GIUSTIZIA INSIEME

ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma

    L'ufficio sindacale nell'ANM, un primo bilancio

    Nella sua prima riunione del 9 aprile scorso il nuovo comitato direttivo centrale dell’A.N.M. ha deliberato la nascita di un ufficio sindacale, quale organo tecnico della giunta esecutiva centrale. Ne fanno parte quattro componenti, uno in rappresentanza di ciascun gruppo aderente alla nuova giunta unitaria.

    Orbene l’Associazione nazionale magistrati ha tra i suoi scopi statutari “ tutelare gli interessi morali ed economici dei magistrati, il prestigio ed il rispetto della funzione giudiziaria” (art. 2, terzo cpv.). Se così è, se dunque l’A.N.M. è già un’associazione che fa sindacato per sua funzione istituzionale, è c’è da chiedersi il perché d’un ufficio sindacale al suo interno. E’ il sindacato d’un sindacato? E’ la consacrazione formale d’una svolta nell’indirizzo dell’A.N.M.?

    E’ innegabile che la sua costituzione per voto unanime del CDC sia il sigillo della nuova unità associativa. Il risultato elettorale ha sancito la vittoria di chi ha invocato, spesso gridando, una linea di maggiore attenzione alle esigenze dei singoli magistrati, alla tutela dei loro diritti economici e normativi verso un datore di lavoro tiranno nella falciatura brutale delle ferie, alla pretesa di condizioni logistiche e strutturali sostenibili. Chi quelle elezioni le ha perdute ha preso atto e, in nome dell’unità, ha accondisceso.

    Si badi, né il Movimento per la giustizia - Art. 3 né Area hanno mai dubitato della centralità nella politica associativa della lotta per risanare le nostre condizioni di lavoro. Ne é riprova il documento approvato dall’assemblea del Movimento il 20 gennaio 2013 o quello ancora più incisivo dell’8 febbraio 2015, tempi entrambi non sospetti. Non si possono predicare efficienza senza risorse, professionalità senza dignità per la funzione.

    Altri però, nel passato recente, si sono impadroniti del tema, cavalcandolo sino a farne una sorta di loro brand esclusivo: la sindacalizzazione è stata brandita nei toni, più ancora che nei contenuti, come un’arma con cui fustigare ogni iniziativa associativa, volta a volta perché blanda o consociativa o lontana dai bisogni primari dei colleghi. I referendum, prima e più ancora delle elezioni per il CDC, hanno segnato il trionfo di questa logica: quesiti che pure erano inattuabili – come l’esperienza attuale dimostra – hanno trovato il gradimento d’una maggioranza di colleghi sofferenti, stanchi, arrabbiati.

    Qui il corpo elettorale dei magistrati è sembrato assestarsi sugl’impulsi e sui riflessi condizionati che influenzano lo scenario generale della politica italiana; ma alle analogie si sommano le specificità d’un sistema che sconta i risultati di decenni segnati dalle riforme a costo zero, dai tagli lineari degli organici, dagl’investimenti annunciati e mai attuati, dalla denigrazione pubblica della categoria tollerata o contrabbandata come spia del latente conflitto tra politici magistrati.

    Sarebbe però frutto d’una lettura assai parziale leggere nell’ufficio sindacale il cuore dell’affermazione d’una parte – naturalmente quella sensibile alle tentazioni più impiegatizie – della categoria. E’ un fatto che, una volta costituito, esso abbia imboccato subito un percorso condiviso spontaneamente dai suoi componenti, scelti in modo paritario tra ogni i gruppi associativo. E’ un altro fatto l’ufficio sindacale sia stato ad oggi immune dalle tensioni che invero hanno attraversato qua e là il CDC. E’ ancora un fatto che da quando è stato costituito gli si sono rivolti magistrati di ogni età, funzione ed orientamento associativo.

    Questa realtà illustra meglio di ogni teorizzazione l’esigenza diffusa d’un organo che sia di supporto tecnico ed informativo a chi si confronti con una questione retributiva, pensionistica, assistenziale o logistica che fino a ieri gli era estranea.

    In poche settimane è stato rimodellato il sito internet dell’A.N.M., introducendo un’area riservata con degli spazi informativi che saranno implementati costantemente; si è istituito l’indirizzo di dialogo e ricezione dei quesiti personali ( Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.); si è costruita una struttura di supporto, composta da altri colleghi volenterosi, per i quattro componenti designati dal CDC; si è iniziata la sperimentazione, fino a dicembre 2015, di nuove consulenze esterne, per arrivare nel 2017 ad avere un numero di professionisti più ampio e meno costoso che in passato; sono state rivisitate le convenzioni assicurative operative e avviate trattative per nuovi servizi; si vanno ponendo le basi per monitoraggi sul territorio e confronti sindacali onde estendere le tutele oggi lacunose quanto a sicurezza sul posto di lavoro, continuità di trattamento economica nei periodi di assenza forzata dal servizio, prospettive previdenziali.

    In mezzo a tanto lavorio, si è data risposta, mediamente entro una settimana, a decine di colleghi che hanno chiesto notizie, interventi, soluzioni per le questioni più varie.

    Era difficile ipotizzare, da parte di chi scrive, tanti risultati in così poco tempo. Lavorare nell’ufficio sindacale comporta oggi un impegno quotidiano, diverso ma non meno intenso del lavoro di GEC.

    Intanto però i primissimi vagiti di questa nuova e composita realtà hanno reso evidente l’adesione sincera e schietta di quanti, nei gruppi associativi fino a ieri di opposizione, censuravano l’eccessiva attenzione della giunta per i temi più strettamente “politici”. Magistratura indipendente ed Autonomia e indipendenza vi hanno investito appieno, quanto a risorse e spendita di credibilità. Chi vi aderisce segue da vicino l’attività dell’ufficio sindacale, la supporta, ne diffonde con orgoglio i risultati.

    Di qui un dato di cui tenere conto: v’é una generazione di colleghi che vive l’esperienza della partecipazione all’A.N.M. con un’attenzione molto più viva per le questioni interne alla categoria che per quelle esterne. Le vive con la convinzione genuina che la tutela e l’assistenza del collega siano il cuore della funzione associativa; e non sempre in questo atteggiamento c’è del calcolo politico, salvo che non si voglia leggere come tale il recepimento d’istanze che emergono tra noi con diffusione sempre maggiore ed anche trasversalmente rispetto agli orientamenti culturali.

    Rimuovere questa realtà sarebbe un peccato grave di strabismo politico. Investire le nostre energie solo o prevalentemente verso le iniziative sulle riforme, sulle questioni ordinamentali o istituzionali, sul dialogo con la politica verso i temi più alti significherebbe dimenticare le urgenze più vicine, che ci sono ed è inutile negarlo. Abbiamo sostanzialmente mancato sino ad ora di occuparci della previdenza complementare; la sorte pensionistica dei colleghi assunti dal primo gennaio ’96 è incerta; lavoriamo al 90% ormai come videoterminalisti senza che nessuno abbia cura degli effetti deleteri che questo comporta. Sono solo alcuni esempi dei temi che molti magistrati oggi reputano, correttamente, emergenziali.

    Certo, il rischio insito nella svolta in senso più strettamente sindacale esiste e mostra già oggi i suoi frutti. Sta nella percezione sempre più consolidata del magistrato di essere portatore di diritti assoluti ed incondizionati rispetto alle esigenze dell’ufficio.

    Le statistiche sul numero dei ricorsi al Tar verso le decisioni del CSM o sulle osservazioni verso le soluzioni organizzative dei dirigenti e dei Consigli giudiziari sono un segnale evidente. Ma la supervalutazione stessa dei criteri distributivi dei carichi, l’attenzione occhiuta verso il rispetto della regola formale nel disinteresse per il risultato funzionale d’una scelta più generale dimostrano come il baricentro si stia spostando pericolosamente: pare quasi – e le cronache di primavera e estate hanno dato alcuni saggi del fenomeno – che le regole dell’articolo 97 secondo comma e, in ultima analisi, dell’art. 54 secondo comma Cost. riguardino gli altri funzionari pubblici, non i magistrati.

    Qui entra in gioco la sensibilità di chi ha fatto della professionalità e dell’efficienza per la migliore tutela del cittadino i propri ideali di riferimento. Assecondare le spinte verso una maggiore protezione della vita quotidiana del magistrato non significa dimenticarne la sua collocazione in un sistema complesso, che non può tollerare disfunzioni determinate da esigenze personalistiche.

    Si tratta in definitiva di travasare nell’attività più strettamente sindacale i valori fondanti del Movimento e, in ultima analisi, di Area. In fondo non dovrebbe essere un’operazione molto diversa da quella che facciamo ogni giorno nelle nostre sentenze: applichiamo la regola, ma con un occhio al risultato finale, per evitare che vada in urto col buon senso o col sistema complessivo.

    Marcello Basilico

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    I primi 4 mesi di GEC impressioni a volo di un suo componente

     Dopo parecchi anni, all’esito di un pur aspro confronto al primo CdC dell’aprile scorso, finalmente l’ANM ha una giunta esecutiva centrale unitaria.

    Non è stato difficile redigere un programma comune con l’apporto degli esponenti dei vari gruppi; si è trovata una sintesi condivisa sulla base di reciproche rinunce.

    E’ stato invece assai complicato programmare la rotazione delle cariche e l’alternanza del numero di componenti spettanti ai vari gruppi per ciascuno dei quattro anni. Come spesso accade AREA – anche con il decisivo apporto del portavoce del Coordinamento Nazionale Mario Suriano – ha dimostrato elevatissimo senso di equilibrio e di responsabilità contribuendo in modo decisivo a trovare la soluzione.

    Già dalla prima riunione della GEC si è percepita una siderale distanza sotto il profilo organizzativo tra il Presidente e gli altri 8 componenti. In particolare si è percepito un certo disinteresse del Presidente ad occuparsi delle questioni pratiche (che sono tante) ed anche un suo certo distacco nella redazione dei numerosi documenti della GEC; è anche emersa la sua insofferenza per la durata delle riunioni della GEC ed una sua assoluta preferenza per il momento “esterno” di cui si sente investito, oltre che per la carica rivestita, per la capacità di grande comunicatore che tutti gli riconoscono.

    In effetti di tutti gli aspetti pratici del funzionamento della GEC e della ANM si occupa in maniera assai efficiente il Segretario Minisci.

    Sotto il profilo del rapporto con le altre componenti associative nella GEC e ferme restando le distanze “politiche” su alcune questioni comunque fondamentali, ho rilevato una grande comunanza di “passione”. I rapporti personali tra i 9 componenti sono assolutamente amichevoli, improntati ad estrema semplicità e solidarietà. Anche il Presidente è persona disponibile ad un continuo e costruttivo confronto.

    Con il fattivo contributo della componente di AREA la GEC ha intrapreso – e questa potrebbe costituire una novità rispetto al passato – un’opera di rivalutazione del ruolo politico del CdC (di cui la GEC dovrebbe essere solo organo esecutivo); ciò avviene sia cadenzando a distanze più brevi le riunioni del CdC, sia attraverso l’importanza attribuita ai “gruppi di studio” (coordinati da componenti del CdC), sia attraverso il confronto continuo (via CHAT e via Mail), quasi quotidiano, tra tutti i 36 componenti del CdC. Inoltre si è deciso di svolgere una attività il più possibile itinerante per manifestare la vicinanza della GEC ai colleghi di base e per riuscire ad essere maggiormente consapevoli delle reali problematiche di ciascun distretto. La GEC è andata a Milano ed a Palermo; tendenzialmente il programma è di visitare più o meno un distretto al mese.

    I primi mesi di attività sono stati anche densi di incontri istituzionali (Presidenze della Repubblica, del Senato, della Camera dei Deputati; Ministro; Consiglio di Giustizia delle Commissioni Tributarie; Comitato di Presidenza del CSM; Procuratore Generale della Cassazione; alcune Commissioni del CSM; alcune Commissioni parlamentari; alcune Autorità di Garanzia) che ci hanno visti assai impegnati.

    Con particolare riferimento alla componente di AREA della GEC il periodo è stato “delicato” per alcune note vicende che hanno visto coinvolti alcuni autorevoli nostri esponenti; anche in queste vicende credo siamo riusciti a mantenere un profilo istituzionale.

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    La separazione delle carriere dei magistrati? una riforma da evitare

    Intervento di Armando Spataro Procuratore della Repubblica di Torino
    Convegno sul tema: La separazione delle carriere dei magistrati: una riforma ineludibile
    Sanremo, 1-2 luglio 2016

    1. Premessa : le regole vigenti e le diverse questioni in campo: pag. 2; 2.Le ragioni contro l’unicità di carriera: pag. 6; 2.a - La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi, determinandone l’ “appiattimento” sulle tesi dei p.m. o la predisposizione a prestare maggior attenzione alla posizione dell’accusa pubblica: pag. 6; 2.b – Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M.: pag. 7; 2.c – La separazione delle carriere andrebbe perseguita perché favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero, richiesta dal Codice di Procedura Penale: pag. 8; 2.d – La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale: pag. 9; 2.e – La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata, senza che ciò comporti dipendenza del PM dal potere esecutivo: pag. 11; 2.e/1 – La particolarità del Portogallo: pag.14; 3. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera: pag.15; 3.a – La prospettiva del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa: pag.15; 3.b - La cultura giurisdizionale deve appartenere anche al PM: pag.16; 3.c. - I dati statistici: pag.18; 3.d - Unica formazione e unico CSM: pag.21; 3.e - Condizionamento del giudice: conseguenza certa della separazione delle carriere: pag.21; 3.f – La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia: pag.22; 4. – Rapporti tra potere politico e magistratura. E’ passato il tempo delle riforme “rancorose”: pag.22; 5. - La proposta di legge costituzionale elaborata dall'Unione delle Camere Penali (con cenni alla obbligatorietà dell’azione penale ed al tema delle priorità) pag.24; 6. - Per concludere: pag. 28.

     

    In tema di separazione delle carriere è davvero difficile dire qualche cosa di originale, specie se ci si rivolge ad una platea composta da addetti ai lavori: ma egualmente l’attualità ci impone uno sforzo, così come spinge ad una sintesi degli argomenti e delle rispettive obiezioni. Un’attualità, comunque, che consente di ragionare con maggior freddezza rispetto a pochi anni fa allorchè il tema era oggetto di frequenti strumentalizzazioni, non certo commendevoli.

     

    In questa prospettiva, sento comunque il dovere di anticipare con chiarezza la mia ferma contrarietà (per le ragioni che appresso esporrò) a qualsiasi ulteriore cambiamento delle norme vigenti in materia e, dunque, manifesto subito il mio dissenso rispetto alla proposta di legge costituzionale elaborata dall’Unione delle Camere Penali (di cui specificatamente tratterò nel penultimo paragrafo).

     

    1. Premessa : le regole vigenti e le diverse questioni in campo.

    Come è noto, le norme dell’ordinamento giudiziario vigenti in tema di passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti (e viceversa), nonché in tema di assegnazione dei magistrati all’una o all’altra funzione al termine del tirocinio, sono quelle previste dal d.lgs n. 160/2006, emesso in attuazione della legge delega 150/2005, successivamente modificate dalla legge n. 111/2007. Il conseguente nuovo sistema ha notevolmente cambiato quello preesistente2.

    A seguito della citata riforma ordinamentale3, infatti, le funzioni requirenti di primo grado possono ora essere conferite solo a magistrati che abbiano conseguito la prima valutazione di professionalità, vale a dire dopo quattro anni dalla nomina.
    La riforma, peraltro, ha limitato il passaggio delle funzioni
    sotto un profilo oggettivo, vietandolo nei seguenti casi:

    a) all’interno dello stesso distretto;

    b) all’interno di altri distretti della stessa regione;

    c) all’interno del distretto di corte di appello determinato per legge (ex art. 11 c.p.p.) come competente ad accertare la responsabilità penale dei magistrati del distretto nel quale il magistrato interessato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni.

    Sotto il profilo soggettivo, è indicato il limite massimo di quattro passaggi nel corso della complessiva carriera del magistrato, unitamente alla previsione di un periodo di permanenza minima nelle funzioni pari a cinque anni.

    Ai fini del passaggio si richiede inoltre:

    a) la partecipazione ad un corso di qualificazione professionale;

    b) la formulazione da parte del Consiglio superiore della magistratura, previo parere del consiglio giudiziario, di un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni.

    Il cambio di funzioni, purchè avvenga in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza, è possibile anche nel medesimo distretto nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi – si ripete -soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza.

    Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza.

    La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro, del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti, deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.

     

    Va pure ricordato che la legge n. 111/2007 ha eliminato la netta ed irreversibile separazione delle funzioni originariamente introdotta dalla legge Castelli (secondo cui, dopo cinque anni dall’ingresso in magistratura occorreva scegliere definitivamente tra funzioni requirenti o giudicanti): il nuovo sistema ha impedito l’entrata in vigore di una normativa che di fatto realizzava una separazione delle carriere, aggirando le previsioni costituzionali4.

     

    A tale ultimo proposito – ed in relazione allo specifico tema della separazione delle carriere - è però doveroso ricordare che la Corte Costituzionale, nell’ammettere la domanda referendaria relativa all’abrogazione dell’art. 190 e di altre previsioni dell’ ordinamento giudiziario5, ha affermato (sentenza 3-7 febbraio 2000, n. 37/2000) quanto segue:

    la Corte non può non rilevare che il titolo attribuito al quesito dall'Ufficio centrale per il referendum "Ordinamento giudiziario: separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti" appare non del tutto adeguato, e in sostanza eccedente, rispetto alla oggettiva portata delle abrogazioni proposte, concernenti piuttosto, come si è detto, l'attuale disciplina sostanziale e procedimentale dei passaggi dall'una all'altra funzione in occasione dei trasferimenti dei magistrati a domanda.

    Restano, in particolare, di per sé estranei al quesito il tema dei criteri per la iniziale assegnazione del magistrato, vincitore dell'unico concorso, e a seguito dell'unico tirocinio, alle une o alle altre funzioni, nonché quello delle assegnazioni di funzioni che avvengano, nei casi in cui ciò è consentito, d'ufficio (cfr., ad esempio, artt. 4 e 5 della legge 25 luglio 1966, n. 570, sulla destinazione dei magistrati di Corte d'appello e rispettivamente sul conferimento a detti magistrati di uffici direttivi; art. 10 della legge 20 dicembre 1973, n. 831, sul conferimento delle funzioni di magistrato di Cassazione; art. 19 della stessa legge, sul conferimento degli uffici direttivi superiori; art. 37, comma 4, del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51, sulla destinazione d'ufficio dei magistrati già titolari dei posti soppressi a seguito della istituzione del giudice unico di primo grado: ancorché poi il comma 5 stabilisca che le eventuali nuove destinazioni "sono considerate come trasferimenti a domanda a tutti gli effetti"; artt. 2 e 21, sesto comma, del r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511, sui trasferimenti d'ufficio disposti, rispettivamente, per incompatibilità o per soppressione di posti, e con provvedimento disciplinare)”.

     

    La Corte Costituzionale, nella stessa occasione, ha infine precisato che:

    Non può dirsi che il quesito investa disposizioni il cui contenuto normativo essenziale sia costituzionalmente vincolato, così da violare sostanzialmente il divieto di sottoporre a referendum abrogativo norme della Costituzione o di altre leggi costituzionali (…). La Costituzione, infatti, pur considerando la magistratura come un unico "ordine", soggetto ai poteri dell'unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni”.

