Applicare i principi fondamentali, rispettando le regole.
Con le sentenze gemelle n. 128 e n. 129 del 16 luglio 2024 continua la revisione costituzionale dei licenziamenti come disciplinati dal Jobs Act
Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Oronzo Mazzotta
V. A. Poso. Continuano gli interventi demolitorio-ricostruttivi della Corte costituzionale sul “contratto a tutele crescenti” (d.lgs. n. 23 del 2105). I più recenti sono le sentenze 16 luglio 2024, n. 128 e n.129.
In estrema sintesi, con la sentenza n. 128 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore (c.d. repêchage). Mentre con la sentenza n. 129 è stata ritenuta non fondata la questione di legittimità costituzionale della medesima norma, sollevata in riferimento ad un licenziamento disciplinare basato su un fatto contestato per il quale la contrattazione collettiva prevedeva una sanzione conservativa, a condizione che se ne dia un’interpretazione adeguatrice in base alla quale deve essere disposta la tutela reintegratoria attenuata nelle particolari ipotesi in cui la regolamentazione pattizia preveda solo sanzioni conservative.
Tutto inizia con la sentenza n. 194 dell’8 novembre 2018 oggetto – come spesso accade in materie come questa – di letture contrastanti. Tu cosa ne pensi? Il tuo giudizio su questa sentenza costituzionale è positivo?
O. Mazzotta. La sentenza del 2018 è di grande rilevanza perché tocca il nucleo duro dell’intervento legislativo. Si tratta del cuore delle cc.dd. “tutele crescenti”. L’idea che fa da sfondo alla legge si riannoda alla ormai antica prospettiva (se si pensa che risale ai primi anni Ottanta) secondo cui la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro all’interno dell’impresa avrebbe dovuto favorire maggiore occupazione, attraendo gli investitori esteri. Per smentire la fondatezza della prospettiva in questione forse sarebbe sufficiente acquisire che, nonostante il fatto che tali politiche siano state messe in atto da oltre 40 anni, la situazione dell’occupazione non si è molto modificata; anzi in alcuni settori è aumentata la precarizzazione del lavoro.
Più nello specifico la legge intendeva segnalare agli imprenditori due cose: (a) che, dopo il 7 marzo 2015, licenziare un lavoratore sarebbe costato molto meno rispetto al passato e (b) che comunque il costo del licenziamento (tendenzialmente monetizzato) avrebbe potuto essere millimetricamente calcolabile a priori. Infatti, come è noto, le “tutele crescenti” questo sono: lungi dal rappresentare un nuovo modello negoziale (il famoso “contratto a tutele crescenti”) consistono in nient’altro che in una tecnica per determinare l’entità dell’indennizzo dovuto in caso di licenziamento illegittimo, entità che viene ancorata agli anni di servizio. Punto e basta. Il coté nobile di tale presupposto di fondo è quello di assicurare la certezza del diritto, quello un po’ meno nobile risponde al nome di “giustizia predittiva”.
I miei (meno di) venticinque lettori conoscono le obiezioni che ho formulato nei confronti di tale prospettiva.
V. A. Poso. Ce le puoi ripetere?
O. Mazzotta. In primo luogo, tutti i barocchismi sul costo del licenziamento si infrangono contro una constatazione assai banale: un licenziamento legittimo non costa nulla. Ne deriva che tutta l’enfasi politica riposta sulla riforma si riduce in nient’altro che in un espediente per restituire al datore di lavoro un potere di libera recedibilità un po’ (un bel po’ dopo il decreto dignità) più costoso.
In secondo luogo, mi continua a sfuggire la ragione per cui l’imprenditore, quel capitano coraggioso che affronta impavido i mille rischi che il mercato gli propone (dal costo delle materie prime alle insidie della concorrenza) debba poter misurare con il bilancino del farmacista quanto gli costerà un licenziamento illegittimo.
