Intervento di Armando Spataro Procuratore della Repubblica di Torino
Convegno sul tema: La separazione delle carriere dei magistrati: una riforma ineludibile
Sanremo, 1-2 luglio 2016
1. Premessa : le regole vigenti e le diverse questioni in campo: pag. 2; 2.Le ragioni contro l’unicità di carriera: pag. 6; 2.a - La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi, determinandone l’ “appiattimento” sulle tesi dei p.m. o la predisposizione a prestare maggior attenzione alla posizione dell’accusa pubblica: pag. 6; 2.b – Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M.: pag. 7; 2.c – La separazione delle carriere andrebbe perseguita perché favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero, richiesta dal Codice di Procedura Penale: pag. 8; 2.d – La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale: pag. 9; 2.e – La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata, senza che ciò comporti dipendenza del PM dal potere esecutivo: pag. 11; 2.e/1 – La particolarità del Portogallo: pag.14; 3. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera: pag.15; 3.a – La prospettiva del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa: pag.15; 3.b - La cultura giurisdizionale deve appartenere anche al PM: pag.16; 3.c. - I dati statistici: pag.18; 3.d - Unica formazione e unico CSM: pag.21; 3.e - Condizionamento del giudice: conseguenza certa della separazione delle carriere: pag.21; 3.f – La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia: pag.22; 4. – Rapporti tra potere politico e magistratura. E’ passato il tempo delle riforme “rancorose”: pag.22; 5. - La proposta di legge costituzionale elaborata dall'Unione delle Camere Penali (con cenni alla obbligatorietà dell’azione penale ed al tema delle priorità) pag.24; 6. - Per concludere: pag. 28.
In tema di separazione delle carriere è davvero difficile dire qualche cosa di originale, specie se ci si rivolge ad una platea composta da addetti ai lavori: ma egualmente l’attualità ci impone uno sforzo, così come spinge ad una sintesi degli argomenti e delle rispettive obiezioni. Un’attualità, comunque, che consente di ragionare con maggior freddezza rispetto a pochi anni fa allorchè il tema era oggetto di frequenti strumentalizzazioni, non certo commendevoli.
In questa prospettiva, sento comunque il dovere di anticipare con chiarezza la mia ferma contrarietà (per le ragioni che appresso esporrò) a qualsiasi ulteriore cambiamento delle norme vigenti in materia e, dunque, manifesto subito il mio dissenso rispetto alla proposta di legge costituzionale elaborata dall’Unione delle Camere Penali (di cui specificatamente tratterò nel penultimo paragrafo).
1. Premessa : le regole vigenti e le diverse questioni in campo.
Come è noto, le norme dell’ordinamento giudiziario vigenti in tema di passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti (e viceversa), nonché in tema di assegnazione dei magistrati all’una o all’altra funzione al termine del tirocinio, sono quelle previste dal d.lgs n. 160/2006, emesso in attuazione della legge delega 150/2005, successivamente modificate dalla legge n. 111/2007. Il conseguente nuovo sistema ha notevolmente cambiato quello preesistente.
A seguito della citata riforma ordinamentale, infatti, le funzioni requirenti di primo grado possono ora essere conferite solo a magistrati che abbiano conseguito la prima valutazione di professionalità, vale a dire dopo quattro anni dalla nomina.
La riforma, peraltro, ha limitato il passaggio delle funzioni sotto un profilo oggettivo, vietandolo nei seguenti casi:
a) all’interno dello stesso distretto;
b) all’interno di altri distretti della stessa regione;
c) all’interno del distretto di corte di appello determinato per legge (ex art. 11 c.p.p.) come competente ad accertare la responsabilità penale dei magistrati del distretto nel quale il magistrato interessato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni.
Sotto il profilo soggettivo, è indicato il limite massimo di quattro passaggi nel corso della complessiva carriera del magistrato, unitamente alla previsione di un periodo di permanenza minima nelle funzioni pari a cinque anni.
Ai fini del passaggio si richiede inoltre:
a) la partecipazione ad un corso di qualificazione professionale;
b) la formulazione da parte del Consiglio superiore della magistratura, previo parere del consiglio giudiziario, di un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni.
Il cambio di funzioni, purchè avvenga in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza, è possibile anche nel medesimo distretto nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi – si ripete -soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza.
Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza.
La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro, del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti, deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.
Va pure ricordato che la legge n. 111/2007 ha eliminato la netta ed irreversibile separazione delle funzioni originariamente introdotta dalla legge Castelli (secondo cui, dopo cinque anni dall’ingresso in magistratura occorreva scegliere definitivamente tra funzioni requirenti o giudicanti): il nuovo sistema ha impedito l’entrata in vigore di una normativa che di fatto realizzava una separazione delle carriere, aggirando le previsioni costituzionali.
A tale ultimo proposito – ed in relazione allo specifico tema della separazione delle carriere - è però doveroso ricordare che la Corte Costituzionale, nell’ammettere la domanda referendaria relativa all’abrogazione dell’art. 190 e di altre previsioni dell’ ordinamento giudiziario, ha affermato (sentenza 3-7 febbraio 2000, n. 37/2000) quanto segue:
“la Corte non può non rilevare che il titolo attribuito al quesito dall'Ufficio centrale per il referendum "Ordinamento giudiziario: separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti" appare non del tutto adeguato, e in sostanza eccedente, rispetto alla oggettiva portata delle abrogazioni proposte, concernenti piuttosto, come si è detto, l'attuale disciplina sostanziale e procedimentale dei passaggi dall'una all'altra funzione in occasione dei trasferimenti dei magistrati a domanda.
Restano, in particolare, di per sé estranei al quesito il tema dei criteri per la iniziale assegnazione del magistrato, vincitore dell'unico concorso, e a seguito dell'unico tirocinio, alle une o alle altre funzioni, nonché quello delle assegnazioni di funzioni che avvengano, nei casi in cui ciò è consentito, d'ufficio (cfr., ad esempio, artt. 4 e 5 della legge 25 luglio 1966, n. 570, sulla destinazione dei magistrati di Corte d'appello e rispettivamente sul conferimento a detti magistrati di uffici direttivi; art. 10 della legge 20 dicembre 1973, n. 831, sul conferimento delle funzioni di magistrato di Cassazione; art. 19 della stessa legge, sul conferimento degli uffici direttivi superiori; art. 37, comma 4, del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, sulla destinazione d'ufficio dei magistrati già titolari dei posti soppressi a seguito della istituzione del giudice unico di primo grado: ancorché poi il comma 5 stabilisca che le eventuali nuove destinazioni "sono considerate come trasferimenti a domanda a tutti gli effetti"; artt. 2 e 21, sesto comma, del r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511, sui trasferimenti d'ufficio disposti, rispettivamente, per incompatibilità o per soppressione di posti, e con provvedimento disciplinare)”.
La Corte Costituzionale, nella stessa occasione, ha infine precisato che:
“Non può dirsi che il quesito investa disposizioni il cui contenuto normativo essenziale sia costituzionalmente vincolato, così da violare sostanzialmente il divieto di sottoporre a referendum abrogativo norme della Costituzione o di altre leggi costituzionali (…). La Costituzione, infatti, pur considerando la magistratura come un unico "ordine", soggetto ai poteri dell'unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni”.
Di ciò si deve prendere atto, pur registrandosi spesso autorevoli affermazioni secondo cui, per introdurre nel nostro ordinamento la separazione delle carriere, bisognerebbe modificare la Costituzione. Diverso, invece, è il discorso su altre proposte, differenti rispetto a quelle oggetto del referendum abrogativo del 2000, che periodicamente sono argomento di dibattito politico, quali la necessità di prevedere concorsi separati per accesso separato alle funzioni giudicante e requirente o quella di istituire separati Consigli Superiori della Magistratura. In questo caso, si tratterebbe di proposte di modifiche ordinamentali che, se attuate con legge ordinaria, difficilmente potrebbero sfuggire alla declaratoria di illegittimità costituzionale.
Ai fini di quanto appresso si dirà, va pure ricordato che la Costituzione (artt. 104 I c. e 107 ult. c.), in linea con la nostra cultura e tradizione giuridica, peraltro, prevede la figura del Pubblico Ministero come totalmente autonoma ed indipendente rispetto al potere esecutivo, assistita dalla stesse garanzie del giudice e, affermata l’obbligatorietà dell’azione penale (art.112), le attribuisce la disponibilità della polizia giudiziaria (art. 109). Appare netta, nel disegno costituzionale, la antitesi del modello previsto rispetto a qualsiasi ipotesi di centralizzazione e gerarchizzazione su scala nazionale del Pubblico Ministero.
Questa annotazione, per quanto elementare, non appare superflua poiché sono proprio i principi appena enunciati che rischiano di essere compromessi dalle prospettive di riforma ordinamentale che periodicamente si addensano all’orizzonte.
