Il punto sulla disciplina dell’obbligo vaccinale nel rapporto di lavoro
Considerazioni all’indomani della conversione del decreto legge 44/2021
di Marcello Basilico
La conversione del decreto legge 44/2021 avvenuta con la legge 28 maggio 2021, n. 76, ha apportato poche modifiche alla disciplina dell’obbligo vaccinale e, tra queste, una sola di caratura essenziale. Restano aperti perciò non pochi interrogativi sollevati dal congegno normativo. Alcuni di questi interferiscono col piano applicativo, Altri sono di sistema e rendono dubbia l’utilità stessa dell’introduzione dell’obbligo di fronte alle perduranti incertezze.
Sommario: 1. La conversione del d.l. 44/2021 - 2. L’identificazione dei soggetti obbligati - 3. Gli effetti della violazione dell’obbligo vaccinale sul rapporto di lavoro - 4. La sospensione dal servizio per effetto del rifiuto - 5. L’asserita neutralità disciplinare dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale - 6. I lavoratori espressamente esentati. - 7. Gli effetti dell’art. 4 sullo spettro degli obblighi datoriali di sicurezza - 8. La posizione dei lavoratori non ricompresi nelle categorie dei soggetti obbligati.
1. La conversione del d.l. 44/2021
La conversione del d.l. 44/2021 ad opera della legge 28 maggio 2021, n. 76 [[1]] è l’occasione per fare il punto sul dibattito sorto alla vigilia e sviluppatosi durante i due mesi di vigenza dell’obbligo vaccinale introdotto dall’art. 4 del decreto legge. E’ un dibattito che evidentemente non ha avuto la stessa fortuna di quello antecedente alla norma, il quale aveva sortito la scelta d’intervenire nella materia con disposizioni cogenti di fonte primaria.
Il legislatore si è appagato della disciplina introdotta in via d’urgenza, quasi insensibile alle molteplici sollecitazioni venute nelle settimane scorse affinché se ne rivedessero alcuni passaggi.
Le novità apportate in sede parlamentare al testo governativo sono infatti poche e prevalentemente di carattere formale, alcune addirittura schiettamente grammaticali. Sono correzioni che dimostrano, una volta di più, la precipitazione con cui si era provveduto alla stesura originaria, nella convinzione che l’intervento precettivo potesse avere un ruolo determinante nella corsa contro il tempo della campagna vaccinale.
Le integrazioni di portata sostanziale venute della conversione sono due. La prima concerne l’identificazione dei destinatari dell’obbligo vaccinale, in particolare la controversa categoria degli “operatori di interesse sanitario”. Sarà bene trattarne a parte.
La seconda novità è data dalla soppressione del termine “differimento” nel quinto comma dell’art. 4, a proposito dei contenuti possibili della documentazione che l’ASL può richiedere ai soggetti che le risultino non vaccinati. Il termine è parte dell’endiadi contenuta nel secondo comma, relativo ai casi d’insussistenza dell’obbligo per accertato pericolo per la salute (casi nei quali la vaccinazione può dunque essere, appunto, “omessa o differita”).
Si è ritenuto quindi irrilevante per l’autorità sanitaria la conoscenza in tali ipotesi dell’eventuale dilazione della somministrazione, essendo di per sé decisiva – nell’economia della campagna e dei profili organizzativi che derivano dal suo stato di avanzamento – la notizia che il soggetto sia esentato dal vincolo.
Di fronte ad una correzione tanto minuta ci si può rammaricare del fatto che il legislatore non abbia prestato uguale attenzione nel colmare la lacuna, da più parti segnalata [[2]], della mancata previsione della segnalazione a ordini professionali e datori di lavoro, a opera dell’ASL, dei soggetti dispensati dall’obbligo vaccinale, in parallelismo con quanto invece prescritto dal sesto comma dell’art. 4 per i soggetti inadempienti.
Per gli uni non meno che per gli altri la mancata sottoposizione alla vaccinazione comporta l’adozione di misure specifiche: i commi decimo e undicesimo dell’art. 4 enunciano quelle dovute per, rispettivamente, i lavoratori o i professionisti che siano risultati esentati. L’omessa prescrizione della comunicazione è quindi frutto d’un difetto di coordinamento nella disciplina dei percorsi procedimentali per le due categorie, difetto risolvibile mutando la previsione del sesto comma.
