Consenso sociale, populismo e diritto penale
di Sergio Seminara
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Populismo e diritto penale. – 2.1. Populismo, politica e diritto penale. – 2.2. Populismo e politica criminale: il reo come nemico. – 2.3. Populismo e politica criminale: le scelte di incriminazione. – 3. Diritto penale e consenso sociale. – 4. Consenso sociale e populismo rispetto al diritto penale. – 5. Conclusioni.
1. Introduzione.
L’idea alla base delle riflessioni qui esposte è molto semplice: consenso sociale e populismo, in passato intesi come entità contrapposte, attualmente si sono reciprocamente avvicinati senza però arrivare a coincidere, in quanto ancora rinviano a contenuti diversi ed evocano differenti scenari. Non è corretto dunque affermare che, nel nostro sistema democratico a base rappresentativa, il presupposto fondativo della legittimità e dell’efficacia del diritto penale, un tempo rinvenuto nel consenso sociale, oggi si sia convertito nel populismo.
Ovviamente, tutto sta però a intendersi sui significati racchiusi all’interno dei concetti di consenso sociale e di populismo.
2. Populismo e diritto penale.
Il termine «populismo» ha assunto vari significati nella storia. Nato a cavallo tra il XIX e il XX secolo in Russia, designò originariamente un movimento culturale e politico che, attraverso un’azione rivoluzionaria diretta e un’attività di proselitismo fra il popolo, mirava a un miglioramento delle classi più ai margini della società, nel perseguimento di una sorta di socialismo; da qui, per assimilazione, quel termine ha successivamente caratterizzato programmi politici volti a favore del popolo e genericamente ispirati da valori socialisti. Negli ultimi decenni, al concetto di populismo è stata invece associata una valenza retorica di tipo demagogico e sostanzialmente fraudolenta, tesa a vellicare e irretire il popolo piuttosto che a promuoverne effettivamente le condizioni e a tutelarne realmente gli interessi. Nell’attuale prospettiva politica (mi riferisco soprattutto all’esperienza italiana), il termine in questione è stato ripetutamente utilizzato per designare gli atteggiamenti di taluni leader ed esponenti di partito finalizzati a incrementare il numero degli elettori facendo leva su insicurezze e timori, così dando vita a ciò che è stato appunto definito come il governo della paura.
Questo populismo ha condotto direttamente al diritto penale perché, per alimentarsi e irrobustirsi, ha bisogno del diritto penale. Il diritto penale fornisce infatti l’arma migliore alle sue argomentazioni: nel sottolineare, esasperandole, ansie collettive contro i fenomeni dell’immigrazione e della criminalità, esso si offre come strumento apparentemente a costo zero e dotato della maggiore efficacia in termini di repressione e di sofferenza inflitta al «nemico».
Si tratta certamente di un frutto dei tempi che viviamo e che potremmo denominare come il populismo della democrazia e della libertà di divulgazione del pensiero. Nell’Italia fascista, ai giornali – che comunque erano letti da una porzione assai ridotta della società – veniva imposto di dedicare poco spazio a fatti di criminalità, a causa del timore delle istituzioni che tali notizie potessero alimentare un senso di insicurezza. Al contrario, il regime voleva convincere i consociati che essi vivevano nel migliore dei mondi possibili (da qui origina lo stupido detto che “ai tempi del fascismo si dormiva con le porte di casa aperte”), ove – in una sorta di rinnovato contratto sociale – la loro rinuncia a una parte di libertà era ampiamente compensata attraverso un miglioramento delle condizioni di vita.
Anche per quanto riguarda il populismo può dunque ripetersi il principio che la storia non si ripete: il populismo odierno ha poco in comune con quello del secolo passato. Del resto, forti differenze si rinvengono anche nel corpo sociale.
