La Cassazione civile vista dai suoi giudici - Recensione di Ernesto Lupo a “La Cassazione civile - Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana” (terza edizione, Bari 2020), a cura di Acierno, Curzio e Giusti
Intervista di Franco De Stefano ad Ernesto Lupo
Il Primo Presidente emerito della Corte suprema di cassazione, Ernesto Lupo, ha concesso a Giustizia Insieme un’intervista sul testo a più mani sulla Cassazione civile, giunto alla sua terza edizione e curato dai Colleghi Maria Acierno, Pietro Curzio (nel frattempo divenuto Primo Presidente) e Alberto Giusti, che raccoglie le lezioni sul rito di legittimità civile degli stessi giudici della Corte.
Il libro recensito è un’interessante esperimento di autoformazione, lanciato già nel 2010, in occasione dell’immissione in possesso nella Suprema Corte di decine di nuovi consiglieri e con l’intento di mettere a loro disposizione in chiave pratica ed immediatamente fruibile una guida operativa ed un orientamento da parte dei colleghi più anziani, alla luce soprattutto della loro esperienza concreta.
In un’analoga ottica ed in più complessivo disegno, il Presidente Lupo aveva già meritoriamente avviato un’importante riflessione sul ruolo della motivazione nel giudizio di cassazione civile, istituendo un gruppo di lavoro che era giunto, a sostegno della sua innovazione della motivazione semplificata dei provvedimenti, a stilare una serie di regole operative mirate alla razionalizzazione delle risorse di collegi e singoli consiglieri nella gestione della mole di contenzioso crescente, sempre più fuori controllo e non in linea con una moderna Corte suprema.
L’intervista costituisce l’occasione di una puntuale disamina dei punti di forza e delle criticità dell’opera, senza evitare un franco confronto con le prime perplessità di parte della dottrina e, soprattutto, somministrando spunti acuti ed interessanti sul ruolo stesso, in un complicato contesto ordinamentale multilivello e nella società che cambia, della Cassazione civile oggi.
A questo riguardo, il Primo Presidente emerito non si esime dal mettere in luce alcune delle criticità non tanto dell’opera in sé considerata, quanto piuttosto della funzione attesa dalla Corte, dal suo modo concreto di estrinsecazione e, anche, di alcuni eccessi applicativi del rito di legittimità, come via via evolutosi nel corrente secolo, sotto la spinta di un carico di lavoro obiettivamente abnorme.
Su tutte le sollecitazioni che il Primo Presidente emerito ha colto nell’opera recensita occorrerà avviare una riflessione, iniziando con l’approfondimento sulle ragioni delle linee di tendenza dell’attuale rito di legittimità civile, sulla temperie culturale in cui questo si è trasformato e in cui quegli eccessi hanno allignato …
Sarà utile abbandonare posizioni di sterile contrapposizione tra gli operatori del diritto, nella consapevolezza dell’ineludibilità di un impegno comune e condiviso verso una Cassazione civile che, nel rispetto del quadro rinfrancante ed impegnativo della nostra Costituzione, sia al passo con i tempi, armoniosamente inserita nella nostra moderna società democratica ed utile e funzionale ai suoi obiettivi.
Presidente Lupo, che ne pensa del metodo di lavoro di un libro che raccoglie le “lezioni dei magistrati della Corte” sul processo civile di legittimità? Come accolse l’iniziativa al tempo della sua prima edizione? Quali i punti di forza e le criticità del metodo e dell’approccio?
Risposta: Confesso che sono affezionato al libro di cui mi si chiede, perché la sua prima edizione (nel 2011) ebbe vita nel periodo in cui ho presieduto la Cassazione. Quando i tre coordinatori, all’epoca magistrati della Corte incaricati dal CSM anche della formazione decentrata all’interno della Corte stessa, mi parlarono della iniziativa, colsi subito l’originalità e l’utilità della pubblicazione, che apprezzai poi nel concreto contenuto, tanto che aderii con entusiasmo agli inviti a partecipare ad incontri dedicati, in diverse città, alla presentazione del volume, incontri che costituirono anche l’occasione di utili dibattiti sul funzionamento della Cassazione civile. Ricordo che la dottrina elogiò la pubblicazione, sia in interventi orali, sia in recensioni pubblicate, delle quali ho recentemente riletto quella, molto analitica, di Federico Carpi, apparsa sulla Rivista trimestrale di diritto e procedura civile (2012, fasc. 1, p. 208-211).
Il punto di forza e l’originalità della pubblicazione derivano dalla occasione da cui essa ha avuto origine e dalle correlate finalità con essa perseguite. Nella circostanza dell’accesso in Cassazione di un gruppo numeroso di nuovi consiglieri, la struttura della Corte addetta alla formazione organizzò diverse lezioni sul giudizio di legittimità, svolte da magistrati già esperti. Si pensò di raccogliere e pubblicare i testi scritti di queste lezioni, redatti dagli stessi magistrati che le avevano tenuto verbalmente. Si conservava così memoria del lavoro compiuto, in funzione dello svolgimento di analoghi corsi futuri, e si creava, più in generale, uno strumento di conoscenza del processo di cassazione usufruibile anche da avvocati e studiosi.