La verità è ovviamente un’altra. La pianificazione del costo del licenziamento è nient’altro che l’altra faccia del timore dell’intervento del giudice in materia, quel timore che il c.d. “collegato lavoro” del 2010 aveva cercato maldestramente di attutire se non di evitare del tutto.
Sennonché la discrezionalità giudiziale (e quindi la conseguente incertezza circa l’esito delle relative liti) è strutturalmente inevitabile perché è lo stesso legislatore che ha affidato il potere di liberarsi dal vincolo obbligatorio di lavoro a delle norme (o clausole) generali, che, al pari della buona fede, della correttezza, della diligenza, etc., sono gli strumenti giuridici meno controllabili a priori. E la ragione è ovvia: è lo stesso legislatore che non potendo risolvere una volta per tutte il conflitto fra le due parti del rapporto di lavoro, ha rinviato la soluzione di tale conflitto ad un’altra autorità, per l’appunto quella giudiziale.
Ecco, dunque, che si ritorna al punto di partenza del discorso, che il legislatore del 2015 ha cercato invano di eludere: il licenziamento è atto irriducibilmente individuale inserendosi all’interno della dinamica di un singolo rapporto di lavoro e la reazione sanzionatoria in termini economici non può essere standardizzata ed applicata a tutte le (diversissime) situazioni che quella dinamica presenta. È questo il messaggio più profondo che ci lancia la Corte costituzionale, che, non a caso, senza intaccare la scelta per l’indennizzo economico, invita a tener conto, nella sua determinazione, di una serie di parametri che restituiscono il senso della individualità e specificità del singolo recesso e che sono poi quelli descritti dall’art. 8 della l. n. 604 del 1966. Per la Corte, infatti, e giustamente, è irragionevole e fonte di diseguaglianze trattare allo stesso modo situazioni profondamente diverse.
In questo senso la Corte è rispettosa dell’insegnamento mengoniano che vuole che il ricorso al “sistema”, per non ricadere nel vizio di arbitrarietà, sia ammissibile solo in presenza di una lacuna dell’ordinamento; che è quanto ha fatto la Consulta evitando di creare nuovi parametri, ma limitandosi ad importare quelli già esistenti in materia di licenziamento.
V. A. Poso Da quanto dici traggo la conclusione secondo cui il “difetto” della disciplina introdotta nel 2015 è originario, se tanti sono stati gli interventi della Corte Costituzionale.
O. Mazzotta. È quanto mi sembra di poter dire, anche rispetto ad altre decisioni altrettanto importanti.
V. A. Poso. Tralasciando la sentenza, non meno importante, n. 150 del 16 luglio 2020, meramente conseguenziale rispetto alla prima, c’è stata, qualche anno dopo, la sentenza 22 febbraio 2024, n. 22 con la quale la Corte Costituzionale (in maniera del tutto condivisibile, secondo me) ha risolto il problema delle nullità – testuali e virtuali – ampliando la platea delle ipotesi alle quali consegue la reintegrazione nel posto di lavoro con integrale risarcimento dei danni.
O. Mazzotta. Sono d’accordo con te. In questo caso direi che la Corte è stata assai rispettosa della volontà del legislatore, essendosi basata sull’evidente eccesso di delega (la legge di delegazione non distingueva infatti fra nullità espresse e nullità virtuali). A mio avviso avrebbe anche potuto ritenere del tutto irragionevole la scelta di limitare la reintegrazione alle sole ipotesi di nullità espressa.
La distinzione fra nullità virtuali ed espresse poggia su basi assai poco solide. Si tratta di una contrapposizione che non costituisce un discrimine negativo, tale da escludere alcune fattispecie, collocabili certamente entro lo spettro della nullità, dalla relativa sanzione. Essa ha la sola funzione di distinguere fra nullità espresse e nullità rimesse alla valutazione del giudice in punto di “violazione di norma imperativa”. In sostanza mentre nel primo caso il compito del giudice è alleggerito dalla circostanza che il legislatore ha sancito la sanzione applicabile alla specie, nel secondo il medesimo legislatore ha rinviato all’interpretazione giudiziale la verifica del carattere imperativo della norma violata. Mai invece si dà che una nullità possa essere considerata in sé e per sé non sanzionabile con gli effetti che le sono propri (la caducazione dell’attività del privato).
