Un riesame critico di alcune questioni irrisolte della disciplina dei licenziamenti, conversando con Stefano Giubboni
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Stefano Giubboni
«Anni difficili. I licenziamenti in Italia in tempi di crisi» è il libro pubblicato, a fine ottobre 2020, per i tipi di G. Giappichelli Editore, che raccoglie – riordinandoli in forma organica – alcuni contributi di Stefano Giubboni dedicati negli ultimi anni alla disciplina dei licenziamenti, dalla legge Fornero al Jobs Act, passando per la giurisprudenza di legittimità e costituzionale. Una rimemorazione, insomma, della disciplina dei licenziamenti, con una «serrata analisi critica dei numerosi aspetti irrazionali e disfunzionali della disciplina oggi in vigore nel nostro Paese, così come stratificatasi senza adeguato coordinamento sistematico in questi anni di contro-riforme, per suggerire – oltre a soluzioni utili già disponibili sul piano interpretativo – anche radicali interventi di semplificazione e di (autentica) riforma, in linea con le indicazioni offerte dalla Corte costituzionale nelle sue sentenze sul decreto legislativo 23/2015». In questo dialogo ripercorriamo con l’autore l’ultimo miglio della disciplina dei licenziamenti, con qualche domanda obbligata sull’impianto sistematico delle tutele dagli anni ’70 in poi e sulle scelte recenti di politica del diritto del lavoro.
Quelle riportate sopra sono le parole che leggiamo nella quarta di copertina. Sono queste le “ragioni” del tuo libro? C’è dell’altro?
La ragione di fondo che ha guidato questa “rimemorazione” – come l’hai elegantemente chiamata – è, in effetti, ben sunteggiata nella quarta di copertina. Il libro nasce anzitutto dall’esigenza di mettere in forma maggiormente distesa e insieme “compatta” quella critica radicale – come tale, insieme tecnica e politica – delle controriforme del decennio perduto del diritto del lavoro, per citare un’espressione efficace, nella quale mi sono impegnato, in buona compagnia per la verità, in questi ultimi anni, segnalando tra i primi, in particolare, la strutturale incompatibilità del cosiddetto “contratto a tutele crescenti” (formula che ho trovato sin da subito francamente inaccettabile per l’insopportabile tasso di impostura e mistificazione linguistica) con i principi della Costituzione repubblicana. Quella impostazione critica è stata, in una parte non minore, sostanzialmente recepita dalla Corte costituzionale con le due importanti sentenze del 2018 (la n.194) e del 2020 (la n.150), di cui come ovvio il libro dà conto diffusamente.
Collegata a questa ragione ve n’è un’altra più generale, che ha a che fare con l’esigenza di esplicitare in maniera più compiuta di quanto non avessi fatto in precedenza una ben precisa opzione di politica del diritto, diretta, da un lato, a ripristinare regimi di tutela effettivamente bilanciati e adeguati, restituendo anzitutto centralità alla tutela reale del posto di lavoro, e, dall’altro, a semplificare un quadro normativo sulla cui insostenibile e disfunzionale complessità esiste, oggi, un giudizio pressoché unanime da parte di quelli che con brutta espressione ci siamo abituati a chiamare gli “operatori del diritto”, in primis avvocati e giudici del lavoro. Una opzione di politica del diritto evidentemente opposta a quella di segno neoliberale perseguita negli anni delle controriforme, sia dalla legge Fornero, sia – e soprattutto – dal Jobs Act renziano.
Nella introduzione del libro definisci questi orientamenti neoliberali approssimativi e provinciali, frutto – come scrivi – di «un accidioso abbandono (quasi una desistenza culturale)» a una serie di luoghi comuni, «in un campionario argomentativo in cui spiccano le più schematiche rappresentazioni del conflitto insiders vs outsiders e le semplificate versioni nostrane della Law & Economics». È un giudizio severo, non solo tecnico-giuridico.
È un giudizio severo, ma credo corretto, visto che l’appello alle virtù taumaturgiche della flessibilità (anche) “in uscita” – la cui necessità e quasi ineluttabilità è stata sbrigativamente giustificata con il richiamo a quei topoi ormai consunti del senso comune neoliberale – è servito a bloccare praticamente sul nascere un autentico dibattito scientifico sul fondamento di quelle asserzioni. Un fondamento – si badi – debolissimo sul piano teorico, dove è sempre stato contestato anche in seno alle dottrine economiche, e dalle ancor più evanescenti basi empiriche, come i fatti hanno poi implacabilmente dimostrato. Nessuno degli effetti attesi da una riduzione della asserita eccessiva rigidità della disciplina italiana dei licenziamenti sul dinamismo del nostro mercato del lavoro (e, di riflesso, sulla crescita della capacità competitiva del sistema delle nostre imprese) si è verificato; e ciò per la ragione di fondo che quella disciplina ha un rilievo del tutto marginale sul funzionamento del mercato del lavoro e soprattutto sulle dinamiche dell’occupazione. Le controriforme criticate nel libro hanno quindi tradotto in maniera piuttosto pasticciata opzioni politiche dalla forte connotazione ideologica e in realtà sprovviste di quella robustezza di basi teoriche che si è tentato di accreditare. Lo stesso dibattito tra gli economisti è sempre stato assai più articolato della versione riduzionistica e piuttosto unilaterale che è prevalsa nella mediazione offerta ad uso dei giuslavoristi.
Hai scritto che il dibattito che ha accompagnato e sostenuto soprattutto gli interventi normativi del 2012 e del 2015 ha sviato l’attenzione dalla vera questione che conta in questo campo di «lotta per il diritto»: quella del potere, della limitazione e del controllo del potere sociale dell’impresa. A cosa ti riferisci esattamente? Puoi illustrarci meglio questo passaggio?