Si trattava di lezioni, come opportunamente precisa il sottotitolo del volume. Caratteristiche di esse dovevano, quindi, essere: da un lato, la sintesi (la lezione non ha l’ampiezza e l’approfondimento di un saggio di dottrina), dall’altro, la chiarezza necessaria perché si raggiunga il risultato formativo. Le lezioni erano, però, destinate a magistrati che avevano già una non breve esperienza giudiziaria; quindi il loro livello doveva essere ben superiore, come strumento di analisi e di informazione anche pratica, a quello di lezioni universitarie o per giovani laureati.
Il non facile risultato può ritenersi raggiunto. La pubblicazione si è rivelata molto utile, non solo come strumento di formazione dei nuovi consiglieri della Corte. Giuliano Scarselli l’ha considerata, addirittura, come “l’unico volume sulla cassazione civile che meritasse di essere letto” (recensione alla terza edizione, apparsa su Iudicium, 2020).
Si è così giunti alla più recente edizione del libro, resa necessaria dalla evoluzione normativa, perché la precedente edizione del 2015 non poteva tenere conto delle modifiche del giudizio di legittimità intervenute nel 2016 (decreto legge 31 agosto n. 168, convertito con modificazioni dalla legge 25 ottobre n. 197), modifiche, come si dirà, tanto importanti quanto discusse.
La terza edizione non contiene soltanto un attento aggiornamento della precedente, ma ne costituisce un miglioramento sotto più aspetti.
Oggi l’opera si presenta pressoché completa nell’esame della materia trattata: nelle precedenti edizioni mancavano lezioni dedicate ai motivi del ricorso per cassazione previsti dal n. 1 (motivi attinenti alla giurisdizione) e dal n. 4 dell’art. 360 (nullità della sentenza o del procedimento). Le lacune sono ora colmate dagli scritti, rispettivamente, dell’autore di questa intervista e di Adriana Doronzo. Costituisce, poi, un utilissimo arricchimento l’aggiunta di un capitolo iniziale intitolato Viaggio all’interno della Corte, nel quale Pietro Curzio, in meno di venti pagine, illustra, con semplicità e chiarezza esemplari, il percorso che può fare il ricorso, nelle sue possibili alternative. Il lettore è così posto in grado di percepire, con uno sguardo generale, il modus procedendi della Corte, sensibilmente innovato dall’intervento legislativo del 2016; e questa conoscenza gli faciliterà la lettura delle successive lezioni.
È migliorata anche la sistematicità della pubblicazione. La trattazione, ora, può essere facilmente divisa in quattro parti, correlate alla ripartizione adottata dal codice. Una parte che può considerarsi introduttiva è costituita dalle prime due lezioni (che, nel libro, non sono numerate, onde la numerazione è compiuta soltanto qui per comodità espositiva): la citata lezione di Curzio e lo scritto di Renato Rordorf – anche esso ammirevole per sintesi e chiarezza – su Fatto e diritto nel giudizio di cassazione, che è il tema-problema clou della Cassazione. Fanno seguito una parte prima dedicata ai “provvedimenti impugnabili e ricorsi” (lezioni 3-11) ed una parte seconda relativa ai “procedimenti e provvedimenti” (lezioni 12-15). Completa una parte finale, idonea a contenere le eterogeee materie trattate nelle lezioni 16-19 (rapporti con le due Corti europee, il processo telematico in Cassazione, l’Ufficio del Massimario e del Ruolo, il palazzo della Corte).
Quali le “criticità” menzionate nella domanda? Esse non riguardano, a mio avviso, il metodo seguito. Bruno Capponi, nella recensione all’ultima edizione del volume (in Giustizia Insieme, 2020, reperibile all'URL https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-civile/1179-recensione-di-bruno-capponi-a-la-cassazione-civilehttps://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-civile/1179-recensione-di-bruno-capponi-a-la-cassazione-civile, on line dal 20/06/2020, ultimo accesso 24/09/2020), rileva che in esso “mancano le voci della Procura Generale, dell’Accademia, dell’Avvocatura”, onde l’impressione dell’extraneus è quella di osservare “una realtà chiusa in sé stessa che parla soltanto per il suo interno”. Ritengo che la limitazione degli autori degli scritti ai magistrati che operano nella Corte sia una caratteristica essenziale dell’opera, perché con essa si intende mettere a disposizione della intera collettività degli interessati l’esperienza concreta dei giudicanti e del formarsi degli orientamenti giurisprudenziali. “Cosa vi può essere di più utile per il processo?” si è domandato, retoricamente, Federico Carpi, nella già citata recensione. La limitazione criticata da Capponi è mossa da finalità di trasparenza sulle modalità di esercizio del proprio potere da parte degli addetti alla Istituzione; non certo da arroganza o da autoreferenzialità. Ciò è stato ben percepito da chi, dopo avere riferito che “il libro, già nelle precedenti edizioni, è divenuto un punto di riferimento per chi voglia studiare la Suprema Corte e il suo procedimento”, ha rilevato in esso la presenza di “considerazioni spesso problematiche e, talora, apertamente critiche nei confronti di orientamenti della Cassazione … anche attuali” (recensione di Paolo Biavati, in Questione Giustizia, 2020, reperibile all'URL https://www.questionegiustizia.it/articolo/recensione-a-la-cassazione-civile-lezioni-dei-magistrati-della-corte-suprema-italiana, on line dal 27/06/2020, ultimo accesso 24/09/2020).