È inevitabile quindi che l’ASL debba comunicare a datori di lavoro e ordini professionali anche i nominativi degli esentati. Questa soluzione non è priva di significato in un quadro reso delicato dalle questioni di tutela della riservatezza che investono non solo l’identità di chi abbia avuto o meno la somministrazione del vaccino, ma prima ancora le condizioni cliniche della persona dispensata per ciò dal relativo obbligo.
2. L’identificazione dei soggetti obbligati
Il primo comma dell’art. 4 d.l. 44/2021 obbliga a vaccinarsi “gli esercenti le professioni sanitarie” e “gli operatori di interesse sanitario”. L’identificazione delle due categorie è precisata da un criterio oggettivo-geografico, costituito dallo svolgimento delle rispettive attività “nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali”. Non sembrano esservi dubbi sul fatto che questa locuzione sia riferibile a entrambe le categorie, dunque anche agli esercenti le professioni sanitarie, poiché, in caso contrario, si registrerebbe l’imposizione dell’obbligo anche in assenza delle finalità, enunciate nella premessa del precetto legislativo, di tutela della salute pubblica e del mantenimento delle adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza.
Gli esercenti le professioni sanitarie coincidono con gli iscritti agli albi professionali previsti dall’art. 4, primo comma, della legge 11 gennaio 2018, n. 3 (si tratta di medici-chirurghi; odontoiatri; veterinari; farmacisti; biologi; fisici; chimici; esercenti le professioni infermieristiche e di ostetrica; tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione).
Più complicata è sin da subito risultata l’operazione d’individuazione degli operatori di interesse sanitario. La legge di conversione si è data carico di sanare questa incertezza interpretativa, inserendo la locuzione “di cui all’articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43”.
Quest’ultima è la disposizione che affida alle Regioni l’individuazione (e la formazione) dei profili di operatori di interesse sanitario non riconducibili alle professioni sanitare definite dal primo comma dello stesso art. 1 l. 43/2006. Tale norma regolamenta le professioni sanitarie infermieristiche, di ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione, quelle previste ai sensi della legge 10 agosto 2000, n. 251, e del decreto del Ministro della sanità 29 marzo 2001, i cui operatori svolgono, in forza di un titolo abilitante rilasciato dallo Stato, attività di prevenzione, assistenza, cura o riabilitazione. In forza del richiamo al DM 29.3.2001, rientrano tra gli esercenti le professioni sanitarie dell’art. 1 l. 43/2006 anche: podologi; fisioterapisti; logopedisti; ortottisti - assistenti di oftalmologia; terapisti della neuro e psicomotricità dell'età evolutiva; tecnici della riabilitazione psichiatrica; terapisti occupazionali; educatori professionali; tecnico audiometrista; tecnici sanitari di laboratorio biomedico; tecnici sanitari di radiologia medica; tecnici di neurofisiopatologia; tecnici ortopedici; tecnici audioprotesisti; tecnici della fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare; igienisti dentali; dietisti; tecnici della prevenzione nell'ambiente e nei luoghi di lavoro; nonché assistenti sanitari.
La modifica così apportata in sede di conversione conferma da un lato l’intento legislativo di richiedere una lettura formale delle categorie destinatarie dell’obbligo vaccinale, nel rispetto della riserva di legge dell’art. 32, secondo comma, Cost. e del carattere di stretta interpretazione delle disposizioni che deroghino al principio dell’autodeterminazione dell’individuo nella sottoposizione a trattamenti sanitari [[3]].
D’altra parte però, il rinvio normativo non sembra perspicuo. Il primo comma dell’art. 1 l. 43/2006 identifica con precisione molti “operatori di professioni sanitarie” che non potevano probabilmente dirsi ricompresi nella formulazione originaria dell’art. 4, primo comma, d.l. 44/2021. Il rinvio rivolto invece al secondo comma – dunque alla competenza regionale di individuare operatori d’interesse sanitario diversi da quelli definiti come “operatori di professioni sanitarie” – dà campo alle incertezze sull’estensione effettiva della platea dei destinatari dell’obbligo.
