Siglata la pace tra Corte di giustizia e Corte costituzionale sul difficile terreno della sicurezza sociale
di Amelia Torrice
I giudici europei rispondono ai dubbi della Consulta in ordine all’accesso dei cittadini di Paesi terzi non soggiornanti di lungo periodo alle prestazioni dell’assegno di maternità e dell’assegno di maternità, (anche) rispetto all’art. 34 della Carta di Nizza. La sentenza, dando continuità a un orientamento recente, ma già consolidato, è l’occasione per riannodare definitivamente i fili del dialogo tra le massime Corti.
Sommario: 1. La vicenda. - 2. La Corte di Cassazione e la costituzionalità del bilanciamento legislativo. - 3. La Corte Costituzionale e la leale collaborazione tra sistemi di garanzia. - 4. La Corte di Giustizia: il perimetro dell’intervento. - 5. Il tema dell’efficacia nella causa della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. - 6. Il diritto agli assegni di natalità e maternità nel segno dell’integrazione dei cittadini di Paesi terzi. - 7. Riflessioni conclusive.
1. La vicenda
Alcuni cittadini di Paesi terzi, legalmente soggiornanti in Italia, ma privi del permesso di soggiorno di lungo periodo[1], si sono visti negare il beneficio dell’assegno di maternità[2], ovvero dell’assegno di natalità[3] da parte dell’INPS. Tanto perché non erano titolari dello status di soggiornanti di lungo periodo.
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulle impugnazioni proposte avverso le varie decisioni delle Corti di Appello, si è posta nel solco tracciato dalle sentenze della Corte Costituzionale (successive alla sentenza n. 269 del 2017)[4], le quali hanno circoscritto i poteri di accentramento in capo alla medesima Corte Costituzionale quando vengono in rilievo i diritti fondamentali e si pone la questione della cosiddetta doppia pregiudizialità[5].
2. La Corte di Cassazione e la costituzionalità del bilanciamento legislativo
Con le ordinanze del 17 giugno 2019 n. 16163 e n. 16167[6], il giudice di legittimità ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del d.lgs. n. 151 del 2001, art. 74, in relazione agli artt. 3 e 31 Cost. e all’ art. 117 cost., comma 1, quest'ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, nella parte in cui richiede ai soli cittadini extracomunitari, ai fini dell'erogazione dell'indennità di maternità, anche la titolarità del permesso unico di soggiorno, anziché la titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno, in applicazione della disposizione generale contenuta nel d.lg. n. 286 del 1998, art. 41.
Nel corso della medesima udienza del 17 giugno 2019 con le ordinanze nn. 16164, 16165, 16168, 16170, 16171 e 16172[7], la Corte di Cassazione ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della l. n. 190 del 2014, art. 1, comma 125, in relazione agli artt. 3 e 31 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, quest' ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, nella parte in cui richiede ai cittadini extracomunitari ai fini dell'erogazione dell'assegno di natalità anche la titolarità del permesso unico di soggiorno, anziché la titolarità del permesso di soggiorno e di lavoro per almeno un anno in applicazione del d. lgs. n. 286 del 1998, art. 41.
Nelle ordinanze in cui l’oggetto della domanda era costituito dall’assegno di natalità, nelle quali veniva in rilievo la direttiva UE 2011/98, la Corte di Cassazione ha precisato che la rilevanza della questione di legittimità costituzionale “non è impedita dalla pur concreta possibilità di procedere alla disamina del motivo di ricorso privilegiando la finalità, perseguita dai giudici di merito, diretta esclusivamente alla verifica di compatibilità della norma denunciata con la previsione dell'art. 12, paragrafo 1 lett. e), della direttiva UE 2011/98, che impone la parità di trattamento in favore dei "lavoratori dei paesi terzi di cui all'art. 3 paragrafo 1, lett. b) e c)”.
L'interpretazione delle disposizioni attributive del beneficio dell’assegno di natalità, che richiamavano, testualmente, il d. lgs. n. 286 del 1998, art. 9, che, attraverso le modifiche apportate dai due articoli del d. lgs. n. 40 del 2014, aveva recepito la direttiva UE 2011/98, a giudizio della Corte di Cassazione rendeva necessaria la disamina sul piano della conformità a Costituzione delle disposizioni relative a tale prestazione.
Tanto, sul rilievo che il peculiare meccanismo di funzionamento della non applicazione dell’art. 1, c. 125, l. n. 190 del 2014 “ovviamente limitato all'inciso che richiede per cittadini extra comunitari anche il possesso di permesso di lungo soggiorno”, non avrebbe potuto “realizzare effetti analoghi a quelli derivanti dalla pronuncia di incostituzionalità per violazione degli artt. 3 e 31 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, quest' ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (CDFUE)”.
Nella prospettiva della Corte di Cassazione, solo in sede di giudizio costituzionale sarebbe stato possibile, valutare la ragionevolezza della scelta discrezionale legislativa, frutto di bilanciamento dei contrapposti interessi e considerare gli indici normativi che avrebbero dovuto condurre il legislatore a riconoscere quale unico criterio selettivo giustificato e ragionevole il possesso della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 41, quale espressione di un principio generale, al fine di riconoscere ai titolari la piena equiparazione ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale.
“Per tali ragioni”, continua la Corte, “legate ai diversi effetti che potrebbero derivare dalla pronuncia della Corte Costituzionale rispetto al sistema al cui interno si colloca la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale, l'applicabilità alla fattispecie della direttiva UE 2011/98 non determina l'irrilevanza della questione di costituzionalità…”.
Nelle ordinanze concernenti l’assegno di natalità sono stati ribaditi i principi affermati dalla Corte Costituzionale in virtù dei quali[8]: 1) a quest’ultima non può ritenersi precluso l'esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia - per il tramite dell'art. 11 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, - alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti; 2) rimane, comunque, il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e - ricorrendone i presupposti - di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla CDFUE; 3) “...laddove però sia stato lo stesso giudice comune a sollevare una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta, questa Corte non potrà esimersi, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), con conseguente eliminazione dall'ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione”.