Le criticità sono ravvisabili nella applicazione del metodo indicato. Qualche scritto incluso nel volume ha le dimensioni ed il contenuto di un saggio dottrinale, apprezzabile per il suo valore scientifico, ma non coerente con le caratteristiche di una lezione. La difformità rispetto alla generalità degli altri testi risalta maggiormente nella più recente edizione dell’opera, poiché essa è cresciuta enormemente: 612 pagine, rispetto alle 375 pagine della prima edizione. Uno strumento formativo, creato per essere letto e studiato nella sua completezza, non può avere le dimensioni normalmente assunte da pubblicazioni destinate ad essere consultate in relazione al singolo problema da affrontare (a tale scopo, mezzo migliore è costituito dalle rassegne di giurisprudenza e di dottrina, da tempo disponibili). Occorrerà, pertanto, nella preparazione delle successive edizioni che auguriamo al volume, una maggiore attenzione dei suoi curatori alla coerenza di tutte le lezioni con le caratteristiche dell’opera, al fine di ridurne le dimensioni, mantenendole nei limiti di un libro che può essere agevolmente letto nella sua interezza.
A tal fine potrà essere utile anche una più efficace opera di coordinamento del contenuto delle diverse lezioni per evitare parziali duplicazioni nella trattazione di alcuni istituti, sostituendole con richiami interni quando esse non sono giustificate da una diversa interpretazione del disposto normativo. Posso indicare, a titolo esemplificativo, le esposizioni, oggi contenute in più lezioni, della disciplina del ricorso del Procuratore generale nell’interesse della legge (art. 363) ovvero delle cause di inammissibilità del ricorso previste dall’art. 360-bis.
A Suo giudizio, quale impostazione può trarsi dai contributi degli Autori in merito alla struttura odierna ed alla funzione del giudizio di legittimità civile? Come valuta la declinazione dei principi di fondo che ne può trasparire in tema di ruolo della forma e struttura della motivazione, nell’incessante riproporsi della contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris e dinanzi a rinnovate e sempre più incalzanti esigenze di speditezza e concretezza? Quali delle critiche della dottrina pensa di condividere?
Dalla lettura delle lezioni raccolte nella terza edizione della pubblicazione in discorso desumo una maggiore consapevolezza degli autori sulla priorità che la legge attribuisce alla funzione di nomofilachia della Cassazione (in civile come in penale). Questa priorità, per il giudizio civile, costituisce una chiara scelta del legislatore di questo secolo, realizzatasi a partire dalla legge 14 maggio 2005 n. 35, che ha delegato il Governo a disciplinare il processo di cassazione “in funzione nomofilattica”, delega poi attuata con le modifiche apportate al codice di rito dal d. lgs. 2 febbraio 2006 n.40. La scelta politica di privilegiare la funzione di nomofilachia è proseguita con la legge 18 giugno 2009 n. 69, che ha valorizzato i “precedenti” della Corte (art. 360-bis), prevedendo a tal fine l’istituzione di una apposita sezione (poi qualificata come sesta civile), e soprattutto con la legge 7 agosto 2012 (di conversione del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83), che ha ridotto i motivi di ricorso per cassazione concernenti l’accertamento di fatto del giudizio di merito, ripristinando il testo originario dell’art. 360 n. 5 (più restrittivo, nel codice del 1942, della formulazione approvata poi nel 1950) ed escludendo, più radicalmente, la deducibilità di tale motivo in alcuni casi (art. 348-ter).
Per effetto di questi tre interventi legislativi si è avuto quello che, nella lezione di Giovanni Amoroso e Mario Rosario Morelli, viene chiamato “rafforzamento” della funzione nomofilattica attraverso i tre istituti ivi illustrati (p. 476-489): la generalizzazione della prescritta enunciazione del principio di diritto (art. 384), il principio di diritto nell’interesse (esclusivo) della legge, formulato su impulso del Procuratore generale presso la Cassazione o anche d’ufficio anche quando il ricorso è dichiarato inammissibile (art. 363), la previa verifica di ammissibilità del ricorso (art. 360-bis). E si è realizzato, altresì, il restringimento del sindacato della Corte sulla motivazione in fatto del provvedimento giurisdizionale impugnato, illustrato nella lezione di Camilla Di Iasi, anche con l’opportuno richiamo all’intento in tal senso esplicitamente espresso dal legislatore del 2012 (p. 381-382).
