Giulia Cavallone, un ricordo
di Sibilla Ottoni
Dal 21 settembre 2020, al Tribunale di Roma, c’è un’aula intitolata alla memoria di Giulia Cavallone. Qualche parola, allora, per ricordare chi era Giulia, e per raccontarlo a coloro che non l’hanno conosciuta, se frequentando quell’aula, leggendo quella targa, chiederanno di lei.
Si è svolta pochi giorni fa la cerimonia di intitolazione dell’ex aula 18 del Tribunale penale di Roma alla memoria di Giulia Cavallone, giovane magistrato, scomparsa a soli 36 anni lo scorso aprile dopo una lunga lotta contro la malattia. Una lotta combattuta anche, fino all’ultimo, dentro quell’aula ed in quelle stanze della Settima Sezione.
La partecipazione e la commozione testimoniate durante la cerimonia non sono dovute soltanto alla giovane età, allo sconcerto che inevitabilmente si prova di fronte alla notizia di una morte prematura ed ingiusta. Chi vi ha partecipato sa che c’è qualcos’altro; qualcosa che spiega non tanto e non soltanto l’onore riconosciutole, ma anche, soprattutto, l’autenticità e la dura intensità di questo cordoglio.
Quel qualcosa era tangibile nell’aria durante la commemorazione. Coloro che non hanno mai incontrato Giulia potrebbero non averne colto appieno il colore, il tono. Non aver sentito, come a noi è parso di sentire, i commenti sarcastici che lei avrebbe riservato ai pochi ma inevitabili scivolamenti nella retorica che caratterizzano, forse, ogni cerimonia solenne. Non aver visto, come a noi è parso di vedere, il sorriso ironico che le sarebbe affiorato nel prendere atto di quel velo di malinconia che alcuni le hanno inventato negli occhi, nell’ascoltare le versioni altrui di quegli ultimi giorni di udienza, così sfumatamente ma sensibilmente diverse dalla propria. Eppure, certamente, anche chi non l’ha mai incontrata ha dovuto arrendersi all’incontenibile tremore delle mani, alla nota spezzata nella voce, alla forza delle parole pronunciate per lei in quell’occasione dai congiunti, dagli amici e dai colleghi.
Di lei è stato detto che era mite, gentile, disponibile. Che era una giurista di notevole spessore. Che era un magistrato di grande impegno, serietà, dedizione alla funzione. Chiunque sia avvezzo al tenore delle celebrazioni grandi o piccole, riservate o solenni, che accompagnano ogni mutamento di funzioni, di ufficio, di carriera, o finanche ai toni contenuti nelle valutazioni di professionalità dei magistrati, sentirà risuonare in questi attributi il vuoto dell’étiquette. Ma chi era in quella sala ha potuto percepire quel qualcosa, apprezzare uno scarto: comprendere che Giulia era tutte queste cose davvero.
Era arrivata in magistratura dopo anni di vita vissuta, dedicati con passione alla ricerca e all’accademia, da giurista (e da persona) matura e raffinata, cui erano bastati pochi mesi di preparazione per superare il concorso. Pochi mesi in cui Giulia studiava di sera, in un monolocale al sesto piano senza ascensore dal cui abbaino si vedeva la Tour Eiffel, di ritorno da lunghe giornate passate all’Institut de Droit Pénal china sulla sua tesi di dottorato. Pochi mesi durante i quali aveva vinto prestigiose borse di studio internazionali, aveva fatto la spola tra Parigi ed Heidelberg, aveva pubblicato articoli scientifici in lingue diverse, e diverse dalla propria, si era fatta ospitare a casa degli amici la sera prima delle conferenze internazionali a cui aveva relazionato. Mesi in cui aveva portato avanti il suo impegno nel volontariato, dando il via a nuovi importanti progetti, partendo per l’Africa. Tutto questo senza mai mancare una serata a teatro, una mostra, un concerto, un’occasione di viaggio, una cena con gli amici.
E a cena Giulia dava il meglio di sé. Era una delle persone più brillanti che si potesse sperare di avere intorno. Il suo senso dell’umorismo era la punta dell’iceberg della sua intelligenza. Portava la propria erudizione ed il proprio spessore come si portano un paio di jeans, con la stessa leggerezza con cui, poi, avrebbe portato il fardello della malattia. Che non le avrebbe impedito di continuare a viaggiare, di costruire una casa con il suo compagno, di rinsaldare e coltivare le sue amicizie ed i suoi interessi, ed anzi l’avrebbe spinta a farlo con sempre maggior convinzione. La fatica fisica e morale delle cure, l’apprensione con cui parlava della malattia, l’estenuante alternarsi di speranza e sconforto, nel suo quotidiano sbiadivano dietro l’ironia con cui sapeva celarli. Quasi impercettibili nel contegno impeccabile che Giulia aveva in ogni contesto, nell’orgoglio del suo riserbo. Eppure c’erano.
La gentilezza di cui tutti raccontano era il sintomo di una grande maturità e consapevolezza di sé: non solo indole, ma frutto delle tante esperienze fatte, di un convinto e profondo umanismo. Di pari passo con la dedizione per il lavoro in cui così tanto credeva andava l’impegno che metteva in ogni altro aspetto del vivere, la cura che dedicava alle proprie relazioni, ai propri interessi e passioni, al costruire la propria esistenza di essere umano. Giulia aveva compreso che l’unico modo per essere un buon giudice, un giudice giusto, è essere una persona giusta, qualsiasi cosa voglia dire. Rispettosa della vita e del mondo. Studiosa non solo del diritto, ma dell’umano.
Come ha ricordato Edoardo, il suo compagno, la vita di Giulia è stata profondamente intenzionale. Dedicata costantemente a lavorare su di sé, ed attraverso questo lavoro, capace di fare da esempio, di seminare il germe di qualcosa che le sopravvive.
Nel cortile della città giudiziaria, un ulivo è stato messo a dimora in memoria di Giulia, con una targa che recita: “Siate giusti, siate gentili”. L’auspicio è che quella targa, così come quella affissa davanti all’aula che porta il suo nome, possano stimolare, insieme al ricordo, una riflessione più profonda sul ruolo di ciascuno di noi, non solo come magistrati. In onore di un giudice e di una donna di tutta sostanza ed alcuna apparenza, che credeva profondamente in quello che faceva e che con questa attenzione, con questa intenzione, ha svolto la funzione che aveva scelto.