Nelle ordinanze concernenti l’assegno di maternità, ricostruita la portata dell’art.74 del d. lgs. n. 151 del 2001, la Corte di cassazione ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale della disposizione, per violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevolezza e della disparità di trattamento, dell’art. 31 Cost., e dell’art. 117 Cost., comma 1, quest'ultimo in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
Precisato che non era richiamabile la direttiva 2011/98/CE, in quanto all'epoca dei fatti che avevano riguardato gli originari ricorrenti, tale direttiva non era stata ancora recepita dallo Stato italiano ed anzi ancora non era scaduto il termine fissato per il suo recepimento (25/12/2013), ha osservato che non occorreva esaminare se il diniego della corresponsione dell'indennità di maternità fosse valutabile in relazione all’art. 12 della direttiva[9].
3. La Corte Costituzionale e la leale collaborazione tra sistemi di garanzia
La Corte Costituzionale con l’ordinanza 30 luglio 2020, n. 182, si è rivolta alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267 TFUE, come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ed ha posto la seguente questione pregiudiziale: “se l’art. 34 CDFUE debba essere interpretato nel senso che nel suo ambito di applicazione rientrino l’assegno di natalità e l’assegno di maternità, in base all’art. 3, par. 1, lett. b) e j), del regolamento (CE) n. 883/2004, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, richiamato dall’art. 12, par. 1, lett. e), della direttiva 2011/98/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico, e se, pertanto, il diritto dell'Unione debba essere interpretato nel senso di non consentire una normativa nazionale che non estende agli stranieri titolari del permesso unico di cui alla medesima direttiva le provvidenze sopra citate, già concesse agli stranieri titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo”.
In particolare, è stato chiesto se l’art. 34 della Carta, come attuato dal pertinente diritto derivato, comprenda nel suo ambito di applicazione gli assegni di natalità e di maternità e se, pertanto, osti a una normativa nazionale che non estenda agli stranieri titolari del permesso unico di lavoro le suddette provvidenze, già concesse agli stranieri titolari dello status privilegiato di soggiornanti UE di lungo periodo.
La Corte Costituzionale ha spiegato che non poteva esimersi dal valutare se la disposizione “infranga in pari tempo i principi costituzionali e le garanzie sancite dalla Carta: l’integrarsi delle garanzie della Costituzione con quelle sancite dalla Carta determina, infatti, un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione”.
Ha ribadito di dovere esperire il rinvio pregiudiziale “ogniqualvolta ciò sia necessario per chiarire il significato e gli effetti delle norme della Carta; e potrà, all’esito di tale valutazione, dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, rimuovendo così la stessa dall’ordinamento nazionale con effetti erga omnes”.
Richiamando la sua precedente sentenza n. 269 del 2017[10], ha tenuto a riaffermare, in maniera chiara ed inequivocabile, il ruolo della Corte di Giustizia quale unico interprete del diritto dell’UE[11].
E, per tal via, ha collocato il rinvio pregiudiziale “in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti Costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di Giustizia .. affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico (art. 53 della CDFUE) ed ha precisato che l’intervento chiarificatore che si richiede alla Corte di Giustizia è funzionale, altresì, alla garanzia di uniforme interpretazione dei diritti e degli obblighi che discendono dal diritto dell’UE, e ravvisa una connessione inscindibile tra i principi e diritti costituzionali evocati dalla Corte di Cassazione e quelli riconosciuti dalla Carta , arricchiti dal diritto secondario , tra loro complementari e armonici”.
In conclusione, il rinvio pregiudiziale è stato ritenuto necessario per la “connessione inscindibile tra i principi e i diritti costituzionali (…) e quelli riconosciuti dalla Carta”, legati da un “rapporto di mutua implicazione e di feconda integrazione” e per il “grave stato di incertezza sul significato da attribuire al diritto dell’Unione”.
È evidente, che, ponendo al centro del rinvio pregiudiziale l’art. 34 della CDFUE, la Corte costituzionale ha evitato di affrontare il tema della efficacia della direttiva n. 2011/1998, questione che veniva in rilievo nelle vicende relative all’assegno di maternità, maturate tutte prima della scadenza del termine per il suo recepimento (25.12.2013). Essa, inoltre, non ha interrogato la Corte di Giustizia sulla questione ben più complessa e spinosa, dell’efficacia diretta o meno dell’art. 34[12].
Temi, questi, men che lambiti dal riferimento, effettuato nella richiesta di decisione con procedimento accelerato, ai sensi dell’art. 105 del Regolamento di procedura della CGUE, a quella parte della giurisprudenza di merito che ha riconosciuto efficacia diretta all’art. 12 della direttiva 2011/98/UE.
4. La Corte di Giustizia: il perimetro dell’intervento
La Corte di Giustizia, con la sentenza 2 settembre 2021 causa C-350/20, richiamando la propria giurisprudenza (p.34 e 35), ha respinto la domanda del giudice di rinvio di sottoposizione della causa al procedimento accelerato, previsto dall’art. 105, par. 1, del regolamento di procedura della CGUE.
Tanto sul rilievo che, secondo la sua giurisprudenza[13], il numero rilevante di persone o di situazioni giuridiche potenzialmente coinvolte dalla decisione che il giudice del rinvio è chiamato ad adottare, dopo avere adito la Corte in via pregiudiziale, e la necessità di uniformare la giurisprudenza nazionale non costituiscono circostanze eccezionali tali da giustificare il ricorso ad un procedimento accelerato, che costituisce uno strumento procedurale destinato a rispondere a una situazione di straordinaria urgenza.
Su richiesta della Repubblica Italiana, la causa è stata giudicata dalla Grande Sezione, ai sensi dell’art. 16, terzo comma, dello Statuto della Corte di Giustizia.
La Commissione aveva contestato la ricevibilità della questione oggetto del rinvio pregiudiziale, nella parte concernente l’assegno di maternità, sul rilievo che i fatti di cui al procedimento principale erano anteriori al 25 dicembre 2013, data di scadenza del termine di recepimento della direttiva 2011/98.