     

    Di ciò si deve prendere atto, pur registrandosi spesso autorevoli affermazioni secondo cui, per introdurre nel nostro ordinamento la separazione delle carriere, bisognerebbe modificare la Costituzione. Diverso, invece, è il discorso su altre proposte, differenti rispetto a quelle oggetto del referendum abrogativo del 2000, che periodicamente sono argomento di dibattito politico, quali la necessità di prevedere concorsi separati per accesso separato alle funzioni giudicante e requirente o quella di istituire separati Consigli Superiori della Magistratura. In questo caso6, si tratterebbe di proposte di modifiche ordinamentali che, se attuate con legge ordinaria, difficilmente potrebbero sfuggire alla declaratoria di illegittimità costituzionale.

     

    Ai fini di quanto appresso si dirà, va pure ricordato che la Costituzione (artt. 104 I c. e 107 ult. c.), in linea con la nostra cultura e tradizione giuridica, peraltro, prevede la figura del Pubblico Ministero come totalmente autonoma ed indipendente rispetto al potere esecutivo, assistita dalla stesse garanzie del giudice e, affermata l’obbligatorietà dell’azione penale (art.112), le attribuisce la disponibilità della polizia giudiziaria (art. 109). Appare netta, nel disegno costituzionale, la antitesi del modello previsto rispetto a qualsiasi ipotesi di centralizzazione e gerarchizzazione su scala nazionale del Pubblico Ministero.

     

    Questa annotazione, per quanto elementare, non appare superflua poiché sono proprio i principi appena enunciati che rischiano di essere compromessi dalle prospettive di riforma ordinamentale che periodicamente si addensano all’orizzonte.

     

    Fatte queste ovvie premesse, è opportuno affrontare separatamente – e separatamente confutare - ciascuno degli argomenti che di solito si usano per criticare il sistema vigente e per sostenere la necessità di introdurre la separazione delle carriere in forma più o meno rigida. Con una avvertenza: nella Costituzione (Titolo IV – La Magistratura) si fa riferimento solo alle funzioni dei magistrati e “le carriere” non vengono mai nominate, ma nel lessico politico-giudiziario, talvolta impreciso e tecnicamente insoddisfacente, si usano spesso, come alternative, due formule, quella della separazione delle funzioni e quella della separazione delle carriere. Nel primo caso, ove si alluda ad una novità da introdurre nell’ordinamento, la definizione dovrebbe essere respinta dall’addetto ai lavori, posto che la separazione delle funzioni è già prevista dal nostro ordinamento, come può ampiamente dedursi dall’art. 10 D.Lgs. 5 aprile 2006, poi sostituito dall’art. 2 L. 30 luglio 20077. Il riferimento alla separazione delle carriere, invece, evoca un sistema in cui l’accesso alle due funzioni avvenga attraverso concorsi separati, le carriere di giudicanti e requirenti siano amministrate da distinti CSM ed in cui il passaggio dall’una all’altra funzione sia impossibile.

    Ulteriori, poi, sono le sfumature ed i correttivi che accompagnano queste distinte opzioni, ma non sembra il caso – almeno in questa parte della relazione – di esaminarne il contenuto.

     

    2. Le ragioni contro l’unicità di carriera8

     

    2.a - La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi, determinandone l’ “appiattimento” sulle tesi dei p.m. o la predisposizione a prestare maggior attenzione alle tesi dell’accusa pubblica.

    Il fondamento del sospetto di contiguità tra giudici e p.m., secondo alcuni, sarebbe deducibile anche dalla proporzione tra numero delle misure cautelari richieste dal PM., numero di quelle emesse dal Gip e numero di quelle confermate od annullate dal Tribunale del riesame.

    Sembra evidente che, in questo caso, ci si trova di fronte non ad una obiezione di carattere strettamente tecnico, ma ad un indimostrato sospetto, che sfiora il limite dell’offensività nei confronti dell’onestà intellettuale del giudice. La tesi trovò spazio nella scheda che accompagnava il referendum abrogativo respinto nel maggio del 2000, in cui si affermava : “è assolutamente impensabile che da un giorno all’altro chi ha combattuto il crimine da una parte della barricata si trasformi improvvisamente nel garante imparziale di chi criminale potrebbe non essere” ed ancora : “lo spirito di appartenenza e di colleganza tra soggetti che vivono la stessa vicenda professionale compromette..” etc. etc.

    E’ notorio che la magistratura, salvo rare eccezioni, respinge compatta questo sospetto artificioso di “gratuita proclività” del giudice a simpatizzare con le tesi dell’accusatore: qualcuno, autorevolmente, ha parlato di “diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni” ed ha auspicato che “si verifichi sul campo, com’è doveroso nel campo delle scienze mondane, con un’indagine più o meno estesa, se, in quale misura e con quale frequenza le richieste dei pubblici ministeri, diverse da quelle di proscioglimento o di archiviazione vengano accolte dai giudici, e per quale percentuale degli accoglimenti affiori allo stato degli atti un dubbio di ragionevolezza. Soltanto all’esito di un’accurata indagine di questo tipo, che ponga in luce un tasso di scostamenti dalla ragionevolezza dotato di significatività, avrà un senso affrontare il tema della separazione delle carriere e dell’abbandono di una tradizione più che secolare di unità che ha prodotto indiscutibili frutti quali la condivisione della cultura della giurisdizione e la possibilità, transitando da una funzione all’altra, di utilizzare esperienze eterogenee”9.

    Indagine statistica indispensabile, dunque, ponendone al centro la ricerca del tasso di scostamenti dalla ragionevolezza delle decisioni del giudice favorevoli alla tesi del P.M. anche ad evitare un uso stravagante dell’indagine stessa e dello stesso dato statistico, facilmente strumentalizzabile in qualsiasi direzione: perché escludere, ad esempio, che l’alto numero di richieste cautelari accolte dai giudici costituisca spia del fatto che i pubblici ministeri fanno un uso moderato ed accorto del potere di richiesta delle misure restrittive della libertà personale e che essi condividono effettivamente, con i giudici, la cultura della giurisdizione ?

     

    2.b – Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M.

    E’ questa una posizione che emerge spesso negli interventi di molti autorevoli avvocati penalisti, alcuni dei quali rivestono compiti di rappresentanza dell’intera categoria: abbandonato il sospetto gratuito della contiguità tra giudici e p.m., si afferma – cioè – che, per garantire i cittadini, non sia tanto importante il ruolo imparziale del P.M. (o, meglio, il suo operare all’interno della cultura giurisdizionale) quanto evitare che il giudice, anche inconsapevolmente, per effetto della unicità delle carriere, condivida l’orientamento culturale del P.M. e le ragioni della sua azione istituzionale di contrasto dei fenomeni criminali10. Ciò, infatti, condurrebbe il giudice al progressivo abbandono della sua necessaria terzietà rispetto alle tesi contrapposte di p.m. ed avvocati.

    Orbene, dando per scontata l’esistenza, sia pur marginale, del vizio insopportabile di taluni magistrati (soprattutto P.M.) di erigersi al rango di moralizzatori della società, sorprende che l’avvocatura italiana (o parte di essa) trascuri il significato, in termini di cultura e di rafforzamento delle garanzie, dell’attuale posizione ordinamentale del P.M., cui compete anche, e non a caso, svolgere “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (art. 358 cpp). Ma meraviglia ancor di più che si possa immaginare che il giudice, per effetto di una opzione culturale - quella della contrapposizione morale ai poteri criminali di ogni tipo - non appartenente certo in esclusiva ai p.m., ma auspicabilmente condivisa dall’intera società (avvocati compresi), possa esercitare la sua funzione in modo parziale, non distaccato né sereno, comunque compromettendo la parità tra le parti nel processo penale.

    Si potrebbe richiamare quanto affermato in precedenza circa la necessità di dimostrare scientificamente tale assunto, ma è chiaro che esso è smentito quotidianamente dall’esperienza di chi pratica le aule giudiziarie, ove i giudici, anche nei processi di consistenti dimensioni ed a carico di un numero elevato di imputati appartenenti alla più agguerrite cosche mafiose, dimostrano di non lasciarsi guidare dalla ragion di Stato, ma dal più rigoroso rispetto delle regole del processo e, in particolare, di quelle attinenti la valutazione delle prove. E ciò vale anche per i giudici di legittimità.

     

    2.c – La separazione delle carriere andrebbe perseguita perché favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero, richiesta dal Codice di Procedura Penale.

    Questa tesi sembra rivestire apparentemente maggior dignità delle altre, fondata com’è su argomentazioni “tecniche” e su condivisibili esigenze di specializzazione: si sostiene, dunque, che nel contesto venutosi a formare con l’entrata in vigore nell’89 del “nuovo” codice di procedura penale, sarebbe necessaria una forte caratterizzazione professionale del pubblico ministero, più facilmente perseguibile in un regime di separazione delle carriere. In proposito, pur rammentando che la necessità del parere attitudinale favorevole al passaggio di funzioni è ancora prevista nell’ordinamento giudiziario vigente11, va detto che l’esigenza di professionalità specifica può essere efficacemente assicurata anche stabilendo un congruo periodo di permanenza del magistrato in quelle funzioni senza che sia necessario vincolarlo a vita a quella esercitata, vietargli di svolgere successivamente l’altra o frapporvi sbarramenti concorsuali: infatti, appartiene ad una visione non poliziesca del ruolo la necessità di assicurare che la formazione culturale del P.M. determini la sua consapevolezza dell’esigenza di raccolta delle prove in funzione del giudizio, prove che abbiano il peso, cioè, di quelle che il giudice ritiene sufficienti per la condanna. Questa cultura accresce la specializzazione e si consegue innanzitutto attraverso l’osmosi delle esperienze professionali tra giudici e pubblici ministeri, come del resto è dimostrato da numerosi casi di eccellenti dirigenti di Procure della Repubblica che vantano pregresse esperienze nel ramo giudicante. Insomma, il percorso professionale più ricco e formativo è quello che moltiplica le esperienze, tanto più in un sistema processuale penale come il nostro che non è di tipo accusatorio puro (sul modello americano, del quale mancano alcune connotazioni essenziali quali il verdetto immotivato, la immediata esecutività della sentenza di primo grado ed il carattere facoltativo dell’azione penale), ma è piuttosto un modello misto ispirato ad istituti e principi mutuati dall’uno e dall’altro dei diversi modelli di sistema accusatorio o inquisitorio. E nel nostro ordinamento, come si è già rilevato, il P.M., anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, ha conservato un ruolo di organo di giustizia deputato all’applicazione imparziale della legge, conformemente alle previsioni della Costituzione vigente e dell’ordinamento giudiziario (l’art.73 R.D. 30.1.1941 n.12 prevede che il P.M. “veglia all’osservanza delle leggi..”): un ruolo che ha consentito l’effettiva tutela dei diritti dei cittadini e della collettività e che non coincide, dunque, con quello di semplice parte, interessata solo alle ragioni dell’accusa. In definitiva appare evidente, anche a chi teorizza una più accentuata specializzazione dei magistrati nelle funzioni rivestite e nei tanti “mestieri” che le caratterizzano, che la separazione delle carriere più o meno accentuate determinerebbe una perversione della specializzazione, frutto di una cultura postmoderna che compromette una visione olistica della giurisdizione: questa, infatti, va costantemente considerata come totalità organizzata e non come somma di parti.

    Quest’argomento offre lo spunto per contestare un’obiezione che spesso si muove a chi respinge la “separazione delle carriere”. “Ma Giovanni Falcone”, si dice, “era per la separazione delle carriere!”. Anche questa falsità è entrata nell’immaginario collettivo come una verità sgradevole per i magistrati, quale conseguenza di un’informazione addomesticata o, nel migliore dei casi, di una visione storica propria di commentatori disattenti. Falcone teorizzava, in realtà, in modo assolutamente condivisibile, la necessità di una più accentuata specializzazione del P.M. nella direzione della P.G., rispetto a quanto era richiesto nel regime vigente prima del codice di rito del ’98; in innumerevoli occasioni, peraltro, aveva spiegato di non condividere la necessità di separare conseguentemente le carriere all’interno della magistratura. Le sue affermazioni, risalenti a prima del ’92 e ad epoca anteriore alle ben note aggressioni subite in anni seguenti dalla magistratura, non possono dunque essere strumentalizzate da alcuno.

     

    2.d – La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale

    Sotto vesti apparentemente più nobili, si ripropone, per questa via, la tesi del sospetto sulla parzialità del giudice derivante dall’unicità della carriera con il P.M. ed, a tal fine, si prende spunto dal secondo comma dell’art. 111 (Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata)12 quasi che esso avesse, per questa parte, introdotto nell’ordinamento un principio nuovo, mai conosciuto in precedenza, anziché costituire una norma-manifesto, enunciativa di principio già presente e praticato nel processo penale, come in quello civile.

    Tralasciando slogan suggestivi, dunque, occorre intendersi sul principio della parità tra accusa e difesa: esso è senz’altro condivisibile e persino ovvio se si riferisce al momento processuale del giudizio in genere e del dibattimento in particolare, dove accusa e difesa si devono confrontare su un piano di assoluta parità disponendo di poteri probatori perfettamente equivalenti (art.190 c.p.p.). E sul punto si dovrebbe anche ricordare che per effetto di varie riforme si è realizzato nel tempo un notevole potenziamento del ruolo della difesa nel nostro processo, persino con conseguentemente allungamento dei suoi tempi di complessivo svolgimento.

    In ogni caso, appare chiaro che non ha senso scaricare sulla comunanza di carriera fra PM e giudici i “risentimenti” originati da un presunto assetto non equilibrato del processo: significa eludere i nodi reali del problema. Sono i meccanismi di concreto funzionamento del processo, dunque, che semmai incidono sulla parità tra accusa e difesa, non certo l’unicità della carriera tra giudici e P.M., i cui ruoli e figure professionali restano diversi: un controllore delle attività delle parti resta tale, e un giudice resta giudice, anche se è entrato in magistratura attraverso lo stesso concorso sostenuto dal P.M.

    Ragionando diversamente – del resto - si dovrebbe imboccare, per coerenza, una strada senza uscita, nel senso di rescindere anche i rapporti fra giudici di primo grado, giudici d’appello e di cassazione, tutti diventati magistrati attraverso identico meccanismo concorsuale. Perché non si vede come i sospetti derivanti dalla “colleganza” fra PM e giudici non debbano estendersi anche ai giudici dei diversi gradi del processo13.

    Ma sulla parità tra P.M. e difensore bisogna dire altro ed avere l’onestà di riconoscere che essa non sussiste se riferita al piano istituzionale che vede i due ruoli completamente disomogenei: il difensore è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o comunque l’esito più conveniente per il proprio assistito (che lo retribuisce per questo) a prescindere dal dato sostanziale della colpevolezza o innocenza; il difensore che nello svolgimento delle indagini difensive ignori volutamente l’esistenza di prove a carico e si adoperi per ottenere l’assoluzione di un assistito la cui colpevolezza gli sia nota, non viola alcuna regola deontologica ed anzi assolve il proprio mandato nella piena legalità e con eventuale e personale successo professionale: senza quel ruolo non sarebbe possibile giustizia e l’immagine della bilancia che la rappresenta non potrebbe essere equilibrata.

    Niente di tutto questo, però, vale per il P.M. che con il giudice condivide l’obbligo di ricerca della verità storica dei fatti e le cui indagini devono obbedire al criterio della completezza ed oggettività, con previsione di rigorosi requisiti di forma stabiliti a pena di invalidità; il pubblico ministero che redige un atto è un pubblico ufficiale che risponde disciplinarmente e penalmente della veridicità ideologica degli atti da lui documentati; il pubblico ministero non è votato – “comunque e sempre” - alla formulazione di richieste di condanna, ma si determina a richieste assolutorie ogni qualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente; formula le proprie requisitorie in piena libertà di scienza e coscienza, e in sede di udienza (in tutte le udienze e non solo in quella dibattimentale) riceve tutela anche rispetto a possibili interferenze da parte del capo dell’Ufficio (art.70 comma 4 ordinamento giudiziario e art. 53 c.p.p.).

    Del significato di queste differenze ontologiche (che non intaccano in alcun modo l’etica del ruolo defensionale, di alta ed irrinunciabile valenza democratica) ciascuno può agevolmente rendersi conto, in modo da comprendere che non scomparirebbero con un’eventuale separazione delle carriere e che la loro permanenza è fatto positivo per i cittadini e per la collettività.

    L’art.111 della Costituzione, dunque, nulla ha a che fare con la separazione delle carriere: la parità tra le parti, cui il secondo comma si riferisce, è quella endoprocessuale, garantita dalle regole del processo e, semmai, da una pari preparazione professionale, generale (e qui è pertinente l’ennesimo auspicio, condiviso da chi scrive, della formazione comune dell’intero ceto dei giuristi) e particolare (concernente, questa, la conoscenza del singolo processo). “Ma non postula affatto una impossibile omogeneità istituzionale tra pubblico ministero e difesa”14.

     

    2.e – La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata, senza che ciò comporti dipendenza del PM dal potere esecutivo15.

    E’ questa un’affermazione gratuita che, in modo stupefacente, viene utilizzata anche da autorevoli commentatori, meno dai giuristi favorevoli alla separazione, i quali – evidentemente – ne conoscono la natura di mero slogan. Si tratta di una delle tante affermazioni sistematicamente utilizzate “contro” la magistratura che hanno determinato, grazie a martellanti campagne di opinione, convinzioni tanto radicate quanto errate.

    E’ opportuno, dunque, dare uno sguardo a ciò che avviene nel resto del mondo per dimostrare la mancanza di fondamento dell’opinione secondo cui l’Italia dovrebbe conformarsi ad un modello, ormai diffuso in Europa e negli Stati Uniti che, pur prevedendo la separazione delle carriere, non determinerebbe affatto, come conseguenza necessaria, la sottomissione del pubblico ministero all’esecutivo e il condizionamento delle indagini.

    Sarebbe sufficiente un’analisi anche superficiale della situazione internazionale o degli ordinamenti degli Stati più evoluti per verificare che la realtà è abbastanza diversa da quella che spesso sentiamo descrivere in Italia. E’ chiaro, peraltro, che un confronto di questo tipo non è sempre utile solo che si consideri che spesso esiste una radicale differenza tra gli ordinamenti presi in considerazione, frutto di tradizioni giuridiche ed evoluzioni storiche peculiari di ciascun paese : basti pensare al fatto che in Gran Bretagna manca del tutto un pubblico ministero come noi lo intendiamo. Del resto, il prof. Alessandro Pizzorusso, a proposito di indipendenza del pubblico ministero, affermava l’irrilevanza del dato numerico relativo ai paesi che seguono l’una o l’altra impostazione : “se così non fosse, quando l’Inghilterra era l’unico paese in cui esisteva la democrazia parlamentare, si sarebbe potuto invocare l’argomento comparatistico per dimostrare l’opportunità di instaurare la monarchia assoluta, che era la forma allora assolutamente prevalente”. Però possono egualmente trarsi, dalla comparazione ordinamentale, degli spunti generali per la questione che qui interessa, utili a verificare che, nel panorama internazionale, gli ordinamenti che conoscono la separazione delle carriere non costituiscono affatto la maggioranza. Inoltre – ed il dato è molto significativo ai fini che qui interessano - ove essa costituisce la regola accade spesso che chi abbia maturato esperienze professionali di pubblico ministero acquisisce una sorta di titolo preferenziale per accedere alla carriera giudicante: dunque, quell’esperienza viene considerata molto positivamente. Ma, soprattutto, non può non considerarsi che, ove esiste la separazione delle carriere, questa porta con sè la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, una conseguenza assolutamente preoccupante, pur se non sgradita persino ad alcuni accademici16. Ecco, schematicamente, con inevitabile sommarietà, la realtà di alcuni Stati europei (all’Italia geograficamente più vicini) e degli Stati Uniti, cioè di Stati i cui livelli di democrazia, pur nella diversità ordinamentale, sono sicuramente omogenei rispetto ai nostri:

    in Austria, il PM è organizzato come autorità amministrativa, è gerarchicamente strutturato ed è nominato dal Ministro di Giustizia, da cui dipende. Esiste interscambiabilità dei ruoli;

    in Belgio, il PM è nominato dal Re ed il passaggio da una carriera all’altra può avvenire solo per decisione dell’esecutivo, da cui, comunque, riceve direttive di carattere generale; anche il passaggio da una carriera all’altro può avvenire, per i PM, soltanto per decisione dell’esecutivo;

    in Germania chi esercita la funzione requirente riveste uno status di funzionario statale dipendente, nominato dall’esecutivo ed ha garanzie diminuite rispetto ai giudici; le carriere di giudici e dei pubblici ministeri, inoltre, sono separate, ma l’interscambio è comunque possibile, pur se non è frequente e, per lo più, avviene in un’unica direzione (da PM a Giudice);

    in Francia, la carriera è unica, è possibile passare da una funzione all’altra, ma il pubblico ministero, pur inserito nell’ordinamento giudiziario, dipende dall’esecutivo, è sottoposto a forme di controllo di tipo gerarchico-burocratico da parte del Ministro della Giustizia, ha un limitato controllo della polizia giudiziaria. Peraltro, i problemi che derivano dalla collocazione del p.m. sono oggi, in quel paese, all’attenzione della pubblica opinione e si è avviata una discussione sulla riforma del P.M., anche alla luce di due durissime condanne della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Moulin c. Francia del 2010 e Vasis c. Francia del 2013). Pur tra resistenze politiche manifestatesi dopo incriminazioni “eccellenti” avvenute anche in un recente passato, si tende a conferire al P.M. maggiore autonomia dall’Esecutivo.

