Il ricorso d’urgenza impedisce la decadenza verso gli atti del datore di lavoro. Dalla Corte costituzionale un ammonimento al giudice comune
di Marcello Basilico
Con la sentenza 212/2020 la Corte costituzionale ha dichiarato la non conformità dell’art. 6, secondo comma, legge 604/66, così come stabilmente interpretato dalla Corte di Cassazione, all’art. 3 Cost., nella parte in cui non ammette il ricorso ante causam d’urgenza tra le iniziative idonee a impedire l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento o degli altri atti datoriali previsti dall’art. 32, terzo e quarto comma, legge 183/2010.
E’ irragionevole in effetti che una tale idoneità sia stata riconosciuta dal legislatore all’attivazione di procedure (per il tentativo di conciliazione o l’arbitrato) prive di capacità definitoria del rapporto giuridico sostanziale tra le parti e non invece ad un’azione che porta la controversia davanti al giudice.
Nella pronuncia d’illegittimità si legge però in controluce una critica non tanto all’orientamento formatosi in sede di legittimità, quanto piuttosto alla mancata verifica da parte della Cassazione della conformità a Costituzione della propria interpretazione, con la conseguente rinuncia a sperimentare gli effetti d’una lettura alternativa, che salvaguardasse i diritti fondamentali del lavoratore.
Sommario: 1. Il dato normativo - 2. L’orientamento giurisprudenziale - 3. La decisione della Consulta - 4. Un’esortazione alla Corte di Cassazione? - 5. Una soluzione definitiva.
Anche il ricorso cautelare ante causam, al pari del ricorso ordinario al giudice del lavoro, è idoneo a interrompere la decadenza dall’impugnazione del licenziamento o di altri atti datoriali. E’ questa la decisione della Corte costituzionale adottata con la sentenza del 22 settembre 2020, n. 212, che ha posto fine ad una situazione di sperequazione determinata da una rigidità normativa irragionevole, finora preservata, peraltro, dall’interpretazione giurisprudenziale.
1. Il dato normativo
L’art. 32, primo e secondo comma, della legge 183/2010 (il cd. Collegato lavoro) ha introdotto un meccanismo complesso per impugnare il licenziamento con tempestività, intervenendo a modificare l’art. 6 legge 604/66 e articolandolo su una doppia iniziativa del lavoratore, diretta a evitare altrettante decadenze. Entro sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione dell’atto o dei suoi motivi, egli deve trasmettere un atto, anche stragiudiziale, con cui si rende nota la volontà di fare valere l’illegittimità del recesso (art. 6, primo comma); nei centottanta giorni successivi il lavoratore deve depositare il ricorso presso la cancelleria del giudice del lavoro o comunicare alla controparte la richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato (art. 6, secondo comma). In caso di rifiuto di partecipare a questa procedura alternativa o di mancato accordo, il lavoratore stesso ha altri sessanta giorni a disposizione per depositare il ricorso giudiziale.
I commi terzo e quarto dell’art. 32 hanno esteso questo meccanismo all’azione di nullità del termine contrattuale nonché alle azioni verso alcuni atti di gestione del rapporto di lavoro, tra cui il passaggio ad altro datore di lavoro per cessione d’azienda e il trasferimento, fattispecie quest’ultima che ha generato la questione di costituzionalità in esame.
Va precisato che l’art. 1, comma 38, della legge 92/2012 ha ridotto a centottanta giorni il secondo termine, che nel Collegato lavoro era fissato in duecentosettanta.
La legge Fornero del 2012, con tecnica rivedibile, ha modificato in realtà non le norme dell’art. 32 legge 183/2010, bensì la sola disposizione dell’art. 6, secondo comma, legge 604/66. Poiché l’art. 6 disciplina soltanto i termini per impugnare il licenziamento (mentre sono stati i commi terzo e quarto dell’art. 32 a estenderli anche ad altri atti), ci si è chiesti se, mancando di modificare le disposizioni del Collegato lavoro, il legislatore abbia voluto limitare la riduzione del termine ai licenziamenti, lasciando fermo quello originario di duecentosettanta per le altre azioni.
Se così fosse, il termine per impedire l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale tempestiva sarebbe diversificato per l’una e per l’altra situazione.