Per di più l’allargamento eventuale risulta rimesso alla legislazione regionale, col rischio di andare a collidere con l’esigenza di uniformità della disciplina vaccinale sul territorio nazionale, che è connaturata alla garanzia del diritto della persona di essere curata efficacemente in condizioni di eguaglianza in tutto il Paese [[4]].
Pur nella sua approssimazione, la novità legislativa ha almeno un chiaro effetto indiretto, poiché rende insostenibile la tesi che avrebbe voluto identificare gli “operatori di interesse sanitario” sulla base di un’interpretazione teleologica o comunque basata su criteri esterni alla locuzione normativa, come quello riferito al rischio ambientale [[5]]. Muovendo dalla finalità di tutela della salute pubblica proclamata dal legislatore, si era ricercata una lettura di quella locuzione che valorizzasse il luogo della prestazione e i contatti interpersonali indotti, piuttosto che la categoria professionale di appartenenza, così da comprendere tra i soggetti obbligati figure come l’addetto alla mensa o alle pulizie in una struttura ospedaliera.
Questa tesi, mirando alla massima efficacia dell’obbligo vaccinale, rischiava di espandere oltremisura la nozione di operatori di interesse sanitario. Essa non trova certamente spazio nel nuovo dettato normativo, così come integrato dal rinvio a un fonte di diritto positivo.
Rimane il problema del mancato coinvolgimento di ampie fasce di lavoratori che certamente non possono annoverarsi tra le categorie di soggetti obbligati e che pur tuttavia svolgono, talvolta non meno di questi, le loro attività nelle strutture alla cui sicurezza mira l’imposizione dell’obbligo vaccinale.
3. Gli effetti della violazione dell’obbligo vaccinale sul rapporto di lavoro
In coerenza con gli obiettivi esposti in premessa, l’art. 4 rende l’autorità sanitaria (Regione e ASL) depositaria del “requisito essenziale” per l’esercizio del diritto allo svolgimento delle prestazioni di lavoro negli ambienti elencati, requisito rappresentato dall’assolvimento dell’obbligo vaccinale.
L’atto di accertamento (art. 4, sesto comma) della sua inosservanza comporta la sospensione di quel diritto. Viene così a configurarsi una situazione di factum principis ostativa all’attività del singolo lavoratore che, per espressa disposizione di legge, non esonera il datore di lavoro dalla prova dell’impossibilità di adibire il dipendente a mansioni diverse.
Il meccanismo previsto dall’ottavo comma dell’art. 4 – attribuzione, ove possibile, di mansioni anche inferiori e sospensione dal servizio come extrema ratio – deroga quindi alle regole generali introdotte per via giurisprudenziale, che riconducono le fattispecie analoghe all’impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1463 c.c.) [[6]]. Anche quando l’impossibilità sia solo parziale (art. 1464 c.c.), il datore di lavoro è ammesso a provare di non avere più interesse apprezzabile all’adempimento, dunque alla prosecuzione del rapporto lavorativo, in assenza del titolo abilitativo, perché il suo venire meno configuri un giustificato motivo oggettivo di licenziamento [[7]].
Di fronte alla violazione dell’obbligo vaccinale il datore di lavoro ha invece un margine di discrezionalità analogo – nella sottolineatura dell’inciso “ove possibile” – a quello riconosciuto dalle norme che gli affidano il delicato bilanciamento tra diritto alla salute (nell’accezione individuale) e diritto dell’imprenditore ad auto organizzarsi. Si pensi ai casi regolati dagli artt. 33, quinto comma, l. 104/92 o 42 d. lgs. 81/2008.
La perdita del requisito previsto dall’art. 4 d.l. 44/2021 configura quindi, per i soggetti obbligati, un’inidoneità parziale e temporanea (stante il termine di scadenza del vincolo) alla prestazione lavorativa.
Lo spazio dell’eventuale controllo giudiziale sulla scelta datoriale, qualora il lavoratore contesti l’esistenza inesplorata d’una possibilità di sua assegnazione a diverse mansioni, è limitato alla ragionevolezza della soluzione, che è altrimenti insindacabile [[8]]. Nell’impiego pubblico la verifica sarà facilitata dall’esistenza della pianta organica, che consente una vaglio immediato sull’esistenza o meno di posizioni disponibili; nel lavoro privato lo spazio per un’utile ricollocazione andrà ricercato secondo un criterio di compatibilità con l’organizzazione che l’imprenditore si era dato precedentemente, non potendosi di certo pretenderne la modifica in ragione del rifiuto del dipendente a sottoporsi alla vaccinazione.