In effetti deve valere l’aureo (e permanentemente vigente) principio secondo cui ogni atto di autonomia che si ponga in violazione di norma imperativa è affetto dalla sanzione della nullità ex art. 1418 cod. civ., salvo che non sia diversamente disposto dalla legge. Si ribalta quindi l’idea del legislatore del 2015: non deve la legge prefigurare le conseguenze della nullità in modo “espresso”, ma queste sono ricollegate direttamente dai principi civilistici, salvo che non venga esplicitamente negatatale conseguenza.
Ciononostante – con apprezzabile senso del proprio ruolo – la Corte costituzionale sposa l’idea che il legislatore delegato fosse andato oltre l’incarico conferitogli dal Parlamento delegante, nel momento in cui ha voluto introdurre l’avverbio “espressamente”, laddove nel criterio direttivo della legge di delega manca del tutto la distinzione fra nullità espresse e nullità non sanzionate come tali, con la conseguenza che la reintegrazione deve far capo ad ogni ipotesi di licenziamento riconducibile alla categoria della nullità. E dunque sotto questo profilo non mi pare che si possa rimproverarle nulla.
V. A. Poso Si tratta di capire, a questo punto, come incide questa sentenza nella concreta applicazione dei giudici comuni.
O. Mazzotta. Non mi pare complicato. È la Corte stessa che, nell’ampia motivazione, con pazienza certosina, elenca tutte le ipotesi di nullità del licenziamento, nel gioco combinato di legislazione e (soprattutto) giurisprudenza, fra le quali colloca, fra l’altro, il licenziamento durante il periodo di comporto per malattia; quello per motivo illecito ex art. 1345 cod. civ.; quello ritorsivo sulla base della normativa di cui alla l. 179/2017 (il c.d. whistleblower); quello in violazione del blocco dei licenziamenti disposto durante il periodo del Covid; il licenziamento in violazione dell’art. 4 della l. 146/90 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali; quello in violazione della disciplina degli stupefacenti (art. 124, 1° co. d.p.r. 309/90), etc.
V. A. Poso. Tornando agli aspetti generali, sistematici, mi sembra che passi indenne dalle censure il discrimen temporale dell’assunzione a far data dal 7 marzo 2015.
O. Mazzotta. Il punto è quello meno discutibile. Si tratta di una pacifica applicazione del principio, da sempre invalso nella giurisprudenza della Corte costituzionale (si pensi alla materia pensionistica), secondo cui la diseguaglianza di trattamento va valutata in maniera sincronica e non diacronica. E nel caso il legislatore del d.lgs. 23/2015 ha applicato la disciplina solo ai nuovi assunti, la cui posizione non è comparabile con quella dei lavoratori già in forza al momento dell’entrata in vigore della legge.
V. A. Poso. Torniamo alle ultime due sentenze costituzionali. Prima di tutto la n. 128/2024 che ricompone il requisito dell’ “insussistenza del fatto” cercando di omogeneizzare la disciplina riguardante i licenziamenti economici e quelli disciplinari. È proprio così o ci sono margini di incertezza?
O. Mazzotta. Direi che è proprio così. Il filo conduttore che guida le due importanti decisioni della Consulta è proprio la nozione di “fatto”. Lo scopo è quello di rendere omogenee le discipline riguardanti l’illegittimità del licenziamento per ragioni oggettive e soggettive eliminando le evidenti storture, in termini di lesione del principio di eguaglianza, causate dalla differenziazione di regimi. Alla base del discorso c’è l’idea, cui ho fatto già cenno in precedenza, secondo cui il licenziamento è un fatto traumatico che incide sulla vita del lavoratore e la cui regolamentazione deve di necessità rispettare la dignità del lavoratore colpito da un evento così devastante.