Non è però questa l’interpretazione seguita dal giudice remittente[1] e dalla stessa Corte costituzionale: il caso trattato dal Tribunale di Siracusa riguardava il trasferimento ad altra sede di un lavoratore disabile, impugnato con ricorso d’urgenza ante causam; a fronte dell’eccezione di decadenza sollevata dall’impresa datrice di lavoro, il giudice monocratico ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione d’illegittimità costituzionale dell’art. 6, secondo comma, l. 604/66, come modificato dall’art. 32, primo comma, l. 183/2010, nella parte in cui, secondo il costante indirizzo della Corte di Cassazione, il ricorso ex art. 700 c.p.c. è inidoneo a interrompere il termine di decadenza di centottanta giorni.
2. L’orientamento giurisprudenziale
Il dubbio di costituzionalità è stato sollevato con riferimento all’orientamento formatosi sull’interpretazione della dizione normativa che, nell’art. 6, secondo comma, l. 604/66, così come novellato nel 2010, prevede tra gli atti giudiziali impeditivi della decadenza il “deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro”.
La disposizione non offre spunti testuali per identificare quale sia il ricorso rilevante. Non sarebbe implausibile, di conseguenza, riferire il termine letterale a ogni ricorso con cui venga azionato il diritto all’accertamento dell’invalidità, dell’inefficacia o dell’illegittimità del licenziamento davanti al giudice del lavoro.
La decadenza è istituto limitativo dell’esercizio del diritto. Le norme che stabiliscono termini di decadenza sono di stretta interpretazione[2]. Di riflesso, s’impone una lettura piana della norma dedicata ai casi d’interruzione, quando sia conforme allo scopo di non ridurre l’effettività del diritto dal cui esercizio è ammessa la decadenza.
La Cassazione non è stata di questo avviso. In almeno cinque pronunce si è affermato che l’art. 6, secondo comma, della legge 604/66, nel testo modificato dall’art. 1, co. 38, legge 92/2012, “va interpretato, nel caso d'impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall'articolo 18 st. lav. e successive modificazioni, nel senso che, ai fini della conservazione dell'efficacia dell'impugnazione stragiudiziale del licenziamento, è necessario che, nel termine previsto, venga proposto ricorso secondo il rito di cui all'art. 1, commi 48 e seguenti, della l. n. 92 del 2012, restando inidoneo allo scopo il ricorso proposto ai sensi dell'art. 700 c.p.c.”[3].
Le motivazioni di una tale interpretazione restrittiva sono riducibili a due ordini di argomenti: quelli collegati all’ultima modifica dell’art. 6, secondo comma, e quelli legati ad una lettura complessiva di questa disposizione.
Il primo ragionamento è partito dalla premessa di un’interpretazione necessariamente coordinata delle norme coeve contenute nei commi 38, 47 e 48 dell’art. 1 legge 92/2012. L’art. 1, co. 47 segg., della stessa legge Fornero delinea una prima fase del rito speciale per i licenziamenti, sommaria nelle forme e nell’istruttoria non anche nella cognizione del giudice, la quale è invece piena e suscettibile di essere definita con un provvedimento dotato di stabilità[4].
L’irrevocabilità sino alla definizione della – eventuale – opposizione successiva dell’ordinanza conclusiva[5] comporta almeno due conseguenze rilevanti: che l’azione ex art. 1, co. 47 segg., legge 92/2012 venga proposta con un ricorso assimilabile a quello ordinario; che questo debba indicare necessariamente, non meno che nella fase di opposizione, causa petendi e petitum. Questo connotato non è invece proprio del ricorso in via d’urgenza. Da ciò si desume che il legislatore del 2012 abbia inteso riferirsi solo al ricorso del rito speciale per i licenziamenti, escludendo quello ex art. 700 c.p.c.[6].
Con secondo ordine di argomenti la Cassazione ha valorizzato il fatto che il ricorso da presentare entro sessanta giorni dopo la chiusura infruttuosa del tentativo di conciliazione o dell’arbitrato sia necessariamente l’atto introduttivo del processo ordinario del lavoro; poiché non può darsi il caso che il legislatore abbia usato un termine con due significati diversi all’interno della stessa disposizione, anche il primo atto va identificato col medesimo modello di ricorso.