È evidente che, tra le soluzioni praticabili in concreto, non può esservi quella di adibire il lavoratore refrattario ad altre mansioni che implichino comunque “contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2” (art. 4, sesto comma). Nelle strutture sanitarie o parificate di non grandi dimensioni la ricollocazione può risultare dunque assai problematica, soprattutto quando i rifiuti risultino numerosi.
È prevedibile che l’esistenza del rischio espositivo nelle diverse mansioni possa costituire una fonte di possibile contestazione. Il datore di lavoro dovrà dimostrarla per provare l’impossibilità di riposizionamento del dipendente. A questo riguardo potrebbe rivelarsi decisivo l’opportuno aggiornamento del documento aziendale di valutazione dei rischi [[9]].
4. La sospensione dal servizio per effetto del rifiuto
Nel meccanismo legislativo dell’art. 4 d. l. 44/2021 l’impossibilità di assegnazione del lavoratore a posizioni alternative, in conseguenza della sua inosservanza all’obbligo vaccinale, comporta la sospensione dal servizio, senza diritto a retribuzione o compenso di sorta (art. 4, ottavo comma).
La durata di questo provvedimento è predeterminata: “fino all’assolvimento dell’obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021”. Poiché suo presupposto è comunque l’impossibilità di assegnazione del lavoratore a mansioni diverse, questi potrebbe rivendicare a buon diritto la cessazione anticipata della sospensione qualora nell’azienda si realizzino le condizioni per tale assegnazione.
La qualificazione della vaccinazione come requisito essenziale per la prestazione fa dubitare del fatto che essa possa costituire anche un requisito per l’assunzione e che dunque il datore di lavoro pubblico o privato sia legittimato a negare la partecipazione ad una selezione di chi ne sia sprovvisto. Il tema s’intreccia col diritto dell’aspirante alla riservatezza sul proprio stato.
È noto che, secondo il Garante della protezione dei dati personali, “non è comunque consentito al datore di lavoro raccogliere, direttamente dagli interessati, tramite il medico compente, altri professionisti sanitari o strutture sanitarie, informazioni in merito a tutti gli aspetti relativi alla vaccinazione, ivi compresa l’intenzione o meno della lavoratrice e del lavoratore di aderire alla campagna, alla avvenuta somministrazione (o meno) del vaccino e ad altri dati relativi alle condizioni di salute del lavoratore” [[10]].
La presenza di questa raccomandazione unitamente alla considerazione del carattere temporaneo della disciplina in esame, porterebbero ad escludere che l’osservanza dell’obbligo vaccinale possa configurare un requisito essenziale per l’assunzione. L’opinione non è unanime, poiché è controversa la premessa stessa sull’inesistenza del diritto del datore di lavoro di chiedere al medico competente l’accertamento sull’idoneità del lavoratore alla prestazione [[11]].
Un argomento ulteriormente spendibile per la tesi contraria alla richiesta della vaccinazione ai fini dell’assunzione viene dalla comune opinione che esclude la rilevanza disciplinare del rifiuto di sottoporvisi. L’individuazione della sospensione temporanea del rapporto come soluzione estrema ne sarebbe la dimostrazione [[12]]. E’ un convincimento che merita tuttavia un approfondimento.
5. L’asserita neutralità disciplinare dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale
Prima che l’obbligo vaccinale venisse espressamente sancito dall’art. 4 d.l. 44/2021 v’era stato chi riteneva che esso fosse desumibile per alcune categorie di lavoratori, come medici e infermieri, dal loro codice deontologico e per altre in base alla necessità di garantire la sicurezza del loro ambiente di lavoro; in entrambe le ipotesi il vincolo andrebbe ricondotto alle regole integranti gli obblighi assunti col contratto di lavoro [[13]]. In una prospettiva di massima responsabilizzazione nello scenario della pandemia, si era quindi affermato che il rifiuto del vaccino come misura di sicurezza potesse configurare non una mera inidoneità professionale, incidente sul piano oggettivo della possibilità della prestazione, ma renitenza agli obblighi di protezione posti dal contratto di lavoro, rilevante sul piano disciplinare [[14]].