Fatte queste ovvie premesse, è opportuno affrontare separatamente – e separatamente confutare - ciascuno degli argomenti che di solito si usano per criticare il sistema vigente e per sostenere la necessità di introdurre la separazione delle carriere in forma più o meno rigida. Con una avvertenza: nella Costituzione (Titolo IV – La Magistratura) si fa riferimento solo alle funzioni dei magistrati e “le carriere” non vengono mai nominate, ma nel lessico politico-giudiziario, talvolta impreciso e tecnicamente insoddisfacente, si usano spesso, come alternative, due formule, quella della separazione delle funzioni e quella della separazione delle carriere. Nel primo caso, ove si alluda ad una novità da introdurre nell’ordinamento, la definizione dovrebbe essere respinta dall’addetto ai lavori, posto che la separazione delle funzioni è già prevista dal nostro ordinamento, come può ampiamente dedursi dall’art. 10 D.Lgs. 5 aprile 2006, poi sostituito dall’art. 2 L. 30 luglio 2007. Il riferimento alla separazione delle carriere, invece, evoca un sistema in cui l’accesso alle due funzioni avvenga attraverso concorsi separati, le carriere di giudicanti e requirenti siano amministrate da distinti CSM ed in cui il passaggio dall’una all’altra funzione sia impossibile.
Ulteriori, poi, sono le sfumature ed i correttivi che accompagnano queste distinte opzioni, ma non sembra il caso – almeno in questa parte della relazione – di esaminarne il contenuto.
2. Le ragioni contro l’unicità di carriera
2.a - La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi, determinandone l’ “appiattimento” sulle tesi dei p.m. o la predisposizione a prestare maggior attenzione alle tesi dell’accusa pubblica.
Il fondamento del sospetto di contiguità tra giudici e p.m., secondo alcuni, sarebbe deducibile anche dalla proporzione tra numero delle misure cautelari richieste dal PM., numero di quelle emesse dal Gip e numero di quelle confermate od annullate dal Tribunale del riesame.
Sembra evidente che, in questo caso, ci si trova di fronte non ad una obiezione di carattere strettamente tecnico, ma ad un indimostrato sospetto, che sfiora il limite dell’offensività nei confronti dell’onestà intellettuale del giudice. La tesi trovò spazio nella scheda che accompagnava il referendum abrogativo respinto nel maggio del 2000, in cui si affermava : “è assolutamente impensabile che da un giorno all’altro chi ha combattuto il crimine da una parte della barricata si trasformi improvvisamente nel garante imparziale di chi criminale potrebbe non essere” ed ancora : “lo spirito di appartenenza e di colleganza tra soggetti che vivono la stessa vicenda professionale compromette..” etc. etc.
E’ notorio che la magistratura, salvo rare eccezioni, respinge compatta questo sospetto artificioso di “gratuita proclività” del giudice a simpatizzare con le tesi dell’accusatore: qualcuno, autorevolmente, ha parlato di “diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni” ed ha auspicato che “si verifichi sul campo, com’è doveroso nel campo delle scienze mondane, con un’indagine più o meno estesa, se, in quale misura e con quale frequenza le richieste dei pubblici ministeri, diverse da quelle di proscioglimento o di archiviazione vengano accolte dai giudici, e per quale percentuale degli accoglimenti affiori allo stato degli atti un dubbio di ragionevolezza. Soltanto all’esito di un’accurata indagine di questo tipo, che ponga in luce un tasso di scostamenti dalla ragionevolezza dotato di significatività, avrà un senso affrontare il tema della separazione delle carriere e dell’abbandono di una tradizione più che secolare di unità che ha prodotto indiscutibili frutti quali la condivisione della cultura della giurisdizione e la possibilità, transitando da una funzione all’altra, di utilizzare esperienze eterogenee”.
Indagine statistica indispensabile, dunque, ponendone al centro la ricerca del tasso di scostamenti dalla ragionevolezza delle decisioni del giudice favorevoli alla tesi del P.M. anche ad evitare un uso stravagante dell’indagine stessa e dello stesso dato statistico, facilmente strumentalizzabile in qualsiasi direzione: perché escludere, ad esempio, che l’alto numero di richieste cautelari accolte dai giudici costituisca spia del fatto che i pubblici ministeri fanno un uso moderato ed accorto del potere di richiesta delle misure restrittive della libertà personale e che essi condividono effettivamente, con i giudici, la cultura della giurisdizione ?
2.b – Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M.
E’ questa una posizione che emerge spesso negli interventi di molti autorevoli avvocati penalisti, alcuni dei quali rivestono compiti di rappresentanza dell’intera categoria: abbandonato il sospetto gratuito della contiguità tra giudici e p.m., si afferma – cioè – che, per garantire i cittadini, non sia tanto importante il ruolo imparziale del P.M. (o, meglio, il suo operare all’interno della cultura giurisdizionale) quanto evitare che il giudice, anche inconsapevolmente, per effetto della unicità delle carriere, condivida l’orientamento culturale del P.M. e le ragioni della sua azione istituzionale di contrasto dei fenomeni criminali. Ciò, infatti, condurrebbe il giudice al progressivo abbandono della sua necessaria terzietà rispetto alle tesi contrapposte di p.m. ed avvocati.
Orbene, dando per scontata l’esistenza, sia pur marginale, del vizio insopportabile di taluni magistrati (soprattutto P.M.) di erigersi al rango di moralizzatori della società, sorprende che l’avvocatura italiana (o parte di essa) trascuri il significato, in termini di cultura e di rafforzamento delle garanzie, dell’attuale posizione ordinamentale del P.M., cui compete anche, e non a caso, svolgere “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (art. 358 cpp). Ma meraviglia ancor di più che si possa immaginare che il giudice, per effetto di una opzione culturale - quella della contrapposizione morale ai poteri criminali di ogni tipo - non appartenente certo in esclusiva ai p.m., ma auspicabilmente condivisa dall’intera società (avvocati compresi), possa esercitare la sua funzione in modo parziale, non distaccato né sereno, comunque compromettendo la parità tra le parti nel processo penale.
Si potrebbe richiamare quanto affermato in precedenza circa la necessità di dimostrare scientificamente tale assunto, ma è chiaro che esso è smentito quotidianamente dall’esperienza di chi pratica le aule giudiziarie, ove i giudici, anche nei processi di consistenti dimensioni ed a carico di un numero elevato di imputati appartenenti alla più agguerrite cosche mafiose, dimostrano di non lasciarsi guidare dalla ragion di Stato, ma dal più rigoroso rispetto delle regole del processo e, in particolare, di quelle attinenti la valutazione delle prove. E ciò vale anche per i giudici di legittimità.
2.c – La separazione delle carriere andrebbe perseguita perché favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero, richiesta dal Codice di Procedura Penale.
Questa tesi sembra rivestire apparentemente maggior dignità delle altre, fondata com’è su argomentazioni “tecniche” e su condivisibili esigenze di specializzazione: si sostiene, dunque, che nel contesto venutosi a formare con l’entrata in vigore nell’89 del “nuovo” codice di procedura penale, sarebbe necessaria una forte caratterizzazione professionale del pubblico ministero, più facilmente perseguibile in un regime di separazione delle carriere. In proposito, pur rammentando che la necessità del parere attitudinale favorevole al passaggio di funzioni è ancora prevista nell’ordinamento giudiziario vigente, va detto che l’esigenza di professionalità specifica può essere efficacemente assicurata anche stabilendo un congruo periodo di permanenza del magistrato in quelle funzioni senza che sia necessario vincolarlo a vita a quella esercitata, vietargli di svolgere successivamente l’altra o frapporvi sbarramenti concorsuali: infatti, appartiene ad una visione non poliziesca del ruolo la necessità di assicurare che la formazione culturale del P.M. determini la sua consapevolezza dell’esigenza di raccolta delle prove in funzione del giudizio, prove che abbiano il peso, cioè, di quelle che il giudice ritiene sufficienti per la condanna. Questa cultura accresce la specializzazione e si consegue innanzitutto attraverso l’osmosi delle esperienze professionali tra giudici e pubblici ministeri, come del resto è dimostrato da numerosi casi di eccellenti dirigenti di Procure della Repubblica che vantano pregresse esperienze nel ramo giudicante. Insomma, il percorso professionale più ricco e formativo è quello che moltiplica le esperienze, tanto più in un sistema processuale penale come il nostro che non è di tipo accusatorio puro (sul modello americano, del quale mancano alcune connotazioni essenziali quali il verdetto immotivato, la immediata esecutività della sentenza di primo grado ed il carattere facoltativo dell’azione penale), ma è piuttosto un modello misto ispirato ad istituti e principi mutuati dall’uno e dall’altro dei diversi modelli di sistema accusatorio o inquisitorio. E nel nostro ordinamento, come si è già rilevato, il P.M., anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, ha conservato un ruolo di organo di giustizia deputato all’applicazione imparziale della legge, conformemente alle previsioni della Costituzione vigente e dell’ordinamento giudiziario (l’art.73 R.D. 30.1.1941 n.12 prevede che il P.M. “veglia all’osservanza delle leggi..”): un ruolo che ha consentito l’effettiva tutela dei diritti dei cittadini e della collettività e che non coincide, dunque, con quello di semplice parte, interessata solo alle ragioni dell’accusa. In definitiva appare evidente, anche a chi teorizza una più accentuata specializzazione dei magistrati nelle funzioni rivestite e nei tanti “mestieri” che le caratterizzano, che la separazione delle carriere più o meno accentuate determinerebbe una perversione della specializzazione, frutto di una cultura postmoderna che compromette una visione olistica della giurisdizione: questa, infatti, va costantemente considerata come totalità organizzata e non come somma di parti.