Inoltre l’inciso “ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso”, inserito a chiusura del primo periodo del secondo comma dell’art. 6, non può che riferirsi al ricorso proposto ai sensi dell’art. 414 c.p.c. – l’unico che nel 2010 fosse previsto per impugnare i licenziamenti – giacché nel procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. non vi sono preclusioni al deposito di documenti dopo quello dell’atto introduttivo del giudizio[7].
In definitiva la stessa norma dell’art. 6, secondo comma, l. 604/66 racchiuderebbe in sé le ragioni per un’interpretazione restrittiva del termine “ricorso”.
Su questo orientamento della Suprema Corte non ha pesato neppure la nuova struttura che il procedimento d’urgenza ha assunto dopo l’inserimento dell’art. 669-octies, sesto comma, c.p.c., ad opera del d.l. 35/2005 (conv. con modif. nella legge 80/2005). La sua strumentalità attenuata rispetto al giudizio di merito, la cui instaurazione è divenuta facoltativa, gli ha sì attribuito le caratteristiche di un’azione autonoma, atta potenzialmente a soddisfare in via definitiva l’interesse della parte, pur senza attitudine al giudicato[8]. L’incertezza che grava sui tempi d’instaurazione del giudizio di merito, limitata solo dal termine ordinario di prescrizione, sarebbe inconciliabile con l’obiettivo della legge 183/2010 di provocare rapidamente una pronuncia definitiva sulla legittimità del licenziamento[9].
3. La decisione della Consulta
La Corte Costituzionale è stata investita dal giudice del lavoro del Tribunale di Siracusa della questione di legittimità dell’art. 6, secondo comma, legge 604/66, così interpretato, con riferimento agli artt. 3, 24, 111 e – in relazione all’art. 6 CEDU – 117, primo comma Cost., per la parte in cui la domanda cautelare ante causam non è ritenuta equipollente a quella ordinaria di merito per interrompere il termine di decadenza e impedire la perdita di efficacia dell’impugnazione stragiudiziale proposta ai sensi dell’art. 6, primo comma.
Individuata la ratio della norma censurata nell’esigenza di fare emergere in tempi brevi il contenzioso sull’atto datoriale[10], La Corte ha ritenuto decisiva e assorbente l’eccezione ai sensi dell’art. 3 Cost., sotto un duplice profilo. La mancata previsione dell’idoneità del ricorso tempestivo per provvedimento d’urgenza a impedire l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale e dare accesso alla tutela giurisdizionale è: contraria, da un lato, al principio di eguaglianza se posta in comparazione con l’idoneità riconosciuta dalla stessa disposizione alla richiesta di attivazione della procedura conciliativa o di quella arbitrale; irragionevole, dall’altro, rispetto alla finalità normativa di fare emergere il contenzioso sull’atto datoriale.
Sotto il primo profilo si è ritenuto decisivo il fatto che il legislatore abbia attribuito efficacia interruttiva alla mera attivazione delle procedure alternative, lasciando impregiudicata la possibilità che rifiuto o mancato accordo tra le parti non portino alla definizione del rapporto tra le parti; d’altro canto, né la conclusione positiva dell’iter conciliativo (artt. 324 c.p.c. e 2909 c.c.) né il lodo emanato a conclusione dell’arbitrato irrituale e impugnabile ai sensi dell’art. 808-ter c.p.c. (art. 412-quater, decimo comma, c.p.c.) offrono prospettiva di pervenire al giudicato. Non si vede dunque perché – sembra dire la Consulta – la norma criticata non debba attribuire la stessa efficacia alla “più pregnante iniziativa” rivolta direttamente alla cognizione del giudice, cui tra l’altro il datore di lavoro non può sottrarsi.
Quanto alla compatibilità con l’obiettivo di certezza dei rapporti, la Consulta ha ripercorso la strada dell’evoluzione del procedimento ex art. 700 c.p.c., giungendo alla conclusione della rilevanza della strumentalità attenuata conferita oggi a questo “nuovo modello di tutela che può esitare in un provvedimento celere .. che si iscrive nell’ambito di una più ampia tendenza normativa, espressa anche mediante riti di natura diversa (semplificati, sommari, camerali) a svincolare la decisione concreta della lite dalla necessità dell’accertamento con il “crisma” del giudicato sostanziale”.