A ben vedere, nel dovere di diligenza imposto al lavoratore subordinato (art. 2104 c.c.) rientrano i comportamenti accessori funzionali alla resa d’una prestazione utile [[15]]. La violazione di queste regole di condotta ha rilievo disciplinare anche quando sia idonea a produrre un pregiudizio potenziale per la strutturazione aziendale [[16]]. Rientra certamente in questa ipotesi il rifiuto del lavoratore di osservare le misure di sicurezza richieste dall’imprenditore in ragione delle particolarità dell’attività esercitata, quando tale rifiuto sia suscettibile di mettere a repentaglio non solo la responsabilità, ma anche l’assetto organizzativo datoriale.
L’art. 4 d.l. 44/2021 ha enucleato le condotte cui il datore di lavoro deve attenersi, nel caso dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale del dipendente, sul piano dell’esercizio da parte sua delle facoltà riconducibili allo jus variandi. Si tratta di effetti di quell’inosservanza posti tutti sul piano oggettivo.
Sembra difficile però sostenere che un rifiuto ingiustificato di sottoporsi alla vaccinazione possa essere, soprattutto in alcune condizioni specifiche, del tutto privo di rilevanza al (diverso) livello disciplinare, tanto più una volta che il lavoratore si dimostri consapevole delle complicazioni che la propria condotta comporta per l’organizzazione datoriale.
Escludendo che tale rifiuto possa configurare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, il legislatore ha inviato un messaggio tale da impedire di ravvisarvi la ragione per l’applicazione d’una sanzione espulsiva. Resta dubbio, però, che esso sia del tutto neutro sul piano disciplinare.
Il tema è stato sino ad oggi eluso dalla gran parte dei commentatori, dato che l’intervento legislativo ha perseguito con chiarezza l’obiettivo di raffreddare una materia politicamente e ideologicamente bollente. Ma se si muove da premesse che attengono alla natura della vaccinazione come misura di sicurezza nell’ambiente di lavoro e ai correlati doveri di osservanza in capo ai lavoratori [[17]], non si può non considerarne le conseguenze sul versante disciplinare, confidando che la riflessione resti confinata nell’ambito meramente teoretico.
6. I lavoratori espressamente esentati
Per chi, pur rientrando nelle categorie dell’art. 4, primo comma, dimostri che la vaccinazione potrebbe causare un pericolo alla suaa salute, le conseguenze della mancata somministrazione sono rappresentate dall’assegnazione di mansioni diverse (commi secondo e nono) o, nel caso del lavoratore autonomo, dall’adozione di misure di prevenzione igienico-sanitario identificate specificamente per via protocollare (commi secondo e decimo). In ogni caso egli non può subire decurtazione alcuna della retribuzione.
Questa differenza rispetto alla posizione dei lavoratori renitenti concorre a dimostrare come il rifiuto non sia neutro, sul piano degli effetti soggettivi, neppure per il legislatore. Non a caso v’è chi, nel tracciare la distinzione tra i due regimi normativi, parla per i primi di una vera e propria “colpa”, attribuendo alla sospensione prevista dal sesto comma dell’art. 4 una “natura anche sanzionatoria” [[18]].
Non rileva il fatto che la sospensione dal servizio tra le misure organizzative per i lavoratori esentati non sia espressamente prevista. Sarebbe in effetti irragionevole pretendere che il datore di lavoro sia tenuto a ricollocarli altrove in azienda anche quando le sue dimensioni o la sua organizzazione non lo consentano; d’altronde è proprio la precisazione “senza decurtazione della retribuzione” a sottintendere la possibilità che, ove non sia possibile, il lavoratore esentato venga sospeso dal servizio sino al completamento della campagna vaccinale e comunque non oltre il 31.12.2021.
È da escludere, per altro verso, che nei suoi confronti scattino gli effetti generali dell’inidoneità sopravvenuta, con facoltà per il datore di lavoro di procedere al licenziamento: in tal caso il lavoratore esentato verrebbe a subire un trattamento deteriore rispetto a quello che ha violato l’obbligo vaccinale.
Razionalità vuole, in definitiva, che l’iter per le due categorie di personale corra su binari paralleli, con la sola differenza della conservazione integrale della retribuzione di chi sia dispensato dal rispetto dell’obbligo.