V. A. Poso. In termini generali cosa si intende per “fatto” al fine di potere apprezzare la sussistenza o no dello stesso.
O. Mazzotta. Il “fatto” è nient’altro che la proiezione in termini concreti della descrizione che ne fornisce la legge per giustificare la rottura del vincolo. È una species concreta di una definizione astratta (di qui l’espressione “fattispecie”). Esso va quindi inquadrato entro la definizione normativa per coglierne la rilevanza e legittimare il recesso.
V. A. Poso. Mi sembra evidente che, in base ai criteri generali dell’onere della prova in tema di licenziamento, sia il datore di lavoro, e non il lavoratore, a dover dimostrare la sussistenza del fatto, di un fatto genuino e rilevante, posto a fondamento del recesso per motivi oggettivi.
O. Mazzotta. Sono perfettamente d’accordo; questo è quanto de plano risulta dall’art. 5 della legge n. 604 del 1966.
V. A. Poso. La Corte, però, considera fuori dalla nozione di “fatto” rilevante ai fini della tutela reintegratoria l’obbligo di repêchage la cui violazione da parte del datore di lavoro comporta solo una compensazione indennitaria del danno. Ciò, peraltro, in evidente contrasto con la giurisprudenza della Corte di Cassazione.
O. Mazzotta. Il contrasto è solo apparente. Il primo passaggio argomentativo ruota intorno all’idea della necessaria causalità del recesso datoriale (sostenuta, se fosse necessario, dai riferimenti costituzionali al diritto al lavoro e alla tutela del lavoro in tutte le sue forme). Da questa idea – ripeto: sostenuta dal richiamo a fondamentali principi costituzionali – scaturisce la logica conseguenza, pur nel rispetto della discrezionalità del legislatore, di una “adeguata e sufficiente” dissuasività della sanzione avverso il licenziamento illegittimo.
Messa in questi termini la questione, risulta evidente la discrasia fra giustificazione soggettiva e giustificazione oggettiva in termini di sanzione applicabile al licenziamento illegittimo. Nel primo caso il legislatore del 2015 lascia uno spazio alla tutela reintegratoria in talune situazioni specificamente individuate, nel secondo appiattisce la sanzione, sempre e comunque, al piano meramente indennitario. Ed è qui che si annida il sospetto di incostituzionalità. In sostanza è l’irrilevanza del requisito della “insussistenza del fatto” che risulta contraria ai principi fondamentali, per due assorbenti ragioni. La prima ragione è che, così facendo, si viola proprio l’essenziale presupposto della causalità del recesso. La seconda è che si lascia il datore di lavoro arbitro di qualificare ed etichettare il licenziamento a suo libito (nella gran parte dei casi celando un licenziamento arbitrario dietro la parvenza di una giustificazione oggettiva). Ne deriva che il licenziamento per g.m.o. in cui il fatto sia insussistente (in cui cioè non vi sia una effettiva soppressione del posto e/o manchi del tutto il nesso di causalità con la posizione del lavoratore) è addirittura equiparabile ad un licenziamento pretestuoso e/o discriminatorio.
Ecco, dunque, che l’allargamento della tutela reale al fatto insussistente anche nell’ambito del licenziamento economico si traduce, in termini sostanziali, in una sorta di alleggerimento per il lavoratore dell’onere della prova (sempre complicato) della discriminatorietà e/o pretestuosità.
V. A. Poso. Secondo una prima lettura, se “fatto materiale” è espressione equivalente, nella sostanza, a “fatto (in senso ampio)”, e se quest'ultimo ricomprende, per come affermato ripetutamente dalla giurisprudenza di legittimità, anche il repêchage, non sembra possibile che nell’area del “Jobs Act” la prospettiva possa mutare. Condividi questa opinione?