I giudici costituzionali hanno ritenuto opportuno richiamare anche “la cruciale importanza” della tutela d’urgenza nelle cause di lavoro, che trattano spesso di “situazioni sostanziali di rilievo costituzionale in quanto attinenti alla dignità del lavoro”[11]. In questo modo la valutazione di proporzionalità tra la finalità legislativa e la sanzione dell’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale pende a sfavore di quest’ultima, se solo si considera che la proposizione del ricorso ex art. 700 c.p.c. raggiunge lo scopo di fare emergere il contenzioso sull’atto impugnato, evitando che il datore di lavoro resti in uno stato d’incertezza perdurante sulla sua sorte.
Non è stato infine dimenticato il tema della discrezionalità del legislatore, che interferisce con ogni giudizio di conformità a Costituzione incentrato su istituti processuali. Quello in esame è proprio uno dei casi in cui, attraverso l’operazione di bilanciamento d’interessi costituzionalmente rilevanti, la Consulta ritiene superata quella soglia della ragionevolezza che rappresenta il limite del sindacato di costituzionalità[12].
La disposizione dell’art. 6, secondo comma, legge 604/66, così come interpretata dalla Cassazione, è stata in definitiva ritenuta illegittima, per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che l’impugnazione stragiudiziale è inefficace se non sia seguita, entro i successivi centottanta giorni, anche dal deposito del ricorso cautelare anteriore alla causa (ai sensi degli artt. 669.bis, 669-ter e 700 c.p.c.), oltre che dagli altri atti enunciati espressamente nella norma.
4. Un’esortazione alla Corte di Cassazione?
Implicitamente, ma chiaramente, la Corte costituzionale ha avallato l’operazione di ricostruzione della disposizione che il giudice del Tribunale di Siracusa le ha sottoposto, disposizione intesa non come norma di legge astrattamente considerata, ma come contenuto della regola da applicare[13] e che, nella fattispecie, è il frutto dell’interpretazione consolidata della Corte di Cassazione. Adattando il proprio sindacato alla disposizione così conformata, il giudice delle leggi ha dato corso all’effetto devolutivo del problema di costituzionalità, dichiarandola illegittima nei contenuti e nella portata correttamente individuati[14].
L’interpretazione giurisprudenziale consolidata d’una norma rappresenta del resto uno dei limiti tradizionali al potere ermeneutico della Corte costituzionale, condensato ormai nel sintagma “diritto vivente”[15]. Una volta accertata l’esistenza del diritto vivente, la Corte si astiene dalla proposta di soluzioni interpretative differenti, , ma si limita a verificare la conformità di questo ai principi costituzionali; essa deve “incentrare le sue valutazioni sulla norma impugnata nell’interpretazione dominante, fatta propria dal giudice a quo”[16].
Posto di fronte al testo vigente dell’art. 6, secondo comma, l. 604/66, il Tribunale di Siracusa ha sollevato d’ufficio la questione di costituzionalità, prendendo atto dell’indirizzo granitico della Corte di Cassazione, che aveva travolto i tentativi dei giudici di merito di fornire una lettura alternativa, inclusiva dell’ipotesi del ricorso in via d’urgenza. Si tratta di tentativi divenuti invero ormai timidi, posto che tutte le pronunce di legittimità più recenti non hanno fatto altro che confermare decisioni dei gradi precedenti già conformi.
Non si può non rimarcare peraltro come nella sentenza 212/2020 vengano ribaltati i cavalli di battaglia argomentativi della Cassazione. Si è già detto, in particolare, del rilievo attribuito alla strumentalità attenuta dell’attuale procedimento d’urgenza. La Consulta ha menzionato come “segno dell’evoluzione” avvenuta in materia il mutamento della giurisprudenza in tema di opposizione alla delibera di esclusione del socio: la Cassazione ha finalmente affermato, infatti, l’idoneità del ricorso d’urgenza ante causam a impedire la decadenza dall’opposizione, se proposto entro i sessanta giorni fissati dall’art. 2533, terzo comma, c.c., in quanto “il rimedio cautelare anticipatorio presenta nell’attuale sistema ordinamentale le caratteristiche di una azione, in quanto potenzialmente idoneo a soddisfare attraverso l’intervento giudiziario l’interesse sostanziale della parte, anche in via definitiva”[17].