7. Gli effetti dell’art. 4 sullo spettro degli obblighi datoriali di sicurezza
Prima della disciplina in esame il cosiddetto decreto liquidità emanato in piena prima fase pandemica aveva stabilito che, “ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all'obbligo di cui all'articolo 2087 del codice civile mediante l'applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all'articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l'adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” (art. 29-bis d.l. 23/2020, conv. nella legge 40/2020).
La norma sembra circoscrivere l’adempimento dell’obbligo dell’art. 2087 c.c. all’osservanza delle prescrizioni contenute nei protocolli. Questi hanno avuto il pregio di orientare gli atteggiamenti dei datori di lavoro in un momento storico in cui la diffusione del virus avveniva con picchi e dinamiche ancora sconosciute oltre che in assenza di misure generalizzate. Oggi la situazione è mutata, sia per le superiori cognizioni scientifiche acquisite in ordine al Covid-19 sia perché disponiamo di nuovi strumenti di prevenzione, primo tra tutti il vaccino.
In base all’art. 2087 c.c., la responsabilità del datore di lavoro sorge in caso di violazione di regole di esperienza o di regole tecniche già conosciute e preesistenti, ma sanziona anche la omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte le misure e cautele idonee a preservare l'integrità psico-fisica del lavoratore in relazione alla specifica situazione di pericolosità, inclusa la mancata adozione di direttive inibitorie nei confronti del lavoratore medesimo [[19]].
I parametri rispetto a cui va commisurata l’adeguatezza delle misure di sicurezza sono dunque quelli della particolarità della condizione lavorativa, con riferimento ad esempio alle c.d. “misure innominate” [[20]], e delle migliori conoscenze sperimentali o tecniche del momento [[21]]. E’ di conseguenza difficile sostenere che l’osservanza delle sole prescrizioni protocollari, tra l’altro per lo più di portata elastica, esaurisca attualmente gli obblighi imposti al datore di lavoro da una disposizione a contenuto aperto e mobile come quella dell’art. 2087.
È semmai ragionevole ritenere che l’art. 29-bis d.l. 23/2020, tuttora vigente, racchiuda un precetto minimo, il cui rispetto non esonera da responsabilità, dovendo essere integrato o, in taluni casi, addirittura disatteso, ogni volta in cui le misure dei protocolli si rivelino insufficienti o perfino contrarie alle esigenze di tutela.
Ciò detto, l’inosservanza da parte del datore di lavoro degli oneri che gli sono imposti dall’art. 4 per la vaccinazione dei propri dipendenti – ad esempio per non averli inseriti nell’elenco trasmesso alle Regioni o alle Province autonome (terzo comma) – è foriero senz’altro di responsabilità contrattuale ex art. 2087, quando abbia causato danni all’integrità psicofisica del personale. Il comportamento colposo del lavoratore assumerà rilievo ai sensi dell’art. 1227 c.c. come causa di riduzione del risarcimento dovuto, fino ad eliderlo nel caso in cui esso si concretizzi nel rifiuto di sottoporsi alla vaccinazione, come misura preventiva che appare, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, più efficace.
8. La posizione dei lavoratori non ricompresi nelle categorie dei soggetti obbligati
I contenuti del dibattito corrente prima dell’entrata in vigore del d.l. 44/2021 conservano attualità con riguardo alla posizione di quanti non rientrino nelle categorie dell’art. 4, primo comma. Ora quei contenuti sono però arricchiti dalla valutazione dei possibili riflessi, indiretti e sistematici, dell’esistenza di un obbligo vaccinale, seppure a loro non riferibile.
Il fatto che la nuova normativa abbia investito l’autorità pubblica sanitaria dell’accertamento del requisito essenziale è considerazione che, se utilizzata per dimostrare l’irrilevanza della mancata vaccinazione per i lavoratori non compresi nelle categorie obbligate [[22]], prova troppo. Con l’argomento a contrario si arriverebbe infatti al punto da negare che, laddove l’obbligo manchi, le misure di sicurezza imposte dalle disposizioni più generali andrebbero disapplicate, il che è ovviamente assurdo.