Con il quarto e più recente intervento (decreto legge 31 agosto 2016 n. 168, convertito dalla legge 25 ottobre 2016 n. 197) il legislatore “ha sostanzialmente cameralizzato il giudizio civile di cassazione”, prevedendo come regola la trattazione in camera di consiglio, conclusa con ordinanza, e solo come eccezione l’udienza pubblica, conclusa con sentenza (lezione di Antonello Cosentino, p. 401). A questa ultima si procede soltanto nei casi in cui essa “sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale (la Corte) deve pronunciare” (art. 375, secondo comma). Questa “particolare rilevanza” esprime la valenza nomofilattica della questione di diritto, alla quale pertanto si è riservato, in linea di principio, il rito della udienza pubblica. Le modifiche codicistiche del 2016 hanno tratto, sul piano del rito procedimentale, le conseguenze del rafforzamento della funzione di nomofilachia realizzato dai precedenti tre interventi legislativi, instaurando un collegamento tra i ricorsi la cui decisione esprime tale funzione ed il procedimento da seguire per la decisione stessa.
Può allora ravvisarsi una linea unitaria di riforma della Cassazione civile realizzatasi in questo secolo, per effetto della quale si è pervenuti al risultato di configurare, secondo l’espressione impiegata da Natalino Irti, “due Cassazioni civili” (in Contratto e impresa, 2017, 11, ove peraltro il “primo momento della riforma” è dall’Autore individuato nella legge del 2009, con l’ingiustificata pretermissione dell’iniziale e fondamentale intervento legislativo del 2005-2006): la “Cassazione dei casi singoli”, che controlla la motivazione adottata dal giudice del merito, in cui la Corte svolge una funzione che, con termine forse più chiaro, viene in Francia chiamata “disciplinare”, e la “Cassazione dei principi di diritto”, che persegue l’unità della giurisprudenza e quindi la funzione di nomofilachia rivolta non al passato del caso singolo da decidere, ma essenzialmente al futuro dei casi analoghi da definire. La prima si esprime normalmente con ordinanze che decidono sui ricorsi che censurano la motivazione (degli accertamenti di fatto) o che pongono questioni di diritto la cui soluzione non implica l’esercizio della nomofilachia; la seconda pronunzia, invece, le sentenze attraverso le quali si esprime questa ultima funzione.
La linea di riforma del giudizio civile di cassazione seguita dal legislatore di questo secolo, attraverso i quattro interventi legislativi indicati, è coerente con l’art. 111 della Costituzione, che ammette “sempre” il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti in esso indicati, ma limitatamente alla “violazione di legge”, onde il giudizio di cassazione è dal Costituente configurato come giudizio di legittimità, e non come ulteriore giudizio di merito. La limitazione costituzionale del parametro dell’intervento della Cassazione corrisponde all’interesse tutelato da questa istituzione, secondo l’art.65 dell’ordinamento giudiziario del 1941, in cui ha trovato espressione legislativa la concezione di Piero Calamandrei, poi sostanzialmente recepita dal Costituente, come è confermato anche dai lavori preparatori della stessa. Di recente la Corte costituzionale (n. 119/2015) ha affermato che la funzione nomofilattica della Cassazione è “espressione di una giurisdizione che è (anche) di diritto oggettivo, in quanto volta a realizzare l’interesse generale dell’ordinamento all’affermazione del principio di legalità, che è alla base dello Stato di diritto” (§ 2.4 della motivazione). Ed è soltanto di diritto oggettivo nelle ipotesi previste dall’art.363, in cui, come dispone l’ultimo comma, “la pronunzia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito”.
In sintesi, il legislatore recente è intervenuto, sia pure in modo non organico, nel senso di limitare la “ambiguità” della Istituzione, rilevata alla fine del secolo scorso da Michele Taruffo, il quale osservava che la Cassazione “si muove erraticamente tra vari modelli, … comportandosi talvolta da Corte Suprema e più spesso da giudice della terza istanza, talvolta da custode della legittimità e più spesso da giudice del caso concreto” (Il vertice ambiguo. Saggi sulla Cassazione civile, Bologna, 1991, p. 25).
La scelta legislativa di privilegiare la funzione di nomofilachia della Cassazione ha incontrato, però, difficoltà ad essere accettata culturalmente ed applicata in concreto. Due sono state le principali strade culturali percorse per sostanzialmente contestarla e tentare di renderla non operativa.