È questo il profilo maggiormente ideologico del discorso neoliberale, la cui visione del mercato concorrenziale semplicemente rimuove, occulta, il tema del potere. Che è invece il tema fondamentale del diritto del lavoro, ciò che ne fa un elemento portante del modello di democrazia accolto dalla Costituzione repubblicana. Il fatto che ci ritroviamo, anche in Europa, e certamente in Italia, a vivere in società sempre più diseguali, con una crescita vertiginosa e vergognosa delle diseguaglianze economiche (nella distribuzione del reddito e della ricchezza e di conseguenza nelle opportunità) che nega alla radice il disegno costituzionale, è legato a questa rimozione, e costituisce il frutto della applicazione, seppur con intensità diversa nei diversi contesti nazionali, del paradigma neoliberale.
Oggi assistiamo però – finalmente – a un ripensamento di quel paradigma, anche all’interno dell’Unione europea, che ne ha probabilmente fatto, specie dopo il 2008, l’applicazione forse più ottusamente rigoristica, anche in forza delle regole che si è data con quella sorta di legalità parallela che nella letteratura specialistica va sotto il nome di crisis-management-law. Ce ne dà evidenza non solo Nex-Gerenation-EU, che evidentemente supera la logica ordoliberale dell’austerità, ma forse ancor più, per certi versi, l’audace proposta di direttiva su un salario minimo adeguato presentata a settembre dalla Commissione europea, che al di là di tutti i suoi limiti (evidenti e del resto persino scontati, data la controversa base giuridica messa a disposizione dal Trattato), segnala, di per sé, che il modello della svalutazione interna competitiva del lavoro non è più la strada che l’Unione intende perseguire. O, almeno, non è la sola.
Nella introduzione si leggono parole molto critiche anche sulla «narrazione flessicuritaria».
La flexicurity è la versione edulcorata e politically correct del paradigma neoliberale. Il mio, comunque, non vuole essere un atteggiamento di chiusura aprioristica e ideologica: di per sé, come tutte le formule politiche di compromesso, può voler dire, e infatti dice, cose molto diverse, alcune delle quali del tutto condivisibili. Sta di fatto, però, che, in Italia, quella formula è stata tradotta – in particolare con la legge Fornero e il Jobs Act, che ad essa si sono esplicitamente ispirati – nel modo che sappiamo: insicurezza, precarietà, in-work-poverty dilagante, per usare un altro anglicismo forse meno à la page, da una parte, e politiche attive del lavoro en attendant Godot, dall’altra. Con gli ammortizzatori sociali si è fatto forse un po’ di più, ma sempre troppo poco, come ci ha rammemorato la difficilissima gestione della crisi pandemica. L’attuale Ministro del lavoro ha ottimi propositi, e buoni progetti, ma molto dipenderà, in concreto, dalla quota di risorse che sul fronte della innovazione (e della effettiva implementazione) delle politiche attive si riuscirà a ritagliare nell’ambito del cosiddetto recovery plan.
A cosa serve, oggi, l’articolo 18?
Serve a quello cui era servito ieri e a cui dovrà servire domani, salvo che non si pensi – e io, infatti, non lo penso – a un modo di produzione, quello che alcuni teorici definirebbero “postcapitalistico”, che si regga sul lavoro finalmente liberato dal vincolo della subordinazione. Oggi c’è in molte realtà più subordinazione, e non di rado più sfruttamento, di quanto non ce ne fosse ieri, e l’articolo 18 è uno strumento – importante – di riequilibro del potere contrattuale delle parti in contesti nei quali, in realtà, lo squilibrio di forza tra datori di lavoro e lavoratori è, appunto, persino aumentato. Mi ha ad esempio molto colpito la lettura della motivazione con la quale il Tribunale di Palermo, nella recente sentenza del 24 novembre 2020, ha minuziosamente riscostruito la pervasività del potere direttivo esercitato dalla nota piattaforma del food delivery sui propri riders (e la recentissima decisione bolognese sugli effetti sistematicamente discriminatori dell’algoritmo utilizzato da un’altra nota società ce ne dà conferme piuttosto inquietanti).
La rivoluzione digitale saprà liberare il lavoro e l’autonomia delle persone solo a patto di tenere a bada il potere delle piattaforme (un potere immenso e smisurato, come sappiamo per comune esperienza e come ha spiegato forse meglio di altri Shoshana Zuboff nel suo The age of surveillance capitalism, il cui sottotitolo è parimenti indicativo: The fight for a human future at the new frontier of power). Il diritto del lavoro è tuttora chiamato a svolgere questa sua funzione fondamentale (Guy Davidov, nel suo recente libro, la chiama di limitazione del potere datoriale con finalità democratica; ma è un insegnamento dei nostri classici).
Sempre nella introduzione del volume si legge che la responsabilità più grave della dottrina giuslavoristica italiana «sta a ben vedere nell’aver reciso i legami con quella straordinaria tradizione di studi sul licenziamento, e sulla stabilità reale in specie, che pure ha costituito uno dei momenti più rilevanti del contributo dottrinale classico al nostro diritto del lavoro, e insieme una delle espressioni più eleganti di quello che potremmo chiamare lo stile italiano». Credi davvero che in questi anni abbiamo vissuto una regressione (non solo) culturale sulla questione dei licenziamenti?