Tutti i lavoratori esposti ad agenti biologici sono soggetti alla sorveglianza sanitaria del medico competente (art. 41 d. lgs. 81/2008) quando il risultato della valutazione del rischio ne rilevi la necessità; in tal caso, su parere del medico competente stesso, il datore adotta le misure protettive speciali rappresentate, tra le altre, dalla “messa a disposizione di vaccini efficaci” e dall’allontanamento temporaneo dall’azienda (art. 279, commi primo e secondo, d. lgs. 81/2008).
L’esposizione ad agenti biologici rischiosi per la salute è dunque uno dei presupposti per l’adozione delle misure individuate volta a volta dal medico competente; esse includono l’eventualità – in caso di accertata inidoneità alla mansione specifica e fermo il trattamento retributivo originario – che il lavoratore sia assegnato, ove possibile, a mansioni equivalenti o, altrimenti, a mansioni inferiori (art. 42, primo comma, d. lgs. 81/2008).
Pare di potere dire che la modulazione di tali provvedimenti sia coerente con l’assenza dell’obbligo vaccinale; chi ne è esonerato non subisce conseguenze uguali o deteriori rispetto a quelle previste dall’art. 4; la mediazione data dal parere del medico competente esclude ogni automatismo applicativo e mira a garantire l’adozione della misura più consona – in base ai criteri oggettivi della fattibilità organizzativa (art. 42) e dell’esposizione a rischio (art. 279) – al caso concreto.
Nella perdurante efficacia di queste disposizioni – cui può attribuirsi portata generale, rispetto al regime speciale introdotto dall’art. 4 d.l. 44/2021 [[23]] – v’è dunque la chiave utile a evitare che, fuori dal territorio applicativo dell’obbligo vaccinale, il rapporto di lavoro abbia esecuzione in base a dinamiche indifferenti alle esigenze di tutela della salute pubblica e interna all’ambiente di lavoro. In tal modo l’ordinamento non rimane inerte nei confronti di quella platea di operatori che agiscono nel mondo della sanità pur senza rientrare tra i soggetti obbligati in forza della disciplina uscente dalla conversione del decreto legge.
Può sembrare paradossale che un lavoratore precedentemente idoneo alla mansione diventi inidoneo per il solo fatto della fruibilità del vaccino anti Covid-19. Si tratta però d’un paradosso apparente, poiché l’adattamento dell’obbligo di sicurezza (e della conseguente misura di prevenzione del rischio) all’evoluzione della scienza e della tecnica rappresenta il proprium del contenuto aperto e mobile del precetto dell’art. 2087 c.c., sicché anche il giudizio d’idoneità varia conseguentemente col progresso degli strumenti disponibili.
Resta da chiedersi, a rifinitura di questa ricostruzione teorica, se la “messa a disposizione” della vaccinazione ai sensi dell’art. 279, secondo comma, d. lgs. 81/2008 sia fonte in capo al lavoratore di un obbligo a tutto tondo [[24]] o invece di un mero “onere” che, in difetto d’un vincolo quale quello ex art. 4 d.l. 44/2021, lo lascia comunque libero di non vaccinarsi [[25]].
La prima soluzione risulta più coerente col disposto dell’art. 20, lett. b, d. lgs. 81/2008, che impone al dipendente l’osservanza delle disposizioni impartite dal datore di lavoro ai fini della protezione collettiva e individuale. La seconda supererebbe però gli eventuali problemi di compatibilità di un obbligo vaccinale “mediato” dal giudizio medicale con la riserva di legge dell’art. 32, secondo comma, della Costituzione.
Nell’uno come nell’altro caso restano spazi significativi di sindacabilità della scelta datoriale soprattutto in due momenti: la valutazione del rischio e il parere del medico competente. Quest’ultimo viene a essere così fortemente responsabilizzato in un quadro scientifico che al momento può dirsi tutt’altro che assestato.
[1] La legge di conversione è pubblicata in G.U. n. 128 del 31.5.2021.
[2] F. SCARPELLI, Arriva l’obbligo del vaccino (solo) per gli operatori sanitari: la disciplina e i suoi problemi interpretativi, in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, promosse e coordinate da V. A. Poso, in www.fondazionegiuseppepera.it, 3 aprile 2021; M. MOCELLA, Vaccini e diritti costituzionali: una prospettiva europea, in diritti fondamentali.it, 2021, 2, 69.