La prima ha carattere meramente normativo. Si è partiti dalla constatazione che lo stesso art. 111 della Costituzione impone la motivazione per tutti i provvedimenti giurisdizionali. Consegue che le censure concernenti la motivazione di una decisione deducono una violazione di legge e implicano un controllo di legittimità. Si è sostenuto, perciò, che i vizi di motivazione, già previsti dal vecchio testo dell’art. 360 n. 5, sono ora deducibili come causa di nullità della sentenza rilevante a norma dell’art. 360 n. 4. Questa tesi non tiene conto che i precedenti tre vizi di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sono stati sostituiti dalla unica ipotesi di omesso esame circa un fatto decisivo, onde permane soltanto la previsione della omissione sostanziale di motivazione, mentre hanno perso rilevanza il vizio di insufficienza e quello di contraddittorietà che non sia così totale ed assoluta da privare la decisione di una ratio decidendi. Si tratta di conclusione a cui sono pervenute le Sezioni unite della Corte e bene illustrata nelle lezioni in discorso, ma che non sempre mi sembra seguita dalle singole decisioni delle sezioni semplici, poiché i ricorrenti cercano di forzare i rigidi limiti posti dalla modifica dell’art. 360 n. 5, invocando appunto il dovere costituzionale di motivazione, ed il loro tentativo ha qualche volta successo.
La seconda strada attiene alla teoria generale del diritto. Le moderne concezioni sulla interpretazione giuridica tendono a negare la possibilità di distinguere tra giudizio di diritto e giudizio di fatto, ritenendo che ogni principio di diritto sia correlato, o addirittura limitato, alla singola fattispecie decisa, la quale pertanto non può non assumere rilievo anche nel giudizio di legittimità. Al riguardo può obiettarsi che la dipendenza del significato della disposizione normativa anche dalle caratteristiche della fattispecie concreta su cui si svolge il giudizio non comporta l’impossibilità di isolare, in tale giudizio, la quaestio iuris in astratto, quale si pone sulla base del fatto come accertato dal giudice del merito. In tal senso è illuminante l’esperienza delle sezioni unite che normalmente decidono un contrasto o una questione di massima sulla base di un quesito di diritto, elaborato in astratto e ritenuto rilevante per la decisione del singolo ricorso e quindi del caso concreto. Anche la Corte di giustizia europea, nel rispondere ai quesiti interpretativi dei giudici nazionali, si limita ad interpretare le disposizioni dell’Unione europea, oggetto di una astratta quaestio iuris che prescinde dalle caratteristiche di fatto del caso concreto, sulla cui soluzione le disposizioni europee sono rilevanti, secondo le valutazioni del giudice nazionale.
Le moderne teorie interpretative, che sottolineano il collegamento tra fatto e diritto, con il c.d. circolo interpretativo tra l’uno e l’altro, per cui l’interpretazione delle disposizioni normative dipende dalle caratteristiche del caso concreto (con la conseguente unificazione tra interpretazione ed applicazione del diritto), assumono rilievo al fine di segnalare l’indubbia necessità di mantenere il collegamento tra principio di diritto seguito nella soluzione della quaestio iuris ed il fatto in relazione al quale quel principio è stato affermato. Da qui l’esigenza che la massima della pronunzia della Cassazione non prescinda, in linea tendenziale, dalla fattispecie concreta che l’ha determinata.
Le visioni culturali contrarie al rafforzamento della funzione di nomofilachia della Cassazione hanno rallentato l’operatività della scelta legislativa. Debbo qui ricordare che non ebbe ampia accoglienza il provvedimento-invito che, come Primo Presidente della Corte, emanai il 22 marzo 2011 per l’adozione, da parte dei singoli collegi civili decidenti, di una motivazione “semplificata” delle decisioni di “ricorsi che non richiedono l’esercizio della funzione di nomofilachia o che sollevano questioni giuridiche la cui soluzione comporta l’applicazione di principi giuridici già affermati dalla Corte e condivisi dal collegio” (in Foro it., 2011, V, c. 183). Per questi tipi di ricorsi (che sono la maggioranza di quelli proposti) la motivazione delle decisioni si indirizza essenzialmente alle parti ed ai loro difensori, onde essa può avere un contenuto ridotto anche perché può dare per presupposto ciò che rientra già nella conoscenza dei destinatari. Diversi e più ampi devono essere il contenuto e l’argomentazione delle decisioni che, costituendo esercizio della funzione di nomofilachia, hanno anche una prospettiva futura che supera la definizione del caso singolo, e quindi devono essere persuasive sulla loro fondatezza nei confronti di una comunità indeterminata di interessati alla soluzione di casi da definire (ma vanno comunque evitate le c.d. sentenze-trattato, che pretendono di occupare uno spazio riservato alla dottrina, con uno spreco di energie che possono essere impiegate nella riduzione delle enorme pendenze, con maggiore utilità per il servizio giustizia).
L’adozione, per i casi ora indicati, della forma della ordinanza, imposta dal legislatore del 2016, ha reso obbligatoria una differenziazione dell’impegno motivazionale in relazione al contenuto del ricorso, che già poteva trarsi, in via conseguenziale, dalla riforma del 2005-2006.