O. Mazzotta. Mi rendo conto che l’idea che, rispetto alla disciplina del contratto a tutele crescenti, il concetto di “fatto” non inglobi anche il c.d. repêchage può apparire eterodossa rispetto all’opinione espressa dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 125 del 2022, da subito fatta propria dalla giurisprudenza ordinaria, a proposito dell’art. 18 dello statuto. Sennonché nel diverso caso delle tutele crescenti c’era da rispettare la volontà legislativa diretta a valorizzare, in linea di massima, la sanzione indennitaria. Di qui la decisione della Corte di restringere la tutela reale ad ipotesi apparentabili al licenziamento pretestuoso, per lasciare in tutti gli altri casi la tutela indennitaria.
Del resto, che l’obbligo di repêchage costituisca l’anello debole dei requisiti giustificativi del g.m.o. è pacifico. È sufficiente riandare alle perplessità manifestate dal nostro comune Maestro Giuseppe Pera nello storico saggio apparso all’indomani della legge n. 604 del 1966 e che ha costituito la base di tutti i ragionamenti successivi sul tema.
V.A. Poso. Nel dispositivo della sua sentenza la Corte Costituzionale, mutuando la locuzione utilizzata dal Legislatore per i licenziamenti disciplinare, fa riferimento alle “ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro”. Sembrerebbe, questa, una scelta consapevole adottata dai giudici costituzionali che consente di lasciare ogni operazione interpretativa affidata ai giudici comuni.
O. Mazzotta. Sono d’accordo con questa lettura.
V.A. Poso. Ritieni che i principi accolti dalla Corte nella sentenza n. 128/24 possano modificare l’atteggiamento circa l’apparato sanzionatorio previsto dal d.lgs. 23/2015 per i licenziamenti collettivi? Ricorderai che, allo stato, la Consulta ha rigettato i dubbi di legittimità costituzionale con la sentenza n. 7 del 2024.
O. Mazzotta. Non credo proprio che l’atteggiamento della Corte rispetto ai licenziamenti collettivi possa modificarsi. Proprio nella sentenza da te richiamata vi è una lunga motivazione diretta a diversificare strutturalmente le due vicende, se pure accomunate dall’espressione “licenziamenti economici”. L’argomento forte per i giudici della Consulta, al di là dei nominalismi (su cui vi sarebbe molto da discutere, ma non è qui il luogo), è che le due vicende non possono essere parificate non foss’altro perché non l’ordinamento non prevede un controllo di merito sulla sussistenza delle ragioni invocate per la riduzione di personale, ma solo un controllo di natura procedurale. Il che risponde alla ben nota acquisizione secondo cui mentre nel licenziamento individuale il controllo è successivo ed affidato al giudice, nei licenziamenti collettivi il controllo è preventivo ed è affidato alle parti sociali.
Quanto al piano della deterrenza della sanzione economica la Corte, anche nella sentenza n. 7 del 2024 (oltre che in varie altre decisioni), ha ribadito che un indennizzo, che nel massimo attinge a 36 mensilità, è esente da vizi di costituzionalità, perché realizza un «adeguato contemperamento degli interessi in conflitto».
V. A. Poso. Passando all’esame della sentenza n. 129/2024 (particolarmente apprezzabile anche per la completa ricostruzione normativa e giurisprudenziale dei licenziamenti disciplinari) al punto 7.3 (nel richiamare i punti 6 e 7 della sentenza n. 44 del 19 marzo 2024), la Corte ribadisce che lo “scopo” complessivo del legislatore del 2015 è stato quello di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo». Ritieni condivisibile questa affermazione, anche alla luce della applicazione giurisprudenziale e degli sviluppi che si sono verificati nel mercato del lavoro?
O. Mazzotta. In generale rilevo che è vero che nella sentenza n. 129/24 l’atteggiamento della Corte è maggiormente attento alla ratio normativa, nel momento in cui essa richiama lo scopo complessivo del d.lgs. 23/2015 diretto a favorire l’allargamento dell’occupazione.