Direi di sì, per le ragioni che ho sommariamente ricordato poc’anzi. La discussione sull’opportunità di riformare – o di abrogare, sia pure per consunzione lenta (come in pratica ha fatto il d.lgs. n. 23/2015), l’articolo 18 – è stata impostata su basi viziate da pregiudizi puramente ideologici, e sarebbe stato compito dei giuslavoristi, a prescindere dagli orientamenti di politica del diritto, contribuire a indirizzare quella discussione su basi metodologicamente più corrette, cosa che ci avrebbe forse risparmiato, almeno in parte, la deriva legislativa cui abbiamo dovuto nostro malgrado assistere. Questa deriva è, del resto, denunciata da molti: esiste un giudizio trasversalmente condiviso sullo scadimento della qualità – anche tecnica – della disciplina in vigore; una valutazione negativa, questa, fatta ormai propria anche da quanti hanno visto con favore l’opzione per la marginalizzazione della tutela reale (e più in generale per la riduzione del livello delle tutele), che ha ispirato il legislatore del 2012 e ancor più quello del 2015.
La pessima riscrittura dell’articolo 18 non poteva non portare al groviglio di questioni nel quale siamo tuttora impaniati. Le linee divisorie che, per lo meno nelle intenzioni, avrebbero dovuto separare con nettezza, nel sacro nome della certezza del diritto, gli ambiti applicativi dei diversi rimedi (e segnare in particolare il confine tra la reintegra attenuata e l’indennità risarcitoria forte) sono state mal congegnate ab origine, anche per l’impiego di espressioni d’ineffabile vaghezza. Era inevitabile che le incertezze applicative fossero destinate ad aumentare, con buona pace dei propositi di semplificazione. Che il d.lgs. n. 23/2015 fosse predestinato, come è poi stato per larga parte, a una bocciatura costituzionale – soprattutto per il modo insensatamente punitivo, per il lavoratore illegittimamente licenziato, con il quale era stato ideato il primo comma dell’art. 3 – doveva essere, a mio sommesso parere, avviso condiviso che la comunità dei giuslavoristi – unanime e tutt’intera – avrebbe dovuto rivolgere all’improvvido riformatore, per una sorta di dovere deontologico. Ed oggi, i pur necessari correttivi introdotti ex post in parte dal legislatore e in parte dalla Corte costituzionale, con le sentenze citate, hanno finito per incrinare definitivamente quel poco di coerenza che si poteva rintracciare nel combinato disposto tra nuovo articolo 18 e d.lgs. n. 23/2015; per cui il meno che oggi si possa dire – come in effetti è stato detto – è che ci troviamo di fronte ad un quadro regolativo totalmente privo di ragionevolezza, specie se visto nel suo insieme (non oso neppure dire dal “punto di vista sistematico”, visto che non credo esista nulla di più eccentrico rispetto al sistema della normativa sui licenziamenti).
Il sostanziale ridimensionamento della tutela reintegratoria dell’art. 18, St. lav., si è avuto con la legge Fornero, n. 92/2012, ma non credi che tutto abbia avuto inizio con la previsione della possibilità per il lavoratore di formulare l’opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione?
È in effetti questo un argomento spesso usato dai difensori del nuovo articolo 18, che non mi trova però d’accordo. Anzitutto il lavoratore vittorioso in giudizio esercita – liberamente – una sua facoltà di scelta: sta a lui decidere se monetizzare o meno la reintegrazione. Anche quanti parlano oggi di empowerment come obiettivo di un moderno diritto del lavoro dovrebbero riconoscere che questa facoltà aumenta, semmai, il potere che al lavoratore deriva, in ogni caso, della possibilità di accedere al rimedio restitutorio, senza contraddirne la natura. Osservo comunque con interesse che nel nuovo testo dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001 la facoltà di opzione per la indennità sostitutiva della reintegra è stata espunta: non so, però, sulla base di quale ragione e, in particolare, se ciò sia avvenuto sulla base di un pensiero critico sull’istituto (della qual cosa tenderei peraltro a dubitare).
Dopo di che, che la reintegrazione nel posto di lavoro sia sempre stata più immaginaria che reale perché nemo ad factum cogi potest, come è stato anche da ultimo autorevolmente ricordato, è argomento che a mio sommesso avviso prova troppo. Da un lato, perché la valutazione sulla efficacia del rimedio non può essere risolta nella impossibilità, comune alle obbligazioni di facere infungibili, della esecuzione in forma specifica (anche volendo abbandonare definitivamente alla storia noti dibattiti d’epoca in cui si cimentarono illustri processualisti come Andrea Proto Pisani, per fare un solo nome); dall’altro, perché, se questo fosse il problema, gioverebbe molto alla sua soluzione estendere ai rapporti di lavoro la previsione sulle misure di coercizione indiretta introdotta nell’ordinamento dall’art. 614-bis cod. proc. civ. Dubito peraltro fortemente che la esclusione delle controversie di lavoro dall’applicabilità di tale previsione sia conforme a Costituzione, ed anche per questo mi è capitato di patrocinarne il superamento presso l’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro, che ha infatti proposto – allo stato purtroppo senza successo – di rimediare a questa ingiustificata disparità di trattamento abrogando il secondo comma dell’art. 614-bis cod. proc. civ.
La tutela reintegratoria attenuata o indennitaria pura, nelle ipotesi date (sulle quali ritorneremo oltre), prevista dalla legge Fornero, poteva essere una soluzione compromissoria accettabile, o ritieni negativa, in linea di principio, anche questa?