2.1. Populismo, politica e diritto penale.
«Se le dittature del Novecento proibivano la cronaca nera, le democrazie populiste sembrano averla riscoperta come sorgente di voti. (…) Il dolore crea interesse, l’interesse produce paura e la paura moltiplica i consensi». Così scriveva sul Corriere della Sera del 24 gennaio 2020 un noto e arguto opinionista, Massimo Gramellini, in relazione alla scelta di Matteo Salvini, leader della Lega, di chiudere una campagna elettorale portando sul palco, tra gli altri, la madre di un bambino sequestrato e ucciso nel 2006, allo scopo di protestare contro il permesso-premio concesso dal giudice a una donna condannata a ventiquattro anni di reclusione per il ruolo di carceriera svolto in quel sequestro, che era stata per la prima volta ammessa, dopo tredici anni di detenzione, a uscire temporaneamente dal carcere.
È poi una notizia dell’inizio di maggio 2020 che il Ministro della Giustizia, dopo avere strenuamente difeso l’operato del Direttore del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria contro le roventi accuse di inefficienza legate alla morte di tredici detenuti in occasione delle proteste scoppiate nelle carceri agli inizi dell’attuale pandemia da coronavirus, ha proceduto alla sua sostituzione in conseguenza dei violenti attacchi politici suscitati dalla scarcerazione, con connessi arresti domiciliari, di alcuni importanti esponenti della criminalità organizzata, bisognosi di indifferibili cure rese ancor più necessarie dal rischio di contagio. In sostanza, il “siluramento” del Direttore del D.A.P. è avvenuto come conseguenza non di una gravissima sottovalutazione del problema carcerario in rapporto al Covid-19, dalla quale è derivata la morte di persone che lo Stato aveva preso in cura e si era obbligato a proteggere pur mantenendoli come reclusi, bensì di alcuni provvedimenti di scarcerazione consentiti dalla legge e resi necessari dalle condizioni di salute dei detenuti!
Il programma del populismo, applicato al diritto penale, è molto semplice: severità ed esemplarità delle pene, ripudio delle garanzie processuali in quanto ostacoli alla celerità del procedimento penale, eliminazione dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario perché contrari al principio della certezza della pena. In questo senso deve ritenersi che il diritto penale populistico si attua attraverso la negazione del diritto e la centralità della pena: il diritto, nella sua accezione “liberale” che gli deriva da un’evoluzione iniziata con l’illuminismo, viene negato nel momento in cui è privato dei suoi coessenziali contenuti garantistici, considerati alla stregua di freni alla rapida ed efficiente amministrazione della giustizia; la pena subisce invece una trasformazione mediante l’assunzione di significati esclusivamente afflittivi ed eliminativi (quante volte, dopo efferati fatti di cronaca, i politici di alcuni specifici partiti auspicano che l’autore del reato sia portato in una cella e di questa venga per sempre buttata la chiave della porta!).
Si crea così un vortice repressivo destinato ad autoalimentarsi: nella percezione popolare, alimentata da martellanti slogan politici, le sanzioni appaiono troppo blande, la loro esecuzione risulta eccessivamente mite, il processo è afflitto da un esagerato apparato di garanzie, la discrezionalità giudiziale risulta sempre strumentalizzata in favore degli imputati. Il populismo beve nel calice del diritto penale fino all’ultima goccia: il metodo consiste nell’alimentare le paure – anche creandone di nuove, in realtà inesistenti – e poi mostrare un assoluto rigore nel volerle combattere, attraverso l’ampliamento delle fattispecie incriminatrici e un incessante inasprimento delle pene (con compulsive evocazioni della pena di morte e, per i delinquenti sessuali, della castrazione chimica). Ne deriva un abuso del diritto penale, che si realizza mediante continui appelli alla volontà popolare, presentata come la sola cosa che conti: ignorando qualsiasi valutazione tecnica, anzi ostentando disprezzo per la discussione scientifica, i partiti politici populisti manipolano i sentimenti del popolo e rafforzano il proprio potere.