Se mi chiedi però se tale finalità è legittimamente perseguibile intervenendo in maniera restrittiva sulla tutela contro i licenziamenti arbitrari e/o illegittimi il mio dissenso è abbastanza netto, per ragioni di metodo e di merito.
Sul piano del metodo ritengo che l’allargamento dell’occupazione – come del resto hanno dimostrato i fatti successivi – è legato a fattori che poco o niente hanno a che fare con la disciplina dei licenziamenti. Una disciplina restrittiva delle tutele può solo consentire una riduzione dei costi per l’impresa, ma non c’è alcuna garanzia che a tale riduzione di costi si accompagni un allargamento della base occupazionale. Del resto, la vicenda del licenziamento si inserisce all’interno di un contratto privatistico che deve trovare un punto di equilibrio al proprio interno, un equilibrio che deve tenere in conto le aspettative che le parti individuali ripongo sulla relazione giuridica, aspettative che niente hanno a che fare con problemi occupazionali.
Sotto altro profilo poi – e vengo al merito – la riduzione delle tutele deve comunque trovare un punto di equilibrio fra le posizioni e le aspettative delle parti (si ripete: individuali), rispettoso dei diritti fondamentali cioè del diritto alla libera gestione dell’attività di impresa, da una parte, e della protezione delle aspettative di reddito del lavoratore nonché della sua dignità.
V. A. Poso. Nel merito della motivazione, sono due, a detta della Corte, le innovazioni di assoluto rilievo in tema di licenziamento disciplinare nel regime del Jobs Act: «la qualificazione del fatto come “materiale” e l’espressa esclusione, ai fini della individuazione del fatto rilevante per la selezione della tutela applicabile, del giudizio di proporzionalità con la conseguente eliminazione del riferimento alle previsioni della contrattazione collettiva».
O. Mazzotta. Non attribuirei particolare rilievo alla enfatizzazione del concetto di “materialità” del fatto, dal momento che l’opinione comune ritiene che l’attributo “materiale” nulla toglie e nulla aggiunge al concetto di fatto, come ho detto prima.
Più importante è rilevare che in realtà al centro della discussione c’è il tema della proporzionalità della sanzione, del quale la Corte ribadisce la centralità nella vicenda del licenziamento disciplinare e l’eterodossia di una legge che intenda prescindervi.
Ciò posto però l’intervento ablativo non si spinge fino al punto di eliminare la scelta legislativa ripristinando in pieno il rilievo del principio, ma si assesta su una linea per così dire intermedia.
V. A. Poso. Infatti, nel momento in cui il legislatore considera applicabile la tutela reintegratoria attenuta in caso di “fatto materiale insussistente”, resta del tutto irrilevante, a questi fini, il giudizio di proporzionalità. Scrive la Corte: «Il licenziamento potrà risultare “sproporzionato” rispetto alla condotta e alla colpa del lavoratore – e quindi, sotto questo profilo illegittimo – ma la tutela sarà quella indennitaria del comma 2 dell’art. 3 citato».
O. Mazzotta. Certamente. Sotto questo profilo il giudizio della Corte è ampiamente rispettoso della volontà legislativa.
Vi si discosta soltanto quando l’irragionevolezza della scelta tracima in una violazione dell’art. 39 Cost., ledendo quella autonomia collettiva che, proprio in materia disciplinare, da sempre svolge una funzione essenziale che preesiste alle scelte legislative.
Senza voler ricercare il fondamento teorico di tale scelta nella teoria giugniana dell’ordinamento intersindacale è sufficiente ricordare il contributo di Luigi Montuschi, il massimo studioso del potere disciplinare, che riconosceva all’autonomia collettiva proprio il ruolo di edificatrice della tipicità del potere disciplinare, una tipicità che si afferma anzitutto sul piano sociale per poi rifluire sul piano legislativo.