Ritengo che, nell’area applicativa dell’art. 18, la tutela reintegratoria, se si vuole anche attenuata (meglio ancora se sul modello oggi vigente per il lavoro pubblico alla stregua del citato nuovo articolo 63 del testo unico), debba essere il rimedio previsto per ogni ipotesi di licenziamento ingiustificato, di natura sia soggettiva che oggettiva, superando la cervellotica distinzione tra ingiustificatezza “semplice” e “qualificata”, foriera di incertezze insuperabili, e tornando a parificare la disciplina applicabile al licenziamento disciplinare e a quello per giustificato motivo oggettivo. Si potrebbe semmai valutare di mantenere la tutela indennitaria – ma a mio avviso nella versione forte – per i soli vizi formali-procedurali, il cui rilievo sistematico nell’ambito della complessiva tutela del lavoratore è stato, peraltro, giustamente posto in evidenza, con l’attento richiamo di taluni precedenti classici, dalla Corte costituzionale nella sentenza 150/2020.
In estrema sintesi, e passando al Jobs Act, quali sono le maggiori criticità della disciplina posta dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, per i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti?
Del d.lgs. n. 23/2015 non salverei francamente nulla, neppure dopo i correttivi introdotti dalla legge n. 96/2018 e dalla Corte costituzionale: è l’intero impianto ad essere sbagliato e per questo sono convinto che il decreto andrebbe tout court abrogato. Ad ogni modo, allo stato le principali criticità mi paiono tre: la prima è quella tatticamente elusa dalla Corte costituzionale con più la recente sentenza n. 254/2020, che ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità in materia di licenziamento collettivo con motivazione non esattamente inappuntabile; la seconda riguarda quell’autentico sgorbio giuridico del secondo comma dell’art. 3, ritenendo semplicemente inaccettabile che in un ordinamento civile possa ammettersi – in tema di licenziamento disciplinare – una nozione barbara come quella di “fatto materiale”, estraniando il giudice da ogni valutazione circa la sproporzione del recesso datoriale; la terza solleva la questione – certamente complessa e delicata – della adeguatezza della tutela indennitaria per i dipendenti delle piccole imprese, visto che quella prevista dell’art. 9 appare ridicolmente inadeguata.
La Corte costituzionale, comunque, ha ritenuto la scelta del legislatore di differenziare la sfera di applicazione delle norme in base al fattore temporale ragionevole e coerente con lo scopo dichiaratamente perseguito «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione».
Come sai, ho aspramente criticato questo profilo – senza dubbio centrale – del ragionamento della Corte costituzionale, che è parso, non solo a me per la verità, fondamentalmente errato. L’argomento del fluire del tempo mi sembra davvero una fallacia logica, visto che qui ci troviamo di fronte alla coesistenza di discipline diversissime per situazioni identiche (non potendo certo la data della stipula del contratto di lavoro valere a differenziarle). Quanto, poi, allo scopo manifestato dal legislatore – palesemente e notoriamente fallito, peraltro (al netto, come ovvio, del temporaneo aumento delle assunzioni a tempo indeterminato indotto dall’uso del tutto inappropriato del doping dello sgravio contributivo a pioggia e incondizionato: una misura che dà bene il senso della natura assai approssimativa e abborracciata del neo-liberismo nostrano) –, mi pare che la deferenza mostrata dalla Corte risponda ad una concezione formalistica e indebitamente restrittiva del controllo di ragionevolezza, criticabile anche alla luce della sua stessa giurisprudenza.
Più che deferenza direi che il giudice costituzionale non vuole fare il legislatore; non è solo un problema di tecniche del giudizio costituzionale. A ciascuno il suo mestiere.
Colgo il tuo punto: in effetti, ci muoviamo su un terreno delicato e certamente gli sconfinamenti vanno evitati. Non mi pare, però, che la tua osservazione confuti la mia critica sulla estrema fragilità, se proprio non vogliamo seccamente affermarne la erroneità, dell’argomento del “fluire del tempo”.
L’anzianità di servizio rimane, comunque, un valido criterio prioritario di determinazione dell’indennità risarcitoria, anche per quanto la Corte costituzionale ha stabilito con la successiva sentenza n. 150/2020.
Ho sostenuto, mi pare tra i primi e tra i pochi, ricevendo critiche puntute, la tesi secondo cui l’anzianità di servizio dovesse restare la base di partenza della liquidazione della indennità dovuta al lavoratore, per una serie di argomenti ispirati ad una lettura sostanzialistica della sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale. Ora, in effetti, sia pure ribadendo la tecnica decisoria della 194, la sentenza n. 150/2020 è esplicita, in un significativo passaggio della motivazione, nel fornire il proprio avallo a questa tesi. Mi pare, comunque, che nei fatti la prassi giurisprudenziale si stesse già attestando, in netta prevalenza, su tale linea interpretativa, di chiaro buon senso.
È per i motivi che hai ricordato sin qui che auspichi quindi l’abrogazione pura e semplice del d.lgs. n. 23/2015 (peraltro, come ricordi, da più parti invocata) e, provocatoriamente, come tu stesso riconosci, anche del comma 42 dell’art. 1 della legge n. 92/2012, con il ritorno al testo dell’art. 18 St. lav. ante controriforma?
Sì, è per questi motivi, e più in generale perché giudico oggettivamente fallimentare l’esperienza applicativa in materia tanto del Jobs Act quanto della legge Fornero. Quell’auspicio, in realtà, rievoca semplicemente l’esito cui mirava la campagna referendaria della CGIL, il cui “sfogo” è stato tuttavia preluso dalla nota (e discussa) sentenza di inammissibilità della Corte costituzionale del 2017. Mi limito a osservare che, ove il quesito referendario si fosse limitato a chiedere l’abrogazione delle due controriforme, senza, per così dire, ulteriori “ambizioni manipolative” del testo dell’articolo 18, quel mio auspicio che oggi può apparire così provocatorio potrebbe non essere poi così lontano dalla realtà. Resto infatti convinto che il corpo elettorale – che, è bene ricordare, da poco aveva respinto la riforma costituzionale renziana e che di lì a poco avrebbe ridisegnato profondamente il volto della rappresentanza politica in Parlamento con le elezioni del marzo 2018 – avrebbe sostenuto le ragioni referendum abrogativo, approvando il quesito.