[3] Si vedano in tal senso le annotazioni di P. PASCUCCI e C. LAZZARI, Prime considerazioni di tipo sistematico sul d.l. 1 aprile 2021, n. 44, in DSL, 2021, 1, 153-156.
[4] Corte cost., 18 gennaio 2015, n. 5.
[5] Cfr. R. RIVERSO, Note in tema di individuazione dei soggetti obbligati ai vaccini a seguito del decreto-legge n. 44/2021, in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, promosse e coordinate da V. A. Poso, in www.fondazionegiuseppepera.it, 12 aprile 2021.
[6] Cass., sez. lav., 30 maggio 2018, n. 13662, secondo cui il ritiro del tesserino per l’accesso all’area aeroportuale giustifica il licenziamento dell’operatore di settore.
[7] Cass., sez. lav., 11 novembre 2019, n. 29104, in merito alla licenziabilità della guardia privata giurata cui sia stata revocata la licenza di porto d’arma.
[8] Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755.
[9] In tal senso già F. SCARPELLI, cit., 6.
[10] Documento d’indirizzo del Garante per la protezione dei dati personali, denominato “Vaccinazione nei luoghi di lavoro: indicazioni generali per il trattamento dei dati personali”, 13 maggio 2021.
[11] Tra questi L. DE ANGELIS, Ragionando a caldo su vaccinazioni e rapporto di lavoro, in Dibattito istantaneo su vaccini anti-Covid e rapporto di lavoro, promosso da O. Mazzotta, in www.rivistalabor.it, 17 febbraio 2021; P. ICHINO, Se la privacy (male intesa) gioca a favore del virus, in Corriere della Sera – Economia, 24 gennaio 2021; si veda anche Trib. Messina, ord. 12 dicembre 2020, in www.lavorosi.it, e il suo commento da parte di L. TASCHINI, Il vaccino anti Covid nel rapporto di lavoro. Riflessioni a partire dall’ordinanza cautelare del giudice del lavoro di Messina, in questa rivista, 16 febbraio 2021.
[12] Cfr. ancora F. SCARPELLI, cit., 7. Di opinione opposta è C. PISANI, Il vaccino per gli operatori sanitari obbligatorio per legge e requisito essenziale per la prestazione, in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, promosse e coordinate da V. A. Poso, in www.fondazionegiuseppepera.it, 7 aprile 2021.
[13] L. ZOPPOLI, in Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato. Intervista di M. Basilico in questa rivista, 22 gennaio 2021.
[14] R. RIVERSO, in Il vaccino anti Covid, scomoda novità per gli equilibri del rapporto di lavoro subordinato, cit.; L. DE ANGELIS, Ragionando a caldo su vaccinazioni e rapporto di lavoro, cit.; in posizione intermedia (per la quale il rifiuto ingiustificato può configurare inadempimento contrattuale, non di gravità tale però da legittimare il licenziamento) V.A. POSO, Per operatori sanitari e socioassistenziali è il momento dell’obbligo vaccinale? Intervista di M. Basilico in questa rivista, 30 marzo 2021.
[15] Cass., sez. lav., 26 settembre 1995, n. 10187.
[16] Cass., sez. lav., 16 settembre 2002, n. 13536.
[17] In questo senso cfr. anche R. DE LUCA TAMAJO, Per operatori sanitari e socioassistenziali è il momento dell’obbligo vaccinale?, cit; nonché A. DE MATTEIS, Prime notazioni sul d.l. 1° aprile 2021, n. 44 sull’obbligo di vaccino del personale sanitario, in www.il giuslavorista.it, 6 aprile 2021.
[18] C. PISANI, Il vaccino per gli operatori sanitari obbligatorio per legge e requisito essenziale per la prestazione, cit..
[19] Cass., sez. lav., 15 luglio 2020, n. 15112.
[20] Cass., sez. lav., 18 novembre 2019, n. 29879.
[21] Cass., sez. lav., ord. 8 ottobre 2018, n. 24742.
[22] Così F. SCARPELLI, cit., 7-8.
[23] Di rapporto di genus a species parlano espressamente P. PASCUCCI e C. LAZZARI, cit., 157 segg. .
[24] E’ di questa opinione A. DE MATTEIS, cit. .
[25] Quest’ultima è la tesi di C. PISANI, cit., 10, che menziona allo scopo Corte cost., 6 giugno 2019, n. 137.