). Dunque, orgoglio e prospettiva di ricompensa intellettuale.
Qualità, queste, che deve certo possedere il neofita, ma con l’avvertenza che, per esercitarle e trarne una gratificazione, deve avere anche la consapevolezza che il diritto del processo è ormai altrove, non tanto – e mi ripeto – nella giurisprudenza (che sarebbe cosa buona e giusta) ma nella c.d. dottrina delle corti, che è altra cosa (meno buona e meno giusta).