Il Governo italiano aveva, a su volta, prospettato dubbi sul fatto che i ricorrenti nel procedimento principale fossero titolari di un permesso unico di lavoro e aveva rilevato che essi risultavano titolari di un permesso di soggiorno a diverso titolo, riservato alle persone che non possono essere qualificate come «lavoratori» e aveva osservato che l'articolo 12, par. 1, della direttiva 2011/98 è applicabile ai soli cittadini di paesi terzi che hanno una siffatta qualità.
La Corte di Giustizia ha riaffermato il principio[14], per il quale, nell’ambito della cooperazione tra la Corte e i giudizi nazionali prevista dall’art. 267 TFUE, spetta ai giudici nazionali, cui è sottoposta la controversia, valutare alla luce delle particolari circostanze di quest’ultima sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte.
Ha anche chiarito che il rigetto di una domanda proposta dal giudice nazionale è possibile soltanto ove appaia manifesto che l’interpretazione richiesta del diritto dell’Unione non ha alcuna relazione con la realtà effettiva o con l’oggetto del procedimento, ovvero nei casi di questioni meramente ipotetiche o, ancora, quando la Corte non abbia a disposizione elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni sottoposte.
Per eliminare, poi, ogni dubbio sulla ricevibilità del ricorso, per la parte relativa all’assegno di maternità, in ragione della inapplicabilità della direttiva 2011/98 per mancata scadenza del termine per il suo recepimento alla data di verificazione dei fatti oggetto del procedimento, la Corte di Giustizia [15] ha osservato che il giudice del rinvio non era il giudice chiamato a decidere sulle controversie, ma la Corte Costituzionale, chiamata a dare una risposta, con effetti erga omnes, non solo al proprio giudice del rinvio ma a tutti i giudici italiani, alla luce sia delle norme di diritto nazionale che delle norme del diritto dell’Unione.
Sulla base di siffatta considerazione, la Corte di Giustizia ha affermato che l’interpretazione del diritto dell’Unione, richiesta dal giudice del rinvio (Corte Costituzionale), presentava un “rapporto con l’oggetto della controversia di cui è investito, che riguarda esclusivamente la legittimità costituzionale di disposizioni nazionali rispetto al diritto costituzionale nazionale alla luce del diritto dell’Unione”.
Diversa, in ragione della diversità dei giudizi innanzi alla CGUE e alla Corte Costituzionale, la giurisprudenza della Corte Costituzionale[16] che, in merito ai presupposti di ammissibilità dell’incidente di costituzionalità, con riferimento all’art. 51 della Carta, ha elevato a presupposto di invocabilità della Carta, nel giudizio di legittimità costituzionale, l’inerenza della fattispecie, oggetto di legislazione interna, ad ambiti disciplinati dal diritto europeo.
La Corte Costituzionale ha, altresì, sottolineato la necessità che la norma nazionale oggetto di scrutinio ricada nell’ambito applicativo di una norma europea diversa da quelle del catalogo sovranazionale, e non ha ritenuto, comunque, sufficiente il mero riscontro di un settore nel quale l’Unione è competente secondo i Trattati, nei casi in cui le sue istituzioni non hanno in concreto esercitato tale competenza ovvero non hanno adottato, mediante direttive, prescrizioni minime.
Ha, in particolare, escluso che la sussistenza di una “fattispecie europea” possa essere desunta dal generico riferimento a politiche perseguite dall’Unione o a raccomandazioni del Consiglio prive di forza vincolante ed ha affermato che il rimettente è perciò “chiamato a dare contezza delle ragioni per cui la disciplina censurata vale ad attuare il diritto dell’Unione. In mancanza, la prospettazione dei motivi di asserito contrasto tra la norma denunciata e il parametro costituzionale risulta generica, con conseguente inammissibilità della relativa questione”[17].
Ha evidenziato[18] di essere solita operare “una rigorosa ricognizione dell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione”, di avere costantemente affermato che “la CDFUE può essere invocata, quale parametro interposto, in un giudizio di legittimità costituzionale soltanto quando la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo” ed ha rammentato che la Corte di giustizia ha puntualizzato che il collegamento “tra un atto di diritto dell’Unione e la misura nazionale in questione”, richiesto dall’art. 51, par. 1, della Carta, “non si identifica nella mera affinità tra le materie prese in esame e nell’indiretta influenza che una materia esercita sull’altra”.
5. Il tema dell’efficacia nella causa della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Riprendendo l’analisi della sentenza della Corte di Giustizia, e per concludere sulla ricevibilità, va rilevato che i dubbi in proposito prospettati dal Governo Italiano sono stati disattesi perché in realtà attenevano al merito della causa.
La Corte di Giustizia nella sentenza in commento non risponde alla domanda della Corte Costituzionale sulla portata dell’art. 34 della CDFUE, ma riqualifica o, meglio, precisa il quesito (p. 50), invertendo i termini della questione posta dal giudice del rinvio. Essa, infatti, pone la sua attenzione sul diritto derivato (art. 12 par. 1 lett. e della direttiva 2011/98 e art. 3, par. 1, lett. b e j, del regolamento 883/2004).
E ciò fa in sintonia con la sua precedente giurisprudenza[19], che, nella prospettiva di cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte, afferma che quest’ultima ha il compito di fornire al giudice nazionale una risposta utile che gli consenta di dirimere la controversia di cui è investito e, dunque, di interpretare “tutte le norme dell’Unione che possono essere utili ai giudici nazionali….anche qualora tali disposizioni non siano espressamente indicate nelle questioni ad essa sottoposte dal giudice del rinvio…”.