    Nel novembre 2013, ad esempio, è stato reso noto il rapporto della Commissione Ministeriale presieduta dal Procuratore Generale Onorario presso la Corte di Cassazione, Jean-Luis Nadal e composta anche da giudici, presidenti di Corte d’Appello e di Tribunale. Orbene, il rapporto, premessa la necessità di garantire l’indipendenza del Pubblico Ministero, ha sottolineato, innanzitutto, proprio la necessaria priorità della unificazione effettiva delle carriere dei giudici e dei P.M. (“Proposta n. 1: Iscrivere nella Costituzione il principio dell’unità della magistratura”), eliminando ogni ambiguità ed affidandone la completa gestione al Consiglio Superiore della Magistratura, senza interferenze dell’esecutivo. Ciò al fine di “garantire ai cittadini una giustizia indipendente, uguale per tutti e liberata da ogni sospetto”.

    Dal luglio 2013, comunque, a seguito di una legge voluta dal Ministro della Giustizia pro tempore Christiane Taubira (poi dimessasi perché contraria alla “costituzionalizzazione dell’emergenza” antiterroristica), è vietato al Ministro della Giustizia di indirizzare ai pubblici ministeri linee guida in relazione a specifici casi concreti (ora, può solo formulare linee generali).

    E’ stato intanto presentato un progetto di riforma che prevede di rafforzare i poteri del CSM nella nomina dei procuratori (che allo stato è totalmente nelle mani dell’esecutivo), ma esso langue nel Parlamento francese.

    in Spagna, le carriere sono costituzionalmente separate senza possibilità di interscambio. Esiste una certa dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo;

    in Inghilterra e Galles, come si è già detto, non esiste il pubblico ministero nelle forme da noi tradizionalmente conosciute, ma il Crown Prosecution Service che consiglia la Polizia la quale ha da sempre l’iniziativa penale e può nominare un avvocato da cui far rappresentare le sue ragioni;

    in Svizzera le carriere sono separate e non vi si accede mediante concorso, ma a seguito di elezione. L’ esistenza di un ordinamento federale e di diversi ordinamenti statali e, dunque, di regole molto diverse tra loro, impedisce di approfondire il discorso in questa sede. Non è prevista alcuna forma di passaggio dalla carriera requirente e quella giudicante e viceversa;

    in Olanda, previa frequentazione di corsi di aggiornamento, è possibile passare dalla magistratura giudicante all’ufficio del p.m. (e viceversa), ma il PM è sottoposto alle direttive dell’esecutivo per l’esercizio discrezionale dell’azione penale;

    il sistema statunitense, pur se notoriamente molto diverso dal nostro, permette comunque riflessioni interessanti sul tema in esame: è un sistema che si divide in un sistema di giustizia federale, ove predomina la nomina da parte del Presidente degli Stati Uniti, ed un sistema di giustizia statale ove predomina il sistema elettorale. Orbene, pur in questa situazione di radicale differenza rispetto al nostro sistema, è possibile verificare la esistenza di una interscambiabilità tra i ruoli di giudici e pubblici ministeri che coinvolge anche l’avvocatura, dalla quale, come si sa, spesso provengono i pubblici ministeri e i giudici.

     

    Dunque, una riflessione può trarsi dall’analisi, pur sommaria, del panorama internazionale: ovunque la carriera del PM sia separata da quella del giudice, non solo il PM stesso dipende dall’esecutivo (con l’unica eccezione del Portogallo, la cui realtà non può ritenersi, però, così qualificante da ispirare le tendenze del nostro ordinamento,come appresso si dirà), ma esiste, comunque, un giudice istruttore indipendente. Così, ad es., è in Francia e Spagna ove il ruolo del pubblico ministero italiano è esercitato (non senza qualche occasione di polemica con i pubblici ministeri) dal giudice istruttore, figura soppressa nel nostro sistema: evidentemente, dunque, anche in quegli ordinamenti vi è necessità di un organo investigativo che sia totalmente indipendente dall’esecutivo. Non è il caso, pertanto, di guardare ad altri ordinamenti per trarne indicazioni incoraggianti circa la possibilità di preservare l’indipendenza del P.M. dall’esecutivo in caso di separazione delle carriere.

     

    2.e/1 – La particolarità del Portogallo

    La schematica analisi che precede dovrebbe, da sé, convincere dell’impossibilità di importare un sistema ordinamentale di separazione delle carriere senza determinare, conseguentemente, la sottoposizione del P.M. all’esecutivo. Ma, per esorcizzare questa ipotesi, impresentabile persino per la pubblica opinione più disattenta, qualcuno si affanna a spiegare che, in realtà, nessuno pensa, in Italia, ad un pubblico ministero sottoposto all’esecutivo : non sarebbe comprensibile, dunque, la reattività della magistratura rispetto al tema della separazione delle carriere. Si vedrà appresso che, per la verità, si sta già autorevolmente “lavorando” all’ipotesi di un controllo dell’esecutivo sull’esercizio dell’azione penale. Ma qui si vuol dimostrare altro: che dalla separazione delle carriere, cioè, scaturirebbe comunque un’involuzione della cultura giurisdizionale del P.M., pericolosa – per l’effettiva attuazione dei principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per la tutela delle loro garanzie – almeno quanto quella derivante dalla sottoposizione del P.M. all’esecutivo.

    Importanti elementi di riflessione possono trarsi dall’esperienza ordinamentale portoghese: in Portogallo, sin dalla rivoluzione dei garofani (1974), vige un sistema di separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti, senza sottoposizione di questi ultimi al potere esecutivo. Orbene, questo sistema ha determinato esattamente, nel corso della sua quasi trentennale applicazione, quel progressivo affievolimento della cultura giurisdizionale dei p.m., che è l’oggetto delle preoccupazioni della magistratura italiana. Ne ha parlato spesso, anche in Italia, un esperto magistrato portoghese17, il quale, ricordata la molteplicità delle funzioni attribuite al P.M., anche in quel Paese, a difesa della legalità ed a tutela del principio di eguaglianza, ha spiegato che attorno alla fine degli anni ’80 – inizio anni ’90, proprio quando l’ufficio del P.M. ha iniziato a sviluppare un’attività giudiziaria indipendente e capace di mettere in crisi la tradizionale impunità del potere economico e politico, si sono levate “autorevoli” voci a mettere in dubbio la legittimità democratica dell’ufficio del fiscal (il nostro P.M.), la diversa natura di quest’organo rispetto al potere giudiziario, la possibilità dei titolari di dare direttive alla polizia criminale e la stessa possibilità di iniziativa autonoma nel promovimento dell’azione penale. Il dibattito in questione –ha dichiarato il magistrato portoghese - aveva determinato il rischio di dar vita ad un modello di privatizzazione dell’indagine, del processo penale e della giustizia penale, auspicato dalla parte più conservatrice dell’opinione pubblica e da una parte dell’avvocatura. Ma la separazione delle carriere, pur in un regime di indipendenza dall’esecutivo del P.M., ha prodotto in Portogallo una divisione nella cultura professionale dei giudici e dei magistrati del fiscal. I pubblici ministeri18 hanno sviluppato una tendenza pratica a valorizzare eccessivamente gli obiettivi della sicurezza a detrimento dei valori della giustizia, mentre i giudici hanno sviluppato un’attitudine formalista che li conduce spesso ad assumere una posizione di semplici arbitri, anche quando i casi loro sottoposti esigerebbero un loro diretto intervento ed impegno per il raggiungimento degli obiettivi di giustizia. E’ stata vanificata, dunque, l’originaria intenzione del legislatore di rafforzare le garanzie dei cittadini di fronte alla legge e si è compromessa l’efficacia del processo penale. Parallelamente, infine, si è sviluppata e si è progressivamente acuita una tendenza al pregiudizio corporativo che ha innescato pericolose tensioni tra giudici, magistrati del fiscal e avvocati.

    Ecco dimostrate, dunque, la perversione della specializzazione, la frammentazione dei mestieri, la perdita della visione globale e coordinata della giurisdizione.

     

     

    3. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera

    Nell’esporre le ragioni “contro”, si sono già in buona parte illustrate, attraverso la loro confutazione, quelle che suggeriscono di mantenere fermo l’attuale assetto ordinamentale delle carriere dei magistrati. Ma altre ne esistono.

     

    3.a – La prospettiva del Consiglio d’Europa

    Per completare la carrellata sul panorama internazionale, è molto importante ricordare come il modello ordinamentale italiano è quello verso cui tende la comunità europea. Vanno a tal fine citate almeno due importanti documenti ricchi di inequivocabili affermazioni, l’uno risalente al 2000 e l’altro più recente del dicembre 2014: il primo è costituito dalla Raccomandazione REC (2000)19 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale”, adottata il 6 ottobre 2000, ove si prevede (al punto 18) che:

    “…se l’ordinamento giuridico lo consente, gli Stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire ad una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice, o viceversa. Tali cambiamenti di funzione possono intervenire solo su richiesta formale della persona interessata e nel rispetto delle garanzie”.

     

    Si afferma, inoltre, sempre nella Raccomandazione (parte “esposizione dei motivi”), che:

    La possibilità di <> tra le funzioni di giudice e quelle di Pubblico Ministero si basa sulla constatazione della complementarità dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine della garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza, di statuto. Ciò costituisce una garanzia anche per i membri dell’ufficio del pubblico ministero”.

     

    Il secondo è il nuovo parere 9 (2014) del Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei destinato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, approvato a Roma il 17 dicembre 2014, avente ad oggetto “Norme e principi europei concernenti il Pubblico Ministero”, contenente la cosiddetta Carta di Roma” ed una nota esplicativa dettagliata dei principi contenuti nella Carta stessa.

    Orbene, in questo importante documento, pur non essendo mai formalmente citate la necessità di unicità delle carriere di pubblici ministeri e giudici e la possibilità del conseguente interscambio di funzioni (implicitamente auspicate), sono con forza ribaditi tutti i principi che in tal senso depongono e che vengono in questa relazioni ribaditi.

     

    Ecco perché è possibile affermare che la comunità internazionale viaggia proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione. Quasi mai per buone ragioni19.

     

    3.b – La cultura giurisdizionale deve appartenere anche al PM

    Si è già più volte parlato, fin qui, di cultura giurisdizionale, ma vale la pena di approfondire il tema anche perché – è inutile negarlo – a molti cittadini, e talvolta anche agli addetti ai lavori, l’espressione appare spesso incomprensibile, quasi si trattasse di innalzare ad arte una cortina fumogena per celare supposti privilegi corporativi. O quasi si trattasse di uno slogan pubblicitario.

    E’ quasi d’obbligo, innanzitutto, ripetere alcuni rilievi nient’affatto originali: l’Associazione Nazionale Magistrati, ad esempio, “ritiene che l’osmosi tra le diverse funzioni di giudice e di Pm, con la possibilità di passaggio dei magistrati dall’una all’altra, nell’ambito di un’unica carriera, mantenendo il P.M. nella cultura della giurisdizione, assicuri la finalizzazione esclusiva dell’attività degli uffici del pubblico ministero alla ricerca della verità”20. In altre parole, la possibilità di interscambio di ruolo significa innanzitutto l’acquisizione di una cultura che conduce il pubblico ministero - o dovrebbe condurlo - a valutare la fondatezza, la portata ed il valore degli elementi probatori che raccoglie non in funzione dell’immediato risultato o della cd. “brillante operazione” cui tengono evidentemente molto di più le forze di polizia, ma in funzione della loro valenza rispetto alla fase del giudizio. I canoni della valutazione della prova, cioè, devono unire pubblici ministeri e giudici, dando vita ad un sistema più garantito per i cittadini.

    Del resto, nell’ambito del procedimento penale, il pubblico ministero svolge un ruolo di controllo sulla legalità dell’operato della polizia giudiziaria che ne rende palese la natura di organo di giustizia vicino piuttosto alla figura del giudice che a quella di parte deputata a sostenere in sede processuale le tesi della polizia, come avviene negli ordinamenti veramente ispirati al modello accusatorio: basti pensare agli interventi del P.M. in tema di liberazione immediata della persona arrestata o fermata fuori dai casi previsti dalla legge (art.389 c.p.p.), oppure alla attività di convalida o non convalida delle perquisizioni o dei sequestri operati dalla polizia giudiziaria, alla preliminare selezione dei casi in cui è opportuno trasmettere al Gip le richieste di intercettazioni telefoniche sollecitate dalla polizia. Si tratta all’evidenza di interventi nei quali il P.M. non svolge un ruolo repressivo ma al contrario un ruolo istituzionale di garanzia e di tutela dei diritti di libertà e dei diritti patrimoniali del cittadino nei confronti di provvedimenti limitativi adottati dagli organi di polizia di cui, diversamente, verrebbero incentivate prassi criticabili, ancora oggi emergenti. Un ruolo che il PM non potrebbe esercitare efficacemente senza essere inserito, appunto, nella cultura della giurisdizione21: un inserimento tanto più saldo quanto più vi sia possibilità per chi sia stato giudice di diventare PM e viceversa. Il PM, insomma, deve saper esercitare un ruolo efficace e corretto di direzione della polizia giudiziaria, senza appiattirsi, da un lato, sulle esigenze della investigazione pura e senza rinunciare, dall’altro, a quella cultura della giurisdizione che costituisce la barriera più solida contro i ricorrenti progetti di separazione delle carriere. Se questo legame si attenua o viene reciso, si apre la strada alla deriva del PM verso culture, deontologie e prassi ben diverse da quelle del giudice: “un corpo separato di pubblici ministeri è destinato inevitabilmente a perdere la propria indipendenza dall’esecutivo. Per la decisiva ragione che non è democraticamente ammissibile l’irresponsabilità politica di un apparato di funzionari pubblici numericamente ridotto (poco più di 1900 unità), altamente specializzato, con ampie garanzie di status, preposto in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale: questo potere o è compensato dalla polverizzazione dei suoi titolari, dalla loro ampia rotazione nel tempo e dal loro ancoraggio alla giurisdizione (pur nelle peculiarità che li caratterizzano) oppure deve essere riportato alla sfera della responsabilità politica”22. Anni fa, lo ha affermato efficacemente e lucidamente anche Alessandro Pizzorusso: “Nel dibattito invelenito che è attualmente in corso gli argomenti sembrano avere perso ogni capacità di persuasione e la rivendicazione della separazione delle carriere viene agitata come una clava, senza tener conto nemmeno del fatto che un pubblico ministero assolutamente indipendente e rigorosamente gerarchizzato (con la polizia si suoi ordini) costituirebbe il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell’epoca contemporanea (e infatti non lo si è mai avuto in alcun paese)”.

    L’unica alternativa possibile, per un PM divenuto altro dalla giurisdizione, sarebbe, dunque, di finire alle dipendenze (che significa agli ordini) del Governo: e ciò per ragionamento logico ed istituzionale, non certo in base ad arbitrari processi alle intenzioni di questa o quella maggioranza politica contingente (i cui eventuali diversi “colori” sono del tutto indifferenti rispetto agli argomenti qui in esame).

     

    Ancora un’ annotazione si impone sul punto : alla vigilia del fallito referendum abrogativo del 2000, si registrò una impennata di domande di trasferimenti di pubblici ministeri ad uffici giudicanti. Ad avviso di chi scrive, ciò si spiega con la preoccupazione - che evidentemente i p.m. all’epoca nutrivano - di vedersi precluso l’eventuale accesso alla carriera giudicante e di essere in breve sottoposti alle direttive dell’esecutivo: ciò significa che la cd. “cultura giurisdizionale” e l’orgoglio della propria indipendenza, costituzionalmente garantita, sono valori che vivono profondamente nella coscienza dei magistrati italiani e che, con l’aiuto dell’Avvocatura, andrebbero rafforzati, piuttosto che mortificati.

     

    3.c – I dati statistici

    E’ opportuno ragionare attorno ad aggiornati dati statistici: si parla molto spesso, infatti, del rischio di inquinamento della funzione giudicante che sarebbe determinato dal continuo passaggio dei magistrati da una carriera all’altra; in realtà, anche a prescindere dalla superficiale prospettazione di questo timore (si rimanda a quanto sin qui specificato), quasi mai si considerano i dati statistici di cui pure si dispone e che il CSM – nel 2000 - inviò anche al Comitato promotore del citato referendum abrogativo. Tra il ’93 ed il ’99, infatti, la percentuale di giudici trasferitisi a domanda agli uffici del P.M. risultava sostanzialmente costante, oscillando tra un minimo del 6% ed un massimo dell’8,50% ; anche nel caso di trasferimenti in direzione opposta, le percentuali nello stesso periodo erano costanti, oscillando tra il 10% e il 17%. . Tali dati sono vistosamente “crollati” a seguito delle limitazioni introdotte d.lgs n. 160/2006, successivamente modificate dalla legge n. 111/2007.

     

    Si riproducono di seguito, infatti, i dati relativi ai trasferimenti con contestuale cambio di funzioni (da requirenti a giudicanti e viceversa), forniti dal Consiglio Superiore della Magistratura, relativi al periodo 1 gennaio 2011 – 30 giugno 2016 (cioè, agli ultimi 5 anni e mezzo):

     

     

    Trasferimenti da funzioni requirenti a funzioni giudicanti .

    nel periodo 1 gennaio 2011 – 30 giugno 2016

     

    Totale: 101, così suddivisi:

     

    Numero requirenti trasferiti e specifica funzione di provenienza

    Specifica funzione giudicante

    oggetto del trasferimento

    61 Sostituti Procurat. Repubblica c/o Tribunale

    3 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale Minori

    2 Procurat. della Repubblica Aggiunti

    Totale 66

     

    Giudice Tribunale

    (non è noto, tra i 66 trasferiti, il numero degli

    ex requirenti destinati al settore civile)

     

    11 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

    1 Sost. Procurat.Repubbl. c/o Tribunale Minori

    Totale 12

     

     

    Giudice Tribunale Sezione Lavoro

    1 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

    Totale 1

    Presidente Sezione Tribunale

    1 Sostituto Procurat. Repubblica c/o Tribunale

    1 Sost. Procurat. Generale c/o C. Appello

    Totale 2

     

    Magistrato distrettuale Giudicante

     

    5 Sostituti Procurat. Repubblica c/o Tribunale

    1 Sostituto Procurat. Naz.le DNAA

    1 Procuratore Repubbl. c/o Tribunale Minori

    2 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale Minori

    Totale 9

     

     

    Consigliere di Corte d’Appello

     

    1 Sost. Procurat. Generale c/o C. Appello

    Totale 1

     

    Presidente Sezione di Corte d’Appello

    1 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

    Totale 1

    Consigliere Corte App. Sezione Lavoro

     

    3 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

    Totale 3

     

    Magistrato di sorveglianza

     

    2 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

    Totale 2

     

    Magistrato di Trib. destinato a Corte Cass.