Per quanto riguarda il licenziamento disciplinare, date per acquisite le affermazioni giurisprudenziali sul principio di proporzionalità della sanzione, anche in base alla tipizzazione contrattuale degli illeciti, la legge Fornero ha introdotto la nozione di “insussistenza del fatto contestato” come elemento discriminante per la concessione della tutela reintegratoria in caso di illegittimità del licenziamento. Se non ho capito male, ritieni, comunque, destabilizzate l’introduzione di questo criterio applicativo, anche per le differenziazioni, non sempre coerenti, che ne derivano.
Condivido la tua espressione: mi pare un criterio destabilizzante, perché affida alla discrezionalità del giudice una valutazione molto difficile da applicare con apprezzabile grado di prevedibilità e omogeneità nella straordinaria varietà dei casi in cui può realizzarsi il comportamento di rilevanza disciplinare, rendendo oltremodo difficile una prognosi ex ante sul possibile esito del giudizio (lo sanno meglio di tutti gli avvocati che, salve ipotesi relativamente eclatanti, difficilmente possono avventurarsi nel fornire al cliente, qualunque esso sia, previsioni attendibili sul possibile esito del giudizio in caso di illegittimità del licenziamento, tanto è impalpabile, nella pratica, la differenza tra ingiustificatezza semplice e qualificata). La Corte di cassazione ha certamente fornito un importante contributo in sede nomofilattica, ma temo che questo non sia sufficiente, per il semplice fatto che non può esserlo, data la strutturale ambivalenza della disposizione (che, ricordiamolo, prevede il rimedio reintegratorio anche nelle ipotesi in cui il contratto collettivo contempli, per l’illecito, una sanzione conservativa). Nel libro dedico al tema – a beneficio (spero) degli studenti, cui è talvolta necessario complicare la vita – un lungo capitolo.
Di controriforma in controriforma, secondo la tua opzione interpretativa, si arriva alla declinazione del secondo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 23/2015, cui hai già fatto cenno, che solo dall’insussistenza del fatto materiale contestato, restando esclusa ogni valutazione sulla proporzionalità, fa derivare l’annullamento del licenziamento con la sanzione forte della reintegrazione.
Considero l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015 il punto più basso del contro-riformismo di questi anni. Una norma puramente ideologica perché non necessaria neppure nell’ottica del legislatore del Jobs Act, ma appunto voluta per veicolare nella maniera più netta il messaggio politico della contro-riforma, che, ridotto all’osso, è questo: «Siate docili, abbassate la testa; il datore di lavoro vi può licenziare, pagandovi una miseria soprattutto se siete giovani con una modesta anzianità di servizio, anche se il vostro inadempimento è poca cosa, poco più che una bagattella». È una norma che incoraggia – oggettivamente – l’abuso di potere, favorendo un clima di soggezione all’esercizio finanche arbitrario delle prerogative datoriali, a ben vedere anche contro i dettami della famosa Law & Economics, contraria a previsioni dirette a incoraggiare così sfacciatamente l’azzardo morale. Un vulnus ai principi costituzionali che deve essere rimosso, nonostante la Cassazione abbia, anche in questo caso, meritoriamente stemperato la violenza ideologica del messaggio racchiuso nella disposizione.
Passiamo ad altro. Nel quadro normativo di progressivo affievolimento della tutela reintegratoria, non ritieni surreale o quantomeno in netta controtendenza l’affermazione giurisprudenziale, precedente alla riforma Madia, della contemporanea vigenza di un doppio testo normativo: la vecchia versione dell’art. 18, per il pubblico impiego contrattualizzato; la nuova, per i dipendenti privati?
In qualche modo hai ragione, sebbene anche io, pur consapevole della oggettiva problematicità della soluzione, abbia sostenuto la tesi della inapplicabilità del nuovo testo dell’art. 18 ai pubblici dipendenti per una serie di ragioni sulle quali mi soffermo diffusamente in un capitolo del libro. Si è trattato di uno dei tanti difetti di impostazione della novella del 2012: certamente di uno dei più rilevanti. Mentre nel caso del d.lgs. n. 23/2015 non mi pare ci siano stati dubbi significativi sulla sua inapplicabilità al lavoro pubblico, nonostante il decreto taccia sul punto.
È intervenuta poi la nuova formulazione dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001, che ha configurato un sistema rimediale speciale e autonomo, autosufficiente, per tutta l’area del pubblico impiego contrattualizzato, centrato sulla reintegrazione e sulla indennità risarcitoria al massimo di 24 mensilità, a conferma della dualità delle tutele contro i licenziamenti illegittimi nel settore pubblico e privato.
La riforma Madia ha sul punto avuto l’indubbio merito di fare chiarezza, aggiungendo, però, come hai appena notato, una ulteriore forma di rimedio, che presenta tratti indubbiamente peculiari (ho già ricordato, ad esempio, che non è contemplata l’opzione per la indennità sostitutiva della reintegra).
Resta (francamente non so quanto giustificata) la differenziazione tra settore pubblico e privato in materia di licenziamenti. Ritieni che il regime sanzionatorio a tutela dei dipendenti pubblici possa costituire un modello di riforma unitario per tutti i dipendenti?