Essa spiega (cfr. p. 46) che, attraverso il rinvio al Regolamento, “l’art. 12 par. 1, lett. e) della direttiva 2011/98, dà espressione concreta al diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale di cui all’ art. 34, paragrafi 1 e 2 della Carta” e, nel richiamare la propria sentenza dell’11 novembre 2014, causa C-530/13, p. 23 (cfr. p. 47), chiarisce che, “quando adottano misure rientranti nell’ambito di applicazione di una direttiva che concretizza un diritto fondamentale previsto dalla Carta, gli Stati membri devono agire nel rispetto di tale direttiva”.
Per vero, la Corte di Giustizia aveva già avuto modo di chiarire che “allorché stabiliscono le misure di previdenza sociale, di assistenza sociale e di protezione sociale definite dalla loro legislazione nazionale e soggiacenti al principio della parità di trattamento sancito all’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, gli Stati membri devono rispettare i diritti ed osservare i principi previsti dalla Carta, segnatamente quelli enunciati all’articolo 34 di quest'ultima. Ai sensi del paragrafo 3 di tale articolo 34, al fine di lottare contro l'esclusione sociale e la povertà, l’Unione - e dunque gli Stati membri quando attuano il diritto di quest’ultima - riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all'assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell'Unione e le legislazioni e prassi nazionali”[20].
Questa, dunque, è la ragione per la quale l’art. 34 della Carta rimane in secondo piano rispetto al diritto derivato: è alla direttiva che occorre avere riguardo per dare risposta al quesito del giudice del rinvio.
Alla Corte non è addebitabile alcuna ritrosia ad affrontare il tema della efficacia diretta della Carta e, in particolare, del suo articolo 34. V’è, piuttosto, per la Corte di Giustizia, la necessità di dare atto dell’esistenza di una disciplina derivata del diritto dell’Unione (direttiva 2011/98, regolamento 884/2004) nelle situazioni concernenti l’accesso dei cittadini di Paesi terzi all’assistenza sociale.
E, d’altra parte, non è privo di importanza il fatto che i diritti fondamentali garantiti nell’ordinamento giuridico dell’Unione si applicano, ai sensi dell’art. 51 della Carta e dell’art. 6 del Trattato, in tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell’Unione, ma non al di fuori di esse[21].
6. Il diritto agli assegni di natalità e maternità nel segno dell’integrazione dei cittadini di Paesi terzi
La Corte ribadisce (p. 47) che gli Stati membri, quando adottano misure rientranti nell’ambito di applicazione di una direttiva che concretizza un diritto fondamentale previsto dalla Carta, devono agire nel rispetto di tale direttiva[22].
La sentenza in commento contiene (p. 48) l’importante affermazione secondo cui l’articolo 12, par. 1, della direttiva 2011/98, la quale concerne la procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico, che consente ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e stabilisce un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, si applica sia ai cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell'Unione o nazionale, sia ai cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall'attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento n. 1030/2002[23].
La portata della disposizione viene ricostruita (p. 49) valorizzando il considerando 20 della direttiva 2011/98, che, come osserva la Corte, non si limita a garantire la parità di trattamento ai titolari di un permesso unico di lavoro, ma si applica anche ai titolari di un permesso di soggiorno per fini diversi dall’attività lavorativa, che siano autorizzati a lavorare nello Stato membro ospitante.
L’ambito di applicazione del diritto alla parità di trattamento nell’ambito della sicurezza sociale è determinato, spiega la Corte (p. 47, 2° cpv), avuto riguardo al considerando 24 dal regolamento n. 883/2004, oggetto di esplicito richiamo dall’art. 12, par. 1, lett. e) della direttiva.
Come è noto, il regolamento[24], all’art. 3, par. 1, precisa l’ambito di applicazione ratione materiae dei settori di sicurezza sociale elencandoli puntualmente.
Ebbene, in ordine alla possibilità di ricomprendere nei settori della sicurezza sociale l’assegno di natalità e l’assegno di maternità, la Corte ricorda di avere già affermato che: 1) il criterio di distinzione tra prestazioni che rientrano nell’ambito di applicazione del Regolamento e quelle che ne sono escluse è basato “essenzialmente sugli elementi costitutivi di ciascuna prestazione, in particolare sulle sue finalità e sui presupposti per la sua concessione e non sul fatto che una prestazione sia qualificata o meno come previdenziale da una determinata normativa nazionale” (p. 52)[25]; 2) “una prestazione può essere considerata previdenziale se, da un lato, è attribuita ai beneficiari, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle loro esigenze personali, in base ad una situazione definita ex lege e se, dall'altro, si riferisce ad uno dei rischi espressamente elencati all'articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 883/2004” (p. 53)[26]; 3) “prestazioni attribuite automaticamente alle famiglie che rispondono a determinati criteri obiettivi riguardanti in particolare le loro dimensioni, il loro reddito e le loro risorse di capitale, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali, e destinate a compensare gli oneri familiari, devono essere considerate prestazioni previdenziali” (p.54)[27]; 4) “riguardo a prestazioni che siano accordate o negate o il cui importo sia calcolato tenendo conto dei redditi del beneficiario, che la concessione di prestazioni di tal genere non dipende dalla valutazione individuale delle esigenze personali del richiedente, trattandosi di un criterio oggettivo e legalmente definito che determina l'insorgere del diritto a tale prestazione senza che l'autorità competente possa tenere conto di altre circostanze personali” (p.55)[28]; 5) “affinché si possa escludere la sussistenza di detta condizione, occorre che la discrezionalità della valutazione, da parte dell'autorità competente, delle esigenze personali del beneficiario di una prestazione si riferisca anzitutto al sorgere del diritto alla prestazione stessa. Dette considerazioni valgono, mutatis mutandis, per quanto concerne il carattere individuale della valutazione, da parte dell'autorità competente, delle esigenze personali del beneficiario di una prestazione” (p. 56)[29].