     

    1 Procuratore della Repubblica

    2 Sost. Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

    1 Sost. Procurat. Generale c/o C. Appello

    Totale 4

     

     

    Consigliere Corte di Cassazione

     

     

    Trasferimenti da funzioni giudicanti a funzioni requirenti

    nel periodo 1 gennaio 2011 – 30 giugno 2016

     

    Totale: 78, così suddivisi:

     

    Numero giudicanti trasferiti e specifica funzione di provenienza

    Specifica funzione requirente

    oggetto del trasferimento

    1 Presidente Tribunale

    Totale 1

    Procuratore della Repubblica c/o Tribunale

    22 Giudici di Tribunale

    2 Consiglieri di Corte d’Appello

    1 Presidente Sezione Tribunale

    1 Magistrato di sorveglianza

    Totale 26

     

     

    Sostituti Procurat. Repubbl. c/o Tribunale

    2 Giudici di Tribunale

    1 Magistrato di sorveglianza

    1 Consigliere di Corte d’Appello

    Totale 4

     

    Sostit.Procurat. Repubbl. c/o Tribun. Minori

    1 Giudice Tribunale

    1 Giudice Tribunale Minori

    Totale 2

     

    Procur. della Repubbl. c/o Trib. Minori

    1 Giudice Sezione LavoroTribunale

    1 Giudice Tribunale

    1 Consigliere di Corte d’Appello

    Totale 3

     

    Magistrato distrettuale Requirente

    1 Consigliere Sez. Lavoro Corte Appello

    4 Consiglieri Corte d’Appello

    1 Presidente Sezione Tribunale

    2 Presidente Tribunale Sorveglianza

    1 Magistrato di Sorveglianza

    8 Giudici Tribunale

    2 Giudici Tribunale Minori

    Totale 19

     

     

     

    Sostit. Proc. Generale c/o Corte d’Appello.

    1 Giudice Tribunale

    Totale 1

    Avvocato Generale c/o Corte d’Appello

    2 Consiglieri Corte di Cassazione

    5 Giudici Tribun. destinati a Corte Cassazione

    4 Consiglieri di Corte d’Appello

    2 Consiglieri Sez. Lavoro Corte d’Appello

    1 Presidente Tribunale Sorveglianza

    2 Magistrati di Sorvegianza

    1 Presidente Sezione Tribunale

    5 Giudici Tribunale

    Totale 22

     

     

     

     

    Sost. Procur. Gener. c/o Corte di Cassazione.

     

     

    Pertanto, considerando:

    il numero dei magistrati effettivamente in servizio al 30 giugno 2016:

    REQUIRENTI: 2192;

    GIUDICANTI : 6453;

     

    il numero totale (già riportato in testa ai due prospetti precedenti) di quelli trasferiti da una funzione all’altra negli ultimi 5 anni e mezzo (per rimanere a dati aggiornati):

    REQUIRENTI: 101;

    GIUDICANTI : 78;

     

    il deducibile numero annuo medio dei magistrati trasferiti da una funzione all’altra negli ultimi 5 anni e mezzo (per rimanere a dati aggiornati):

    REQUIRENTI: 18,36

    GIUDICANTI : 14,18;

     

    ne deriva che negli ultimi cinque anni e mezzo la percentuale annua dei magistrati trasferiti da una funzione all’altra (rispetto al numero di quelli effettivamente in servizio nell’una e nell’altra funzione) - è la seguente:

    REQUIRENTI: 0,83

    GIUDICANTI : 0,21

     

    Tale percentuale sarebbe poi ancora più irrilevante se la si rapportasse al numero più alto dei magistrati previsti in organico, anzichè a quello dei magistrati effettivamente in servizio.

     

    Quali riflessioni trarre da questi dati? Da un lato, evidentemente, che quella “trasmigrazione”, secondo alcuni “inquinante” culturalmente e professionalmente, non è poi così massiccia come si crede, anzi è quantitativamente marginalissima; dall’altro, che la ragione di questa contenuta tendenza alla preservazione della funzione esercitata sta forse nel fatto che si va affermando quell’esigenza di specializzazione che molti indicano tra i possibili e più efficaci strumenti di risoluzione di conflitti e tensioni.

     

    3.d - Unica formazione e unico CSM

    Ecco, dunque, che la magistratura, anche grazie ai principi contenuti nelle circolari del CSM, è in grado – da sé – di amministrare con razionale equilibrio i frutti derivanti, da un lato, dalla pluralità delle esperienze professionali e, dall’altro, dalla specializzazione nell’esercizio di determinate funzioni. Ma, come s’è detto in precedenza, la specializzazione ha senso all’interno di una visione globale della giurisdizione: l’appartenenza ad un’unica carriera, dunque, pur nella diversità delle funzioni esercitate, giustifica un percorso professionale unico di formazione e di aggiornamento professionale e giustifica l’esistenza di un unico Consiglio Superiore della Magistratura, di un’unica Scuola per l’aggiornamento da aprire il più possibile all’Avvocatura per favorire l’intensificarsi di una formazione comune, pur nella diversità delle professioni: verrebbe da chiedersi, anzi, perché non è stata mai formulata o seriamente presa in considerazione l’ipotesi di un’unica Scuola di formazione per magistrati ed avvocati.

    Ma è comunque evidente che formazione comune ed un unico CSM, in presenza di carriere dei magistrati definitivamente separate, non avrebbero ragione di essere. E sarebbe un danno per tutti, a partire dai cittadini utenti della giustizia.

     

    3.e - Condizionamento del giudice: conseguenza certa della separazione delle carriere

    Va da sé che la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e/o l’involuzione culturale che lo colpirebbe in caso di separazione delle carriere finirebbero con il condizionare il giudice, in quanto al suo esame sarebbero sottoposti unicamente gli affari trattati da un pubblico ministero che, inevitabilmente e come avviene in altri ordinamenti, dovrebbe attenersi alle direttive ministeriali (o parlamentari) in materia o che potrebbe essere condizionato, a secondo dei momenti storici, da orientamenti culturali e giuridici di natura prevalentemente securitaria o, comunque qualcuno vorrebbe nel presente contesto storico, ispirati alla necessità di privilegiare le esigenze dell’economia e del mondo imprenditoriale etc. . Si comprende, dunque, come anche la funzione giurisdizionale in senso stretto ne risulterebbe gravemente vulnerata

     

     

    3.f – La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia

    E’ noto che negli ultimi anni sono stati compiuti in Europa passi concreti verso la realizzazione di un’effettiva rete di cooperazione giudiziaria nel campo criminale. Sono stati costituiti organismi di polizia, amministrativi e para-giudiziari di indubbia importanza (Europol, Rete giudiziaria europea e relativi “punti di contatto” tra le autorità giudiziarie degli Stati membri dell’Unione, magistrati di collegamento, Olaf nel settore antifrode, Eurojust, Corte Penale internazionale permanente) ed è noto che si discute della creazione di un vero e proprio ufficio del P.M. europeo (anche se competente solo su alcuni tipi di reato) e del Corpus Juris che dovrebbe dar vita ad un diritto penale sostanziale minimo, comune a tutti gli Stati membri.

    In questa prospettiva, e mentre i lavori sono ancora in corso, si pone in tutta la sua evidenza, non solo per l’Italia, il problema della garanzia di indipendenza che dovrà essere riconosciuta ai magistrati che, a vario livello, esercitano ed eserciteranno la funzione di P.M. in tutti gli organismi giudiziari sovranazionali ed internazionali che sono stati rapidamente (ed un po’ tumultuosamente) creati nel corso del decennio scorso23 e di cui – in altri casi – ancora si discute.

    Orbene, valutando il “senso di marcia” della evoluzione in atto, i poteri di ingerenza nelle funzioni giudiziarie di indagine che inevitabilmente saranno attribuiti agli organismi internazionali, i loro compiti di coordinamento, di impulso ed iniziativa rispetto agli organi inquirenti nazionali ed in settori criminali di indubbio ed oggettivo rilievo, appare evidente che la preservazione dell’attuale assetto ordinamentale potrà garantire la presenza in quegli organismi di magistrati italiani indipendenti dall’esecutivo ed animati da quella cultura giurisdizionale di cui si è fin qui più volte parlato.

    Una cultura che l’Italia dovrebbe preoccuparsi di diffondere nel resto di Europa, invece di disperdere.

     

    4. – Rapporti tra potere politico e magistratura. E’ passato il tempo delle riforme “rancorose”.

    In ogni parte del mondo, come si sa, si registrano contrasti tra giustizia, politica, economia, ma in nessuna parte del mondo il livello di tali contrasti ha portato, come in Italia, ad una situazione di vero pericolo per l’indipendenza della magistratura ed al rischio di violazione del principio della separazione dei poteri che è alla base di ogni ordinamento democratico. Ci si vuol qui riferire ad un passato che, sia pur non troppo lontano, sembra definitivamente tramontato: basti pensare alle accuse di parzialità e mala fede rivolte ai magistrati anche da chi rivestiva talune importanti cariche istituzionali. La crisi della divisione dei poteri si mostrò in tutta la sua pericolosità in Senato, il 5 dicembre 2001, allorchè venne approvata, a maggioranza, una mozione in cui si “denunciavano” riunioni clandestine tra giudici e PM per trovare il modo di violare la legge sulle rogatorie e si bocciavano senza appello l’interpretazione della medesima adottata dai collegi giudicanti milanesi (indicando loro quella che sarebbe stata corretta) e le decisioni da questi assunte in tema di impedimenti a comparire in giudizio di imputati parlamentari24. Nello stesso senso, peraltro, andavano le reazioni di parti consistenti del mondo politico successive a sentenze sgradite. Significativamente, dopo una decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, sgradita ad imputati eccellenti ed ai loro difensori (in buona parte parlamentari), si riaccese il dibattito sulle riforme ordinamentali, prima tra tutte proprio quella sulla separazione delle carriere, che veniva presentata, per l’ennesima volta, come una riforma da attuarsi rapidamente in nome dell’efficienza e delle garanzie per i cittadini, pur non avendo a che fare né con l’una, nè con le altre. Essa andava ad iscriversi, piuttosto, all’interno di un pacchetto di riforme “rancorose”25 e punitive caratterizzate da un solo fine: il depotenziamento del ruolo del P.M. e la sua sottoposizione al potere esecutivo.

    L’1.2.03, l’on.le G. Pecorella, Presidente della Commissione Giustizia della Camera, lanciava la proposta di far eleggere i dirigenti delle Procure da organismi politici (Parlamento e Consigli Regionali) ed il Ministro della Giustizia rilanciava, due giorni dopo, ipotizzando concorsi separati per l’accesso alle due carriere e concorsi ulteriori per il passaggio dall’una all’altra E già da tempo, inoltre, si discuteva dell’attribuzione al Parlamento, su proposta del Ministro della Giustizia, delle scelte delle priorità investigative (il che sarebbe stato sufficiente di per sé a vanificare il principio di obbligatorietà dell’azione penale ed a depotenziare il ruolo del P.M., senza neppure necessità di sottoporlo al controllo dell’esecutivo), nonché dello sganciamento dell'attività della P.G. dalla direzione e dal controllo del P.M. (oggetto, più avanti, di un ulteriore progetto di riforma del procedimento penale, contenuto nel DDL n. 1440, approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 febbraio 2009. Il suo cuore era costituito proprio dal ridimensionamento del ruolo del PM, che – secondo note enunciazioni – avrebbe dovuto assumere la veste di “avvocato dell’accusa” o “avvocato della polizia”, in un contesto che ne avrebbe determinato burocratizzazione ed ancora una volta sottoposizione di fatto all’esecutivo).

    Proprio quest’ultima prospettiva appare allarmante almeno quanto quella dell’allontanamento ordinamentale e culturale del P.M. dal giudice: sottrarre ai Pubblici Ministeri la direzione ed il coordinamento della Polizia Giudiziaria non solo farebbe rivivere il regime antecedente a quello introdotto dal Codice di rito dell’88, ma depotenzierebbe l’organo dell’accusa e, riducendolo al rango di funzionario amministrativo, comprometterebbe inevitabilmente il livello delle garanzia riconosciute ai cittadini26.

     

    E’ probabilmente vero – e chi scrive ne è convinto - che il livello di queste preoccupazioni è oggi notevolmente diminuito anche se la storia di questo Paese ed, in particolare, quella che riguarda i rapporti tra politica e magistratura in Italia, non è tranquillizzante e deve indurre tutti alla massima attenzione. E ciò - è bene chiarirlo - indipendentemente dal colore dei governi che si sono succeduti nella guida politica del Paese.

     

    Proprio per questa ragione, è auspicabile che Avvocatura e Magistratura, con il contributo determinante del mondo accademico, uniscano le loro forze, fino a determinare una sinergia virtuosa che, lungi dal ritorno alla proposta della separazione delle carriere (francamente anacronistica dopo la riforma e le previsioni illustrate nella prima parte di questa relazione), peraltro attraverso passaggi di dubbia costituzionalità27, si concentri sulle cause vere delle disfunzioni del processo, a partire dalla drammatica carenza di personale amministrativo e dalle ipotesi di riforma allo stato oggetto di attenzione della Commissione Giustizia del Senato (ci si riferisce al Disegno di legge n. 2798/A di riforma del processo penale, per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi, approvato nel settembre 2015, in prima lettura, dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati).

     

    5. La proposta di legge costituzionale elaborata dall'Unione delle Camere Penali, (con cenni all’obligatorietà dell’azione penale ed al tema delle priorità).

     

    Nell’ovvio rispetto per le elaborazioni e le proposte formulate dall’Avvocatura, in particolare per quella di modifica costituzionale elaborata dall’Unione delle Camere Penali, appaiono chiare – alla luce di quanto sin qui precisato - le ragioni della contrarietà di chi scrive al contenuto delle proposte di modifica dei seguenti articoli della Costituzione e dei principi in essi affermati:

     

    Art. 104, con suddivisione formale della magistratura in giudicante e requirente, nonché istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura giudicante;

    Art. 105, con precisazioni delle competenze, anche disciplinari, del Consiglio Superiore della Magistratura giudicante;

    Art. 105 bis e 105 ter (da inserire), con istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura requirente e precisazioni delle sue competenze, anche disciplinari;

    Art. 105 quater (da inserire), con istituzione della Corte di giustizia disciplinare, separata dal CSM e con competenze nei confronti sia dei giudici che dei pubblici ministeri ordinari;

    Art. 106, con previsione di distinti concorsi per magistrati giudicanti e requirenti, nonché di possibilità di nomina (da disciplinarsi per legge) di avvocati e professori ordinari di materie giuridiche a tutti i livelli della giurisdizione;

    Art. 107, con previsione di distinte competenze dei due istituendi Consigli Superiori rispetto a trasferimenti ed altro di magistrati giudicanti e requirenti; e con soppressione del co. 3 (“I magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni”);

    Art. 110, con inserimento della citazione dei due istituendi distinti Consigli Superiori della Magistratura nella norma che prevede la competenza del Ministro della Giustizia in ordine a “organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”.

     

    Un sistema così articolato finirebbe con il favorire “..l’autoreferenzialità delle due categorie di magistrati, avviando una scissione fondata…tra l’attitudine prevalente a giudicare in posizione di terzietà e l’attitudine prevalente a formulare accuse da una posizione di parte”28.

     

    Merita specifica attenzione, però, la previsione di un’altra proposta di modifica costituzionale, quella dell’art. 112, secondo cui, dopo le parole “Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” dovrebbero essere aggiunte le seguenti : “secondo e forme previste dalla legge”.

     

    Si tratta di una proposta tanto indefinita quanto inaccettabile, almeno per chi scrive.

     

    Sono infatti noti a tutti problemi e difficoltà che si frappongono all’effettiva applicazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma si tratta di un principio da difendere con convinzione perché garantisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: per questo è semmai il malato da aiutare a guarire, non la malattia da cancellare, come in molti vorrebbero!

    E’ chiara la ragione per cui quel principio garantisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: essi sanno che, essendo il PM obbligato a perseguirli, tutti gli accertati responsabili di qualsiasi reato saranno condotti dinanzi ad un Tribunale per essere giudicati, senza distinzione di razza, religione, censo e senza possibilità di influenza sull’esito delle indagini del loro eventuale potere economico o politico.

    Ci si deve domandare, allora, come mai esistano accaniti “detrattori” del principio affermato nell'art. 112 Cost., pronti a sostenere che si potrebbe rendere discrezionale l'azione penale senza necessità di trasformare il PM in un organo dipendente dall’esecutivo e senza compromettere il principio inviolabile dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

    Le ragioni addotte a sostegno di questa posizione sono di duplice natura: tecniche, quelle di alcuni osservatori e giuristi che possono essere definiti “pragmatici”; politiche, quelle di chi – magari obliquamente – intende condizionare il ruolo del pubblico ministero, apparentemente preservandone l’indipendenza dall’esecutivo, in realtà mirando ad impedirgli di avviare indagini ed esercitare l’azione penale per certi reati e nei confronti di certi imputati.

    Entrambe le posizioni si fondano su un identico rilievo di partenza, quello concernente le note difficoltà che si oppongono all’effettiva realizzazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale.

    Si è già detto che questo principio postula per il PM l’obbligo di avviare l’indagine preliminare per ogni tipo di reato di cui egli abbia comunque notizia. Si obietta però che, nonostante quanto previsto dall’art. 112 Cost., soltanto una parte dei reati commessi viene effettivamente perseguita: le notizie di reato pervenute al PM e le procedure d’indagine che si avviano, infatti, sarebbero troppo numerose ed ingestibili, costringendo il PM stesso ad operare una selezione. L’obbligatorietà dell’azione penale, dunque, non troverebbe effettiva applicazione nella realtà ed il PM, pur obbligato per legge a non scegliere, finirebbe per agire discrezionalmente selezionando gli affari da trattare e quelli da trascurare. Tale discrezionalità, peraltro, sarebbe esercitata senza criteri predeterminati o secondo criteri diversi tra Procura e Procura e, all’interno del singolo ufficio, tra i magistrati che lo compongono. In certi casi, poi, il PM sarebbe indifferente all’esito dei procedimenti di cui è oberato, mentre in altri la scelta di procedere o meno per un reato finirebbe con l’essere politicamente orientata, al punto da indurre il PM a perseguire i reati in cui sono coinvolti personaggi di orientamento politico a lui non gradito e contemporaneamente a tralasciarne altri che pure destano grave allarme sociale e pericolo per la sicurezza dei cittadini. In ogni caso, il destino finale per molti reati sarebbe costituito dalla prescrizione o dall’archiviazione per la mancata acquisizione degli elementi utili ad esercitare l’azione penale.

    A questo punto, le proposte “costruttive” per la modifica del sistema esistente si differenziano in ordine all’individuazione dell’istituzione o autorità cui attribuire competenza e responsabilità di dettare periodicamente i criteri-guida uniformi per l’esercizio discrezionale dell’azione penale da parte dei pubblici ministeri.