La recente esperienza della riforma della legittima difesa di cui all’art. 52 cod. pen. dimostra che tutto quanto appartiene alla sicurezza del cittadino contro il crimine è ormai ridotto alla stregua di uno slogan, declinato con varie modalità ma sempre caratterizzato dalla contrapposizione tra una società presuntivamente civile e afflitta da ansie identitarie e un singolo individuo o gruppi di individui per definizione ostili e, conseguentemente, privi di diritti inviolabili. Dalla martellante comunicazione mediatica volta a sottolineare l’intento di rafforzare la protezione dei cittadini, all’interno dei propri domicili, rispetto a una criminalità sempre più aggressiva, non è mai emerso né il dubbio che le finalità di tutela potessero essere perseguite attraverso una più efficace prevenzione, né il timore che un ampliamento del diritto di uccidere, seppure a scopi difensivi, può solo innescare ulteriore violenza e maggiori pericoli per le stesse vittime. Ciò perché il populismo ama i discorsi semplici che, purtroppo, sono quelli destinati a fare più presa sugli ascoltatori.
2.2. Populismo e politica criminale: il reo come nemico.
Il populismo ha necessità di rappresentare il nemico: più la società avverte paura, più essa tende a chiudersi verso l’esterno, più occorre individuare i nemici verso cui canalizzare le ansie collettive.
I destinatari di questo processo sono i nemici della collettività: terroristi, immigrati extracomunitari, autori di reati contro l’integrità sessuale e il patrimonio, spacciatori di sostanze stupefacenti, in una parola coloro che vengono presentati come pericolosi. A causa di una serie di slittamenti del “pensiero”, poi, gli avversari non necessariamente risultano tali in quanto abbiano commesso un reato, essendo sufficiente anche solo il colore della pelle o l’appartenenza a una minoranza etnica a indiziare l’inclinazione a delinquere, sicché il reato commesso risulta per presunzione aggravato.
Questa ottusa ansia punitiva non ha una precisa caratterizzazione ideologica e neppure un preciso colore politico: se la storia induce a pensare che un siffatto movimento anticulturale sia appannaggio di un’estrema destra fondata sui valori dell’ordine e della legalità, l’esperienza italiana dimostra come l’elettorato della Lega sia costituito da piccoli e medi imprenditori come pure da persone che un tempo sarebbero state ascritte al proletariato e alla piccola e medio-piccola borghesia, semplicemente intimidite da una criminalità diffusa e disilluse da una politica litigiosa e inconcludente e per questo favorevoli – nonostante il recente passato – al mito dell’“uomo forte”.
D’altra parte, un’analoga ansia punitiva, estesa ai titolari di supposti privilegi e al fenomeno corruttivo – inteso come simbolo del degrado del potere e della politica –, caratterizza movimenti libertari fondati su valori anti-sistema, vagamente tendenti verso l’abbattimento delle garanzie individuali all’interno di una conclamata sfiducia nelle istituzioni. La triste storia della riforma della prescrizione in Italia – triste nell’esito, ma soprattutto nell’estrema povertà del dibattito parlamentare che l’ha accompagnata – fornisce un’eloquente dimostrazione della formazione di una società del conflitto che è anche società del rancore, da parte di chi considera fermo l’ascensore sociale e (ovviamente al di là dei propri meriti e delle legittime aspirazioni) soffre la chiusura delle porte della carriera. Con una singolare peculiarità, tuttavia, sulla disomogenea distribuzione di questo rancore, che trascura categorie di rei come gli evasori fiscali e la più ampia parte degli autori di illeciti economici, ai quali offre un generoso riparo – salvo i casi di frodi e bancarotte di rilevanti dimensioni e con un elevato numero di vittime – il loro ruolo sociale.