Con riguardo alla questione se una data prestazione rientri tra le prestazioni familiari di cui all’articolo 3, par. 1, lett. j), del reg. 883/2004, la Corte osserva (p.57) che, ai sensi dell’articolo 1, lettera z), del medesimo regolamento, “l’espressione «prestazione familiare» indica tutte le prestazioni in natura o in denaro destinate a compensare i carichi familiari, ad esclusione degli anticipi sugli assegni alimentari e degli assegni speciali di nascita o di adozione menzionati nell'allegato I a tale regolamento. La Corte ha statuito che l’espressione «compensare i carichi familiari» deve essere interpretata nel senso che essa fa riferimento, in particolare, a un contributo pubblico al bilancio familiare, destinato ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento dei figli”[30].
Con specifico riguardo all’assegno di natalità, la Corte, alla luce degli elementi forniti dal giudice del rinvio, rileva (p. 58) che esso è concesso automaticamente ai nuclei familiari che rispondono a determinati criteri oggettivi definiti ex lege, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali del richiedente, senza che l'autorità competente, anche nella vigenza delle leggi che avevano ancorato la prestazione al mancato superamento di precisi limiti di reddito, possa (o potesse) tener conto di altre circostanze personali.
Inoltre, osserva (p. 59) che la prestazione si compendia nell’erogazione di una somma di denaro versata mensilmente dall'INPS ai suoi beneficiari e mira “segnatamente a contribuire alle spese derivanti dalla nascita o dall'adozione di un figlio. Si tratta, di conseguenza, di una prestazione in denaro destinata in particolare, mediante un contributo pubblico al bilancio familiare, ad alleviare gli oneri derivanti dal mantenimento di un figlio appena nato o adottato ai sensi della giurisprudenza richiamata al punto 57 della presente sentenza”.
E afferma, inoltre, che, poiché non ha mai figurato nella parte II dell’allegato I al Regolamento n. 883/2004, dedicata agli assegni speciali di nascita e di adozione, l’assegno di natalità non rientra nell’ambito di applicazione di tale allegato e che, pertanto, non può essere escluso dalla nozione di prestazioni familiari.
La Corte di Giustizia giunge, così, alla conclusione (p. 60) che l’assegno di natalità deve ricomprendersi tra le prestazioni familiari di cui all’art. 3, par. 1, lett. j), reg. 883/2004, escludendo ogni rilievo al fatto che esso assolva alla duplice funzione, evidenziata dal giudice di rinvio, di contributo alle spese derivanti dalla nascita o dall’adozione di un figlio e premiale (diretta ad incentivare la natalità), “posto che una di tali funzioni si riferisce al settore previdenziale di cui a tale disposizione”[31].
In ordine all’assegno di maternità, la Corte evidenzia , sulla scorta degli elementi forniti dal giudice del rinvio, che: “esso è concesso per ogni figlio nato o adottato, o per ogni minore in affidamento preadottivo, alle donne residenti in Italia, cittadine della Repubblica italiana o di un altro Stato membro o che siano titolari dello status di soggiornante di lungo periodo, a condizione che esse non beneficino di un'indennità di maternità connessa a rapporti di lavoro subordinato o autonomo o allo svolgimento di una libera professione e che le risorse del nucleo familiare di appartenenza della madre non siano superiori a un determinato importo” (p.61);
Rileva, poi, che l’assegno di maternità “è concesso automaticamente alle madri che rispondono a determinati criteri obiettivi definiti ex lege, prescindendo da ogni valutazione individuale e discrezionale delle esigenze personali dell'interessata. In particolare, l'assegno di maternità è concesso o negato tenendo conto, oltre che dell'assenza di un'indennità di maternità connessa a un rapporto di lavoro o allo svolgimento di una libera professione, delle risorse del nucleo di appartenenza della madre sulla base di un criterio obiettivo e definito ex lege, vale a dire l'indicatore della condizione economica, senza che l'autorità competente possa tener conto di altre circostanze personali. Dall'altro lato, esso si riferisce al settore della sicurezza sociale di cui all'articolo 3, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 883/2004” (p. 62)[32].
In conclusione, dopo avere affermato (p. 63) che sia l’assegno di natalità sia l’assegno di maternità rientrano nei settori della sicurezza sociale per i quali i cittadini dei paesi terzi di cui all’art. 3, par. 1, lett. b) e c), beneficiano del diritto alla parità di trattamento di cui all’art. 12 , par. 1, lett. e), di tale direttiva e (p.64), e dopo avere precisato che la Repubblica Italiana non si era avvalsa della facoltà concessa agli Stati membri di limitare la parità di trattamento, secondo quanto previsto dall’art. 12 , par. 2, lett. b), dir. 2011/98[33], giunge all’affermazione (p. 65) che l’articolo 12, par. 1, lett. e), dir. 2011/98 deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che esclude i cittadini di paesi terzi di cui all’articolo 3, par. 1, lett. b) e c), di tale direttiva dal beneficio di un assegno di natalità e di un assegno di maternità previsti da detta normativa.
7. Riflessioni conclusive
È indubbio che nell’ordinanza della Corte Costituzionale 182/2020 sia stato sottolineato, ancora una volta, in modo energico, risoluto e fiero, che alla Corte costituzionale spetta il compito di salvaguardare i diritti nella estensione massima, garantita dalla lettura delle disposizioni della Costituzione che vietano le discriminazioni arbitrarie e tutelano la maternità e l’infanzia (artt. 3 e 31 della Costituzione).
È, però, altrettanto innegabile che l’ordinanza abbia messo in risalto, con altrettanto fervore e genuina convinzione, come tale compito si svolga sotto la luce delle indicazioni vincolanti (artt. 11 e 117, c. 1, Cost.) offerte dal diritto dell’Unione Europea “che si riverberano sul costante evolvere dei precetti costituzionali in un rapporto di mutua implicazione e di feconda integrazione”.
È evidente, poi, che nella sentenza della Corte di Giustizia del 2 settembre 2021, l’applicazione non rigorosa dei presupposti di ricevibilità, effettuata in considerazione del ruolo della Corte Costituzionale, si salda con la manifestata intenzione di quest’ultima di collocarsi nel quadro “di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, nel quale le Corti sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di Giustizia ..affinché sia assicurata la massima salvaguardia dei diritti a livello sistemico…” e di garantire, attraverso l’intervento chiarificatore della Corte di Giustizia la “uniforme interpretazione dei diritti e degli obblighi che discendono dal diritto dell’Unione”.