Può forse costituire un buon punto di riferimento, anche se nel settore del lavoro privato sarebbero con ogni probabilità necessari degli adattamenti (ad esempio, non credo che sarebbe trasponibile in questo ambito la previsione del comma 2-bis dell'art. 63, che nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità autorizza il giudice a rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato).
Un capitolo del libro, il quarto, «è dedicato alla complessa tematica del licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione, in una prospettiva d’indagine che privilegia nettamente i nessi sistematici con la tutela antidiscriminatoria», per usare le tue stesse parole. La locuzione “disabilità fisica o psichica del lavoratore”, impiegata nella formulazione finale dell’art. 3, comma 4, del d.lgs. n. 23/2015, è sovrapponibile a quella di “inidoneità” del vigente art. 18, comma 7, St. lav., o sono nozioni diverse? E, ove la risposta sia affermativa, quali sono le conseguenze sul piano sanzionatorio?
Nel libro sostengo, in sintonia con l’interpretazione prevalente, che le due formule sono sovrapponibili. Quanto alle conseguenze sanzionatorie, il legislatore del 2012 e quello del 2015 hanno fatto come noto scelte diverse, perché il primo prevede la tutela reintegratoria ad effetti risarcitori attenuati, mentre quello del 2015 stabilisce quella ad effetti pieni (uguali, cioè, a quelli cui dà accesso l’accertamento della nullità del recesso per il suo carattere discriminatorio). La questione di più difficile soluzione riguarda proprio i rapporti con la tutela antidiscriminatoria. Sempre nel libro, aggiornando una proposta interpretativa che avevo avanzato in un saggio del 2008, sostengo che, in difetto della adozione degli adattamenti ragionevoli previsti dalla direttiva europea del 2000 ed ora anche dalla norma di trasposizione contenuta nel d.lgs. n. 216/2003, il licenziamento diventa tecnicamente discriminatorio, per cui, ove si applichi l’art. 18, deve valere la tutela reintegratoria piena dei primi tre commi.
Resta, comunque, problematico il tema dei limiti sostanziali al potere di recesso del datore di lavoro in caso di sopravvenuta inidoneità allo svolgimento delle mansioni, tra l’obbligo degli adattamenti ragionevoli e l’obbligo di repêchage, per non violare il divieto di discriminazione per la disabilità.
Non c’è dubbio che questo resti il profilo maggiormente problematico, non solo sul piano della selezione del rimedio correttamente applicabile. L’obbligo degli adattamenti ragionevoli non va in effetti confuso con quello di ripescaggio: esprime, infatti, una compressione ben più intensa della libertà di impresa, perché esige dal datore di lavoro – nei limiti della ragionevolezza – di modificare l’organizzazione produttiva esistente per consentire il proficuo utilizzo delle residue capacità lavorative del lavoratore (divenuto) disabile. Si tratta in realtà di una grande questione sociale, considerata l’elevata età media della popolazione attiva del nostro Paese, ed è importante che l’INAIL disponga ora di competenze, e di capacità finanziarie, utili ad affrontarla proattivamente, almeno in parte. Occorre però un impegno attuativo ben maggiore di quello che c’è stato sino ad oggi e una maggiore disponibilità delle imprese.
Nell’analizzare la fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sottoponi a forte critica quello che definisci «il riassetto della disciplina del potere di recesso datoriale in una logica che ha complessivamente – e qui in modo particolarmente netto – privilegiato, nel bilanciamento degli interessi in conflitto, l’interesse dell’impresa su quello del lavoratore alla stabilità o meglio alla conservazione del posto di lavoro». Anche qui ritorna il presupposto della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con la conseguente tutela reintegratoria attenuata nella disciplina applicabile in base alla legge Fornero, o la sola tutela indennitaria per le ipotesi di applicazione del Jobs Act.
È vero, anche se la mia critica – in questo caso – è rivolta, oltre che al legislatore (del 2012 e del 2015), alla giurisprudenza di legittimità, per la nota svolta interpretativa del 2016.
L’esegesi dell’art. 3 della legge n. 604/1966, che non contempla alcun onere per il datore di lavoro di provare l’esistenza di situazioni economiche negative, risultando rilevante la modificazione dell’organizzazione aziendale dalla quale consegua la soppressione del posto di lavoro, combinata con il principio della libertà di iniziativa economica sancito dall’art. 1, comma 1, della Costituzione, non mi sembra, però, che lasci spazio alla sindacabilità delle decisioni datoriali (come espressamente ribadito, non a caso, dall’art. 30 della legge n. 183/2010). Cosa è che non ti convince di questo ragionamento della Cassazione?
L’esegesi letterale, come la farebbe un epigono della école de l’exégèse, in effetti, non contempla alcun onere di prova del genere a carico del datore di lavoro. Non, però, l’esegesi calata nella trama dei principi costituzionali (e consapevole, segnatamente, della direttiva interpretativa fornita dal secondo comma dell’art. 41 Cost.), come quella svolta per decenni dalla prevalente giurisprudenza, anche di legittimità, sulla scia di celebri ricostruzioni dottrinali (con le tesi di Federico Mancini che prevalsero, come noto, su quelle di Giuseppe Pera). Ma capisco bene che il nuovo orientamento della Cassazione è più in sintonia con lo spirito del tempo.