Va comunque anche ricordato che la Corte, per affermare tale principio, si avvale di uno strumento, almeno formalmente, meno traumatico rispetto ad un intervento ablativo, dal momento che ritiene sufficiente una interpretazione adeguatrice, che guarda proprio al ruolo essenziale dell’autonomia collettiva in materia disciplinare.
La conseguenza più che condivisibile del ragionamento è che se il fatto materiale imputato al lavoratore è per così dire del tutto atipico, cioè non previsto da alcuna fonte come passibile di sanzione conservativa, la tutela (pur in presenza di una sproporzione) sarà solo indennitaria. Ove invece il fatto sia rubricato dalla contrattazione collettiva come suscettibile di sanzione minore, la violazione del principio di proporzionalità comporterà la tutela reale.
V. A. Poso. Ritieni complessivamente che nelle due sentenze del luglio 2024 la Corte Costituzionale abbia scavalcato i compiti interpretativi della Corte di legittimità?
O. Mazzotta. Ho già risposto di volta in volta ai vari profili tematici. Vedrei solo un problema di coordinamento con la giurisprudenza in materia di g.m.o., avendo particolare riferimento al problema del c.d. repêchage, rispetto al quale nella interpretazione dell’art. 18 dello statuto (come novellato nel 2012) la Corte costituzionale e sulla sua scorta il giudice di legittimità, hanno inserito tale elemento nel “fatto” posto a base del licenziamento economico.
Sennonché, nella diversa temperie del contratto a tutele crescenti, si giustifica bene una diversificazione all’interno del concetto di fatto rilevante, dovendosi comunque assegnare un qualche significato all’alternativa fra tutela reale e tutela indennitaria. Sarebbe stata certamente più grave e foriero di ben più aspre polemiche l’appiattimento della protezione sul solo piano della tutela reintegratoria.
V. A. Poso. Più in generale anche con il Jobs Act la Corte Costituzionale, pur affermando, come in altre occasioni, il suo self restraint nei confronti del legislatore, ha però pronunciato un monito invitandolo ad intervenire, pena il successivo intervento costituzionale. Mi riferisco alle sentenze n. 150 del 2020, n. 183 del 2022, n. 7 del 2024, n. 22 del 2024. Come giudichi questa doverosa apertura della Corte Costituzionale?
O. Mazzotta. La giudico così come la giudichi tu stesso, che, non a caso, giustapponi al sostantivo “apertura” l’aggettivo “doverosa”. La Corte che è stata indotta ad intervenire su molti profili problematici posti sia dalla riforma Monti che dalla riforma Renzi, ha portato a compimento un’opera ablativa e (parzialmente) ricostruttiva entro i limiti delle proprie funzioni.
È chiaro che solo il legislatore potrà rimettere mano (e sperabilmente ordine) nell’universo dell’apparato sanzionatorio in materia di licenziamenti. Ovviamente in quest’opera di riedificazione non potrà ignorare i ripetuti moniti della Consulta circa il carattere di necessaria deterrenza che deve rispettare un apparato sanzionatorio per essere indenne da censure di incostituzionalità.
In questo ambito però mi pare che il sentiero per l’ipotetico legislatore non sia così stretto. Dalla giurisprudenza della Corte costituzionale può infatti dedursi agevolmente che, ferma la sicura deterrenza della tutela reale, una tutela indennitaria, così come è risultata corretta dal decreto dignità, sia altrettanto esente da censure.
V. A. Poso. Una battuta finale. La CGIL ha promosso il referendum per l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 4 marzo 2015 (ma anche dell’art. 8 della l. n. 604 del 15 luglio 1966). È questa la soluzione di tutti i problemi?
O. Mazzotta. Credo proprio di no. Si tratta di problemi complessi che non possono essere risolti solo con un tratto di penna. A parte il significato politico che la CGIL annette all’iniziativa, vi potrebbe essere l’arrière-pensée che, ove il referendum passi il vaglio di ammissibilità, magari il legislatore metta mano ad una riforma, come già avvenuto in passato.