Lettera di un giovane pm a Giuseppe Pignatone
di Andrea Apollonio
Caro Giuseppe,
Mi suscita una velata inquietudine sapere che da oggi non sei più parte del nostro mondo. Una sensazione strana e del tutto inspiegabile, perché non ti ho mai conosciuto. Non c'è stata occasione di incontrarti, e d'altronde non poteva esserci: faccio il tuo stesso lavoro - il pubblico ministero - da un mese appena, nella piccola (ma non lontana dalla tua Palermo) procura di Patti - e, per inciso: in Sicilia ci sono venuto con le mie gambe, non a causa di contingenze legate a punteggi e graduatorie. E' un giovane pm a scriverti, l'avrai capito, che ha scelto questa funzione perché ci ha visto dentro un portato idealistico, nonostante tutto; nonostante i tempi che corrono.
Non ci siamo mai incontrati ma, entrato in magistratura, m'è parso di conoscerti fin dall'inizio (della tua lunga e della mia micrometrica carriera). Perchè è da quando guidi la procura di Roma - correva l'anno 2012, ed io neanche immaginavo di diventare magistrato - che seguo con interesse e curiosità, dalla semplice lettura delle notizie di giornale, l'evoluzione delle "politiche" giudiziarie di quell'ufficio: centralissimo, che pure nel corso degli anni, o dei decenni precedenti, si era conquistato la triste fama di "porto delle nebbie", perché nulla si muoveva, le inchieste non andavano avanti, come se la politica - la vera regina di Roma, da sempre - avesse chiesto e ottenuto di non essere disturbata: non disturbare il manovratore, recitava il cartello affisso sui tram.
Se la percezione collettiva dell'ufficio requirente capitolino è radicalmente mutata, il merito è tuo, e della squadra che hai saputo guidare col tuo tipico fare felpato e netto al contempo.
Ti dobbiamo - noi cittadini - l'avere messo a nudo sistemi corruttivi di proporzioni inimmaginabili, che prolificavano indisturbati sotto i nostri occhi, radicati nella Capitale con l'intento di inquinare le basi stesse della vita economica e produttiva del Paese. Ti dobbiamo - noi italiani - l'avere rappresentato lo Stato (questo è accaduto, nella sostanza) con credibilità e autorevolezza nei due momenti in cui la nostra coscienza nazionale ha pericolosamente vacillato: e mi riferisco al caso Regeni e, più di recente, al caso Cucchi, momenti in cui il Paese era stranamente unito perché chiedeva, unanimemente, che si facesse giustizia. Al di là di quello che si è potuto fare, e che si farà, ci hai messo la faccia, trasmettendo l'idea che lo Stato fosse, comunque, dalla parte giusta. Ti dobbiamo - noi giuristi - un nuovo modo di concepire i fenomeni mafiosi, che prescinde dall'intimidazione violenta per edulcorarsi, trasformarsi in un amalgama relazionale che, al Paese, può nuocere più dei morti ammazzati per strada. Le indagini contro Carminati e la sua banda hanno contribuito a lanciare un messaggio fortissimo e dirompente alla comunità giuridica, alla quale adesso si chiede di non trincerarsi più dietro i vecchi schemi interpretativi (talvota assurti a veri e propri alibi), ma di verificare quale effetto produca, in termini di diffusività e profondità, ed in concreto, il fenomeno delinquenziale da colpire con le indagini, i processi, le sentenze. Un messaggio che per questa via, un pò attutito e semplificato, è arrivato al comune cittadino, il quale oggi sa bene, ed era tempo che lo sapesse, che il metodo mafioso può annidarsi anche nelle mazzette; e ciò forse aiuta il lento percorso di moralizzazione della vita pubblica intrapreso - dalla politica, seguita dagli altri ceti dirigenti - da qualche anno a questa parte.
"Moralizzazione" è un termine che tu, probabilmente, disdegneresti, anche perché evoca altre epoche, per certi aspetti non edificanti, della nostra vita pubblica. Ma lasciamelo dire: i risultati che la tua squadra - tu, i tuoi aggiunti, i tuoi sostituti - ha conseguito in questi sette anni sono, sotto l'aspetto sistemico, paragonabili soltanto a quelli della procura di Milano dei tempi di Tangentopoli, con una sostanziale differenza: il tuo stile moderato e, diremmo nell'accezione migliore, democristiano ha prodotto effetti ben più incisivi e duraturi di quelli raggiunti con i toni accesi, i gesti plateali nei corridoi a favore delle telecamere, gli scontri frontali con il legislatore. Tanto che oggi i modelli investigativi coniati da Tangentopoli, problematici sotto l'aspetto delle garanzie degli indagati, sono considerati recessivi, anche perché ampiamente superati - in primo luogo, da interventi legislativi ad hoc, che non mi sento di definire sbagliati - mentre, sono sicuro, tra dieci o venti anni continueremo a indagare e a ragionare sulla scorta dell'inchiesta "apripista": Mafia Capitale, appunto, ma è solo un esempio tra i tanti.
Scrivendoti di getto, mi rendo conto di aver consumato lo spazio di questa lettera richiamando soltanto i tuoi ultimi anni, senza neppure citare i decenni di impegno - legati a sacrifici personali incalcolabili - trascorsi tra Palermo e Reggio Calabria; ma del resto, neanche tu, che conosci la tua storia meglio di chiunque altro, hai saputo trarre un bilancio analitico, se a precisa domanda di Giovanni Bianconi, nell'intervista dell'altro ieri sul Corriere della Sera, hai piuttosto voluto chiudere così: "E voglio sottolineare che risultati importanti sono per un pm non solo arresti e condanne, ma anche assoluzioni e archiviazioni, anche se proprio queste a volte sono oggetto di critiche violente quanto infondate".
E' una frase lapidaria perchè controcorrente, che certifica la statura del magistrato, reclinandola nel verso più corretto, quello garantista. Credo che noi, (tuoi) giovani colleghi, ed in particolare noi, giovani pm, dovremmo raccogliere dalla tua esperienza sopratutto questo tuo modo ponderato di fare e di pensare, che guarda ai fenomeni criminali come qualcosa da analizzare nel loro insieme per colpirli più efficacemente, che guarda al pubblico ministero come portatore di un interesse collettivo ineludibile, con funzioni talvolta rappresentative del comune sentire; che guarda all'indagato come soggetto da accusare e da tutelare allo stesso tempo.
Non posso che tramutare la velata inquietudine con la quale oggi so che ti congedi dal mondo in cui sono appena entrato in un rinnovato impegno; rendendo omaggio alla tua storia, e a quella della magistratura italiana migliore, passata e presente, semplicemente con il mio incondizionato impegno, nei palazzi di giustizia e fuori.