Quest’argomento offre lo spunto per contestare un’obiezione che spesso si muove a chi respinge la “separazione delle carriere”. “Ma Giovanni Falcone”, si dice, “era per la separazione delle carriere!”. Anche questa falsità è entrata nell’immaginario collettivo come una verità sgradevole per i magistrati, quale conseguenza di un’informazione addomesticata o, nel migliore dei casi, di una visione storica propria di commentatori disattenti. Falcone teorizzava, in realtà, in modo assolutamente condivisibile, la necessità di una più accentuata specializzazione del P.M. nella direzione della P.G., rispetto a quanto era richiesto nel regime vigente prima del codice di rito del ’98; in innumerevoli occasioni, peraltro, aveva spiegato di non condividere la necessità di separare conseguentemente le carriere all’interno della magistratura. Le sue affermazioni, risalenti a prima del ’92 e ad epoca anteriore alle ben note aggressioni subite in anni seguenti dalla magistratura, non possono dunque essere strumentalizzate da alcuno.
2.d – La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale
Sotto vesti apparentemente più nobili, si ripropone, per questa via, la tesi del sospetto sulla parzialità del giudice derivante dall’unicità della carriera con il P.M. ed, a tal fine, si prende spunto dal secondo comma dell’art. 111 (Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata) quasi che esso avesse, per questa parte, introdotto nell’ordinamento un principio nuovo, mai conosciuto in precedenza, anziché costituire una norma-manifesto, enunciativa di principio già presente e praticato nel processo penale, come in quello civile.
Tralasciando slogan suggestivi, dunque, occorre intendersi sul principio della parità tra accusa e difesa: esso è senz’altro condivisibile e persino ovvio se si riferisce al momento processuale del giudizio in genere e del dibattimento in particolare, dove accusa e difesa si devono confrontare su un piano di assoluta parità disponendo di poteri probatori perfettamente equivalenti (art.190 c.p.p.). E sul punto si dovrebbe anche ricordare che per effetto di varie riforme si è realizzato nel tempo un notevole potenziamento del ruolo della difesa nel nostro processo, persino con conseguentemente allungamento dei suoi tempi di complessivo svolgimento.
In ogni caso, appare chiaro che non ha senso scaricare sulla comunanza di carriera fra PM e giudici i “risentimenti” originati da un presunto assetto non equilibrato del processo: significa eludere i nodi reali del problema. Sono i meccanismi di concreto funzionamento del processo, dunque, che semmai incidono sulla parità tra accusa e difesa, non certo l’unicità della carriera tra giudici e P.M., i cui ruoli e figure professionali restano diversi: un controllore delle attività delle parti resta tale, e un giudice resta giudice, anche se è entrato in magistratura attraverso lo stesso concorso sostenuto dal P.M.
Ragionando diversamente – del resto - si dovrebbe imboccare, per coerenza, una strada senza uscita, nel senso di rescindere anche i rapporti fra giudici di primo grado, giudici d’appello e di cassazione, tutti diventati magistrati attraverso identico meccanismo concorsuale. Perché non si vede come i sospetti derivanti dalla “colleganza” fra PM e giudici non debbano estendersi anche ai giudici dei diversi gradi del processo.
Ma sulla parità tra P.M. e difensore bisogna dire altro ed avere l’onestà di riconoscere che essa non sussiste se riferita al piano istituzionale che vede i due ruoli completamente disomogenei: il difensore è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o comunque l’esito più conveniente per il proprio assistito (che lo retribuisce per questo) a prescindere dal dato sostanziale della colpevolezza o innocenza; il difensore che nello svolgimento delle indagini difensive ignori volutamente l’esistenza di prove a carico e si adoperi per ottenere l’assoluzione di un assistito la cui colpevolezza gli sia nota, non viola alcuna regola deontologica ed anzi assolve il proprio mandato nella piena legalità e con eventuale e personale successo professionale: senza quel ruolo non sarebbe possibile giustizia e l’immagine della bilancia che la rappresenta non potrebbe essere equilibrata.
Niente di tutto questo, però, vale per il P.M. che con il giudice condivide l’obbligo di ricerca della verità storica dei fatti e le cui indagini devono obbedire al criterio della completezza ed oggettività, con previsione di rigorosi requisiti di forma stabiliti a pena di invalidità; il pubblico ministero che redige un atto è un pubblico ufficiale che risponde disciplinarmente e penalmente della veridicità ideologica degli atti da lui documentati; il pubblico ministero non è votato – “comunque e sempre” - alla formulazione di richieste di condanna, ma si determina a richieste assolutorie ogni qualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente; formula le proprie requisitorie in piena libertà di scienza e coscienza, e in sede di udienza (in tutte le udienze e non solo in quella dibattimentale) riceve tutela anche rispetto a possibili interferenze da parte del capo dell’Ufficio (art.70 comma 4 ordinamento giudiziario e art. 53 c.p.p.).
Del significato di queste differenze ontologiche (che non intaccano in alcun modo l’etica del ruolo defensionale, di alta ed irrinunciabile valenza democratica) ciascuno può agevolmente rendersi conto, in modo da comprendere che non scomparirebbero con un’eventuale separazione delle carriere e che la loro permanenza è fatto positivo per i cittadini e per la collettività.
L’art.111 della Costituzione, dunque, nulla ha a che fare con la separazione delle carriere: la parità tra le parti, cui il secondo comma si riferisce, è quella endoprocessuale, garantita dalle regole del processo e, semmai, da una pari preparazione professionale, generale (e qui è pertinente l’ennesimo auspicio, condiviso da chi scrive, della formazione comune dell’intero ceto dei giuristi) e particolare (concernente, questa, la conoscenza del singolo processo). “Ma non postula affatto una impossibile omogeneità istituzionale tra pubblico ministero e difesa”.
2.e – La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata, senza che ciò comporti dipendenza del PM dal potere esecutivo.
E’ questa un’affermazione gratuita che, in modo stupefacente, viene utilizzata anche da autorevoli commentatori, meno dai giuristi favorevoli alla separazione, i quali – evidentemente – ne conoscono la natura di mero slogan. Si tratta di una delle tante affermazioni sistematicamente utilizzate “contro” la magistratura che hanno determinato, grazie a martellanti campagne di opinione, convinzioni tanto radicate quanto errate.
E’ opportuno, dunque, dare uno sguardo a ciò che avviene nel resto del mondo per dimostrare la mancanza di fondamento dell’opinione secondo cui l’Italia dovrebbe conformarsi ad un modello, ormai diffuso in Europa e negli Stati Uniti che, pur prevedendo la separazione delle carriere, non determinerebbe affatto, come conseguenza necessaria, la sottomissione del pubblico ministero all’esecutivo e il condizionamento delle indagini.
Sarebbe sufficiente un’analisi anche superficiale della situazione internazionale o degli ordinamenti degli Stati più evoluti per verificare che la realtà è abbastanza diversa da quella che spesso sentiamo descrivere in Italia. E’ chiaro, peraltro, che un confronto di questo tipo non è sempre utile solo che si consideri che spesso esiste una radicale differenza tra gli ordinamenti presi in considerazione, frutto di tradizioni giuridiche ed evoluzioni storiche peculiari di ciascun paese : basti pensare al fatto che in Gran Bretagna manca del tutto un pubblico ministero come noi lo intendiamo. Del resto, il prof. Alessandro Pizzorusso, a proposito di indipendenza del pubblico ministero, affermava l’irrilevanza del dato numerico relativo ai paesi che seguono l’una o l’altra impostazione : “se così non fosse, quando l’Inghilterra era l’unico paese in cui esisteva la democrazia parlamentare, si sarebbe potuto invocare l’argomento comparatistico per dimostrare l’opportunità di instaurare la monarchia assoluta, che era la forma allora assolutamente prevalente”. Però possono egualmente trarsi, dalla comparazione ordinamentale, degli spunti generali per la questione che qui interessa, utili a verificare che, nel panorama internazionale, gli ordinamenti che conoscono la separazione delle carriere non costituiscono affatto la maggioranza. Inoltre – ed il dato è molto significativo ai fini che qui interessano - ove essa costituisce la regola accade spesso che chi abbia maturato esperienze professionali di pubblico ministero acquisisce una sorta di titolo preferenziale per accedere alla carriera giudicante: dunque, quell’esperienza viene considerata molto positivamente. Ma, soprattutto, non può non considerarsi che, ove esiste la separazione delle carriere, questa porta con sè la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, una conseguenza assolutamente preoccupante, pur se non sgradita persino ad alcuni accademici. Ecco, schematicamente, con inevitabile sommarietà, la realtà di alcuni Stati europei (all’Italia geograficamente più vicini) e degli Stati Uniti, cioè di Stati i cui livelli di democrazia, pur nella diversità ordinamentale, sono sicuramente omogenei rispetto ai nostri:
in Austria, il PM è organizzato come autorità amministrativa, è gerarchicamente strutturato ed è nominato dal Ministro di Giustizia, da cui dipende. Esiste interscambiabilità dei ruoli;
in Belgio, il PM è nominato dal Re ed il passaggio da una carriera all’altra può avvenire solo per decisione dell’esecutivo, da cui, comunque, riceve direttive di carattere generale; anche il passaggio da una carriera all’altro può avvenire, per i PM, soltanto per decisione dell’esecutivo;
in Germania chi esercita la funzione requirente riveste uno status di funzionario statale dipendente, nominato dall’esecutivo ed ha garanzie diminuite rispetto ai giudici; le carriere di giudici e dei pubblici ministeri, inoltre, sono separate, ma l’interscambio è comunque possibile, pur se non è frequente e, per lo più, avviene in un’unica direzione (da PM a Giudice);
in Francia, la carriera è unica, è possibile passare da una funzione all’altra, ma il pubblico ministero, pur inserito nell’ordinamento giudiziario, dipende dall’esecutivo, è sottoposto a forme di controllo di tipo gerarchico-burocratico da parte del Ministro della Giustizia, ha un limitato controllo della polizia giudiziaria. Peraltro, i problemi che derivano dalla collocazione del p.m. sono oggi, in quel paese, all’attenzione della pubblica opinione e si è avviata una discussione sulla riforma del P.M., anche alla luce di due durissime condanne della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Moulin c. Francia del 2010 e Vasis c. Francia del 2013). Pur tra resistenze politiche manifestatesi dopo incriminazioni “eccellenti” avvenute anche in un recente passato, si tende a conferire al P.M. maggiore autonomia dall’Esecutivo.