La verità emersa negli ultimi anni è dunque che, indipendentemente dall’ideologia storica di partenza – tendenze indipendentistiche di alcune regioni dell’Italia settentrionale o generalizzato rifiuto di una classe politica divenuta autoreferenziale –, dalla collettività sono emersi confusi atteggiamenti di rifiuto della politica tradizionale e di insicurezza e timore del futuro, presto intercettati da alcuni partiti che hanno così ampliato la propria base elettorale attraverso la promessa di una palingenesi sociale principalmente incentrata sulla sanzione penale e la promozione del benessere individuale mediante la promessa di una liberazione dalle angosce esistenziali.
La logica, dunque, è quella del conflitto e, come hanno dimostrato i fatti, il conflitto ha prodotto consenso. Il timore che un progressivo imbarbarimento collettivo possa corrodere i fondamenti sociali è irrilevante, trattandosi di un effetto a lungo termine, che come tale risulta estraneo all’orizzonte del politicante odierno.
2.3. Populismo e politica criminale: le scelte di incriminazione.
In un recente passato i partiti politici modellavano il loro programma di azione alla luce di specifiche visioni della società, preventivamente dichiarando i criteri di gestione della res publica e su queste basi si orientava il voto degli elettori: la politica costituiva il luogo di un dibattito aperto ma tendenzialmente vincolato dalle ideologie di ciascun partito. I concetti di destra, centro e sinistra, con i loro rispettivi estremismi, appartenevano a questo mondo.
Oggi il rapporto appare ribaltato: quasi per ogni problema sociale gli atteggiamenti e le soluzioni adottate dai partiti vengono di volta in volta stabilite in funzione delle verosimili successive reazioni del corpo elettorale. Ne deriva una sorta di permanente consultazione che è agli antipodi di un serio programma politico di lungo termine.
In questa prospettiva si giustifica la situazione di stallo del nostro Parlamento rispetto ai problemi più delicati per il loro carico ideologico o per le loro conseguenze operative. Due esempi a questo proposito sono eloquenti.
Il primo è offerto dal delitto di false comunicazioni sociali, che una riforma introdotta con il d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, modificò in modo da renderlo pressoché inapplicabile, al fine – ovviamente non dichiarato – di chiudere con la formula «il fatto non è più preveduto dalla legge come reato» le pendenze processuali di importanti esponenti del partito allora al Governo: ebbene, nonostante l’assoluta irrazionalità di quella disciplina e la successione di sette governi di diverso colore politico, solo la legge 27 maggio 2015, n. 69, ha provveduto a rimediare attraverso una nuova riforma. L’esperienza parrebbe significare che, anche per i governi che un tempo si sarebbero detti di sinistra o di centrosinistra, il privilegio accordato nel 2002 alla classe imprenditoriale non appariva una nota ideologicamente stonata e neppure produttiva di negative conseguenze politiche.
Il secondo esempio concerne la vicenda del delitto di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 cod. pen., la cui ritenuta parziale incostituzionalità ha indotto la Corte costituzionale a pronunciare l’ordinanza 24 ottobre 2018, n. 207, con cui rinviava la prosecuzione del procedimento al 24 settembre 2019, così da consentire al legislatore ordinario, «in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale», di riformulare l’incriminazione in conformità alle direttive indicate dalla Corte stessa. Ebbene: dinanzi all’alternativa se farsi alfieri delle soluzioni prospettate dalla Corte o invece mantenere la norma vigente a tutela delle rigide posizioni assunte negli ambienti cattolici, nessuno tra i maggiori partiti si è seriamente impegnato per la riforma dell’art. 580 cod. pen., ovviamente temendo che una battaglia “divisiva”, in nome della laicità e della libertà di scelte coscienziali assunte in casi estremi, si sarebbe potuta tradurre in una penalizzazione da parte del corpo elettorale. Il risultato, non certo onorevole per il Parlamento, è stato dunque che la Corte costituzionale il 25 settembre 2019 ha emesso una sentenza dichiarativa dell’illegittimità, in particolari situazioni, del reato di aiuto al suicidio. Più in generale, questa vicenda dimostra come il delicato e complesso settore del biodiritto in materia penale non sia più né di destra né di sinistra e che tutti i partiti indistintamente blandiscono la Chiesa cattolica a causa dell’influenza da essa ancora esercitata sul popolo italiano (il discorso meriterebbe ben altri approfondimenti: in tempi in cui le ideologie costituivano ancora valori tendenzialmente vincolanti, prima la Corte costituzionale e poi il Parlamento hanno soppresso il delitto di vilipendio della religione dello Stato ed equiparato la tutela della religione cattolica e di ogni altra confessione religiosa, mentre ora il segretario della Lega compare in pubblico impugnando e ostentando rosari e crocefissi come simboli, più che religiosi, identitari).