    Quale potrebbe essere tale istituzione o autorità? Il Governo, tramite indicazioni del Ministro della Giustizia o il Ministro stesso, afferma taluno, con ciò aprendo la strada alla sottoposizione del PM all’esecutivo. Il Parlamento, previa discussione generale e trasparente, rispondono altri, così accettando la possibilità che l’azione penale sia condizionata dalle scelte della maggioranza politica di turno e che il dibattito parlamentare finisca inevitabilmente con l’investire il modo di operare di questo o quell’ufficio giudiziario. Ma c’è pure chi individua l’istituzione competente a regolare la presunta discrezionalità dei PM nel Consiglio Superiore della Magistratura (che mai, invece, si è ritenuto competente ad orientare il merito delle scelte giurisdizionali), chi pensa al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, chi ai Consigli Giudiziari operanti su base distrettuale e così in grado di valorizzare esigenze territoriali, chi ai singoli Procuratori della Repubblica (cui, anche per questo , dovrebbero essere riconosciuti poteri di tipo gerarchico). E c’è pure chi pensa ad una interlocuzione complessa tra tutte – o quasi tutte - queste Istituzioni, ritenendole a vario titolo competenti.

    Vi è poi un altro argomento spesso utilizzato a sostegno delle ragioni sia dei giuristi “tecnici” che di quelli “politici”. Nasce da uno sforzo incolto di usare il diritto comparato a proprio uso e consumo e consiste nell’affermare che il sistema italiano costituirebbe l’eccezione in un panorama internazionale asseritamente caratterizzato dal principio di discrezionalità dell’azione penale e da quello inevitabilmente connesso della dipendenza del PM dal potere esecutivo, che ne detta le linee d’azione. L’affermazione è sicuramente errata: esistono in Europa, infatti, sistemi in cui l’azione penale è obbligatoria, altri in cui è discrezionale, altri ancora in cui esistono temperamenti all’uno o all’altro principio (per cui l’obbligatorietà è talvolta condizionata all’effettiva gravità del reato e, dunque, all’ “economicità” in senso lato del processo, mentre la discrezionalità orientata dal prevalere dell’interesse delle vittime dei reati). Negli Stati Uniti, poi, le direttive per l’esercizio dell’azione penale sono periodicamente dettate dall’Attorney General (figura che racchiude in sè le funzioni tanto del nostro Ministro della Giustizia che del Procuratore Generale presso la Cassazione), ma lì – e questa è la principale differenza con l’Italia - nemmeno il Presidente protesta se il Prosecutor lo incrimina. Nei sistemi europei in cui le direttive dell’esecutivo regolano il principio della discrezionalità dell’azione penale, esiste comunque la figura del Giudice Istruttore indipendente (da noi abolita ormai più di vent’anni fa), che può rimediare alle inerzie del PM.

    Insomma, il significato del dato comparatistico non può essere enfatizzato, né assunto come parametro di valutazione del nostro sistema. E le differenze ordinamentali esistenti tra uno Stato e l’altro spesso derivano da secolari differenze di cultura giuridica e politica.

    L’elencazione delle ragioni della crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e dei possibili rimedi (inclusi riferimenti al controverso tema delle priorità) richiederebbe il doppio dello spazio, già troppo ampio, occupato dalla presente relazione.

     

    Sia permesso, allora, il riferimento ai seguenti interventi di chi scrive, ai quali si rimanda:

     

    Obbligatorietà dell’azione penale”, in Giustizia, la parola ai magistrati”, a cura di Livio Pepino (Laterza, 2010);

    Nuovi criteri di organizzazione della Procura della Repubblica di Torino del 23 giugno 2015”29, in particolare : paragrafi nn. 10 e 11 (da pag 131 a pag. 140);

    Le priorità non sono più urgenti e comunque la scelta spetta ai giudici”, in Cassazione Penale, LV, ottobre 2015, n. 10.

     

    6. Per concludere..

    Le persistenti e periodiche discussioni attorno alla ipotesi di separazione delle carriere e alla crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale sono talvolta conseguenti anche ad innegabili criticità che possono essere rilevate in ogni parte d’Italia nelle prassi investigative e nei criteri di promovimento dell’azione penale.

    Ma, in proposito, è utile invitare tutti ad un’analisi seria e mirata di tali problematiche, evitando di invocare soluzioni radicali, incompatibili con la nostra cultura e tradizione giuridica.

     

    Sono ancora una volta condivisibili, a tal fine, le parole del prof. Gaetano Silvestri, pronunciate nel già citato intervento in occasione di un Congresso dell’ANM di vari anni fa 30: “Non possiamo negare che oggi si assista in varie parti d’Italia ad una ipertrofia dell’azione penale, derivante da una concezione pan-penalistica dei rapporti sociali, politici e istituzionali coltivata da taluni magistrati. In contrasto con la cultura del diritto penale minimo, che dovrebbe essere l’approdo di una più aggiornata visione della legalità, si sviluppa talvolta un iperattivismo inquisitorio ed accusatorio non certo in linea con un equilibrato esercizio della giurisdizione. Dobbiamo tuttavia notare che complessivamente la terzietà del giudice nel nostro sistema funziona abbastanza bene e che la maggior parte dei processi iniziati in modo avventato – in assenza di un quadro probatorio sufficiente o in base a forzature pan-penalistiche della legge – si concludono con decisioni di proscioglimento. Il processo penale italiano contiene in sé una grande quantità di garanzie per la difesa. Sono convinto che di fronte alla scelta di barattarlo con altri sistemi, molti suoi detrattori farebbero un passo indietro”.

    Purtroppo – aggiungeva il prof. Silvestri – i mass-media amplificano anche a senso unico le lamentele. Se un imputato viene assolto, si inveisce contro il PM che ha esercitato l’azione penale, dimenticando di sottolineare che c’è stato un giudice che non si è adagiato sulle prospettazione dell’accusa; se viene invece condannato, allora i medesimi giudici vengono presentati come succubi dei PM, perché colleghi ed amici”.

     

    Si tratta di parole di grande efficacia, utili per invitare tutti a difendere con orgoglio i principi fondanti del nostro sistema ordinamentale, tra cui vi è sicuramente quello della unicità della carriera dei magistrati giudicanti e requirenti

     

     

     

    ---===oOo===---

    1 La presente relazione riprende ed aggiorna valutazioni e testi inclusi in altre relazioni dell’autore sullo stesso tema, tra cui quella tenuta a Napoli, il 25 febbraio 2003, in un convegno organizzato dalla sezione locale dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati.

    2 Prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di cui al capo V del d.lgs n. 160/06 non vi erano ostacoli al passaggio (a semplice domanda) dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti (e viceversa), per consentire il quale era sufficiente, ai sensi dell’art. 190 R.D. 12/1941, un parere attitudinale formulato dal Consiglio giudiziario del distretto di appartenenza del magistrato interessato. Nel 2003 una circolare del Consiglio Superiore della Magistratura (Circolare n. P-5157/2003 del 14 marzo 2003 - Deliberazione 13 marzo 2003) aveva regolamentato le modalità di formulazione del parere e previsto incompatibilità al passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti penali nell’ambito dello stesso circondario. In relazione alla domanda di passaggio da una funzione all’altra, non erano previsti limiti temporali speciali di previa permanenza nella funzione da cui si proveniva, salvo quelli ordinari e generali – contemplati dalla legge – di legittimazione a proporre domanda di trasferimento ad altra sede o di tramutamento da una funzione all’altra. Al momento dell’accesso in magistratura, inoltre, potevano essere indifferentemente conferite al magistrato di prima nomina le funzioni giudicanti o quelle requirenti.

     

    3 Le precisazioni che seguono sono tratte dal sito web del CSM, accessibile al pubblico

    4 Questa giusta precisazione è tratta dal sito web di Magistratura Democratica.

    5 Ci si vuol riferire al quesito referendario proposto da Radicali, SDI e PRI con cui si proponeva l'abrogazione delle norme dell'ordinamento giudiziario allora in vigore che consentivano ai magistrati di passare dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa. Il referendum fu “bocciato” poiché il 21 maggio 2000 non fu raggiunto il necessario quorum dei votanti.

    In particolare la Corte Costituzionale si pronunciò nel giudizio di ammissibilità, ai sensi dell'art. 2, primo comma, della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, della richiesta di referendum popolare per l'abrogazione del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, recante "Ordinamento giudiziario", e successive modificazioni ed in particolare di quelle recate dall'art. 29 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449, limitatamente a:

    articolo 190, comma 2: "Il passaggio dei magistrati dalle funzioni giudicanti alle requirenti e da queste a quelle può essere disposto, a domanda dell'interessato, solo quando il Consiglio superiore della magistratura, previo parere del consiglio giudiziario, abbia accertato la sussistenza di attitudini alla nuova funzione.";

    articolo 191;

    articolo 192, comma 6, limitatamente alle parole: ", salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del Consiglio superiore della magistratura";

    articolo 198, limitatamente alle parole: "Tali destinazioni possono avvenire, a giudizio del Ministro, tanto con le funzioni giudicanti, quanto con quelle requirenti, indipendentemente dalla qualifica posseduta dal magistrato."

     

     

    6 Si rimanda al paragrafo 5, in cui verranno brevemente commentate le recenti proposte di modifica costituzionale dell’Unione Camere Penali.

    7 Prima del D.Lgs. 5 aprile 2006, la separazione delle funzioni era prevista dall’abrogato art. 190 dell’ordinamento giudiziario e dalla previsione ivi contenuta di pareri per il passaggio dall’una all’altra funzione.

    8 Nei titoli dei sub-paragrafi da 2.a a 2.f sono riportate le affermazioni che spesso vengono formulate a sostegno della necessità della separazione delle carriere.

    9 Francesco Saverio Borrelli, MicroMega n. 1/2003

    10 Sinteticamente, anche all’inizio del decennio scorso, venne affermato da autorevoli rappresentanti delle Camere Penali, che “il giudice non deve ispirarsi alla cultura dell’azione”. Ma, ancora una volta, all’affermazione – in sé condivisibile - non fece seguito alcuna dimostrazione scientifica di tale ipotizzato atteggiamento culturale del giudice italiano

    11 Si ricordi che la previgente formulazione dell’art. 190 Ordinamento giudiziario, poi abrogato, pure richiedeva il parere attitudinale in questione, era stata introdotta dall’art.29 DPR 22.9.88 n. 449, varato nella stessa data del DPR n. 447/1988 di Approvazione del codice di procedura penale vigente.

    12 Comma inserito nell’art.111 Cost. dalla L. cost. 23.11.99 n.2. Si vedano, inoltre, il D.L. 7.1.2000 n.2, conv. con modificazioni, nella L. 25.2.2000 n.35, e gli artt. 2 ss. della L. 24.3.2001 n.89

    13 In tal senso, più volte, numerosi giuristi e commentatori

    14 Livio Pepino, Giudici e Pubblici Ministeri, in La Magistratura, nn.1/2 2002

    15 I riferimenti che seguono agli ordinamenti di altri Stati non sono tutti aggiornati, in gran parte risalgono a circa dieci anni fa e, dunque, potrebbero contenere inesattezze. In tal caso l’autore se ne scusa con i lettori.

    16 In tale senso, ad esempio, sembra essere orientato il prof. Giuseppe Di Federico, come appare da una sua intervista pubblicata il 3 luglio 2016 su Il Giornale di Sicilia, in linea con il suo intervento nel recente convegno di Capo d’Orlando sulla separazione delle carriere (di cui egli è fautore), pure promosso dalla Unione delle Camere Penali Italiane.

    17 Antonio Cluny, dirigente di Medel: intervento nel corso del congresso di Magistratura Democratica (Roma, 23/26.1.2003)

    18 Vengono qui ancora riportate le valutazioni critiche del dr. Cluny

    19 Sia qui permesso di citare anche il consenso alla struttura ordinamentale della carriera e della indipendente funzione del P.M. in Italia, manifestato da organismi rappresentativi dell’avvocatura tedesca nel corso di un importante convegno internazionale svoltosi nel 2007 a Berlino, in cui il sottoscritto fungeva da relatore.

    20 Così in Proposte di riforma dell’ANM in tema di ordinamento giudiziario” , in La Magistratura, nn.1/2 2002 Tale posizione è stata ribadita dall’ANM in numerose successive ulteriori prese di posizione, mai abbandonate neppure nel periodo attuale.

    21 Sul punto, come si è già detto, sorprende che buona parte dell’avvocatura penale non ritenga importante che il P.M. sia permeato della cd. “cultura giurisdizionale” , né appare appagante la formula che, in proposito, viene spesa : all’avvocatura – si dice – “basta che il P.M. sia mosso dalla cultura della legalità”.

    22 Livio Pepino : “Carriere Separate, Governo in Toga”, L’Unità, 20.11.02

    23 Così Ignazio Juan Patrone, all’epoca presidente di Medel

    24 A seguito di quella mozione, la giunta dell’ANM si dimise in blocco denunciandola come contrastante “..con il modello di giurisdizione e di assetto di poteri disegnato dalla Costituzione”. La giunta dell’Anm si era sciolta un’altra sola volta: nel 1924, dopo il delitto Matteotti e la svolta autoritaria di Mussolini.

    25 Efficace definizione dell’allora Vice Presidente del CSM, on.le prof. Virginio Rognoni

    26 In proposito, il prof. Giuseppe Di Federico, nella intervista citata nella precedente nota a pie’ di pagina 12, rivendica di avere per primo utilizzato la espressione di “pm-poliziotto” perché “se una persona dirige la polizia non la si può definire diversamente”, aggiungendo, però, che il Pm “a differenza del poliziotto, non risponde a nessuno: una cosa incompatibile con il sistema democratico”.

    27 Lo sarebbe – si ripete – l’ipotesi di doppio concorso, stante la lettera dell'art. 106 Costituzione che parla di "concorso", da intendersi come unico, e il contrasto con l' art. 105 Costituzione che attribuisce solo al CSM – e non, dunque, ad un’eventuale commissione esaminatrice all’interno di un concorso ad hoc - il compito di valutare i giudici ed i P.M. anche in caso di trasferimento ad altro ufficio, con contestuale mutamento di funzioni.

    28 Così il prof. Gaetano Silvestri in “La riforma dell’ordinamento giudiziario in Italia” (Congresso ANM – Venezia 5-8 febbraio 2004), commentando il disegno di legge n. 1296, approvato dal Senato il 21 gennaio 2014, contenente – al Capo I – “Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario”, con progetto di separazione delle carriere

    29 Reperibili sul sito web della Procura della Repubblica di Torino: www.procura.torinoit/, in Homepage

    30 La riforma dell’ordinamento giudiziario in Italia” (Congresso ANM – Venezia 5-8 febbraio 2004), relazione a commento del disegno di legge n. 1296, approvato dal Senato il 21 gennaio 2014, contenente – al Capo I – “Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario”, con progetto di separazione delle carriere

     

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    Giustizia Insieme. Nuovi strumenti per le nostre idee

    Presentazione della rivista

    di Carlo SABATINI -Segretario generale del Movimento per la Giustizia/art. 3

    Giustizia Insieme è iniziativa editoriale che il Movimento per la Giustizia/art. 3 – associazione di magistrati fondata nel 1988 - ha fortemente voluto e coltivato negli anni, grazie alla tenacia e all’abnegazione di molti.

     

    Come recitava la presentazione del numero ‘zero’, nel 2008, si voleva dare spazio alle “idee e ai valori della giurisdizione-servizio. Una giurisdizione nella quale i principi indefettibili dell'indipendenza e dell'autonomia - dei singoli magistrati e dell'intero ordine - fossero non finalizzati al privilegio corporativo, ma strumentali alla qualità del servizio e della funzione resa, secondo i dettami della Carta Costituzionale. Una giurisdizione attenta al mondo, alla società, che vive la propria sola soggezione alla legge - unica soggezione del magistrato, prevista e imposta dalla Costituzione - nella consapevolezza dell'esigenza dell'assoluta necessità di una professionalità adeguata e responsabile, quale solo il confronto con il mondo esterno può compiutamente dare”.

    Vi era dunque la ricerca di un modello editoriale nuovo nel panorama delle pubblicazioni giuridiche: una rivista che prevedeva il costante confronto tra magistrati, operatori del diritto e di altre scienze, affidando ogni singolo tema a voci differenti, incrociando temi giuridici e saperi ‘altri’ in una visione ‘socialmente orientata’ della giurisdizione.

     

    Da quel primo numero molte cose sono cambiate, nella magistratura e nella società.

    La decisione politica tende a affermarsi come assioma assoluto e spesso refrattario a forme di bilanciamento e garanzia; gli imperativi della stabilità economica e della sicurezza sono sovente addotti per giustificare una ‘legalità imperfetta’ e quindi una giurisdizione indebolita. Per quanto concerne più propriamente la giurisdizione e il suo esercizio, può dirsi che etica, professionalità ed efficienza negli uffici – che sono stati la cifra distintiva originaria del Movimento per la Giustizia – siano ormai entrati nel lessico di tutta la categoria e dello stesso decisore politico: ma non può negarsi che alla loro declamazione non sempre si sono accompagnate scelte coerenti, con un sistema giustizia sempre più ridotto in affanno e con crescenti disincanto e delusione di molti operatori della giustizia.

     

    Per contrastare un modello di magistratura ripiegata su se stessa e priva di questa dimensione sociale abbiamo quindi ritenuto necessario non disperdere un patrimonio culturale importante e vivo: e realizzare una rivista on-line, che sia archivio della memoria ma che sia ‘aperto’ e proiettato sui nuovi pensieri. In una linea di continuità con i valori fondanti, con la globalità e l’immediatezza che sono propri dei nuovi strumenti informatici ma anche – partendo da un patrimonio culturale meditato e solido – evitando i connessi rischi di omologazione e appiattimento.

    Mutate le forme di comunicazione, l’auspicio è che donne e uomini, magistrati e non, possano continuare a fare del confronto e dell’apertura il proprio segno distintivo: a fare ancora ‘Giustizia Insieme’.

     

    Roma, 10 giugno 2016

    Carlo Sabatini

    Segretario generale del Movimento per la Giustizia/art. 3

     

     

     

     

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    La responsabilità civile del magistrato e i rapporti con la responsabilità disciplinare

    (Seminario C.S.M. su “La nuova responsabilità civile dei magistrati tra giurisdizione e governo autonomo”, Roma 11-12 giugno 2015 – Relazione della Procura generale presso la Corte di cassazione, a cura di M. Fresa e C. Sgroi)

     

    Premessa. Il testo che segue esprime esclusivamente un primo – e ancora “aperto” – tentativo di sistemazione da parte dell’Ufficio della Procura generale presso la Corte di cassazione, titolare dell’iniziativa obbligatoria in materia disciplinare nei riguardi del personale di magistratura, in ordine ai rapporti che intercorrono tra la sede del giudizio per danno da esercizio della funzione giudiziaria (legge 13 aprile 1988, n. 117, nel testo risultante a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 27 febbraio 2015, n. 18) e la sede del procedimento disciplinare oggi regolata dal d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109.

    Resta estranea, quindi, tutta la serie di questioni problematiche che attengono all’interpretazione e classificazione delle disposizioni in tema di responsabilità civile, dello Stato in via diretta e del magistrato in via di rivalsa, interne al sistema della legge n. 117. Questi aspetti, che sono stati oggetto delle riflessioni della sessione di stamattina e che saranno ulteriormente affrontati domani, costituiscono presupposti sui quali l’Ufficio non può che registrare e valutare le posizioni che si manifesteranno e si consolideranno nella elaborazione della giurisprudenza civile intorno ad essi. Si tratta, esemplificativamente, dei profili: della eliminazione del requisito della “negligenza inescusabile” quale elemento costitutivo della “colpa grave” che fonda la pretesa risarcitoria verso lo Stato; della testuale diversificazione sul punto tra domanda di danno e iniziativa di rivalsa, che invece quel requisito – che è per comune opinione un quid pluris – continua a richiedere (art. 7 della legge n. 117); della necessità di parametrare l’ipotesi della violazione “manifesta” del diritto – certamente del diritto dell’Unione – ai connotati che la stessa giurisprudenza della Corte del Lussemburgo ha man mano indicato nelle pronunce che hanno condotto nel tempo all’approvazione della recente riforma (le sentenze Kobler, Traghetti del Mediterraneo, Commissione c. Italia), e che in definitiva si riconducono proprio a quella nozione di “inescusabilità” o eccezionalità della violazione; della diversa declinazione e del diverso spazio applicativo che assumono la responsabilità dello Stato – più ampia – rispetto a quella del magistrato in sede di rivalsa – più ristretta – e della conformità di questa diversificazione ai principi (preesistenti alla legge ed immanenti nel sistema costituzionale) di garanzia della indipendenza della giurisdizione, tanto più una volta espunto il c.d. filtro di ammissibilità della domanda di danno.