Nel novembre 2013, ad esempio, è stato reso noto il rapporto della Commissione Ministeriale presieduta dal Procuratore Generale Onorario presso la Corte di Cassazione, Jean-Luis Nadal e composta anche da giudici, presidenti di Corte d’Appello e di Tribunale. Orbene, il rapporto, premessa la necessità di garantire l’indipendenza del Pubblico Ministero, ha sottolineato, innanzitutto, proprio la necessaria priorità della unificazione effettiva delle carriere dei giudici e dei P.M. (“Proposta n. 1: Iscrivere nella Costituzione il principio dell’unità della magistratura”), eliminando ogni ambiguità ed affidandone la completa gestione al Consiglio Superiore della Magistratura, senza interferenze dell’esecutivo. Ciò al fine di “garantire ai cittadini una giustizia indipendente, uguale per tutti e liberata da ogni sospetto”.
Dal luglio 2013, comunque, a seguito di una legge voluta dal Ministro della Giustizia pro tempore Christiane Taubira (poi dimessasi perché contraria alla “costituzionalizzazione dell’emergenza” antiterroristica), è vietato al Ministro della Giustizia di indirizzare ai pubblici ministeri linee guida in relazione a specifici casi concreti (ora, può solo formulare linee generali).
E’ stato intanto presentato un progetto di riforma che prevede di rafforzare i poteri del CSM nella nomina dei procuratori (che allo stato è totalmente nelle mani dell’esecutivo), ma esso langue nel Parlamento francese.
in Spagna, le carriere sono costituzionalmente separate senza possibilità di interscambio. Esiste una certa dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo;
in Inghilterra e Galles, come si è già detto, non esiste il pubblico ministero nelle forme da noi tradizionalmente conosciute, ma il Crown Prosecution Service che consiglia la Polizia la quale ha da sempre l’iniziativa penale e può nominare un avvocato da cui far rappresentare le sue ragioni;
in Svizzera le carriere sono separate e non vi si accede mediante concorso, ma a seguito di elezione. L’ esistenza di un ordinamento federale e di diversi ordinamenti statali e, dunque, di regole molto diverse tra loro, impedisce di approfondire il discorso in questa sede. Non è prevista alcuna forma di passaggio dalla carriera requirente e quella giudicante e viceversa;
in Olanda, previa frequentazione di corsi di aggiornamento, è possibile passare dalla magistratura giudicante all’ufficio del p.m. (e viceversa), ma il PM è sottoposto alle direttive dell’esecutivo per l’esercizio discrezionale dell’azione penale;
il sistema statunitense, pur se notoriamente molto diverso dal nostro, permette comunque riflessioni interessanti sul tema in esame: è un sistema che si divide in un sistema di giustizia federale, ove predomina la nomina da parte del Presidente degli Stati Uniti, ed un sistema di giustizia statale ove predomina il sistema elettorale. Orbene, pur in questa situazione di radicale differenza rispetto al nostro sistema, è possibile verificare la esistenza di una interscambiabilità tra i ruoli di giudici e pubblici ministeri che coinvolge anche l’avvocatura, dalla quale, come si sa, spesso provengono i pubblici ministeri e i giudici.
Dunque, una riflessione può trarsi dall’analisi, pur sommaria, del panorama internazionale: ovunque la carriera del PM sia separata da quella del giudice, non solo il PM stesso dipende dall’esecutivo (con l’unica eccezione del Portogallo, la cui realtà non può ritenersi, però, così qualificante da ispirare le tendenze del nostro ordinamento,come appresso si dirà), ma esiste, comunque, un giudice istruttore indipendente. Così, ad es., è in Francia e Spagna ove il ruolo del pubblico ministero italiano è esercitato (non senza qualche occasione di polemica con i pubblici ministeri) dal giudice istruttore, figura soppressa nel nostro sistema: evidentemente, dunque, anche in quegli ordinamenti vi è necessità di un organo investigativo che sia totalmente indipendente dall’esecutivo. Non è il caso, pertanto, di guardare ad altri ordinamenti per trarne indicazioni incoraggianti circa la possibilità di preservare l’indipendenza del P.M. dall’esecutivo in caso di separazione delle carriere.
2.e/1 – La particolarità del Portogallo
La schematica analisi che precede dovrebbe, da sé, convincere dell’impossibilità di importare un sistema ordinamentale di separazione delle carriere senza determinare, conseguentemente, la sottoposizione del P.M. all’esecutivo. Ma, per esorcizzare questa ipotesi, impresentabile persino per la pubblica opinione più disattenta, qualcuno si affanna a spiegare che, in realtà, nessuno pensa, in Italia, ad un pubblico ministero sottoposto all’esecutivo : non sarebbe comprensibile, dunque, la reattività della magistratura rispetto al tema della separazione delle carriere. Si vedrà appresso che, per la verità, si sta già autorevolmente “lavorando” all’ipotesi di un controllo dell’esecutivo sull’esercizio dell’azione penale. Ma qui si vuol dimostrare altro: che dalla separazione delle carriere, cioè, scaturirebbe comunque un’involuzione della cultura giurisdizionale del P.M., pericolosa – per l’effettiva attuazione dei principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per la tutela delle loro garanzie – almeno quanto quella derivante dalla sottoposizione del P.M. all’esecutivo.
Importanti elementi di riflessione possono trarsi dall’esperienza ordinamentale portoghese: in Portogallo, sin dalla rivoluzione dei garofani (1974), vige un sistema di separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti, senza sottoposizione di questi ultimi al potere esecutivo. Orbene, questo sistema ha determinato esattamente, nel corso della sua quasi trentennale applicazione, quel progressivo affievolimento della cultura giurisdizionale dei p.m., che è l’oggetto delle preoccupazioni della magistratura italiana. Ne ha parlato spesso, anche in Italia, un esperto magistrato portoghese, il quale, ricordata la molteplicità delle funzioni attribuite al P.M., anche in quel Paese, a difesa della legalità ed a tutela del principio di eguaglianza, ha spiegato che attorno alla fine degli anni ’80 – inizio anni ’90, proprio quando l’ufficio del P.M. ha iniziato a sviluppare un’attività giudiziaria indipendente e capace di mettere in crisi la tradizionale impunità del potere economico e politico, si sono levate “autorevoli” voci a mettere in dubbio la legittimità democratica dell’ufficio del fiscal (il nostro P.M.), la diversa natura di quest’organo rispetto al potere giudiziario, la possibilità dei titolari di dare direttive alla polizia criminale e la stessa possibilità di iniziativa autonoma nel promovimento dell’azione penale. Il dibattito in questione –ha dichiarato il magistrato portoghese - aveva determinato il rischio di dar vita ad un modello di privatizzazione dell’indagine, del processo penale e della giustizia penale, auspicato dalla parte più conservatrice dell’opinione pubblica e da una parte dell’avvocatura. Ma la separazione delle carriere, pur in un regime di indipendenza dall’esecutivo del P.M., ha prodotto in Portogallo una divisione nella cultura professionale dei giudici e dei magistrati del fiscal. I pubblici ministeri hanno sviluppato una tendenza pratica a valorizzare eccessivamente gli obiettivi della sicurezza a detrimento dei valori della giustizia, mentre i giudici hanno sviluppato un’attitudine formalista che li conduce spesso ad assumere una posizione di semplici arbitri, anche quando i casi loro sottoposti esigerebbero un loro diretto intervento ed impegno per il raggiungimento degli obiettivi di giustizia. E’ stata vanificata, dunque, l’originaria intenzione del legislatore di rafforzare le garanzie dei cittadini di fronte alla legge e si è compromessa l’efficacia del processo penale. Parallelamente, infine, si è sviluppata e si è progressivamente acuita una tendenza al pregiudizio corporativo che ha innescato pericolose tensioni tra giudici, magistrati del fiscal e avvocati.