Ma le cose possono cambiare. E credo, anzi, debbano cambiare, non solo perché quella interpretazione dell’art. 3 della legge n. 604/1966 è foriera di esisti paradossali (e per questo criticati da larga parte della dottrina, e non solo da quella orientata pro-labour, come si dice), ma perché saranno ancora una volta gli eventi a indurre, almeno spero, a un ripensamento. Il dopo pandemia – anche quando, come è necessario, sarà superato il cosiddetto “blocco dei licenziamenti” – non potrà essere semplicemente come il “prima”. Costringerà a gestire la crisi economica e occupazionale che già c’è e che verrà – almeno sino a quando non si saranno recuperati livelli produttivi paragonabili a quelli pre-pandemia (peraltro essi stessi ancora inferiori, in Italia, a quelli esistenti prima della crisi economico-finanziaria di dieci anni fa) – con una sensibilità che a mio avviso dovrà essere diversa. E l’approccio neoliberista all’art. 3 della Cassazione non esprime quel tipo di sensibilità, che richiede piuttosto di prendere sul serio il secondo comma dell’art. 41 (insieme agli artt. 3, comma 2, 4 e 35) della Costituzione.
L’obbligo di repêchage e l’impossibilità di ricollocazione del lavoratore riportati dalla giurisprudenza più recente, come fatto, nell’ambito della nozione complessiva di giustificato motivo oggettivo, risolvono questo problema, da sempre oggetto di discussione, oppure restano ancora aspetti irrisolti?
Non mi pare che possa parlarsi di orientamenti veramente assestati e di problemi effettivamente risolti, neppure sui fronti che evochi. Mi pare, d’altra parte, che ancora manchi una soluzione condivisa alla questione del rapporto con il nuovo art. 2103 cod. civ. La mia tesi, neanche a dirlo, è che l’art. 2103 ampli notevolmente l’area dell’obbligo di repêchage, che deve essere equi-estesa rispetto alla più ampia sfera di esercizio dello jus variandi. Ma esistono, come sin troppo noto, autorevoli opinioni di diverso segno. Non mi consta, tuttavia, che la Cassazione si sia ancora specificamente pronunciata sulla questione.
La complessiva riforma dei licenziamenti collettivi introdotta dalla legge Fornero (art. 1, commi 44 – 46, legge n. 92/2012), da una parte semplifica gli obblighi procedurali e di comunicazione che gravano sul datore di lavoro ex art. 4 della legge n. 223/1991, dall’altra riconnette alla loro inosservanza la tutela indennitaria-risarcitoria, a seguito della novellazione dell’art. 5, comma 3, della legge n. 223/1991. Anche su questo aspetto la tua valutazione è fortemente critica.
Stavolta è una critica di natura, per così dire, più dottrinale, perché a me sembra che, dopo la legge Fornero (per non parlare del Jobs Act, of course), la sistemazione dogmatica del licenziamento collettivo, che aveva proposto per primo Massimo d’Antona e che è stata poi seguita dalla giurisprudenza dominante, sia entrata in crisi. Quella ricostruzione, infatti, assegnava una funzione decisiva al controllo svolto ex ante dal sindacato, ridimensionando di converso quello effettuato ex post dal giudice, cui in pratica è precluso intrudersi nella “causale” della riduzione di personale: l’oggettivo depotenziamento delle sanzioni per i vizi procedurali mi pare, però, che incrini la tenuta di questa sistemazione.
La scelta della tutela meramente indennitaria-risarcitoria è sposata in pieno dal Jobs Act (con l’eccezione del caso di scuola del licenziamento collettivo intimato in forma orale), sia per la violazione delle regole procedurali e dei criteri di scelta dei lavoratori di cui, rispettivamente, all’art. 4 e all’art. 5 della legge n. 223/1991. Anche qui il problema non è (soltanto) la limitazione del controllo giudiziario, ma il sistema rimediale adottato dal legislatore.
Non c’è dubbio. Qui, però, c’è l’aggravante del problema della macroscopica disparità di trattamento tra lavoratori assunti prima o dopo la fatidica data del 7 marzo 2015. La questione di legittimità costituzionale, discutibilmente dichiarata inammissibile dalla Consulta con la ricordata sentenza n. 254/2020, è destinata a riproporsi. Io resto fermamente convinto – come dico a più riprese anche nel libro – che la questione, stante la evidenza della ingiustificata disparità, debba essere accolta; ma sono ben consapevole che la Corte costituzionale, da ultimo proprio nella sentenza n. 254 (che pure, tecnicamente, non è entrata nel merito), ha dato segnali non incoraggianti in tal senso.
Sono curioso (e insieme a me saranno curiosi anche i lettori). Cosa è che non ti convince della sentenza n. 254/2020 della Corte costituzionale?
Semplicemente non mi pare che il petitum fosse indeterminato o, comunque, afflitto da quella insanabile ambiguità che vi ha scorto la Corte: si chiedeva piuttosto chiaramente l’estensione della tutela reintegratoria ex art. 18 St. lav. (con le correlate conseguenze anche processuali) ad una ipotesi di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, toccato in sorte a lavoratore la cui unica differenza rispetto ai compagni di lavoro stava nella data di assunzione. Mi pare, poi, che la Corte abbia voluto porre un’enfasi eccessiva su taluni passaggi, per quanto non cristallini, della ordinanza di rimessione in sede di descrizione della fattispecie, che non mi sembrava tuttavia lacunosa al punto da meritare una bocciatura così netta per difetto di motivazione sulla rilevanza.
Non credo sia ad ogni modo il caso di soffermarsi troppo su quello che, in definitiva, è un “non-evento”, che per definizione lascia intatte le questioni sostanziali cui ho accennato.
Nell’ultimo capitolo, il settimo, del tuo libro affronti infatti le questioni di legittimità costituzionale ed euro-unitaria sollevate con riferimento alla disciplina italiana dei licenziamenti. Qual è lo stato dell’arte, ad oggi?