La differenza di forma e di struttura della motivazione non direi che esprima una contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris. Come osserva Calamandrei, la funzione di controllo sulla decisione del caso singolo (rivolta al passato) e la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo (in prospettiva futura) sono due aspetti dello stesso scopo (il primo negativo ed il secondo positivo) che si combinano ed unificano (La Cassazione civile, II, in Opere giuridiche, Napoli, 1979, VII, p. 91 s.). Si tratta, piuttosto, di adeguare il tipo e l’impegno argomentativo alle questioni poste dal ricorso. La motivazione è necessaria anche nelle ordinanze, pur se con struttura diversa da quella delle sentenze. È significativo che Natalino Irti, il quale, come si è visto, ha recepito, forse con la maggiore lucidità, il senso dei recenti interventi legislativi, ha intitolato lo scritto già citato Le due Cassazioni civili (a difesa della motivazione), affermando che “la Cassazione delle ordinanze non è il luogo delle decisioni senza motivazione” (p. 20).
Le modifiche legislative apportate in questo secolo al giudizio civile di cassazione sono state indotte e giustificate dalla constatazione dell’aumento enorme del numero dei ricorsi annualmente presentati alla Corte (n. 38.725 nel 2019; sempre inferiore a n. 5.000 sino al 1972) e dall’esigenza di indicare alla Corte la funzione da assolvere in via prioritaria. Occorre, però, osservare che esse sono dirette a consentire una migliore decisione dei ricorsi, più adeguata al contenuto ed alla natura delle censure con essi proposte. Sempre che l’organizzazione della Corte sia tale da sfruttare le opportunità offerte al buon funzionamento della Istituzione dalle differenze di lavoro tra le due Cassazioni; il che implica la sua capacità di distinguere correttamente tra le stesse e quindi di adeguare la propria attività alle caratteristiche del singolo ricorso.
Ovviamente il numero impressionante dei ricorsi costituisce un ostacolo enorme al raggiungimento dell’obiettivo. Si spiegano, così, le frequenti critiche della dottrina sulla qualità delle pronunzie della Corte e le lamentele della collettività sui tempi normalmente troppo lunghi del giudizio di legittimità.
In ordine alle posizioni critiche della dottrina, vanno distinte quelle – da me non condivise – che si indirizzano contro la scelta legislativa del rafforzamento della nomofilachia. Tale, per esempio, quella, radicale, di Bruno Sassani (La deriva della Cassazione e il silenzio dei chierici, in Riv. dir. proc., 2019, p. 43), che la considera una “mitologia” e che non ne accetta neanche il termine, qualificato come “sgraziato” (p. 63). È noto che la parola trova origine nel nominativo del magistrato di varie città della antica Grecia (nomofilace) che custodiva in un archivio il testo ufficiale delle leggi e assicurava la stabilità della legislazione. Ma non tutta la dottrina è su questa posizione. Sempre a titolo esemplificativo, lo scritto di Sassani è direttamente seguito, nella stessa rivista, da quello di Laura Salvaneschi (L’iniziativa nomofilattica del Procuratore generale presso la Corte di Cassazione nell’interesse della legge, ivi, p.65), la quale auspica una applicazione larga dell’art. 363, frutto anche di una sua interpretazione estensiva.
Condivido, al contrario, le critiche della dottrina e dei difensori contro alcuni indirizzi formalistici della Cassazione. È emblematico l’ampio ricorso alla c.d. autosufficienza del ricorso, istituto creato dalla giurisprudenza addirittura come principio generale, su cui fa chiarezza l’equilibrata lezione di Alberto Giusti, il quale segnala “l’inaugurazione di un nuovo corso” da parte delle Sezioni unite, la cui sentenza n. 8077/2012 segna “una netta presa di distanza dalle degenerazioni formalistiche fondate sull’obbligo di integrale trascrizione” (p. 230). Gli “eccessi di formalismo”, soprattutto nell’interpretazione ed applicazione della legge processuale, sono criticati anche nella lezione di Enzo Vincenti dedicata ai rapporti tra la Cassazione e le Corti europee, critica che trova chiaro e fermo fondamento negli indirizzi di queste ultime Corti (p. 552).
Condivido anche le critiche rivolte alle eccessive limitazioni del contraddittorio nelle procedure camerali, in cui il legislatore ha escluso ogni possibilità di intervento orale dei difensori. La scelta molto restrittiva del legislatore del 2016 può accettarsi soltanto come modalità utile a fare percepire agli operatori (magistrati ed avvocati), in modo evidente, la diversità tra i ricorsi da trattare in udienza pubblica (perché implicano l’esercizio della nomofilachia) ed i ricorsi da definire con procedura camerale (che interessano soltanto il caso concreto). Ma raggiunta questa immediata finalità didascalica, dovrebbe pervenirsi ad un ampliamento del contraddittorio anche nella procedura camerale (dando la possibilità ai difensori di essere sentiti), ferma la differenza delle procedure da seguire in relazione al contenuto del ricorso.
Presidente Lupo, come ritiene che ne esca disegnata l’istituzione Cassazione civile dal punto di vista di quei magistrati sul cui lavoro quella opera?