    Di questi aspetti, dunque, non verrà trattato nell’economia del presente lavoro, benché naturalmente essi rappresentino per così dire le premesse maggiori della tematica della correlazione tra le due sedi, segnatamente sul piano sostanziale.

    A) Responsabilità civile e responsabilità disciplinare. Autonomia.

    La responsabilità civile prevista dalla legge n. 117 del 1988 – così come modificata dalla legge n. 18 del 2015 – attiene ai rapporti del magistrato con le parti processuali o con altri soggetti a causa di eventuali errori o inosservanze nell’esercizio delle funzioni.

    La responsabilità disciplinare – oggi prevista dal d.lgs. n. 109 del 2006 – consegue alla violazione dei doveri funzionali del magistrato nei confronti dello Stato-datore di lavoro. Essa prescinde dalla imputazione della responsabilità civile (extracontrattuale).

    Ciascuna delle due forme di responsabilità risponde ad una funzione e ad una ratio sua propria; la prima, inoltre, si manifesta come a sua volta articolata nei due segmenti, quello della responsabilità diretta dello Stato e quello dell’azione di rivalsa, che si presentano caratterizzate da diversa funzione e ratio, giacché l’una è preordinata a riconoscere una garanzia patrimoniale a fronte del pregiudizio che il cittadino abbia subito per effetto dell’esercizio non corretto della funzione statuale di giurisdizione, l’altra concerne propriamente il rapporto di impiego e il riparto dell’obbligazione di pagamento, al quale la posizione del terzo (cittadino) resta indifferente.

    Le due responsabilità, civile e disciplinare, possono – ma di certo non debbono – a volte concorrere, pur conservando i relativi iter una reciproca autonomia strutturale e procedimentale, senza alcun vincolo decisionale derivante dall’esito civile in sede disciplinare e viceversa, come è reso manifesto, ad esempio, dall’art. 20, primo comma, del d.lgs. n.109 del 2006: “L'azione disciplinare è promossa indipendentemente dall'azione civile di risarcimento del danno o dall'azione penale relativa allo stesso fatto, ferme restando le ipotesi di sospensione dei termini di cui all'articolo 15, comma 8”.

    Ad esempio, dove l’attività funzionale del magistrato sia riconducibile ad una delle fattispecie contemplate dall’art. 2 del d.lgs. n. 109 – che sono, salvo qualche eccezione, illeciti di pericolo per la cui imputazione è, di regola, sufficiente la colpa lieve – ed abbia prodotto un danno ingiusto ad una parte processuale privata, purché ricorrano le connotazioni soggettive ed oggettive della condotta richieste dall’art. 2 della legge n. 117 e le limitazioni nello stesso previste, le due tipologie di responsabilità possono in concreto concorrere. Non può, comunque, non rilevarsi che mentre è più alta la probabilità che un fatto produttivo di responsabilità civile dia origine anche a separata responsabilità disciplinare, altrettanto non può dirsi nel caso opposto, considerato che solo in alcuni, limitati casi in sede disciplinare è richiesta la colpa grave e che taluni illeciti disciplinari sono strutturalmente inidonei ad arrecare un ingiusto danno alle parti processuali (si pensi alle fattispecie di cui all’art. 2, lett. aa) e cc), del d.lgs. n. 109).

    L’autonomia tra illecito disciplinare e civile e conseguentemente tra i rispettivi procedimenti è confermata dagli artt. 6 e 9 della legge n. 117 del 1988, anche a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 18 del 2015.

    La legge n. 18 del 2015, come è ovvio, non riguarda il procedimento disciplinare, non innova né intende farlo alla regolazione che ne è data nel d.lgs. 109 del 2006.

    Le poche disposizioni preesistenti in materia contenute nella legge n. 117 del 1988 (legge anteriore alla riforma del 2006, e che si collocavano in un sistema improntato a discrezionalità e non-tipizzazione), ritoccate dal legislatore del 2015, lo sono state appunto secondo questa linea di autonomia.

    Una legge che si colloca esclusivamente sul piano dei rapporti risarcitori civili cittadino-Stato non è abilitata a snaturare o mutare sia pure solo pro parte la struttura del sistema di giustizia disciplinare; se il legislatore avesse voluto interferire su questa materia lo avrebbe potuto e dovuto fare con modifiche sul d.lgs. n. 109 del 2006.

    E poiché la giustizia disciplinare partecipa dell’assetto costituzionale della magistratura, si deve accedere a una interpretazione che tenga fermi i capisaldi sui quali si basa la normativa deontologica del 2006: obbligatorietà, tassatività nonché modello procedurale, che il legislatore ha voluto fosse articolato in una duplice fase, di vaglio preliminare (predisciplinare) e poi di vera e propria istruttoria sulla notizia di rilevanza disciplinare, e che verrebbe certamente alterato se si desse ingresso a un’azione immediata ed automatica in base a una valutazione “altra” – quella del giudice civile – o addirittura in base al solo dato materiale della proposizione di una domanda di danno.

    L’esposta premessa appare conforme alla regola più generale di indipendenza degli ambiti processuali (civile, penale, amministrativo e disciplinare) e, soprattutto, è conforme al sopramenzionato principio posto dall’art. 20 del d.lgs. n. 109 del 2006.

    In prima approssimazione al tema, si può enucleare questo rilievo nel senso che, nella prospettiva del sistema disciplinare del personale di magistratura al quale solo ha riguardo il presente testo, è la legge n. 117 del 1988 a dover essere resa compatibile con l’assetto del d.lgs. n. 109 del 2006 e non viceversa.

    ***

    D’altronde, ai sensi del secondo comma dell’art. 6 della legge n. 117 del 1988, la decisione pronunciata nel giudizio promosso contro lo Stato “non fa stato nel procedimento disciplinare”.

    Tale previsione è espressiva dei principi generali in tema di giudicato, secondo i quali la cosa giudicata presuppone – tra l’altro – l’identità dei soggetti che partecipano ai rispettivi procedimenti.

    Essa potrebbe dirsi perfino superflua, giacché il secondo comma dell’art. 20 del d.lgs. n. 109 del 2006 – dopo l’enunciazione del principio generale dell’autonomia del giudizio disciplinare rispetto ai giudizi civili e penali – prevede limitate ipotesi di possibile autorità di cosa giudicata nel giudizio disciplinare in riferimento esclusivo alla sentenza penale, di condanna o di assoluzione, ma nulla prevede in relazione ad analoghe ipotesi di cosa giudicata per effetto di sentenze civili, tanto meno di danno, pronunciate ai sensi della legge n. 117 del 1988.

    Il che sta a significare che nessuna sentenza civile – e non solo quella prevista dall’art. 6, secondo comma, della legge n. 117 – fa stato in senso proprio nel procedimento disciplinare. E tale impermeabilità di principio tra le due aree di decisione si traduce nella assenza di una relazione di pregiudizialità in senso tecnico.

    Questa considerazione preliminare orienta la soluzione dei vari problemi interpretativi attinenti ai rapporti tra giudizio civile di danno e giudizio disciplinare.

    Anche secondo una univoca interpretazione formatasi anteriormente alla legge n. 18 del 2015, è la stessa struttura della legge in materia di responsabilità civile per danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie n. 117 del 1988 che porta a escludere una relazione di pregiudizialità, perché si presuppone la non coincidenza degli elementi costitutivi, rispettivamente, dell’illecito civile di danno e di quello disciplinare.

    Anzi: proprio la “inversione” di una relazione di pregiudizialità è stata generalmente ravvisata dalla dottrina alla luce della disposizione posta dal secondo comma dell’art. 9 della legge n. 117 del 1988, rimasto oggi invariato, che ammette l’acquisizione di atti del procedimento disciplinare in quello di rivalsa, così appunto predicando semmai una interferenza (probatoria, non di contenuto) a rovescio, dal disciplinare al civile e non il contrario. La possibilità di acquisizione degli atti del procedimento disciplinare nel corso della causa civile porta a ribadire che le due procedure, che possono coesistere nel tempo, hanno comunque percorsi indipendenti.

     

    B) Processo civile e procedimento disciplinare. Regolazione delle interferenze.

    Dopo l’abrogazione dell’art. 5, quinto comma, della legge n. 117, secondo cui “se la domanda [era] dichiarata ammissibile, il tribunale ordina[va] la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell’azione disciplinare”, è alla luce delle esposte considerazioni che deve oggi essere verificato il rapporto di compatibilità – e il senso che deve esserne dato – con il sistema disciplinare della vigente disposizione dell’art. 9 della legge, secondo cui “il Procuratore generale presso la Corte di cassazione per i magistrati ordinari o il titolare dell’azione disciplinare negli altri casi devono esercitare l’azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento, salvo che non sia stata già proposta”.

    In particolare, dopo l’abrogazione dell’inciso “entro due mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell’articolo 5”, si pone – rimanendo inizialmente nell’ambito di un possibile criterio di interpretazione letterale – un primo problema, riguardante il momento a partire dal quale i titolari dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, ordinari e non, “devono” esercitare l’azione disciplinare.

    Prima della legge n. 18 del 2015 (e, come si dirà a breve, del d.lgs. n. 109 del 2006) questo momento era cristallizzato nel breve termine di due mesi decorrente dalla obbligatoria trasmissione, da parte del presidente del tribunale deliberante sulla ammissibilità della domanda risarcitoria, di copia degli atti del giudizio civile.

    Ora, abrogata la norma che regolava il filtro di ammissibilità della domanda risarcitoria e non essendo specificato alcun termine per l’esercizio della “doverosa” azione disciplinare – che presupporrebbe ovviamente una comunicazione formale al titolare dell’azione dei “fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento”, comunicazione che tuttavia non è più prevista come obbligatoria dalla legge e che difficilmente potrebbe trovare base giustificativa nella ipotesi di violazione disciplinare che afferisce ai capi degli uffici in caso di omissione di notitia di interesse disciplinare, ex art. 2, comma 1, lettera dd), del d.lgs. n. 109 del 2006 – si pongono possibili diverse opzioni interpretative, che dovrebbero essere risolte alla stregua del criterio di autonomia, già indicato nel paragrafo A):

     

    1) Deve anzitutto escludersi che l’obbligo di azione scaturisca a partire dalla mera proposizione della domanda risarcitoria in sede civile, tanto meno dell’azione risarcitoria nei confronti dello Stato e, quindi, nei confronti di un soggetto che è terzo rispetto al magistrato. Se così fosse, qualsiasi cittadino, di fatto, potrebbe decidere se far esercitare l’azione disciplinare nei confronti di un magistrato, determinandone immediati effetti sulla carriera (valutazioni di professionalità e altro) e quindi incidendo anche indirettamente su procedimenti di copertura degli uffici direttivi, semidirettivi, ecc.; il che comporterebbe molteplici dubbi di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 101, secondo comma, 104 primo comma, 105 e, per le giurisdizioni speciali, all’art. 108 Cost.

    Questa conclusione è in linea con le prime indicazioni che provengono dalla giurisprudenza di legittimità: Cass. pen., sez. VI, n. 16924/2015, secondo cui il magistrato non assume la qualità di parte ai fini della configurazione della situazione di astensione della condizione di “debitore” della parte, neanche se sia esercitata la rivalsa.

    Del resto, la Corte Costituzionale (n. 18/1989) ha già affermato – a proposito della legittimità costituzionale del c.d. filtro di ammissibilità, ora abrogato – che il giudice va garantito dalla proposizione di “azioni infondate che possano turbarne la serenità impedendo al tempo stesso di creare con malizia i presupposti per l’astensione e la ricusazione”.

    Non è pensabile dunque che l’art. 9 della legge n. 117, come sopra modificato, abbia inteso derogare a tale principio, introducendo – e solo per alcune fattispecie che possono dare causa al risarcimento, complessivamente riconducibili all’errore di diritto o all’errore percettivo – una sorta di illecito disciplinare “processuale” atipico cioè consistente nella mera pendenza di una controversia di danno introdotta dal privato verso lo Stato.

    Ciò conduce a una prima generale conclusione: la sola notizia della pendenza di una causa civile di danno verso la Stato non è ragione di esercizio obbligatorio dell’azione disciplinare.

    Si delinea così la prima seguente conclusione: la locuzione “deve” esercitare l’azione, di cui all’art. 9, co. 1, non può in definitiva essere interpretata come obbligo di iniziativa sulla sola base della proposizione di una domanda giudiziale, del singolo contro lo Stato, di cui sia data in qualsiasi modo notizia all’Ufficio. Vi osta l’evidente insostenibilità anche costituzionale di un’azione disciplinare “coatta” per effetto di una iniziativa di qualsiasi soggetto sia entrato in contatto con la giurisdizione (sarebbe perfino prospettabile una incostituzionalità per irrazionalità ossia per aberratio della finalità legislativa di cui alla legge n. 18 del 2015, che vuole regolare i rapporti risarcitori dello Stato verso i privati e non istituire un nuovo statuto disciplinare del personale di magistratura, lesivo delle garanzie minime di autonomia).

    Merita segnalare, sul punto, che a non diversa conclusione interpretativa era pervenuto l’Ufficio già nella vigenza del testo anteriore dell’art. 9 in discorso, ossia nel vigore della disposizione relativa al termine bimestrale: decreti di archiviazione predisciplinare 8 febbraio 2013, proc. n. 370/2012-SD1, e 10 febbraio 2014, proc. n. 409/2013, alle cui complessive motivazioni si fa rinvio. In questi provvedimenti, resi in procedimenti iscritti a seguito della comunicazione del superamento del filtro di ammissibilità della domanda di danno, si è escluso di potere per ciò solo avviare l’azione disciplinare, in difetto (come era in quei casi) di una condotta classificabile nell’ambito del catalogo del d.lgs. n. 109 del 2006. Riguardo all’accennato rapporto tra sistema della responsabilità civile e regolazione della responsabilità disciplinare, si è escluso che potesse parlarsi di autonoma fattispecie di illecito e, quindi, che sussistesse un obbligo ineludibile di esercitare, comunque, l’azione disciplinare a seguito della semplice conoscenza, nel termine bimestrale, della domanda risarcitoria, sul rilievo della duplice incompatibilità (a) procedurale, “perché il sistema odierno, proprio perché caratterizzato in termini di regola e non di eccezione della obbligatorietà dell’iniziativa del Procuratore generale, prevede appunto per questo una fase c.d. predisciplinare (art. 15 del d.lgs. n. 109) di valutazione e ponderazione – anche con acquisizioni “istruttorie” in senso lato – della natura “circostanziata” dell’addebito disciplinare e della plausibilità della incolpazione, in difetto della quale è prevista la archiviazione del caso da parte del Procuratore generale (art. 16, comma 5-bis), salva la diversa determinazione da parte del Ministro della giustizia destinatario del provvedimento di archiviazione”, e (b) sostanziale, “perché il principio di legalità e tassatività dell’illecito disciplinare, che si esprime nel catalogo chiuso degli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 109 del 2006, impedisce che si possa predicare una azione disciplinare per un fatto – quale che ne sia la fonte di informazione – che non vi rientra”.

     

    2) Escluso quindi che l’azione disciplinare debba avviarsi per la sola introduzione/pendenza della causa civile, si potrebbe in ipotesi ritenere che l’azione disciplinare debba essere “spostata” in avanti nel tempo e cioè essere legata non più all’iniziativa di danno principale – privato contro Stato – o a quella in sede di rivalsa, bensì alla formazione del giudicato, sull’una e/o sull’altra.

    La lettera dell’art. 9 della legge, con l’uso del passato, apparentemente non escluderebbe questa lettura, intendendosi per fatti che “hanno dato” causa all’azione di risarcimento quelli che possono legittimare la domanda del singolo contro lo Stato (o che fondano l’azione di rivalsa, anche se non vi è coincidenza integrale tra i due ambiti).

    In tale ipotesi, la notizia della pendenza della causa civile di danno opererebbe come ragione della iscrizione di un procedimento predisciplinare, il cui esito però sarebbe necessariamente condizionato dalla conclusione del giudizio di danno (o, come sotto-ipotesi, di quello di rivalsa), in attesa della formazione del giudicato sul punto; da ciò logicamente la necessità della sospensione del procedimento.

    Una simile lettura potrebbe in prima approssimazione giustificarsi specialmente in relazione alla ipotesi del giudicato sulla rivalsa, per la maggiore “personalizzazione” dell’illecito, posto che la rivalsa dello Stato verso il magistrato ha un terreno più limitato rispetto a quello che fonda la responsabilità dello Stato verso il privato.

    A questa possibilità interpretativa si contrappongono più considerazioni.

    2.1) In primo luogo, vi osta quanto già detto circa l’assenza di un rapporto di pregiudizialità e l’inefficacia (non fa stato) della decisione civile, senza distinzioni.

    2.2) La situazione disciplinare muterebbe a seconda che il magistrato abbia o non abbia partecipato al giudizio “principale”; se vi partecipa, con l’intervento volontario, la rivalsa è generalmente ad esito obbligato (perché il primo giudizio civile fa stato nel secondo); se non vi partecipa potrebbe anche aversi un esito della fase di rivalsa diverso rispetto a quello contro lo Stato (cfr. art. 6, co. 2), anche perché come si è accennato e come è generalmente riconosciuto in dottrina l’area descrittiva dei presupposti del diritto di rivalsa non è pienamente coincidente, per difetto, con quella dei presupposti di responsabilità per lo Stato (si vedano gli artt. 2 e 7 della legge). Ai nostri fini, ciò spezzerebbe l’unità fattuale da cui l’impianto della legge muove (“i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento”), con la conseguenza di variabili incerte e secondo evento, anche perché se il magistrato interviene nella causa principale non vi sarebbe a stretto rigore ragione di attendere l’esito del giudizio di rivalsa.

    2.3) In questa ipotesi si avrebbe una restrizione dell’ambito oggettivo dell’illecito, posto che, secondo la disciplina della rivalsa posta dall’art. 7, la relativa azione riguarda una casistica (diniego di giustizia, violazione manifesta della legge o del diritto UE o travisamento del fatto o della prova se determinati da dolo o da negligenza inescusabile) non coincidente e – anche secondo i commentatori – più limitata rispetto a quella che autorizza l’azione principale;1 la formulazione del novellato art. 7 della legge non comprende infatti tra i presupposti della rivalsa obbligatoria tutte ed intere le condotte e le ipotesi di colpa grave elencate nell’art. 2 della legge stessa.

    2.4) Si avrebbe una sostanziale aleatorietà, in contrasto proprio con il principio di obbligatorietà pur contestualmente riaffermato (“deve esercitare”); è infatti rimessa alla iniziativa del Presidente del Consiglio dei ministri, soggetta a termine biennale (decadenziale), l’attivazione della rivalsa, che potrebbe non essere messa in opera in alcuni casi ossia in quelli che non integrano il catalogo di cui al primo comma dell’art. 7 ancorché idonei a dare luogo alla responsabilità dello Stato; conseguenza che stride con il sistema obbligatorio/tipizzato su cui si basa la riforma del d.lgs. n. 109/2006.