Il libro era già uscito quanto è stata pubblicata la più volte citata sentenza n. 254/2020, di cui quindi non ho potuto dar conto. Ma nel capitolo che hai richiamato, tenuto conto della ordinanza Romagnuolo della Corte di giustizia dell’Unione europea sull’altro corno della avventurosa e ormai famosa “doppia pregiudiziale” napoletana, formulavo previsioni negative, non troppo diverse dall’esito che si è poi avuto.
Resta ora in piedi il rinvio pregiudiziale proposto dal Tribunale di Milano. Ma per come è tecnicamente formulato, incentrato in particolare com’è sulla direttiva sul contratto a termine, non mi pare possa costituire l’occasione adatta per affrontare veramente la questione fondamentale della disparità di regimi applicabili in caso di licenziamento collettivo illegittimo (non solo, peraltro, per violazione dei criteri di scelta). Spero naturalmente di sbagliarmi, ma temo che non sarò smentito. Comunque, dopo l’interpretazione iper-restrittiva dei limiti di applicabilità dell’art. 30 della Carta di Nizza fatta propria (anche) con la ordinanza Romagnuolo, non mi pare ci si possa attendere granché dalla Corte di giustizia. Un discorso, questo, che faccio per la verità da anni più in generale: ma è un’altra storia, di cui non è possibile parlare qui (spero mi permetterai di rinviare a un altro mio volume, piuttosto recente: Diritto del lavoro europeo. Una introduzione critica, pubblicato con Wolters Kluwer/CEDAM nel 2017).
Una delle differenze di disciplina introdotte dal d.lgs. n. 23/2015 attiene, come è noto, alla applicabilità del c.d. rito Fornero, un rito accelerato da alcuni enfatizzato per la migliore, e tempestiva, tutela dei lavoratori licenziati, ma anche per dare certezza, in tempi brevi, al datore di lavoro. Qual è il tuo giudizio sull’applicazione di questo rito in questi anni?
Il fatto che il legislatore abbia deciso di non applicare il rito ai licenziamenti dei lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti (e, ora, dopo l’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001, a quanto sembra, anche ai dipendenti pubblici “contrattualizzati”) mi pare di per sé piuttosto sintomatico della scarsa fiducia riposta sul farraginoso meccanismo processuale previsto dalla legge n. 92/2012. Condivido comunque il giudizio per lo più negativo che ne viene dato: i vantaggi in termini di (relativa) celerità della decisione potrebbero essere probabilmente assicurati con accorgimenti più semplici, riservando una corsia preferenziale e accelerata alle cause di impugnazione del licenziamento. Ma mi rendo conto di avere – per miei limiti culturali – un approccio piuttosto grossolano alle questioni processuali, per cui è bene che non mi avventuri oltre in suggerimenti che potrebbero apparire rozzi e semplicistici.
Nel libro c’è solo un accenno al divieto dei licenziamenti stabilito dalla normativa emergenziale, entrato in vigore quando l’opera era – mi par di capire – già scritta. Anche se non offri una analisi dettagliata di questa normativa, ne affermi comunque con nettezza la sua legittimità costituzionale. Vuoi riprendere meglio questo passaggio?
Trovandomi già a collaborare con l’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro quando è stato adottato il primo decreto-legge di contrasto della emergenza pandemica, il c.d. “Cura Italia”, debbo dire per trasparenza e onestà intellettuale di aver pienamente condiviso questa scelta, senza dubbio difficile, e di avervi anche contribuito. La disciplina del cosiddetto “blocco dei licenziamenti” ha poi avuto, come ben noto, una evoluzione, che ne ha certamente comportato una attenuazione, per quanto selettiva, e una flessibilizzazione, come ha osservato una nutrita dottrina.
Difendo con convinzione la legittimità costituzionale (ed euro-unitaria) di questa disciplina, che, per il suo carattere temporaneo, mi pare adeguata e proporzionata rispetto allo scopo (di ordine pubblico economico) di contenimento della distruzione di posti di lavoro dovuta alla pandemia, cui è immediatamente preordinata. Nel bilanciamento degli interessi di rango costituzionale in gioco non può del resto trascurarsi il massiccio intervento finanziario compensativo a favore delle imprese, ben al di là dell’uso – esso stesso di eccezionale ampiezza – della cassa integrazione per Covid.
Cosa proponi, in concreto, e in conclusione, quale linea di una nuova e diversa politica del diritto in materia di licenziamenti?
Mi parrebbe doveroso accogliere l’invito autorevolmente rivolto al Parlamento dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 150/2020. È un invito formulato in termini sobri ma netti: «Spetta alla responsabilità del legislatore, anche alla luce delle indicazioni enunciate in più occasioni da questa Corte, ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari».
I miei ideali auspici li ho formulati poco fa, a partire da quello del definitivo superamento del d.lgs. n. 23/2015. Quel che è certo, è che urge un intervento capace di restituire un minimo di ragionevolezza e di coerenza complessiva alla nostra disciplina, ricomponendo, e quindi riducendo e razionalizzando, i troppi regimi di tutela, tenendo conto delle indicazioni già offerte al legislatore sia dalla Corte costituzionale che dal Comitato europeo dei diritti sociali.
A conclusione di questo interessante dialogo, devo segnalare che ogni capitolo del libro è corredato da ampie citazioni di dottrina e giurisprudenza, che i lettori sapranno apprezzare, visto che rendono completa e organica la trattazione di una materia – come scrivi – «fluida e contesa», qual è quella dei licenziamenti, sempre densa di cambiamenti e in continua evoluzione, per la quale hai opportunamente richiamato, riprendendolo da un saggio di Carl Schmitt, il motto jüngeriano: «Assomigliamo ai marinai sempre in viaggio, e ogni libro non può essere niente più che un giornale di bordo».