Va notato come questa decisione fosse stata citata dall’altro collegio della stessa sezione lavoro della Cassazione, nell’ordinanza 29429/18, il quale l’aveva ritenuta non pertinente, perché riferita ad una fattispecie diversa da quella dell’art. 6 legge 604/66, e comunque insufficiente a superare “l’inequivoco tenore letterale” di quest’ultima disposizione.
La sentenza 212/2020 ha replicato alla Cassazione anche sull’argomento della definitività dell’ordinanza d’urgenza condizionata, ritenendolo non decisivo poiché rimediabile dall’iniziativa del datore di lavoro che potrebbe a quel punto promuovere a propria volta il giudizio di merito.
Se è vero che, scrutinando il diritto vivente, la Corte costituzionale è investita della disposizione nell’interpretazione normativa che la configura, non è meno vero che in questa occasione si coglie nella pronuncia un respiro elevato a livelli valoriali che la giurisprudenza di legittimità, sedimentatasi nell’arco d’un triennio, non sembra avere raggiunto.
Va ricordato che il diritto vivente è vincolante per il giudice comune solo quando la norma desunta dalla disposizione sia conforme ai parametri costituzionali e l’interpretazione relativa sia dirimente rispetto ai dubbi di legittimità che egli adombri. Quando invece la soluzione ermeneutica stabilizzatasi appaia in contrasto con la Costituzione, il giudice a quo ha la facoltà di scegliere tra l’adozione, pur sempre ammessa, d’una diversa lettura e l’adeguamento a quella soluzione sollevando la questione di costituzionalità[18].
Nel quadro interpretativo consolidato che gli si è prospettato in causa, per il giudice monocratico di Siracusa la seconda opzione era pressoché inevitabile.
C’è da chiedersi però se gli stessi parametri costituzionali posti a base della sua ordinanza non avrebbero potuto essere preventivamente approfonditi dalla Cassazione in taluna delle decisioni che hanno concorso a quell’assestamento e nelle quali alcuni dubbi di conformità a sistema si erano affacciati. Non è accessoria in questo interrogativo la considerazione del fatto che tutte le pronunce di legittimità siano intervenute a decretare l’impossibilità di accedere alla tutela giurisdizionale per lavoratori licenziati.
Nel contenuto che le è stato attribuito dalla Cassazione, dunque, la disposizione dell’art. 6, secondo comma, legge 604/66 ha avuto vita breve e senza che vi sia stato un effettivo collaudo di tenuta. In questo senso la vicenda può essere annoverata tra le occasiono mancate, a fronte di un dato normativo che, nella genericità del termine “ricorso” impiegato dal legislatore, non pareva insuscettibile di altre soluzioni, utili a garantire una tutela effettiva di diritti fondamentali.
5. Una soluzione definitiva
La declaratoria d’illegittimità dell’art. 6, secondo comma, legge 604/66 ha già allarmato quanti temono che, una volta respinto il ricorso ex art. 700 c.p.c., il lavoratore strumentalizzi l’assenza d’un termine per introdurre il giudizio di merito, lasciando il datore di lavoro nell’incertezza sulla definitiva legittimità del proprio provvedimento. Di qui l’invocazione al legislatore per un intervento correttivo[19].
La preoccupazione non è condivisibile. Una questione analoga può darsi anche per situazioni già precedentemente ammesse, come quella del ricorso dichiarato inammissibile per errore sul rito ex art. 1, co. 48, legge 92/2012 e ritenuto comunque idoneo a impedire definitivamente la decadenza prevista dall’art. 6, secondo comma, legge 604/66[20].
A questa varia casistica s’indirizza la saggia annotazione della Corte costituzionale, per cui, una volta che il suo dipendente sia “già uscito alla scoperto”, ben può il datore di lavoro assumere l’iniziativa giudiziaria per eliminare ogni incertezza sul rapporto giuridico sostanziale. Dei costi che gli siano stati eventualmente causati dall’inerzia maliziosa del lavoratore egli potrà essere ristorato in modo opportuno da una corretta regolamentazione delle spese di lite.