Non credo che il rafforzamento della funzione di nomofilachia della Cassazione sia mal vista dalla maggioranza dei giudici di merito. La stabilità degli orientamenti interpretativi è destinata a facilitare il lavoro del giudice del merito, sia quando egli, ritenendoli convincenti, li recepisce nella sua attività, sia quando, non condividendoli, li prende a chiaro punto di riferimento di una propria motivata decisione contraria. Ed infatti, nella mia esperienza giudiziaria, anche se non più recentissima (essendo cessata nel 2013), mi sono spesso trovato di fronte a magistrati che lamentavano l’incertezza e la pluralità sincronica degli orientamenti del giudice di legittimità, mentre raramente ho avvertito critiche nei confronti del fatto che questioni dibattute erano state portate alle sezioni unite (a prescindere dalla valutazione sulla bontà o meno della soluzione dalle stesse adottata).
Ma la nomofilachia non può essere intesa esclusivamente come attività interpretativa che viene dall’alto, poiché essa sarà tanto più persuasiva quanto più terrà conto degli orientamenti e delle esperienze dei giudici di merito, i quali sono a più immediato contatto con la realtà sociale che il diritto è destinato a regolare. La funzione nomofilattica richiede perciò anche un flusso informativo che dal basso vada verso l’alto. Esso non può essere costituito soltanto dalle sentenze che vengono impugnate in cassazione. Occorre affiancare sedi e meccanismi di confronto tra giudici di legittimità e giudici di merito, ove le diverse esperienze giudiziarie, nei diversi settori di attività, possano essere scambiate. Qualche iniziativa in tal senso è avvenuta, ad opera prima del CSM e poi della Scuola della magistratura, sul tema della motivazione delle pronunzie giudiziarie. Ma il confronto tra i magistrati interessati dovrebbe essere ben più esteso e trovare strumenti appositamente predisposti.
Come tema generale dei rapporti tra Cassazione e giudici di merito, ci tengo a sottolineare un punto che ho sempre tenuto fermo come giudice di legittimità (prima in civile per circa 17 anni e poi in penale per circa 8 anni): un atteggiamento di self restraint per quanto attiene alle valutazioni di merito del giudizio. Il giudice di cassazione ha il privilegio di dire la parola definitiva per quanto attiene alla interpretazione-applicazione del diritto. Questo potere trova il proprio limite nel rispetto dell’accertamento e degli apprezzamenti di fatto correttamente compiuti dal giudice del merito. Ho ritenuta affetta da presunzione l’opinione che i fatti possano essere accertati meglio attraverso l’esame delle carte ed ho preferito recepire gli accertamenti e le valutazioni rientranti nel merito della causa, se corredati di corretta motivazione. Se si considera il processo nella sua interezza, l’ordinamento prevede un equilibrio tra i poteri del giudice del merito e quelli del giudice di legittimità, equilibrio che occorre rispettare con particolare cura. Alcune volte, nel giudicare su una sentenza emanata dal giudice di rinvio in seguito a cassazione della precedente sentenza di merito, ho dovuto constatare che la Corte di legittimità aveva compiuto valutazioni rientranti nelle attribuzioni del giudice del merito, determinando, in qualche caso, le giustificate critiche espresse nella pronunzia del giudice di rinvio e, soprattutto, problemi in ordine alla giusta definizione della causa.
Presidente, quali le prospettive del giudizio civile di legittimità al giorno d’oggi e, in generale, di una istituzione quale la Corte di cassazione, inserita in un contesto ordinamentale a plurimi livelli ed in un panorama sovranazionale ed internazionale in tumultuoso cambiamento sociale e tecnologico, nel quale è ancora da definire l’evoluzione del ruolo del potere giudiziario e dei suoi vertici?
Una volta che sia stata riconosciuta la priorità attribuita dal legislatore di questo secolo alla funzione di nomofilachia della Cassazione (da non separare, in linea tendenziale, dalle fattispecie concrete in relazione alle quali il principio di diritto è stato affermato), le prospettive della Corte sono quelle da individuarsi in relazione a detta funzione, assegnata dall’ordinamento in via istituzionale alla Cassazione
Sulla funzione nomofilattica al giorno d’oggi mi sono soffermato in una recente relazione (in Cass. pen., 2020, p. 911, spec. 916-919). Mi limito qui a riprendere le ragioni attuali che hanno accresciuto la necessità di questa funzione. Oggi si vanno sempre più accentuando i difetti della legislazione: leggi complesse, tecnicamente insoddisfacenti, rapidamente mutevoli. Questa situazione è uno dei motivi per cui si va sempre più affermando il c.d. diritto giurisprudenziale, il quale trova, altresì, un forte fondamento nelle teorie moderne sulla interpretazione normativa, che riconoscono un maggiore spazio all’interprete, e quindi alla interpretazione giurisprudenziale idonea a formare il c.d. diritto vivente, che si affianca al diritto vigente. Quest’ultimo, a sua volta, ha visto l’accrescersi delle sue fonti di produzione, che non sono più soltanto nazionali, ma internazionali e sovranazionali. L’insieme di questi mutamenti, che stanno avvenendo sotto i nostri occhi, produce un ordinamento sempre più complesso, onde si accresce il bisogno di certezza delle regole giuridiche e di prevedibilità dell’esito delle decisioni giudiziarie.