La pace tra le due Corti è fatta e il filo del dialogo, logorato dalla sentenza n. 269 del 2017 della Corte Costituzionale, già riannodatosi per effetto delle sentenze successive, si è irrobustito e impreziosito della riconosciuta “feconda integrazione e mutua implicazione” tra il diritto dell’Unione e i precetti costituzionali che si evolvono alla luce offerta dal primo.
Non è di poco conto il fatto che la pace sia intervenuta nel territorio difficile della sicurezza sociale perché soltanto la “feconda integrazione” e la “mutua implicazione” tra il diritto dell’Unione e quello nazionale, nelle applicazioni giurisprudenziali della Corte di Giustizia e delle Corti Costituzionali, sono in grado di rendere meno accidentato il percorso di riconoscimento dei diritti fondamentali in un settore, quale quello della sicurezza sociale, nel quale la CDFUE molto spazio di manovra lascia agli Stati membri.
Ed è proprio questo margine di manovra, a giudizio di chi scrive, che ha impedito alla Corte di Giustizia di dare al quesito posto dalla Corte Costituzionale una risposta storica, o se si vuole epocale, carattere ravvisato[34], invece, nelle recenti sentenze della Corte di Giustizia sulle ferie, che sono giunte alla dichiarata applicabilità diretta, anche a livello orizzontale dell’art. 31 par. 2 della Carta.
Con riguardo alle ferie, infatti, l’applicabilità diretta ed orizzontale poteva farsi derivare ex se dalla natura incondizionata e precisa dalla norma, caratteri non ravvisabili in nessuna delle disposizioni contenute nell’art. 34 che utilizzano la formula “secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali” (par. 1 e 3) ovvero “conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali” (par. 2).
Infine, alla sentenza della Corte di Giustizia va riconosciuto il merito di avere aggiunto un importante tassello nella tutela del diritto alla parità di trattamento dei cittadini di Paesi terzi legalmente soggiornanti quanto all’accesso alle prestazioni sociali di cui al Regolamento n. 883/2004. Essa, infatti, dà continuità alle precedenti sentenze che hanno posto l’accento “sul fatto che l’integrazione dei cittadini di paesi terzi si realizza anche garantendo loro un trattamento equo grazie alla previsione di un insieme comune di diritti, basato sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante” e hanno riconosciuto che i cittadini di paesi terzi contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte e che la parità di trattamento nel settore della sicurezza sociale è in grado di fungere “da garanzia per ridurre la concorrenza sleale tra i cittadini di uno Stato membro e i cittadini di paesi terzi derivante dall’eventuale sfruttamento di questi ultimi” [35].
[1] Il d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 - Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. all’art. 9 Permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo dispone al comma 1 che “1. Lo straniero in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità, che dimostra la disponibilità di un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale e, nel caso di richiesta relativa ai familiari, di un reddito sufficiente secondo i parametri indicati nell'articolo 29, comma 3, lettera b) e di un alloggio idoneo che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica ovvero che sia fornito dei requisiti di idoneità igienico-sanitaria accertati dall'Azienda unità sanitaria locale competente per territorio, può chiedere al questore il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, per sé e per i familiari di cui all'articolo 29, comma 1.
Il medesimo decreto all’ art. 41 - Assistenza sociale - (Legge 6 marzo 1998, n. 40, art. 39) : prevede “ 1. Gli stranieri titolari della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, nonchè i minori iscritti nella loro carta di soggiorno o nel loro permesso di soggiorno, sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale, incluse quelle previste per coloro che sono affetti da morbo di Hansen o da tubercolosi, per i sordomuti, per i ciechi civili, per gli invalidi civili e per gli indigenti”.
[2] Il d. lgs. 26 marzo 2001 n. 151 , art. 74 - Assegno di maternità di base - dispone che “Per ogni figlio nato dal 1 gennaio 2001, o per ogni minore in affidamento preadottivo o in adozione senza affidamento dalla stessa data, alle donne residenti, cittadine italiane o comunitarie o in possesso di carta di soggiorno ai sensi dell'articolo 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, che non beneficiano dell'indennità di cui agli articoli 22, 66 e 70 del presente testo unico, è concesso un assegno di maternità pari a complessive L. 2.500.000. 2. Ai trattamenti di maternità corrispondono anche i trattamenti economici di maternità corrisposti da datori di lavoro non tenuti al versamento dei contributi di maternità”.
[3] La legge 23 dicembre 2014, n. 190, art. 1 c. 125 ha riconosciuto, “per ogni figlio nato o adottato tra il 1º gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017 un assegno di importo pari a 960 euro annui erogato mensilmente a decorrere dal mese di nascita o adozione, da corrispondersi sino compimento del terzo anno di età ovvero del terzo anno di ingresso nel nucleo familiare a seguito dell'adozione, per i figli di cittadini italiani o di uno Stato membro dell'Unione europea o di cittadini di Stati extracomunitari con permesso di soggiorno di cui all'articolo 9 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, residenti in Italia e a condizione che il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente l'assegno sia in una condizione economica corrispondente a un valore dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), stabilito ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 dicembre 2013, n. 159, non superiore a 25.000 euro annui. Ove il nucleo familiare di appartenenza del genitore richiedente l’assegno sia in una condizione economica corrispondente ad un valore ISE non superiore ai 7.000,00 annui, l’importo di €860,00 è raddoppiato”.
Norme di legge successive (art. 1 c. 248 L 27 dicembre 2017 n. 205, art. 23-quater d.l. 23 ottobre 2018 n. 119 conv. con mod. in l. 17 dicembre 2018, art. 1 c. 340 legge 27 dicembre 2019 n. 160), hanno confermato l’ attribuzione del beneficio per il più limitato periodo di un anno (dalla nascita o dall’ingresso nella famiglia di adozione) , per i figli nati da ultimo dal 1 gennaio 2020 al 31 dicembre 2020, di importo variabile in relazione alle condizioni economiche del nucleo familiare. L’art. 1, comma 362, legge 30 dicembre 2020, n. 178 ha confermato la prestazione, istituita dalla legge 23 dicembre 2014, n. 190, anche per ogni figlio nato/adottato/in affidamento preadottivo nel corso del 2021.