Ecco dimostrate, dunque, la perversione della specializzazione, la frammentazione dei mestieri, la perdita della visione globale e coordinata della giurisdizione.
3. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera
Nell’esporre le ragioni “contro”, si sono già in buona parte illustrate, attraverso la loro confutazione, quelle che suggeriscono di mantenere fermo l’attuale assetto ordinamentale delle carriere dei magistrati. Ma altre ne esistono.
3.a – La prospettiva del Consiglio d’Europa
Per completare la carrellata sul panorama internazionale, è molto importante ricordare come il modello ordinamentale italiano è quello verso cui tende la comunità europea. Vanno a tal fine citate almeno due importanti documenti ricchi di inequivocabili affermazioni, l’uno risalente al 2000 e l’altro più recente del dicembre 2014: il primo è costituito dalla Raccomandazione REC (2000)19 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale”, adottata il 6 ottobre 2000, ove si prevede (al punto 18) che:
“…se l’ordinamento giuridico lo consente, gli Stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire ad una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice, o viceversa. Tali cambiamenti di funzione possono intervenire solo su richiesta formale della persona interessata e nel rispetto delle garanzie”.
Si afferma, inoltre, sempre nella Raccomandazione (parte “esposizione dei motivi”), che:
“La possibilità di <> tra le funzioni di giudice e quelle di Pubblico Ministero si basa sulla constatazione della complementarità dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine della garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza, di statuto. Ciò costituisce una garanzia anche per i membri dell’ufficio del pubblico ministero”.
Il secondo è il nuovo parere 9 (2014) del Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei destinato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, approvato a Roma il 17 dicembre 2014, avente ad oggetto “Norme e principi europei concernenti il Pubblico Ministero”, contenente la cosiddetta Carta di Roma” ed una nota esplicativa dettagliata dei principi contenuti nella Carta stessa.
Orbene, in questo importante documento, pur non essendo mai formalmente citate la necessità di unicità delle carriere di pubblici ministeri e giudici e la possibilità del conseguente interscambio di funzioni (implicitamente auspicate), sono con forza ribaditi tutti i principi che in tal senso depongono e che vengono in questa relazioni ribaditi.
Ecco perché è possibile affermare che la comunità internazionale viaggia proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione. Quasi mai per buone ragioni.
3.b – La cultura giurisdizionale deve appartenere anche al PM
Si è già più volte parlato, fin qui, di cultura giurisdizionale, ma vale la pena di approfondire il tema anche perché – è inutile negarlo – a molti cittadini, e talvolta anche agli addetti ai lavori, l’espressione appare spesso incomprensibile, quasi si trattasse di innalzare ad arte una cortina fumogena per celare supposti privilegi corporativi. O quasi si trattasse di uno slogan pubblicitario.
E’ quasi d’obbligo, innanzitutto, ripetere alcuni rilievi nient’affatto originali: l’Associazione Nazionale Magistrati, ad esempio, “ritiene che l’osmosi tra le diverse funzioni di giudice e di Pm, con la possibilità di passaggio dei magistrati dall’una all’altra, nell’ambito di un’unica carriera, mantenendo il P.M. nella cultura della giurisdizione, assicuri la finalizzazione esclusiva dell’attività degli uffici del pubblico ministero alla ricerca della verità”. In altre parole, la possibilità di interscambio di ruolo significa innanzitutto l’acquisizione di una cultura che conduce il pubblico ministero - o dovrebbe condurlo - a valutare la fondatezza, la portata ed il valore degli elementi probatori che raccoglie non in funzione dell’immediato risultato o della cd. “brillante operazione” cui tengono evidentemente molto di più le forze di polizia, ma in funzione della loro valenza rispetto alla fase del giudizio. I canoni della valutazione della prova, cioè, devono unire pubblici ministeri e giudici, dando vita ad un sistema più garantito per i cittadini.
Del resto, nell’ambito del procedimento penale, il pubblico ministero svolge un ruolo di controllo sulla legalità dell’operato della polizia giudiziaria che ne rende palese la natura di organo di giustizia vicino piuttosto alla figura del giudice che a quella di parte deputata a sostenere in sede processuale le tesi della polizia, come avviene negli ordinamenti veramente ispirati al modello accusatorio: basti pensare agli interventi del P.M. in tema di liberazione immediata della persona arrestata o fermata fuori dai casi previsti dalla legge (art.389 c.p.p.), oppure alla attività di convalida o non convalida delle perquisizioni o dei sequestri operati dalla polizia giudiziaria, alla preliminare selezione dei casi in cui è opportuno trasmettere al Gip le richieste di intercettazioni telefoniche sollecitate dalla polizia. Si tratta all’evidenza di interventi nei quali il P.M. non svolge un ruolo repressivo ma al contrario un ruolo istituzionale di garanzia e di tutela dei diritti di libertà e dei diritti patrimoniali del cittadino nei confronti di provvedimenti limitativi adottati dagli organi di polizia di cui, diversamente, verrebbero incentivate prassi criticabili, ancora oggi emergenti. Un ruolo che il PM non potrebbe esercitare efficacemente senza essere inserito, appunto, nella cultura della giurisdizione: un inserimento tanto più saldo quanto più vi sia possibilità per chi sia stato giudice di diventare PM e viceversa. Il PM, insomma, deve saper esercitare un ruolo efficace e corretto di direzione della polizia giudiziaria, senza appiattirsi, da un lato, sulle esigenze della investigazione pura e senza rinunciare, dall’altro, a quella cultura della giurisdizione che costituisce la barriera più solida contro i ricorrenti progetti di separazione delle carriere. Se questo legame si attenua o viene reciso, si apre la strada alla deriva del PM verso culture, deontologie e prassi ben diverse da quelle del giudice: “un corpo separato di pubblici ministeri è destinato inevitabilmente a perdere la propria indipendenza dall’esecutivo. Per la decisiva ragione che non è democraticamente ammissibile l’irresponsabilità politica di un apparato di funzionari pubblici numericamente ridotto (poco più di 1900 unità), altamente specializzato, con ampie garanzie di status, preposto in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale: questo potere o è compensato dalla polverizzazione dei suoi titolari, dalla loro ampia rotazione nel tempo e dal loro ancoraggio alla giurisdizione (pur nelle peculiarità che li caratterizzano) oppure deve essere riportato alla sfera della responsabilità politica”. Anni fa, lo ha affermato efficacemente e lucidamente anche Alessandro Pizzorusso: “Nel dibattito invelenito che è attualmente in corso gli argomenti sembrano avere perso ogni capacità di persuasione e la rivendicazione della separazione delle carriere viene agitata come una clava, senza tener conto nemmeno del fatto che un pubblico ministero assolutamente indipendente e rigorosamente gerarchizzato (con la polizia si suoi ordini) costituirebbe il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell’epoca contemporanea (e infatti non lo si è mai avuto in alcun paese)”.
L’unica alternativa possibile, per un PM divenuto altro dalla giurisdizione, sarebbe, dunque, di finire alle dipendenze (che significa agli ordini) del Governo: e ciò per ragionamento logico ed istituzionale, non certo in base ad arbitrari processi alle intenzioni di questa o quella maggioranza politica contingente (i cui eventuali diversi “colori” sono del tutto indifferenti rispetto agli argomenti qui in esame).
Ancora un’ annotazione si impone sul punto : alla vigilia del fallito referendum abrogativo del 2000, si registrò una impennata di domande di trasferimenti di pubblici ministeri ad uffici giudicanti. Ad avviso di chi scrive, ciò si spiega con la preoccupazione - che evidentemente i p.m. all’epoca nutrivano - di vedersi precluso l’eventuale accesso alla carriera giudicante e di essere in breve sottoposti alle direttive dell’esecutivo: ciò significa che la cd. “cultura giurisdizionale” e l’orgoglio della propria indipendenza, costituzionalmente garantita, sono valori che vivono profondamente nella coscienza dei magistrati italiani e che, con l’aiuto dell’Avvocatura, andrebbero rafforzati, piuttosto che mortificati.
3.c – I dati statistici
E’ opportuno ragionare attorno ad aggiornati dati statistici: si parla molto spesso, infatti, del rischio di inquinamento della funzione giudicante che sarebbe determinato dal continuo passaggio dei magistrati da una carriera all’altra; in realtà, anche a prescindere dalla superficiale prospettazione di questo timore (si rimanda a quanto sin qui specificato), quasi mai si considerano i dati statistici di cui pure si dispone e che il CSM – nel 2000 - inviò anche al Comitato promotore del citato referendum abrogativo. Tra il ’93 ed il ’99, infatti, la percentuale di giudici trasferitisi a domanda agli uffici del P.M. risultava sostanzialmente costante, oscillando tra un minimo del 6% ed un massimo dell’8,50% ; anche nel caso di trasferimenti in direzione opposta, le percentuali nello stesso periodo erano costanti, oscillando tra il 10% e il 17%. . Tali dati sono vistosamente “crollati” a seguito delle limitazioni introdotte d.lgs n. 160/2006, successivamente modificate dalla legge n. 111/2007.