    2.5) La soluzione porterebbe, realisticamente e soprattutto, a un rinvio sine die dell’iniziativa disciplinare: occorrerebbe attendere prima la conclusione della causa principale e poi anche di quella di rivalsa se il magistrato non è intervenuto nella prima, con una sospensione pluriennale evidentemente critica, per la ovvia necessità di una giustizia disciplinare per quanto possibile tempestiva e “vicina” ai fatti, cfr. i termini di fase disciplinare e altresì il limite generale decennale dell’art. 15, comma 1-bis del d.lgs. n. 109 del 2006, a tacere d’altro, come dimissioni, cessazione dal servizio, etc.

    Sembra quindi da escludere che l’obbligo di esercizio dell’azione scaturisca dalla sentenza di condanna nei confronti dello Stato, sia per le precedenti considerazioni generali in tema di mancanza di alcun rapporto di pregiudizialità tra giudizio civile e giudizio disciplinare, sia per il disposto specifico dell’art. 6 della legge n. 117 del 1988 secondo il quale – come si è osservato – è espressamente previsto che la sentenza nei confronti dello Stato non fa stato nel procedimento disciplinare e, prima ancora, non fa stato nel giudizio di rivalsa se il magistrato non è intervenuto volontariamente in giudizio.

    Pur dovendo escludersi che l’obbligo scaturisca dalla mera proposizione dell’azione di rivalsa, dato che anch’essa sfocia in una sentenza che – per le stesse ragioni già esposte – non fa stato nel giudizio disciplinare, si potrebbe come detto in via di ipotesi collegare l’obbligo di esercizio dell’azione disciplinare alla sentenza di condanna (definitiva) del magistrato nel giudizio di rivalsa.

    In questa sotto-ipotesi interpretativa, non sarebbe in ogni caso sufficiente per l’obbligatorio esercizio dell’azione disciplinare la pronuncia non ancora definitiva, ma sarebbe necessario il passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Infatti, poiché la legge nulla prevede in proposito, sembra in ogni caso preferibile l’opzione interpretativa meno estensiva e maggiormente garantista per il magistrato condannato, anche tenuto conto dei dubbi di costituzionalità che, enunciati in precedenza, potrebbero porsi, sia pure in maniera meno evidente, anche in quest’ultima ipotesi.

    Per di più, con riferimento al rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale, la sospensione dei termini del primo procedimento, nel caso di esercizio dell’azione penale, cessa con il giudicato della sentenza pronunciata in tale sede (art. 15, ottavo comma, lett. a, del d.lgs. n. 109 del 2006) e questo dato – anche sul piano dell’interpretazione logico-sistematica della norma, cui si deve ricorrere in mancanza di un inequivoco dato letterale – è significativo della intenzione del legislatore di esigere perlomeno, ai fini dell’esercizio dell’azione disciplinare, che “i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento” non siano contestabili.

    D’altra parte, a prescindere dall’utilità pratica di rendere l’azione disciplinare obbligatoria in relazione a questioni destinate a passare in giudicato dopo anni, in contrasto con la stessa ratio che ispira le regole processuali nel settore disciplinare, disseminato di decadenze in ogni fase e grado del relativo procedimento, il primo comma dell’art. 9 pone, a monte, un problema ancor più delicato, al quale si è già data una prima risposta in precedenza.

    Il problema è quello della compatibilità con il vigente sistema disciplinare tipizzato – riguardante soltanto i magistrati ordinari e quelli militari – di una previsione legale di obbligatorietà di esercizio dell’azione disciplinare in assenza di una fattispecie tipizzata. In altre parole, al di là della insoddisfacente interpretazione letterale, va verificato, sul piano della interpretazione logico sistematica, se l’espressione “deve” possa rispondere al suo significato letterale nella vigenza di un sistema disciplinare basato – a partire dal 2006 – non più su un unico illecito atipico (art. 18 del R.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511), ma su una serie definita e circoscritta di illeciti tipizzati.

    Con il vigente sistema disciplinare, invero, si deve procedere ad una valutazione ex ante dei fatti suscettibili di dar luogo alla violazione, per cui si ha illecito (rectius, si ha l’ipotesi di illecito, tale da rendere obbligatorio l’esercizio dell’azione) soltanto quando c’è violazione (rectius, l’ipotesi di violazione) dei doveri fondamentali di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 109 del 2006 e ricorre una delle ipotesi previste nei successivi artt. 2 (illeciti posti in essere nell’esercizio delle funzioni), 3 (illeciti posti in essere fuori dell’esercizio delle funzioni) e 4 (illeciti conseguenti a reato), non ricorrendo al contempo l’ipotesi di cui all’art. 3-bis (irrilevanza disciplinare della condotta).

    La condotta del magistrato che abbia dato luogo ad una ipotesi risarcitoria in sede civile non è insomma di per sé sola sintomatica della configurabilità di una ipotesi disciplinare, non coincidendo sempre le ipotesi di responsabilità civile e le ipotesi di responsabilità disciplinare, e non essendo stato posto in discussione dal legislatore del 2015 il principio di autonomia del procedimento disciplinare anche rispetto al giudizio civile, come rispetto al giudizio penale, principio che – come si è già osservato – è sancito dall’art. 20 del d.lgs. 109/2006.

    Questa norma non potrebbe neanche implicitamente dirsi abrogata per incompatibilità con le sopravvenute norme della legge n. 18 del 2015 e ciò conduce ad escludere, in ogni caso di azione di risarcimento, un automatismo in sede di valutazione della responsabilità disciplinare, la quale può non sussistere nel caso di affermazione di responsabilità civile, come può all’inverso essere affermata in assenza di azione risarcitoria.

    Si pensi ad esempio all’illecito civile del diniego di giustizia (art. 3, legge n. 117 del 1988, la cui integrazione forse potrebbe interferire con il sistema disciplinare solo attraverso la duplice mediazione della commissione del reato di cui all’art. 328 cod. pen. e, con esso, della violazione ex art. 4, lettera d, d.lgs. n. 109 del 2006, nel qual caso peraltro la questione si sposterebbe su un illecito doloso e su una pregiudizialità penale che pone altri ordini di questioni) e all’illecito disciplinare del ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio della funzione (lett. q del primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 109 del 2006), figure di illecito affatto diverse nei presupposti di diritto che rendono configurabili le rispettive fattispecie.

    Si pensi ancora all’illecito civile della violazione manifesta del diritto dell’Unione europea (art. 2, terzo comma, legge n. 117 del 1988, così come modificata dalla legge n. 18 del 2015), con le specificazioni (di cui al successivo comma 3-bis) della “mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale” e “del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea”, ed alla relativa difficoltà di inquadrare la stessa condotta – quando non si riverberi in una violazione di legge interna – nell’ambito delle fattispecie disciplinari poste quali eccezioni al c.d. principio di salvaguardia interpretativa (art. 2 lett. g), ff), m) del d.lgs. 109 del 2006), con la difficoltà di adottare interpretazioni estensive in materia in senso lato sanzionatoria al fine di rispettare l’esigenza di una interpretazione conforme al diritto (alla giurisprudenza) dell’Unione.

    D’altronde, se il legislatore avesse voluto configurare una nuova fattispecie disciplinare tipizzata, coincidente con la condotta foriera di responsabilità civile del magistrato, in base ai principi generali in tema di tipizzazione degli illeciti, avrebbe dovuto prevederlo espressamente.

    Inoltre, non si comprende come, in assenza di un formale obbligo di comunicazione ai titolari dell’azione disciplinare da parte del presidente (del tribunale o della corte d’appello) ove si sia svolto il giudizio di rivalsa eventualmente sfociato in condanna (definitiva o non definitiva che sia), il Procuratore generale della Corte di cassazione “debba” (sempre) esercitare l’azione disciplinare indipendentemente dal fatto che abbia o meno ricevuto formale comunicazione della sentenza, divenuta irrevocabile.

    ***

    Per di più, è lo stesso legislatore a ritenere già sul piano sostanziale, che è ciò che più conta, la non coincidenza tra responsabilità civile e responsabilità disciplinare là dove si prevede, al terzo comma dell’art. 9 della legge n. 117 del 1988 (sul punto non modificata dalla successiva legge n. 18 del 2015) che la disposizione “che circoscrive la rilevanza della colpa ai casi di colpa grave ivi previsti, non si applica nel giudizio disciplinare”, proprio in considerazione della diversità dei piani sui quali le due regolazioni si muovono.

    Peraltro, è noto che nel giudizio disciplinare, a seguito della tipizzazione del 2006, la rilevanza dell’errore del magistrato nell’esercizio delle funzioni, è limitata alle ipotesi di “ignoranza o negligenza inescusabile”, che sono ipotesi di intervento sanzionatorio anche più restrittive rispetto alla “colpa grave”, com’è riconosciuto proprio dal legislatore del 2015, che – per gli illeciti consistenti nella violazione manifesta della legge, del diritto dell’Unione europea o nel travisamento del fatto o delle prove – limita l’azione di rivalsa ai soli casi in cui essi siano stati determinati da dolo o negligenza inescusabile (art. 7, primo comma).

    Diversamente potrebbe forse ipotizzarsi in relazione all’azione disciplinare nei confronti dei magistrati amministrativi e contabili, per i quali non sussiste un sistema di tipizzazione degli illeciti, non essendo ad essi applicabile il d.lgs. n. 109 del 2006 e vigendo ancora il sistema dell’atipicità degli illeciti disciplinari.

    In tali casi, sarebbe possibile una obbligatorietà dell’esercizio dell’azione disciplinare “per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento”, sia pure dopo che quei fatti non siano più controversi, e cioè all’esito di sentenza irrevocabile nel giudizio di rivalsa.

    Dunque, per i magistrati ordinari (e per quelli militari) non avendo previsto il legislatore una nuova forma di illecito disciplinare, non potendo ipotizzarsi tout court una responsabilità disciplinare per il solo fatto dell’accertamento definitivo di una responsabilità civile, deve conseguentemente escludersi anche il solo obbligo di esercizio dell’azione disciplinare “per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento” in sede civile.

    Pertanto, le considerazioni che, dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 109 del 2006, avevano fatto ritenere al Procuratore generale della Corte di cassazione – in più di un provvedimento di archiviazione – che nel sistema disciplinare vigente non è più compatibile l’applicazione della legge n. 117 del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, nella parte in cui prevede l’obbligatorio esercizio entro due mesi dell’azione disciplinare nel caso di semplice ammissibilità della domanda di risarcimento nei confronti dello Stato, devono essere – a maggior ragione – ribadite anche alla luce della legge n. 18 del 2015, ove il filtro di ammissibilità è venuto meno e dove il termine “devono” può e deve essere considerato – proprio alla luce della proposta interpretazione logico sistematica – nulla più di un mero enunciato conseguente al mancato coordinamento tra l’originario testo del 1988, antecedente alla tipizzazione degli illeciti disciplinari del 2006, ed il nuovo testo del 2015, che ha previsto l’abrogazione dell’obbligo di comunicazione ai titolari dell’azione disciplinare nel caso di ammissibilità dell’azione risarcitoria.

    D’altra parte, su di un piano sistematico generale, la accennata autonomia di valutazione giuridica tra le due sedi, civile e disciplinare, si dimostra la sola coerente con le diversità di connotazione e conformazione dei requisiti dell’illecito civile e di quello disciplinare, rispettivamente: così in ordine al nesso causale tra condotta ed evento (che nell’ambito della materia civile è regolato, come è noto, dal criterio del “più probabile che non” mentre in ambito disciplinare, assimilabile per questa parte all’area penale, vige il principio dell’”al di là di ogni ragionevole dubbio”), alla ripartizione dell’onere probatorio, alla qualificazione della colpa e relativa graduazione.

    In conclusione, l’apparente distonia tra le normative che disciplinano le diverse responsabilità del magistrato – civile e disciplinare – va risolta nel senso che, per le parti in cui vi siano disposizioni estremamente sintetiche nel corpo della legge n. 117 novellata, è questa legge sulla responsabilità civile che deve adeguarsi ai principi speciali propri della responsabilità disciplinare, tanto più che, mentre l’esercizio dell’azione civile è una facoltà della parte che si ritenga danneggiata (la quale se ne assume in proprio la responsabilità, con relativa esposizione ad eventuale azione di danni nei suoi confronti ove la “lite” si dovesse rivelare “temeraria”), l’esercizio dell’azione disciplinare è un obbligo di legge per il Procuratore generale della Corte di cassazione (art. 14, terzo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006) e ciò sta a significare che l’alto organo della magistratura requirente deve iniziarla soltanto quando ne sussistano i presupposti, non certo quando tali presupposti non sussistono perché, pur dopo un lungo giudizio risarcitorio conclusosi con condanna del magistrato responsabile, manchi la notizia circostanziata di una fattispecie tipizzata dal legislatore (quanto al Ministro della giustizia, la facoltà di esercizio dell’azione disciplinare è prevista, oltre che ovviamente nella Costituzione, art. 107, secondo comma, anche dal primo comma dell’art. 9 della legge n. 117 del 1988, oltre che dal secondo comma dell’art. 14 del d.lgs. n. 109 del 2006).

     

    C) Segue. Analisi casistica. Pregiudizialità logica e regime probatorio.

    L’esclusione della obbligatorietà di intervento, da parte dei titolari dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari (e militari), non copre il ventaglio di tutte le possibili ipotesi di rapporti tra l’azione risarcitoria e quella disciplinare.

    E’ verosimile ritenere che ciò che è stato solito avvenire sino all’entrata in vigore della legge n. 18 del 2015, e cioè la contemporanea trasmissione, da parte del preteso danneggiato ai titolari dell’azione disciplinare, dell’esposto nei confronti del magistrato per gli stessi fatti che hanno determinato la domanda risarcitoria, continui ad accadere e, anzi, divenga sempre più frequente, non potendo negarsi che la forza del messaggio mediatico diffuso con l’entrata in vigore della legge n. 18 del 2015 (“chi sbaglia paga”) sia assai più dirompente della effettiva portata dei precetti in esso contenuti.

    Non può ignorarsi – per questo profilo – che il procedimento disciplinare sia assai più incisivo, efficace e rapido rispetto al giudizio di danno, che risente certamente dei problemi connessi alla “insostenibile lentezza della giustizia civile”,2 che tante condanne dello Stato italiano ha determinato presso la Corte di Strasburgo, e che potrà determinarne anche in sede di responsabilità civile dei magistrati ed all’esito di rivalsa, tanto più in quanto vi sia un ricorso massiccio all’azione risarcitoria.

    Se ciò è vero, le preliminari determinazioni del Procuratore generale della Corte di cassazione in ordine all’esercizio dell’azione disciplinare o all’emissione del decreto di archiviazione potrebbero essere rilevanti e, in ogni caso, rivelarsi utili nel più lungo e articolato giudizio civile.

    D’altronde, che vi sia una utilità degli atti del giudizio disciplinare ai fini della decisione da assumere in sede civile è circostanza tenuta presente dallo stesso legislatore del 1988 – non smentita dal legislatore del 2015 – là dove, al secondo comma dell’art. 9 della legge sulla responsabilità civile dei magistrati, si prevede che “gli atti del giudizio disciplinare possono essere acquisiti, su istanza di parte o d’ufficio, nel giudizio di rivalsa”.

    La norma, in verità, appare il frutto di uno scrupolo forse eccessivo, proprio in considerazione del fatto che essa prevede una mera facoltà di acquisizione di atti nel giudizio di rivalsa.

    E’ pacifico che tale facoltà vi sarebbe stata ugualmente in assenza di specifica previsione di legge, sulla base dei principi generali in materia di acquisizione processuale di atti di altri procedimenti; peraltro, l’utilizzazione del termine “giudizio” e non “procedimento” sta a significare che il legislatore non ha considerato la circostanza che, ove il procedimento disciplinare non sia ancora sfociato nella fase dibattimentale, sia garantita la necessaria riservatezza propria del procedimento disciplinare in fase istruttoria che, in concreto, potrebbe portare anche ad un diniego motivato di ostensibilità da parte del Procuratore generale della Corte di cassazione, se gli aspetti di riservatezza siano ritenuti prevalenti sull’interesse delle parti in sede civile all’acquisizione degli stessi nel giudizio contro lo Stato.

    Per di più, proprio i principi generali in materia di acquisizione di atti nel giudizio civile fanno sì che possa ritenersi possibile che tali atti possano essere acquisiti su istanza di parte o d’ufficio, non solo nel giudizio di rivalsa, ma anche nel giudizio contro lo Stato.

    Ancora, gli stessi principi possono consentire l’acquisizione nel giudizio risarcitorio, su istanza di parte o d’ufficio, anche di atti relativi al giudizio predisciplinare, compreso l’eventuale decreto di archiviazione, che potrebbe immediatamente sgombrare il campo da equivoci e strumentalizzazioni legate ad azioni risarcitorie del tutto pretestuose e infondate (ma non più inammissibili, per assenza del filtro), fatto salvo – sempre – il diniego motivato da parte del Procuratore generale, ove questi ritenga che le esigenze di riservatezza prevalenti sull’interesse delle parti alla produzione nel giudizio civile di atti o documenti riservati.

    Dunque, nel nuovo contesto normativo, le sollecite determinazioni del Procuratore generale della Corte di cassazione (nel termine di un anno dalla conoscenza del fatto) potrebbero essere di rilievo proprio in quei casi di contemporanea formulazione dell’esposto (in sede disciplinare) e della domanda risarcitoria (in sede civile) e, soprattutto, ogni qualvolta il magistrato sia stato attinto da azioni giudiziarie ictu oculi infondate o strumentali.

    Fermo restando che, dove invece la doglianza del preteso danneggiato si riveli degna di attenzione e, comunque, complessa, tale da determinare l’inizio dell’azione disciplinare, soccorrono le norme previgenti all’entrata in vigore della legge n. 18 del 2015, in tema di rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio civile.

    In questa prospettiva, va ricordato il principio per cui tutti i termini di decadenza del procedimento disciplinare e per l’esercizio della relativa azione sono sospesi (con possibile sospensione facoltativa del procedimento giurisdizionale disciplinare o, prima, di quello amministrativo predisciplinare) in caso di pendenza di un procedimento civile, penale o amministrativo che sia pregiudiziale all’accertamento del fatto costituente l’illecito disciplinare della grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile (lett. g) dell’art. 2) ovvero del travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile (lett. h) dell’art. 2), e ciò ai sensi della lett. d)-bis dell’art. 15, ottavo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006.

    Peraltro, va sottolineato che, nella ipotesi di giudizio risarcitorio pendente in sede civile, il termine “pregiudizialità” deve essere inteso, per quanto si è detto fin qui, non in senso strettamente giuridico, con riferimento alla identità del fatto e ad un potenziale conflitto tra giudicati – che, come si è prima osservato, non potrebbe sussistere – ma soltanto in senso logico e nelle limitate ipotesi previste dalla norma, onde evitare una duplicazione di attività probatorie volte ad accertare gli stessi fatti, che possono comunque essere diversamente valutati nelle diverse sedi competenti secondo i criteri propri di ciascun illecito, civile e disciplinare.

    Detta pregiudizialità, pur in tal modo intesa, non può sussistere in ogni caso con riferimento al giudizio risarcitorio nei confronti dello Stato in quanto non può esservi all’evidenza pregiudizialità, nemmeno logica, ove il magistrato attinto dalle indagini, sommarie o non, in sede disciplinare, non sia parte in un giudizio risarcitorio in sede civile.