[4] Cfr. Corte cost. n. 20/2019; Corte cost. 63/2019; Corte cost. 112/2019; Corte cost. 117/2019, antecedenti alle ordinanze della Corte di Cassazione; successivamente cfr. Corte cost. 146/2020; Corte cost. 152/2020; Corte cost. 173/2020; Corte cost. 182/2020, tutte in Italgiureweb.
[5] Sulle affermazioni contenute nella sentenza n. 269 del 2017, tra gli innumerevoli commenti, cfr. A. Cosentino, La Carta di Nizza nella giurisprudenza di legittimità dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 2017, in http://www.osservatoriosullefonti.it; A. Cosentino, Doppia pregiudizialità, ordine delle questioni, disordine delle idee, in http://questione giustizia.it; F. De Stefano, Diritto dell’Unione europea e doppia pregiudizialità nel dialogo tra le corti (seconda parte), in http://giustiziainsieme.it; R. Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, in http://giustiziainsieme.it. .
[6] Tutte in Italgiureweb.
[7] Tutte in Italgiureweb.
[8] Corte costit. n. 269/2017; Corte cost. n. 20/2019, tutte in Italgiurewe.b
[9] CGUE 15 aprile 2008 C-268/08, Impact, pp.41 e 42, ha chiarito che, nel periodo di tempo che intercorre tra l’entrata in vigore della direttiva e la scadenza del termine per la sua attuazione, sui giudici interni grava l’obbligo di astenersi da qualunque forma di interpretazione ed applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare, dopo la scadenza del termine di attuazione, la messa in pericolo della realizzazione del risultato voluto dalla direttiva; si legga anche CGUE 5 ottobre 2004, Cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Bernhard Pfeiffer e altri, p. 111, entrambe in https://eur-lex.europa.eu. .
[10] Si leggano anche Corte cost. n. 5/2019; Corte cost. n. 13/2019; Corte Cost. n. 20/2019; Corte Cost. n. 117/2019, in Italgiureweb.
[11] Sul punto, cfr. CGUE 10 dicembre 2020 causa C-220/20; CGUE 26 febbraio 2013, causa c-617/10, in https://eur-lex.europa.eu.
[12] Sul punto cfr. S.Giubboni - L’accesso all’assistenza sociale degli stranieri alla luce (fioca) dell’art. 34 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (a margine di un recente rinvio pregiudiziale della Corte Costituzionale), in Giur. Cost., fasc. 4, 2020. L’autore manifesta perplessità sulla formulazione del quesito che pone al centro l’art. 34 della Carta, definite tra le più neglette e, nel contestare, condivisibilmente a parere di chi scrive, la correttezza della formulazione del quesito che ha invertito i termini della questione, opina, in termini dubitativi (probabilmente), che la decisione della Corte Costituzionale e, prima, della Corte di Cassazione, è stata ispirata dall’uso dell’art. 34 della Carta nella sentenza fatto da CGUE 24 aprile 2012, C-571/10, Kamberaj.; D. Gatto e A. Nato L’accesso agli assegni di natalità e maternità per i cittadini di Paesi terzi titolari di permesso unico nell’ordinanza n. 182/2020 della Corte Costituzionale, in http://www.rivista.eurojus.it n. 4/2020, che, alla luce dell’ art. 51 della Carta, manifestano seri dubbi sulla opportunità della scelta della Corte Costituzionale di non limitarsi al diritto derivato ma di porre al centro del rinvio l’art. 34 della stessa Carta; S. Giubboni, L’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale dei cittadini di Paesi terzi nel “dialogo” tra le Corti, in http://www.lavorodirittieuropa.it n. 1/2021.
[13] CGUE 8 dicembre 2020, causa C-584/19, A. e a., pp. da 33 a 36, in https://eur-lex.europa.eu.
[14] CGUE 13 novembre 2018, Cepelnik, C-33/17, richiamata dalla Corte; si legga anche CGUE 24 aprile 2012, causa C-571/10, in materia di parità di trattamento di cittadini terzi con riguardo a prestazioni assistenziali, tutte in https://eur-lex.europa.eu.
[15] La Corte di Giustizia ha richiamato la sentenza CGUE 5 febbraio 2004, C-157/02, Rieser Internationale Transporte , pp 67 e 68 per precisare “che una direttiva non può, certamente essere invocata dai privati per fatti anteriori al suo recepimento al fine di vedere disapplicate disposizioni nazionali preesistenti che sarebbero contrarie a tale direttiva”.
[16] Corte cost. n. 190/2020; Corte cost. 254/2020; Corte cost. 278/2020; Corte costit. 30/2021; Corte cost. n. sentenza 45/2021; Corte cost. 45/2021; Corte cost. 33/2021, in quest’ultima si legge che “L’omessa motivazione del rimettente sulla riconducibilità della questione all’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea ai sensi dell’art. 51 della Carta dei diritti fondamentali – ciò che condiziona la sua stessa applicabilità – non esclude che le norme del catalogo sovranazionale possano essere comunque tenute in considerazione come criteri interpretativi degli altri parametri, costituzionali e internazionali, invocati dal rimettente”, tutte in Italgiureweb.
[17] Corte cost. n. 190 / 2020, in Italgiureweb.
[18] Corte cost. n. 254/2020; Corte cost. 278/2020; Corte cost. 30/ 2021; Corte cost. 33/2021, tutte in Italgiureweb.
[19] CGUE 18 dicembre 2019, causa C-447/18, UB, par. 35, in https://eur-lex.europa.eu.
[20] CGUE 24 aprile 2012, causa C-571/10, Kamberaj , par. 80, in https://eur-lex.europa.eu.