Si riproducono di seguito, infatti, i dati relativi ai trasferimenti con contestuale cambio di funzioni (da requirenti a giudicanti e viceversa), forniti dal Consiglio Superiore della Magistratura, relativi al periodo 1 gennaio 2011 – 30 giugno 2016 (cioè, agli ultimi 5 anni e mezzo):
Trasferimenti da funzioni requirenti a funzioni giudicanti .
nel periodo 1 gennaio 2011 – 30 giugno 2016
Totale: 101, così suddivisi:
Numero requirenti trasferiti e specifica funzione di provenienza
|
Specifica funzione giudicante
oggetto del trasferimento
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61 Sostituti Procurat. Repubblica c/o Tribunale
3 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale Minori
2 Procurat. della Repubblica Aggiunti
Totale 66
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Giudice Tribunale
(non è noto, tra i 66 trasferiti, il numero degli
ex requirenti destinati al settore civile)
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11 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale
1 Sost. Procurat.Repubbl. c/o Tribunale Minori
Totale 12
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Giudice Tribunale Sezione Lavoro
|
1 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale
Totale 1
|
Presidente Sezione Tribunale
|
1 Sostituto Procurat. Repubblica c/o Tribunale
1 Sost. Procurat. Generale c/o C. Appello
Totale 2
|
Magistrato distrettuale Giudicante
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5 Sostituti Procurat. Repubblica c/o Tribunale
1 Sostituto Procurat. Naz.le DNAA
1 Procuratore Repubbl. c/o Tribunale Minori
2 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale Minori
Totale 9
|
Consigliere di Corte d’Appello
|
1 Sost. Procurat. Generale c/o C. Appello
Totale 1
|
Presidente Sezione di Corte d’Appello
|
1 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale
Totale 1
|
Consigliere Corte App. Sezione Lavoro
|
3 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale
Totale 3
|
Magistrato di sorveglianza
|
2 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale
Totale 2
|
Magistrato di Trib. destinato a Corte Cass.
|
1 Procuratore della Repubblica
2 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale
1 Sost. Procurat. Generale c/o C. Appello
Totale 4
|
Consigliere Corte di Cassazione
|
Trasferimenti da funzioni giudicanti a funzioni requirenti
nel periodo 1 gennaio 2011 – 30 giugno 2016
Totale: 78, così suddivisi:
Numero giudicanti trasferiti e specifica funzione di provenienza
|
Specifica funzione requirente
oggetto del trasferimento
|
1 Presidente Tribunale
Totale 1
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Procuratore della Repubblica c/o Tribunale
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22 Giudici di Tribunale
2 Consiglieri di Corte d’Appello
1 Presidente Sezione Tribunale
1 Magistrato di sorveglianza
Totale 26
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Sostituti Procurat. Repubbl. c/o Tribunale
|
2 Giudici di Tribunale
1 Magistrato di sorveglianza
1 Consigliere di Corte d’Appello
Totale 4
|
Sostit.Procurat. Repubbl. c/o Tribun. Minori
|
1 Giudice Tribunale
1 Giudice Tribunale Minori
Totale 2
|
Procur. della Repubbl. c/o Trib. Minori
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1 Giudice Sezione LavoroTribunale
1 Giudice Tribunale
1 Consigliere di Corte d’Appello
Totale 3
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Magistrato distrettuale Requirente
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1 Consigliere Sez. Lavoro Corte Appello
4 Consiglieri Corte d’Appello
1 Presidente Sezione Tribunale
2 Presidente Tribunale Sorveglianza
1 Magistrato di Sorveglianza
8 Giudici Tribunale
2 Giudici Tribunale Minori
Totale 19
|
Sostit. Proc. Generale c/o Corte d’Appello.
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1 Giudice Tribunale
Totale 1
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Avvocato Generale c/o Corte d’Appello
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2 Consiglieri Corte di Cassazione
5 Giudici Tribun. destinati a Corte Cassazione
4 Consiglieri di Corte d’Appello
2 Consiglieri Sez. Lavoro Corte d’Appello
1 Presidente Tribunale Sorveglianza
2 Magistrati di Sorvegianza
1 Presidente Sezione Tribunale
5 Giudici Tribunale
Totale 22
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Sost. Procur. Gener. c/o Corte di Cassazione.
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Pertanto, considerando:
il numero dei magistrati effettivamente in servizio al 30 giugno 2016:
REQUIRENTI: 2192;
GIUDICANTI : 6453;
il numero totale (già riportato in testa ai due prospetti precedenti) di quelli trasferiti da una funzione all’altra negli ultimi 5 anni e mezzo (per rimanere a dati aggiornati):
REQUIRENTI: 101;
GIUDICANTI : 78;
il deducibile numero annuo medio dei magistrati trasferiti da una funzione all’altra negli ultimi 5 anni e mezzo (per rimanere a dati aggiornati):
REQUIRENTI: 18,36
GIUDICANTI : 14,18;
ne deriva che negli ultimi cinque anni e mezzo la percentuale annua dei magistrati trasferiti da una funzione all’altra (rispetto al numero di quelli effettivamente in servizio nell’una e nell’altra funzione) - è la seguente:
REQUIRENTI: 0,83
GIUDICANTI : 0,21
Tale percentuale sarebbe poi ancora più irrilevante se la si rapportasse al numero più alto dei magistrati previsti in organico, anzichè a quello dei magistrati effettivamente in servizio.
Quali riflessioni trarre da questi dati? Da un lato, evidentemente, che quella “trasmigrazione”, secondo alcuni “inquinante” culturalmente e professionalmente, non è poi così massiccia come si crede, anzi è quantitativamente marginalissima; dall’altro, che la ragione di questa contenuta tendenza alla preservazione della funzione esercitata sta forse nel fatto che si va affermando quell’esigenza di specializzazione che molti indicano tra i possibili e più efficaci strumenti di risoluzione di conflitti e tensioni.
3.d - Unica formazione e unico CSM
Ecco, dunque, che la magistratura, anche grazie ai principi contenuti nelle circolari del CSM, è in grado – da sé – di amministrare con razionale equilibrio i frutti derivanti, da un lato, dalla pluralità delle esperienze professionali e, dall’altro, dalla specializzazione nell’esercizio di determinate funzioni. Ma, come s’è detto in precedenza, la specializzazione ha senso all’interno di una visione globale della giurisdizione: l’appartenenza ad un’unica carriera, dunque, pur nella diversità delle funzioni esercitate, giustifica un percorso professionale unico di formazione e di aggiornamento professionale e giustifica l’esistenza di un unico Consiglio Superiore della Magistratura, di un’unica Scuola per l’aggiornamento da aprire il più possibile all’Avvocatura per favorire l’intensificarsi di una formazione comune, pur nella diversità delle professioni: verrebbe da chiedersi, anzi, perché non è stata mai formulata o seriamente presa in considerazione l’ipotesi di un’unica Scuola di formazione per magistrati ed avvocati.
Ma è comunque evidente che formazione comune ed un unico CSM, in presenza di carriere dei magistrati definitivamente separate, non avrebbero ragione di essere. E sarebbe un danno per tutti, a partire dai cittadini utenti della giustizia.
3.e - Condizionamento del giudice: conseguenza certa della separazione delle carriere
Va da sé che la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e/o l’involuzione culturale che lo colpirebbe in caso di separazione delle carriere finirebbero con il condizionare il giudice, in quanto al suo esame sarebbero sottoposti unicamente gli affari trattati da un pubblico ministero che, inevitabilmente e come avviene in altri ordinamenti, dovrebbe attenersi alle direttive ministeriali (o parlamentari) in materia o che potrebbe essere condizionato, a secondo dei momenti storici, da orientamenti culturali e giuridici di natura prevalentemente securitaria o, comunque qualcuno vorrebbe nel presente contesto storico, ispirati alla necessità di privilegiare le esigenze dell’economia e del mondo imprenditoriale etc. . Si comprende, dunque, come anche la funzione giurisdizionale in senso stretto ne risulterebbe gravemente vulnerata
3.f – La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia
E’ noto che negli ultimi anni sono stati compiuti in Europa passi concreti verso la realizzazione di un’effettiva rete di cooperazione giudiziaria nel campo criminale. Sono stati costituiti organismi di polizia, amministrativi e para-giudiziari di indubbia importanza (Europol, Rete giudiziaria europea e relativi “punti di contatto” tra le autorità giudiziarie degli Stati membri dell’Unione, magistrati di collegamento, Olaf nel settore antifrode, Eurojust, Corte Penale internazionale permanente) ed è noto che si discute della creazione di un vero e proprio ufficio del P.M. europeo (anche se competente solo su alcuni tipi di reato) e del Corpus Juris che dovrebbe dar vita ad un diritto penale sostanziale minimo, comune a tutti gli Stati membri.