    Nei casi di possibile pregiudizialità (logica) in sede di rivalsa, il Procuratore generale della Corte di cassazione (e, successivamente, il giudice disciplinare, se la questione sia sollevata in giudizio), al fine di apprezzare la “inescusabilità” del comportamento negligente del magistrato, potrà valutare se sia opportuno o meno attendere l’esito del processo civile (come di quello penale o di quello amministrativo), che metta definitivamente in luce la “grave violazione di legge” ovvero il “travisamento dei fatti”.

    Con particolare riferimento ai rapporti del procedimento disciplinare con i processi civili, infatti – come si è già osservato – l’art. 20 del d.lgs. n. 109 del 2006 non detta, come per i processi penali, specifiche disposizioni che sanciscano autorità o efficacia di cosa giudicata alle sentenze civili rispetto agli accertamenti ed alle valutazioni in sede disciplinare.

    Viceversa – come si è pure osservato – il primo comma dell’art. 20 dispone la più completa autonomia dell’azione disciplinare, promossa “indipendentemente dall’azione civile di risarcimento del danno (…) relativa allo stesso fatto”.

    La valutazione della possibile sospensione facoltativa (e non necessaria) del procedimento predisciplinare (che, si ricorda, ha natura amministrativa e non giurisdizionale: Cass., S.U., n. 26809/2009) va coordinata invece con la previsione di legge che ne prende in considerazione l’ipotesi di sospensione, l’art. 16, quarto comma, ultimo periodo, del d.lgs. n. 109 del 2006; tale norma prevede, oltre la specifica sospensione per esigenze motivate di segretezza opposte dall’ufficio procedente in sede penale, che “il procedimento può essere altresì sospeso nel corso delle indagini preliminari”.

    E’ stato in particolare ritenuto che detta facoltà “persegue la ‘ratio’ di consentire al P.G. presso la Corte di cassazione di differire l'iniziativa disciplinare fino all'esito certo delle indagini preliminari, che si manifesta solo nella decisione del G.I.P. sull'esercizio dell'azione penale”: così Cass., S.U., n. 21853/2012.

    Pur nel convincimento che, nella pratica attuazione del diritto, il Procuratore generale difficilmente si determinerà alla sospensione di un procedimento predisciplinare che poi si protrarrebbe inevitabilmente per un tempo irragionevole, sino al passaggio in giudicato della sentenza resa nel giudizio di rivalsa, in via meramente teorica la specifica previsione di cui all’art. 16, quarto comma, ultimo periodo, del d.lgs. n. 109 del 2006 può aprire la facoltà di sospensione del procedimento predisciplinare in pendenza di giudizio civile, facoltà che solo in astratto è predicabile.

    La previsione di sospensione dei termini, anche del termine annuale per l’esercizio dell’azione disciplinare (art. 15, primo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006) – nel caso di giudizio risarcitorio pregiudiziale all’accertamento del fatto costituente l’illecito disciplinare della grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile (lett. g) dell’art. 2) ovvero del travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile (lett. h) dell’art. 2) – si concilierebbe con la possibilità di disporre la sospensione del procedimento stesso; questo, del resto, è pacifico nell’ipotesi di c.d. pregiudiziale penale, ove la sospensione dei termini comporta, per prassi consolidata, la sospensione del procedimento.

    Vero è che il legislatore del 2006 non ha tenuto conto della diversità dei tempi di durata che nella situazione contingente caratterizzano, rispettivamente, i processi civili ed i procedimenti disciplinari.

    Dubbi anche in via astratta possono esservi invece sulla possibilità di sospensione del procedimento predisciplinare qualora si esuli dalla previsione di cui all’art. 15, ottavo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006, perché in tale ultima ipotesi, in assenza di una pregiudizialità logica che sospende i termini (anche) del procedimento predisciplinare, la diversità di natura – amministrativa e giurisdizionale – dei due diversi procedimenti rende plausibile l’opzione interpretativa che neghi in radice tale possibilità.

    In queste ultime ipotesi è invero assai dubbia la sola opportunità di dover attendere – ai fini delle determinazioni sulla iniziativa disciplinare – l’esito certo del giudizio civile, sia pure per profili non strettamente pregiudiziali, ma solo se fondati sull’esigenza di evitare una duplicazione di attività istruttorie e probatorie.

    Resta fermo che in ogni ipotesi di pendenza del giudizio civile di danno – oggi come prima – il Procuratore generale della Corte di cassazione che procede in via predisciplinare potrà acquisire dal giudice civile ogni notizia, atto o informazione utile ai fini delle sue determinazioni sull’esercizio dell’azione disciplinare, ma questa – se del caso – dovrà essere esercitata in piena autonomia e prescindendo dal giudizio civile, entro l’anno dalla notizia circostanziata del fatto (termine sospeso solo nel caso della suindicata ipotesi di cui all’ottavo comma dell’art. 15, lett. d)-bis del d.lgs. n. 109).

    Ove invece il Procuratore generale si determini per l’archiviazione del procedimento predisciplinare, anche ed eventualmente con la formula “allo stato degli atti”, si potrebbe porre l’ipotesi di esercizio dell’azione disciplinare successivamente alla definizione del giudizio civile di rivalsa negativa per il magistrato responsabile.

    Vero è che, in tal caso, si dovrebbe verificare sia l’eventuale decadenza per il decorso del termine annuale dalla notizia circostanziata del fatto per l’esercizio dell’azione disciplinare (art. 15, primo comma, del d.lgs. n. 109 del 2006) e, in tal caso, si dovrà verificare se via sia stata o meno la sospensione automatica dei termini (ai sensi della lett. d)-bis dell’art. 15, ottavo comma), sia l’eventuale decadenza per il decorso del termine decennale decorrente dal momento del fatto in valutazione (art. 15, comma 1-bis), che non può certo considerarsi inverosimile, tenuto conto proprio dei normalmente lunghi tempi di definizione dei giudizi civili.

    ***

     

     

     

    A conclusione di questa disamina inerente i rapporti tra i giudizi di responsabilità, civile e penale, possono quindi svolgersi le seguenti conclusioni:

    a) La trasmissione della notizia della pendenza di una controversia civile di danno ex art. 2 legge n. 117/1988 non costituisce un obbligo a carico dei capi degli uffici, rilevante a norma dell’art. 2, comma 1, lettera dd), del d.lgs. n. 109/2006.

    b) Non è necessario istituire un raccordo istituzionale tra la Procura generale e gli uffici (giudicanti) di merito ai fini disciplinari; tuttavia può essere utile prefigurare canali informativi a fini di rilevazione statistica e di applicazione della legge n. 18/2015.

    c) L’acquisizione, in qualsiasi modo, della notizia della proposizione di un giudizio civile di danno ex lege n. 117/1988 non autorizza come tale l’esercizio dell’azione disciplinare per i fatti che vi hanno dato causa.

    d) L’acquisizione della notizia della proposizione di un giudizio civile di danno autorizza l’iscrizione di un procedimento predisciplinare e lo svolgimento della relativa sommaria indagine a norma dell’art. 15 del d.lgs. n. 109/2006.

    e) Il procedimento predisciplinare non è di regola soggetto a sospensione per pregiudizialità (art. 15, comma 8, lettera d-bis, d.lgs. n. 109/2006) rispetto alla causa civile di danno verso lo Stato, vi sia o non vi sia in quest’ultima l’intervento volontario del magistrato, o rispetto al giudizio di rivalsa.

    f) All’esito della sommaria indagine predisciplinare, il Procuratore generale “deve” esercitare l’azione disciplinare solo in quanto i fatti che hanno dato causa all’azione civile di danno e che sono stati comunicati all’Ufficio integrino gli estremi di una ipotesi disciplinare tipizzata a norma dell’art. 2 del d.lgs. n. 109/2006, indipendentemente dalla valutazione che sia data ai fatti in ambito civile.

    g) Il procedimento in fase disciplinare non è di regola soggetto a sospensione per pregiudizialità della causa civile di danno o del giudizio di rivalsa.

    h) E’ possibile la trasmissione di atti del procedimento predisciplinare o disciplinare per l’acquisizione nel giudizio civile di rivalsa, solo se pervenuto alla fase del giudizio (e con gli eventuali limiti di pubblicabilità/divulgabilità degli stessi); l’acquisizione di atti relativi alle fasi del procedimento predisciplinare o disciplinare nella causa civile non è regolata dalla legge n. 18/2015 ed è soggetta alle regole e ai limiti generali di pubblicabilità.

    i) La definizione, con pronuncia passata in giudicato, della causa civile di danno o del giudizio di rivalsa non ha efficacia nel processo disciplinare.

    La responsabilità disciplinare del magistrato e

    i rapporti con le valutazioni di professionalità

     

    La insoddisfazione dei cittadini per il servizio reso dalla amministrazione della giustizia, le cui disfunzioni sono innegabili (come è innegabile lo sforzo di fronteggiarle da parte dei magistrati e degli altri operatori), ha generato una crescente diffidenza – sovente tramutatasi in vera e propria sfiducia, al pari di quella manifestatasi verso altre istituzioni fondamentali dello Stato – che ha trovato negli anni sponda e risonanza in settori della politica e dell’informazione.

    L’insofferenza non si manifesta solo, come sarebbe più che comprensibile, per la lunghezza dei tempi dei procedimenti, ma nei confronti della decisione in sé, che la parte soccombente (sia nei giudizi civili sia in quelli penali) sempre più spesso non sembra disposta ad accettare ed imputa a inadempimenti o errori del giudice o a iniziative persecutorie delle procure. Il numero degli esposti presentati ogni anno contro i magistrati, fenomeno pressoché sconosciuto in altre realtà europee, costituisce l’epifenomeno di una reattività che rischia di minare alla base la legittimazione stessa della giurisdizione, la quale risiede anche nella riconosciuta autorevolezza delle sue decisioni. D’altra parte, quegli stessi esposti a volte rivelano condotte e prassi non corrispondenti a standard adeguati di comportamento.

    Sarebbe un gravissimo errore considerare questo come un problema esclusivo della giustizia disciplinare e pretendere da questa la soluzione.

    I numeri dimostrano, come chiarito in più sedi, che la giustizia disciplinare italiana è rigorosa e tutt’altro che compiacente, ma il suo intervento deve essere riservato alla sanzione di condotte patologiche, specifiche e rilevanti: non è strumento che possa essere impropriamente utilizzato per più generiche, per quanto meritorie, finalità di maggiore efficienza e di politica della giurisdizione.

    Per la sua intrinseca natura il sistema disciplinare può intervenire solo su casi singoli e quando la lesione degli interessi fondanti della giurisdizione si è già determinata: è impossibile piegarlo al raggiungimento di altri obbiettivi, ferma restando, così come per ogni sistema sanzionatorio, la funzione di prevenzione generale, che ha indubbiamente ricadute sulla condotta della generalità dei destinatari della norma.

    Allo stesso modo sarebbe un errore trasferire interamente sull’iniziativa disciplinare il peso della (ri)affermazione e del consolidamento dei principi deontologici di comportamento alla cui violazione rinviano molti di quegli esposti che, come si è detto, vengono rivolti contro i magistrati.

    La magistratura, come sovente ha dimostrato di saper fare, deve essere esigente e rigorosa in primo luogo nei confronti di sé stessa, ma il presidio primo dei valori di indipendenza, imparzialità, correttezza, diligenza, professionalità, riserbo ed equilibrio, che fondano il corretto esercizio della giurisdizione, consiste nella condivisa assunzione di tali valori come parametri quotidiani ispiratori della propria condotta e metro reciproco di valutazione del comportamento tra gli stessi colleghi.

    Prima della caduta patologica, che impone l’intervento degli organi ai quali è affidato il controllo disciplinare dei magistrati, rileva il costante rispetto del codice etico da parte di ciascuno. Non deve trarre in inganno la intrinseca imperfezione di una norma, come quella del codice etico, priva di sanzione.

    La tipizzazione del 2006 ha attuato un’osmosi non sempre felice tra norme deontologiche e alcune fattispecie disciplinari elaborate dalla precedente giurisprudenza e tra le due materie vi è certo una evidente contiguità. Ciononostante non bisogna assolutamente confonderle tra loro e non è quello disciplinare, come s’è già detto, il solo – e neanche il primo – terreno sul quale i valori della giurisdizione devono essere difesi.

    La formazione iniziale e permanente, ora affidata alla Scuola superiore della magistratura, le valutazioni di professionalità, l’esercizio della discrezionalità consiliare nella scelta dei dirigenti vengono prima e hanno forse maggiore importanza. Gli organi disciplinari intervengono dopo, quando tutti gli altri presìdi sono stati travolti e il danno è già stato fatto. Non si può chiedere ad essi qualcosa di diverso e non devono essere caricati di funzioni ulteriori rispetto a quelle, già gravose, che l’ordinamento attribuisce loro.

    Sta forse nella confusione tra questi diversi piani la radice dell’evidente contraddizione per la quale, a fronte di un sistema disciplinare il cui bilancio è certamente in attivo, se ne chiede da più parti la riforma. L’insoddisfazione per il funzionamento della giustizia e, in molti settori della società e della politica, la delusione per la ritenuta inattuazione della legge 13 aprile 1988, n. 117, sulla responsabilità civile dei magistrati hanno coltivato l’illusione che un diverso sistema, sottratto ad una Sezione disciplinare espressione esclusiva del Consiglio superiore, sarebbe in grado di esercitare un maggior controllo sulla magistratura e di migliorarne il funzionamento. Non ci si accorge, invece, di chiedere così al sistema disciplinare di assolvere una funzione che non gli è propria, deresponsabilizzando chi, sul piano normativo, regolamentare, organizzativo, dirigenziale, operativo, dovrebbe intervenire, ciascuno secondo il proprio ruolo, le proprie responsabilità, la propria consapevolezza professionale.

     

    Prima dell’intervento disciplinare è dunque necessario un adeguato intervento sulle verifiche della professionalità di ogni magistrato, comparative e non.

    Molte delle condotte non ritenute dal Procuratore generale meritevoli di sanzione disciplinare, e sovente nemmeno di inizio di azione disciplinare, ben potrebbero o dovrebbero essere tenute in considerazione dal CSM per i diversi profili attinenti le valutazioni di professionalità.

    Questo è il motivo per cui, da diverso tempo, taluni sostengono l’opportunità che i decreti di archiviazione – almeno quelli di particolare rilievo – siano trasmessi per conoscenza al CSM, onde porre l’organo di autogoverno in grado di conoscere condotte delle quali non è in alcun modo informato, visto che, dopo la riforma del 2006, gli sono state sottratte competenze anche in tema di art. 2 L.G.

    Se infatti l’esposto del privato viene trasmesso ai soli titolari dell’azione disciplinare e non al CSM, l’organo del governo autonomo della magistratura può venire a conoscenza di quei fatti e di quelle condotte, oggetto di doglianza da parte del cittadino, soltanto nella ipotesi in cui l’azione disciplinare venga esercitata.

    Poiché ogni anno il filtro della Procura generale fa sì che più del 90% delle notizie di illecito disciplinare venga ritenuto di alcun rilievo disciplinare, o – in molto minore misura - di scarsa rilevanza ai sensi dell’art. 3-bis del d.lgs. n. 109/2006, nella ipotesi largamente prevalente di archiviazione del Procuratore generale il CSM non viene informato di quei fatti che, se irrilevanti disciplinarmente, possono e debbono essere valutati in sede di valutazioni di professionalità.

    Di qui una triplice alternativa per il Procuratore generale, in concreto manifestatasi già da tempo.

    1) Trasmettere al CSM ogni decreto di archiviazione in base al principio generale dell’ordinamento giudiziario secondo il quale l’organo del governo autonomo della magistratura deve essere informato di ogni fatto, atto, comportamento del magistrato utile – nel bene o nel male – a valutarne la professionalità.

    2) Non trasmettere al CSM alcun decreto di archiviazione in base alla considerazione che manca nell’ordinamento giudiziario una specifica norma di legge che lo preveda.

    3) Valutare caso per caso la trasmissione del decreto di archiviazione, a seconda del rilievo che quei fatti, atti o comportamenti del magistrato abbiano ai fini delle valutazioni di professionalità, secondo la personale opinione che lo stesso Procuratore generale ne abbia.

    La prima alternativa potrebbe essere quella preferibile sul piano sostanziale, perché porrebbe il CSM nella condizione di procedere, nella collegialità propria dell’organo, alla valutazione di ciò che può essere o no rilevante ai fini del percorso professionale del magistrato. Essa però si scontra con l’aspetto pratico, di non secondaria importanza, di dare spazio ad un rilevantissimo – e spesso inutile –“carteggio” tra la Procura generale ed il CSM, che si colloca mediamente intorno alla cifra di 1200 - 1400 decreti di archiviazione all’anno.

    La seconda ipotesi, quella di non trasmettere al CSM alcun decreto di archiviazione, potrebbe essere la soluzione più semplice, ma anche quella più burocratica e priverebbe al contempo l’organo di governo autonomo di una serie di notizie utili alle valutazioni.

    La terza ipotesi potrebbe essere, forse, quella più razionale rebus sic stantibus, ma comporterebbe il rischio di spostare la valutazione preliminare relativa al possibile rilievo di professionalità della condotta oggetto di archiviazione disciplinare dall’organo collegiale preposto al Procuratore generale della Corte di cassazione, che è solo uno dei 27 componenti del CSM.

    Peraltro, essa è stata già negativamente valutata, in buona sostanza, dal CSM che in un caso di proposta di inserimento agli atti del fascicolo personale del magistrato di un decreto di archiviazione ha ritenuto di non dover procedere all’incombente.

    Ciò non impedisce oggi di affermare in questa sede che la scelta dell’alternativa più praticabile e comunque più opportuna dovrebbe essere demandata proprio al CSM, mediante apposita, generale regolamentazione di fonte secondaria e sarebbe idonea ad evitare per il futuro prolungate discussioni plenarie finalizzate all’inserimento nel fascicolo personale del magistrato di questo o quell’altro decreto di archiviazione, con la conseguenza di demandare in buona sostanza la valutabilità o meno della condotta del magistrato oggetto di archiviazione disciplinare ai fini delle verifiche di professionalità alla mutevolezza delle maggioranze che, volta per volta, si determinano nel CSM stesso.

    D’altronde, sulla questione dell’ingresso dei provvedimenti di archiviazione predisciplinare nei fascicoli personali dei magistrati, che è tema istituzionalmente demandato alla competenza dell’organo di governo autonomo, dopo la predetta delibera consiliare che ha stabilito di non dare accesso a tale acquisizione informativa, in base alla regolazione di cui alla Circolare in materia (Circolare sulla tenuta dei fascicoli personali dei magistrati n. P-4718/09 del 27 febbraio 2009 e successive modifiche), è stata aperta una pratica presso la competente Commissione IV e in detta sede si ritiene che dovranno essere nuovamente presi in considerazione i profili relativi alla indubbia interferenza tra le determinazioni che risultano all’esito di una procedura predisciplinare e la complessiva valutazione professionale del magistrato: tanto più in un sistema disciplinare che, per unanime constatazione, presenta notevoli lacune e zone “franche” che lasciano, per questo, spazio a condotte non sanzionabili disciplinarmente e tuttavia tutt’altro che insignificanti nella definizione della deontologia complessiva e della figura del magistrato.



    1

    Ossia “qualsiasi comportamento, atto o provvedimento posto in essere con dolo o colpa grave nell’esercizio delle funzioni”, ai sensi del comma 1 dell’art. 2. La “colpa grave” si integra con l’enumerazione del comma 3, che include il travisamento “revocatorio” nonché l’adozione di misura cautelare immotivata o abnorme e ulteriormente si specifica, ma solo esemplificativamente (“si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché della inescusabilità e della gravità dell’inosservanza”), nel co. 3-bis.

    2 Cfr. l’intervento del Procuratore generale della Corte di cassazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario del 26 gennaio 2012, pubblicato nel sito della Corte di cassazione, www.cortedicassazione.it.

     

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