Spiegare la “denegata giustizia” è l’incombenza più complicata per il giudice. Per qualunque giudice.
E quando il giudice è penale (e quando sei pubblico ministero) le cose sono un tantino più ostiche.
Illustrare i motivi per i quali, all’esito di un processo, l’imputato è stato assolto quando chi lo chiede è il familiare di una vittima che aspetta una condanna per restituire un po’ di pace al proprio animo trafitto da una perdita è argomento dimenticato dai manuali di diritto, e in generale difficile da apprendere nell’esercizio della funzione.
Semplicemente nessuno ci avverte che all’improvviso potresti avere degli occhi che puntano nei tuoi e che ti chiedono commossi: perché non abbiamo avuto giustizia?
A me è successo dopo 10 anni di funzione, non tantissimi, ma neanche pochissimi ed ho boccheggiato, preso fiato, implorato i miei sentimenti di prestarmi le parole giuste da offrire a due genitori che aspettavano la mia risposta come un balsamo consolatorio.
Ho iniziato male: ho spiegato il rito, la funzione delle prove, la necessità che tutte le dichiarazioni, i riscontri convergessero verso un'unica direzione, che la condanna si giustifica solo se non v’è un “ragionevole dubbio” e che quando gli elementi probatori sono insufficienti l’assoluzione evita che un innocente vada in galera...ma mi rendevo conto che ogni frase pronunciata si dissolveva nell’aria prima di poter essere ascoltata.
E lo sguardo perso dei miei interlocutori mi ha spinto ad andare oltre.
Quando entriamo in campo noi pm è già troppo tardi. Un equilibrio si è rotto, qualcosa non ha funzionato ed è irrimediabilmente perso. Lo penso ogni volta che ho a che fare con gli omicidi, con i reati di stalking, di maltrattamenti in famiglia, di abusi sui minori in cui trovare il colpevole è una vittoria che non fa esultare.
Ma questa è l’intima essenza del nostro operato: essere la naturale prosecuzione dei mali della società.
Ed un conto è intervenire all’inizio del male, un conto è intervenire quando esso è talmente radicato e forte da aver sovvertito radicalmente il tutto.
Invece che parlare di procedura quindi ho iniziato a parlare di qualcosa di immediatamente più diretto e comprensibile.
Non è vero che non c’è stata giustizia: il processo c’è stato. E non è neanche vero che la giustizia non sia stata giusta, sulla base delle prove acquisite è stata resa una sentenza giusta.
Ma non si è fatta giustizia perché nessun colpevole è stato condannato. E questo perché la società, non è stata al nostro fianco.
Con parole più consistenti ho quindi dato la mia risposta: “ i colpevoli dell’omicidio di vostro figlio non sono stati trovati perché chi sapeva non ha parlato. Lo Stato ha fatto il suo, la collettività, gli amici che sanno, tutti coloro che hanno saputo non hanno fatto la loro parte”.
La loro reazione mi ha confermato l’efficacia della risposta; ma ciò nonostante non mi sono sentita a mia volta assolta.
Noi pm siamo al di là di una linea di confine, dietro la quale ci sono gli amici, i familiari, le istituzioni, le chiese, le scuole, e tante altre cose.
Il nostro è un amaro destino perché vediamo solo quel che passa da noi, quando l’azione di tutti coloro al di là del limite non sono riusciti a trattenere quella persona dall’altra parte:quella bella luminosa e rassicurante che (sfortunatamente per noi) non arriva mai negli uffici.
Una donna maltrattata, spinta di là, tra le nostre braccia, non è solo una vittima di un uomo maltrattante ma è il segno della sconfitta dei suoi familiari che non le hanno detto per tempo di lasciare il compagno violento, del suo medico di famiglia che non se ne è accorto, della scuola che non le ha insegnato ad essere selettiva nei sentimenti, del prete che le ha ripetuto di portare pazienza e di chiunque poteva fare qualcosa per lei e non l’ha fatto (ed è questo a mio avviso il vero carico inesigibile: il sentirsi l’unica salvifica spiaggia).
E così fino a quando ciò che si vede dalle finestre sarà dimenticato ci sarà un'altra stesa di proiettili vaganti.
Fino a quando chi sa non parla ci sarà un altro orco che uscirà dalle favole.
I magistrati non possono nulla senza una società al loro fianco.
Ma per avere la società al proprio fianco bisogna essere credibili, e per essere credibili ci vuole il cuore che si coniuga in impegno, e dedizione ( e, per i fortunati, anche in passione)
Non il sacrificio umano o l’eroismo ma semplicemente il fare bene.
Ed allora se si è scelto di essere giudici si deve pensare ogni giorno che la nostra indagine, il nostro processo andrà bene solo se si lavora mettendo il cuore in ciò che si fa, non solo per quella specifica indagine o per quel specifico processo ma per tutte le indagini ed i processi che gli altri faranno, in una visione ancestrale della giustizia in cui il singolo deve essere parte di un ingranaggio complessivo, che non ricorda più i nomi.
Ma anche questo, che pur non è poca cosa, non basta.
Manca un pezzo.
Con lo stesso cuore bisogna attraversare il confine, murare l’ufficio ed andare nella vita di quei numeri che contrassegnano i fascicoli, cogliendone l’essenza umana nella società, nelle scuole, nelle istituzioni, a portare come si può un contributo di vicinanza di idee ed una testimonianza di presenza.
Essere magistrato è essere un ponte, ed ogni volta che i cittadini non sono al nostro fianco, ogni volta che non riusciamo a fare giustizia significa che non siamo stati sufficientemente bravi a collegare le due rive.
Elisa la mia giovane mot volontaria è stata più fortunata di me: ha sentito la risposta prima ancora del decreto di nomina.