In questa prospettiva, e mentre i lavori sono ancora in corso, si pone in tutta la sua evidenza, non solo per l’Italia, il problema della garanzia di indipendenza che dovrà essere riconosciuta ai magistrati che, a vario livello, esercitano ed eserciteranno la funzione di P.M. in tutti gli organismi giudiziari sovranazionali ed internazionali che sono stati rapidamente (ed un po’ tumultuosamente) creati nel corso del decennio scorso e di cui – in altri casi – ancora si discute.
Orbene, valutando il “senso di marcia” della evoluzione in atto, i poteri di ingerenza nelle funzioni giudiziarie di indagine che inevitabilmente saranno attribuiti agli organismi internazionali, i loro compiti di coordinamento, di impulso ed iniziativa rispetto agli organi inquirenti nazionali ed in settori criminali di indubbio ed oggettivo rilievo, appare evidente che la preservazione dell’attuale assetto ordinamentale potrà garantire la presenza in quegli organismi di magistrati italiani indipendenti dall’esecutivo ed animati da quella cultura giurisdizionale di cui si è fin qui più volte parlato.
Una cultura che l’Italia dovrebbe preoccuparsi di diffondere nel resto di Europa, invece di disperdere.
4. – Rapporti tra potere politico e magistratura. E’ passato il tempo delle riforme “rancorose”.
In ogni parte del mondo, come si sa, si registrano contrasti tra giustizia, politica, economia, ma in nessuna parte del mondo il livello di tali contrasti ha portato, come in Italia, ad una situazione di vero pericolo per l’indipendenza della magistratura ed al rischio di violazione del principio della separazione dei poteri che è alla base di ogni ordinamento democratico. Ci si vuol qui riferire ad un passato che, sia pur non troppo lontano, sembra definitivamente tramontato: basti pensare alle accuse di parzialità e mala fede rivolte ai magistrati anche da chi rivestiva talune importanti cariche istituzionali. La crisi della divisione dei poteri si mostrò in tutta la sua pericolosità in Senato, il 5 dicembre 2001, allorchè venne approvata, a maggioranza, una mozione in cui si “denunciavano” riunioni clandestine tra giudici e PM per trovare il modo di violare la legge sulle rogatorie e si bocciavano senza appello l’interpretazione della medesima adottata dai collegi giudicanti milanesi (indicando loro quella che sarebbe stata corretta) e le decisioni da questi assunte in tema di impedimenti a comparire in giudizio di imputati parlamentari. Nello stesso senso, peraltro, andavano le reazioni di parti consistenti del mondo politico successive a sentenze sgradite. Significativamente, dopo una decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, sgradita ad imputati eccellenti ed ai loro difensori (in buona parte parlamentari), si riaccese il dibattito sulle riforme ordinamentali, prima tra tutte proprio quella sulla separazione delle carriere, che veniva presentata, per l’ennesima volta, come una riforma da attuarsi rapidamente in nome dell’efficienza e delle garanzie per i cittadini, pur non avendo a che fare né con l’una, nè con le altre. Essa andava ad iscriversi, piuttosto, all’interno di un pacchetto di riforme “rancorose” e punitive caratterizzate da un solo fine: il depotenziamento del ruolo del P.M. e la sua sottoposizione al potere esecutivo.
L’1.2.03, l’on.le G. Pecorella, Presidente della Commissione Giustizia della Camera, lanciava la proposta di far eleggere i dirigenti delle Procure da organismi politici (Parlamento e Consigli Regionali) ed il Ministro della Giustizia rilanciava, due giorni dopo, ipotizzando concorsi separati per l’accesso alle due carriere e concorsi ulteriori per il passaggio dall’una all’altra E già da tempo, inoltre, si discuteva dell’attribuzione al Parlamento, su proposta del Ministro della Giustizia, delle scelte delle priorità investigative (il che sarebbe stato sufficiente di per sé a vanificare il principio di obbligatorietà dell’azione penale ed a depotenziare il ruolo del P.M., senza neppure necessità di sottoporlo al controllo dell’esecutivo), nonché dello sganciamento dell'attività della P.G. dalla direzione e dal controllo del P.M. (oggetto, più avanti, di un ulteriore progetto di riforma del procedimento penale, contenuto nel DDL n. 1440, approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 febbraio 2009. Il suo cuore era costituito proprio dal ridimensionamento del ruolo del PM, che – secondo note enunciazioni – avrebbe dovuto assumere la veste di “avvocato dell’accusa” o “avvocato della polizia”, in un contesto che ne avrebbe determinato burocratizzazione ed ancora una volta sottoposizione di fatto all’esecutivo).
Proprio quest’ultima prospettiva appare allarmante almeno quanto quella dell’allontanamento ordinamentale e culturale del P.M. dal giudice: sottrarre ai Pubblici Ministeri la direzione ed il coordinamento della Polizia Giudiziaria non solo farebbe rivivere il regime antecedente a quello introdotto dal Codice di rito dell’88, ma depotenzierebbe l’organo dell’accusa e, riducendolo al rango di funzionario amministrativo, comprometterebbe inevitabilmente il livello delle garanzia riconosciute ai cittadini.
E’ probabilmente vero – e chi scrive ne è convinto - che il livello di queste preoccupazioni è oggi notevolmente diminuito anche se la storia di questo Paese ed, in particolare, quella che riguarda i rapporti tra politica e magistratura in Italia, non è tranquillizzante e deve indurre tutti alla massima attenzione. E ciò - è bene chiarirlo - indipendentemente dal colore dei governi che si sono succeduti nella guida politica del Paese.
Proprio per questa ragione, è auspicabile che Avvocatura e Magistratura, con il contributo determinante del mondo accademico, uniscano le loro forze, fino a determinare una sinergia virtuosa che, lungi dal ritorno alla proposta della separazione delle carriere (francamente anacronistica dopo la riforma e le previsioni illustrate nella prima parte di questa relazione), peraltro attraverso passaggi di dubbia costituzionalità, si concentri sulle cause vere delle disfunzioni del processo, a partire dalla drammatica carenza di personale amministrativo e dalle ipotesi di riforma allo stato oggetto di attenzione della Commissione Giustizia del Senato (ci si riferisce al Disegno di legge n. 2798/A di riforma del processo penale, per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi, approvato nel settembre 2015, in prima lettura, dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati).
5. La proposta di legge costituzionale elaborata dall'Unione delle Camere Penali, (con cenni all’obligatorietà dell’azione penale ed al tema delle priorità).
Nell’ovvio rispetto per le elaborazioni e le proposte formulate dall’Avvocatura, in particolare per quella di modifica costituzionale elaborata dall’Unione delle Camere Penali, appaiono chiare – alla luce di quanto sin qui precisato - le ragioni della contrarietà di chi scrive al contenuto delle proposte di modifica dei seguenti articoli della Costituzione e dei principi in essi affermati:
Art. 104, con suddivisione formale della magistratura in giudicante e requirente, nonché istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura giudicante;
Art. 105, con precisazioni delle competenze, anche disciplinari, del Consiglio Superiore della Magistratura giudicante;
Art. 105 bis e 105 ter (da inserire), con istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura requirente e precisazioni delle sue competenze, anche disciplinari;
Art. 105 quater (da inserire), con istituzione della Corte di giustizia disciplinare, separata dal CSM e con competenze nei confronti sia dei giudici che dei pubblici ministeri ordinari;
Art. 106, con previsione di distinti concorsi per magistrati giudicanti e requirenti, nonché di possibilità di nomina (da disciplinarsi per legge) di avvocati e professori ordinari di materie giuridiche a tutti i livelli della giurisdizione;
Art. 107, con previsione di distinte competenze dei due istituendi Consigli Superiori rispetto a trasferimenti ed altro di magistrati giudicanti e requirenti; e con soppressione del co. 3 (“I magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni”);
Art. 110, con inserimento della citazione dei due istituendi distinti Consigli Superiori della Magistratura nella norma che prevede la competenza del Ministro della Giustizia in ordine a “organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”.
Un sistema così articolato finirebbe con il favorire “..l’autoreferenzialità delle due categorie di magistrati, avviando una scissione fondata…tra l’attitudine prevalente a giudicare in posizione di terzietà e l’attitudine prevalente a formulare accuse da una posizione di parte”.
Merita specifica attenzione, però, la previsione di un’altra proposta di modifica costituzionale, quella dell’art. 112, secondo cui, dopo le parole “Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” dovrebbero essere aggiunte le seguenti : “secondo e forme previste dalla legge”.
Si tratta di una proposta tanto indefinita quanto inaccettabile, almeno per chi scrive.
Sono infatti noti a tutti problemi e difficoltà che si frappongono all’effettiva applicazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma si tratta di un principio da difendere con convinzione perché garantisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: per questo è semmai il malato da aiutare a guarire, non la malattia da cancellare, come in molti vorrebbero!