Questa esigenza richiede che, almeno a livello di giudice di legittimità, sia garantito un minimo di stabilità delle regole. Va qui richiamato il principio del processo equo che siamo tenuti a rispettare per effetto dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Secondo la Corte di Strasburgo, il processo non è equo quando si verificano e permangono orientamenti interpretativi contrastanti all’interno di una giurisdizione suprema che ha la funzione di risolverli. I contrasti giurisprudenziali sono connaturali nell’ambito dei giudici di merito, ma essi devono essere evitati all’interno della Cassazione attraverso la previsione di meccanismi idonei a tale risultato (Corte eur. dir. uomo, 30 luglio 2015, Ferreira Santas Pardal c. Portogallo, ove sono citati anche i precedenti conformi).
A questo orientamento del giudice europeo si riconduce anche il rafforzamento del ruolo delle sezioni unite della Cassazione, realizzato con il terzo comma dell’art. 374, introdotto nel 2006, attraverso l’ipotesi di rimessione obbligatoria in esso prevista, di cui ho sostenuto, nella relazione citata, la conformità a Costituzione (la disposizione è stata ora estesa al processo penale: art. 618 c.p.p., come modificato dalla legge n. 105/2017).
Mi sembra, con uno sguardo di sintesi, che l’inserimento della Cassazione in un contesto non più soltanto nazionale (l’art. 65 ord. giud. configura un “diritto oggettivo nazionale”), se l’ha privata della posizione di Corte suprema (le sue decisioni sono oggetto di esame indiretto da parte della Corte di Strasburgo e possono essere fonte di responsabilità civile dello Stato e dei magistrati giudicanti nei casi di inosservanza della pregiudiziale eurounitaria), ha accresciuto il suo ruolo indispensabile per l’unità del diritto, che è oramai anche europeo. Ed infatti da più voci si è parlato di funzione della Cassazione di assicurare la nomofilachia europea, considerato che le decisioni della Corte di Lussemburgo e della Corte di Strasburgo pongono questioni giuridiche spesso complesse ed opinabili, che possono trovare una soluzione uniforme e stabile soltanto a livello del giudizio di legittimità.
Si è condivisibilmente affermato che la presenza di un organo giurisdizionale di legittimità si rende indispensabile “oggi ancor più di ieri” (Renato Rordorf, A cosa serve la Corte di cassazione, in Magistratura giustizia società, Bari, 2020, p.329. Gli scritti della parte IV di questa raccolta di interventi dell’Autore, dedicata a Corte di cassazione e nomofilachia, vanno inclusi tra gli studi recenti più interessanti sulla tematica, la cui lettura è senz’altro consigliabile ad integrazione delle Lezioni qui considerate).
Ma il legislatore pecca anche di incoerenza, perché compie scelte che non facilitano l’esercizio della funzione di nomofilachia. Ciò si verifica quando viene soppresso il giudizio di appello e si prevede la sola impugnazione in cassazione della pronunzia di primo grado, come è stato recentemente disposto in materia di immigrazione. Questa scelta legislativa elimina il riesame del giudizio di fatto compiuto in primo grado, finendo con l’ampliare l’ambito del giudizio di legittimità e rendendo più difficile l’atteggiamento di self restraint che, come si è detto, dovrebbe essere assunto dai giudici della Cassazione.
Rimane, comunque, il già menzionato ostacolo fondamentale all’esercizio della funzione di nomofilachia: l’enorme numero dei ricorsi. Una volta constatata l’impossibilità di porre in via legislativa filtri esterni alla proponibilità della impugnazione di legittimità (incompatibili con il “sempre” dell’art.111 Cost.), strumento utile potrebbe rivelarsi, probabilmente, un intervento sui difensori legittimati a proporre ricorso per cassazione. È nota la proposta, menzionata anche nel volume di Lezioni in discorso (p.404), di limitare il loro numero e nello stesso tempo accrescere la loro specializzazione, attraverso l’introduzione di una opzione obbligatoria tra il patrocinio in sede di legittimità e quello in sede di merito.
Come può constatarsi, le Lezioni, pur essendo dirette ad illustrare la disciplina attuale del giudizio civile di cassazione, coerentemente con l’obiettivo perseguito dalla pubblicazione, possono rivelarsi utili anche per chi, conoscendo le enormi difficoltà in cui si trova oggi l’Istituzione, intenda acquisire elementi per la formulazione di proposte idonee a migliorare la situazione, consapevole, peraltro, dei limitati effetti di ogni innovazione che concerna esclusivamente la normativa processuale (v., al riguardo, la lezione di Maria Acierno, p. 80-81).