[21] Sulla interpretazione dell’art. 51 della Carta, cfr. CGUE sentenza 26 ottobre 2013, causa C- 617/10, Åkerberg Fransson (par. 19) che, sulla base delle spiegazioni alla Carta, parla di “applicabilità agli Stati quando agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, quindi in un contesto disciplinato da questo ma non necessariamente con riferimento alla fattispecie esaminata concretamente in via giudiziaria”, ha ritenuto applicabile la Carta agli Stati membri sulla base della sussistenza tra le norme interne e il diritto dell’Unione di un mero rapporto indiretto, di un collegamento generico e connesso al solo fatto di una di una competenza esercitata dall’Unione; cfr. anche CGUE 16 maggio 2017, causa C -682/2017, Berlios, tutte in https://eur-lex.europa.eu.; in sintonia, cfr. Corte cost. n. 239/2019; Corte cost. 263/2019; Corte cost. 271/2019 precisa che le censure di violazione della Carta dei diritti fondamentali non possono essere esaminate qualora il rimettente non indichi le ragioni per le quali si dovrebbe ritenere che la questione ricada nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione ai sensi dell’art. 51, par. 1, della stessa Carta, tutte in Italgiureweb.
[22] La sentenza in commento richiama CGUE 11 novembre 2014, causa C-530/13, Schmitzer, in https://eur-lex.europa.eu.
[23] Il Regolamento (CE) n. 1030/2002 del Consiglio, del 13 giugno 2002, che istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di paesi terzi, è stato modificato da Regolamento (CE) n. 380/2008 del Consiglio del 18 aprile 2008.
[24] Sulla nozione di prestazioni di sicurezza sociale assoggettate al principio di parità di trattamento e non discriminazione, cfr. CGE, 13 novembre 1974, causa C-39/74, Costa; CGE, 5 maggio 1983, causa C-139/82, Piscitello, CGE, 24 febbraio 1987, cause riunite C-379-381/85 e C-93/86, Giletti, ivi, 1987, I, 955; CGE 20 giugno 1991, causa C-356/89, Stanton-Newton, tutte in https://eur-lex.europa.eu.
[25] La Corte richiama CGUE 21 giugno 2017, causa C-449/16, Martinez Silva (p.20) e CGUE 2 aprile 2020, causa C-802/18, Caisse pour l’avenir des enfants (p. 35), tutte in https://eur-lex.europa.eu.
[26] La Corte richiama CGUE 21 giugno 2017, causa C-449/16, Martinez Silva (p.20) e CGUE 2 aprile 2020, causa C-802/18, Caisse pour l’avenir des enfants (p. 36), tutte in https://eur-lex.europa.eu.
[27] La Corte richiama CGUE 21 giugno 2017, causa C-449/16, Martinez Silva (p.20) e CGUE 2 aprile 2020, causa C-802/18, Caisse pour l’avenir des enfants (p. 37), tutte in https://eur-lex.europa.eu.
[28] La Corte richiama CGUE 12 marzo 2020, Caisse d'assurance retraite et de la santé au travail d'Alsace-Moselle, C-769/18 (p. 28), in https://eur-lex.europa.eu.
[29] La Corte richiama CGUE 12 marzo 2020, Caisse d'assurance retraite et de la santé au travail d'Alsace-Moselle, C-769/18 (p. 29), in https://eur-lex.europa.eu.
[30] La Corte richiama CGUE 2 aprile 2020, Causa C-802/18, Caisse pour l'avenir des enfants (p.38), in https://eur-lex.europa.eu.
[31] La Corte richiama CGUE 16 luglio 1992, causa C -78/91, Hughes, C-78/91 (p.n. 19 e p. n. 20) e CGUE 15 marzo 2001, causa C-85/99, Offermanns (p. 45), in https://eur-lex.europa.eu.
[32] Tale disposizione indica espressamente “le prestazioni di maternità e di paternità assimilate”.
[33] CGUE 25 novembre 2020, cause C -302/19 Istituto Nazionale della Previdenza Sociale-WS, concernente la direttiva 2011/98; CGUE 25 novembre 2020 , C-303/19, Istituto Nazionale della Previdenza Sociale-VR, relativa alla direttiva 2003/109, con le quali la Corte di Giustizia, in continuità con le sentenze 24 aprile 2012, C571/10, Kamberaj, 21 giugno 2017, C-449/16, Martinez Silva, ha affermato che le deroghe al diritto alla parità di trattamento previste dalle direttive 2011/98 e 2003/2019 possono essere invocate solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano espresso l’intenzione di avvalersene., in https://eur-lex.europa.eu.
[34] G. Bronzini, “Trittico” della Corte di giustizia sul diritto alle ferie nel rilancio della Carta di Nizza, in Federalismi.it, 22 maggio 2019.
[35] CGUE C-302/19 ha affermato che la direttiva 2011/98 “tende a favorire l’integrazione dei cittadini di paesi terzi garantendo loro un trattamento equo grazie alla previsione di un insieme comune di diritti, basato sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante. La direttiva mira altresì a creare condizioni uniformi minime nell’Unione, a riconoscere che i cittadini di paesi terzi contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte e a fungere da garanzia per ridurre la concorrenza sleale tra i cittadini di uno Stato membro e i cittadini di paesi terzi derivante dall’eventuale sfruttamento di questi ultimi”. CGUE C-303/19, relativa alla direttiva 2003/19 ha affermato che quest’ultima tende a garantire l’integrazione dei cittadini di paesi terzi stabilitisi legalmente e a titolo duraturo negli Stati membri e, a tal fine, ad avvicinare i diritti di tali cittadini a quelli di cui godono i cittadini dell’Unione, in particolare assicurando la parità di trattamento con questi ultimi in una vasta gamma di settori economici e sociali. Lo status di soggiornante di lungo periodo permette quindi alla persona cui è attribuito di godere della parità di trattamento nei settori di cui all’articolo 11 della direttiva 2003/109, alle condizioni previste da tale articolo, tutte in https://eur-lex.europa.eu.