E’ chiara la ragione per cui quel principio garantisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: essi sanno che, essendo il PM obbligato a perseguirli, tutti gli accertati responsabili di qualsiasi reato saranno condotti dinanzi ad un Tribunale per essere giudicati, senza distinzione di razza, religione, censo e senza possibilità di influenza sull’esito delle indagini del loro eventuale potere economico o politico.
Ci si deve domandare, allora, come mai esistano accaniti “detrattori” del principio affermato nell'art. 112 Cost., pronti a sostenere che si potrebbe rendere discrezionale l'azione penale senza necessità di trasformare il PM in un organo dipendente dall’esecutivo e senza compromettere il principio inviolabile dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Le ragioni addotte a sostegno di questa posizione sono di duplice natura: tecniche, quelle di alcuni osservatori e giuristi che possono essere definiti “pragmatici”; politiche, quelle di chi – magari obliquamente – intende condizionare il ruolo del pubblico ministero, apparentemente preservandone l’indipendenza dall’esecutivo, in realtà mirando ad impedirgli di avviare indagini ed esercitare l’azione penale per certi reati e nei confronti di certi imputati.
Entrambe le posizioni si fondano su un identico rilievo di partenza, quello concernente le note difficoltà che si oppongono all’effettiva realizzazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale.
Si è già detto che questo principio postula per il PM l’obbligo di avviare l’indagine preliminare per ogni tipo di reato di cui egli abbia comunque notizia. Si obietta però che, nonostante quanto previsto dall’art. 112 Cost., soltanto una parte dei reati commessi viene effettivamente perseguita: le notizie di reato pervenute al PM e le procedure d’indagine che si avviano, infatti, sarebbero troppo numerose ed ingestibili, costringendo il PM stesso ad operare una selezione. L’obbligatorietà dell’azione penale, dunque, non troverebbe effettiva applicazione nella realtà ed il PM, pur obbligato per legge a non scegliere, finirebbe per agire discrezionalmente selezionando gli affari da trattare e quelli da trascurare. Tale discrezionalità, peraltro, sarebbe esercitata senza criteri predeterminati o secondo criteri diversi tra Procura e Procura e, all’interno del singolo ufficio, tra i magistrati che lo compongono. In certi casi, poi, il PM sarebbe indifferente all’esito dei procedimenti di cui è oberato, mentre in altri la scelta di procedere o meno per un reato finirebbe con l’essere politicamente orientata, al punto da indurre il PM a perseguire i reati in cui sono coinvolti personaggi di orientamento politico a lui non gradito e contemporaneamente a tralasciarne altri che pure destano grave allarme sociale e pericolo per la sicurezza dei cittadini. In ogni caso, il destino finale per molti reati sarebbe costituito dalla prescrizione o dall’archiviazione per la mancata acquisizione degli elementi utili ad esercitare l’azione penale.
A questo punto, le proposte “costruttive” per la modifica del sistema esistente si differenziano in ordine all’individuazione dell’istituzione o autorità cui attribuire competenza e responsabilità di dettare periodicamente i criteri-guida uniformi per l’esercizio discrezionale dell’azione penale da parte dei pubblici ministeri.
Quale potrebbe essere tale istituzione o autorità? Il Governo, tramite indicazioni del Ministro della Giustizia o il Ministro stesso, afferma taluno, con ciò aprendo la strada alla sottoposizione del PM all’esecutivo. Il Parlamento, previa discussione generale e trasparente, rispondono altri, così accettando la possibilità che l’azione penale sia condizionata dalle scelte della maggioranza politica di turno e che il dibattito parlamentare finisca inevitabilmente con l’investire il modo di operare di questo o quell’ufficio giudiziario. Ma c’è pure chi individua l’istituzione competente a regolare la presunta discrezionalità dei PM nel Consiglio Superiore della Magistratura (che mai, invece, si è ritenuto competente ad orientare il merito delle scelte giurisdizionali), chi pensa al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, chi ai Consigli Giudiziari operanti su base distrettuale e così in grado di valorizzare esigenze territoriali, chi ai singoli Procuratori della Repubblica (cui, anche per questo , dovrebbero essere riconosciuti poteri di tipo gerarchico). E c’è pure chi pensa ad una interlocuzione complessa tra tutte – o quasi tutte - queste Istituzioni, ritenendole a vario titolo competenti.
Vi è poi un altro argomento spesso utilizzato a sostegno delle ragioni sia dei giuristi “tecnici” che di quelli “politici”. Nasce da uno sforzo incolto di usare il diritto comparato a proprio uso e consumo e consiste nell’affermare che il sistema italiano costituirebbe l’eccezione in un panorama internazionale asseritamente caratterizzato dal principio di discrezionalità dell’azione penale e da quello inevitabilmente connesso della dipendenza del PM dal potere esecutivo, che ne detta le linee d’azione. L’affermazione è sicuramente errata: esistono in Europa, infatti, sistemi in cui l’azione penale è obbligatoria, altri in cui è discrezionale, altri ancora in cui esistono temperamenti all’uno o all’altro principio (per cui l’obbligatorietà è talvolta condizionata all’effettiva gravità del reato e, dunque, all’ “economicità” in senso lato del processo, mentre la discrezionalità orientata dal prevalere dell’interesse delle vittime dei reati). Negli Stati Uniti, poi, le direttive per l’esercizio dell’azione penale sono periodicamente dettate dall’Attorney General (figura che racchiude in sè le funzioni tanto del nostro Ministro della Giustizia che del Procuratore Generale presso la Cassazione), ma lì – e questa è la principale differenza con l’Italia - nemmeno il Presidente protesta se il Prosecutor lo incrimina. Nei sistemi europei in cui le direttive dell’esecutivo regolano il principio della discrezionalità dell’azione penale, esiste comunque la figura del Giudice Istruttore indipendente (da noi abolita ormai più di vent’anni fa), che può rimediare alle inerzie del PM.
Insomma, il significato del dato comparatistico non può essere enfatizzato, né assunto come parametro di valutazione del nostro sistema. E le differenze ordinamentali esistenti tra uno Stato e l’altro spesso derivano da secolari differenze di cultura giuridica e politica.
L’elencazione delle ragioni della crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e dei possibili rimedi (inclusi riferimenti al controverso tema delle priorità) richiederebbe il doppio dello spazio, già troppo ampio, occupato dalla presente relazione.
Sia permesso, allora, il riferimento ai seguenti interventi di chi scrive, ai quali si rimanda:
“Obbligatorietà dell’azione penale”, in “Giustizia, la parola ai magistrati”, a cura di Livio Pepino (Laterza, 2010);
“Nuovi criteri di organizzazione della Procura della Repubblica di Torino del 23 giugno 2015”, in particolare : paragrafi nn. 10 e 11 (da pag 131 a pag. 140);
“Le priorità non sono più urgenti e comunque la scelta spetta ai giudici”, in Cassazione Penale, LV, ottobre 2015, n. 10.
6. Per concludere..
Le persistenti e periodiche discussioni attorno alla ipotesi di separazione delle carriere e alla crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale sono talvolta conseguenti anche ad innegabili criticità che possono essere rilevate in ogni parte d’Italia nelle prassi investigative e nei criteri di promovimento dell’azione penale.
Ma, in proposito, è utile invitare tutti ad un’analisi seria e mirata di tali problematiche, evitando di invocare soluzioni radicali, incompatibili con la nostra cultura e tradizione giuridica.
Sono ancora una volta condivisibili, a tal fine, le parole del prof. Gaetano Silvestri, pronunciate nel già citato intervento in occasione di un Congresso dell’ANM di vari anni fa : “Non possiamo negare che oggi si assista in varie parti d’Italia ad una ipertrofia dell’azione penale, derivante da una concezione pan-penalistica dei rapporti sociali, politici e istituzionali coltivata da taluni magistrati. In contrasto con la cultura del diritto penale minimo, che dovrebbe essere l’approdo di una più aggiornata visione della legalità, si sviluppa talvolta un iperattivismo inquisitorio ed accusatorio non certo in linea con un equilibrato esercizio della giurisdizione. Dobbiamo tuttavia notare che complessivamente la terzietà del giudice nel nostro sistema funziona abbastanza bene e che la maggior parte dei processi iniziati in modo avventato – in assenza di un quadro probatorio sufficiente o in base a forzature pan-penalistiche della legge – si concludono con decisioni di proscioglimento. Il processo penale italiano contiene in sé una grande quantità di garanzie per la difesa. Sono convinto che di fronte alla scelta di barattarlo con altri sistemi, molti suoi detrattori farebbero un passo indietro”.
“Purtroppo – aggiungeva il prof. Silvestri – i mass-media amplificano anche a senso unico le lamentele. Se un imputato viene assolto, si inveisce contro il PM che ha esercitato l’azione penale, dimenticando di sottolineare che c’è stato un giudice che non si è adagiato sulle prospettazione dell’accusa; se viene invece condannato, allora i medesimi giudici vengono presentati come succubi dei PM, perché colleghi ed amici”.
Si tratta di parole di grande efficacia, utili per invitare tutti a difendere con orgoglio i principi fondanti del nostro sistema ordinamentale, tra cui vi è sicuramente quello della unicità della carriera dei magistrati giudicanti e requirenti
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