Quando ravvisi l’esigenza di dare certezza a situazioni giuridiche rilevanti, l’ordinamento ne dà carico a colui che si ritenga titolare del relativo diritto. E’ ragionevole però prevedere che, una volta che questi abbia dimostrato di volerlo rivendicare, non gravi più soltanto su di lui l’onere di attivarsi ulteriormente per rimuovere lo stato d’incertezza eventualmente perdurante, dato che è l’altro il soggetto interessato a definire il contrasto. Se così non fosse, si andrebbe incontro al rischio di sacrificare diritti non meno meritevoli di tutela.
Sotto questo profilo pare essere arrivato dal giudice costituzionale un messaggio molto chiaro.
[1] Trib. Catania, 17 maggio 2019, in G.U., serie speciale, del 9 ottobre 2019, n. 41.
[2] Tra le tante, Cass., sez. lav., 9 febbraio 2006, n. 2853.
[3] Cass., sez. lav., 14 luglio 2016, n. 14390 e, nello stesso senso, Cass., sez. lav., ord. 7 novembre 2017, n. 26309 e 15 novembre 2018, n. 29429; Cass., sez. lav., 6 dicembre 2018, n. 31647; Cass., sez. lav., ord. 9 dicembre 2019, n. 32073.
[4] Cass., sez. un., 18 settembre 2014, n. 19674.
[5] In tal senso Cass., sez. VI - lav.., ord. 20 novembre 2014, n. 24790.
[6] Cass., sez. lav., 14 luglio 2016, n. 14390.
[7] Cass., 29429/2018, cit. .
[8] Cass., sez. lav., 25 maggio 2016, n. 10840.
[9] Ancora Cass., 29429/2018, cit. .
[10] Ciò al fine, ad esempio nei contratti di lavoro a tempo determinato, di “contrastare la prassi di azioni giudiziarie proposte anche a distanza di tempo assai rilevante dalla scadenza del termine apposto al contratto” (Corte cost., 4 giugno 2014, n. 155).
[11] Si fa riferimento a Corte cost., 28 giugno 1985, n. 190, che ha riguardato la tutela d’urgenza, da parte del giudice ordinario, nel pubblico impiego, pur quando esso era ancora affidato in via esclusiva alla giustizia amministrativa.
[12] Ricorda la Corte che l’operazione di bilanciamento va svolta “attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intenda perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti (ex plurimis, sentenze n. 71 del 2015, n. 17 del 2011, n. 229 e n. 50 del 2010, n. 221 del 2008 e n. 1130 del 1988; ordinanza n. 141 del 2011)”.
[13] Corte cost., 21 marzo 1996, n. 84: “la disposizione - della cui esatta identificazione, al momento dell'ordinanza di rimessione, è onerato il giudice rimettente (sentenza n.176 del 1972), non potendo egli limitarsi a denunciare un principio (sentenza n.188 del 1995) - costituisce il necessario veicolo di accesso della norma al giudizio della Corte, che si svolge sulla norma quale oggetto del raffronto con il contenuto precettivo del parametro costituzionale, e rappresenta poi parimenti il tramite di ritrasferimento nell'ordinamento della valutazione così operata, a seguito di tale raffronto, dalla Corte medesima, la quale quindi giudica su norme, ma pronuncia su disposizioni”.
[14] Cfr. Corte cost., 19 febbraio 1965, n. 11.
[15] Cfr. M. Cavino, Diritto vivente, in Dig. Pubbl., 2010.
[16] Corte cost., 14 dicembre 2009, n. 317.
[17] Cass., sez. lav., 25 maggio 2016, n. 10840.
[18] Corte cost., 24 ottobre 2014, n. 242. Per una rassegna degli orientamenti in materia, cfr. L. Salvato, Profili del “diritto vivente” nella giurisprudenza costituzionale, in www.cortecostituzionale.it, febbraio 2015, nonché, per il diritto del lavoro, V. Speziale, Il “declino” della legge. “L’ascesa” del diritto giurisprudenziale e i limiti all’interpretazione giudiziale, in www.costituzionalismo.it, 1, 2018.
[19] Si legga ad esempio l’articolo del Centro studi lavoro e previdenza, in www.eclavoro.it, 5 novembre 2020.
[20] In tal senso Trib. Firenze 7 ottobre 2014, in Riv. it. dir. lav., 2015, con nota di A. D. De Santis, Errore sul rito, inammissibilità dell’impugnativa del licenziamento e impedimento della decadenza, 478; Trib. Milano, 16 dicembre 2016, in www.dottrinalavoro.it.