3. Diritto penale e consenso sociale.
Occorre però considerare l’altra faccia della medaglia, concernente la necessità di legittimazione del diritto penale.
Vi fu un tempo in cui il diritto penale si autolegittimava come mera manifestazione del potere da parte del suo detentore. Il diritto penale promanava dal monarca così come la moneta e ogni altro segno esteriore riconducibile all’autorità, ivi compresa la giurisdizione: il giudice corrotto o disonesto, prima ancora di danneggiare il suddito, recava offesa a colui che, immettendolo nella funzione, gli aveva attribuito funzioni originariamente sue, allo stesso modo in cui il falso nummario recava offesa, prima ancora che al privato che avesse ricevuto la moneta falsa, a colui nel cui nome quella moneta era stata coniata. In un siffatto contesto, il diritto penale non aveva necessità di ricercare una legittimazione esterna.
Trascurando i tempi in cui la legittimazione della legge venne legata alla divinità – che comunque, avendo conferito il potere al monarca, lo aveva così riconosciuto e consacrato –, solo con l’illuminismo si affaccia l’idea della ricerca di un referente “terreno”, di volta in volta individuato nel contrattualismo e nell’utilitarismo, nelle leggi della natura e in quelle della ragione. Oggi il fondamento del diritto penale trae vita dall’ordinamento democratico nel complesso delle regole dettate dalla Costituzione e risiede in questo indissolubile collegamento tra le scelte di incriminazione e i valori costituzionalmente riconosciuti. Solo così, d’altra parte, si comprende il significato dell’art. 101 Cost., il cui comma 1 evoca il popolo come termine di riferimento dell’esercizio della giurisdizione («La giustizia è amministrata in nome del popolo»), mentre il comma 2 sancisce che i giudici sono soggetti non a un’ondivaga e indecifrabile volontà del popolo, bensì «soltanto alla legge». Questo è appunto il nucleo della legalità democratica, dal quale si desume che la giustizia è regolata attraverso leggi che esprimono la volontà del popolo, la quale assume rilievo solo in quanto si traduca in leggi.
La Costituzione italiana offre però per il diritto penale indicazioni ancora più penetranti. L’art. 27 commi 1 e 3 prescrive infatti la personalità della responsabilità penale e la funzione rieducativa delle pene: su entrambi i precetti, il primo inteso a sancire la rimproverabilità del fatto al suo autore e il secondo a finalizzare la sanzione penale nel segno della risocializzazione, campeggia il consenso sociale come segno di una coesione della collettività nel processo di stigmatizzazione, punizione e recupero dell’individuo.
Qui la riflessione si addentra su terreni assai complessi che è possibile solo accennare. Il consenso sociale appena menzionato dovrebbe essere inteso come un equivalente dell’ordine democratico consacrato dalla Costituzione: la quale fissa un quadro di regole destinate a filtrare le scelte del Parlamento in materia penale, sia nei valori di riferimento assunti che nei contenuti. Al tempo stesso va però sottolineata la natura illusoria – ma sarebbe probabilmente meglio dire utopistica – di questo consenso: nella società ottocentesca e della prima metà del novecento il consenso che fondava il diritto penale era limitato alle classi più elevate e solo in questa limitata prospettiva si poteva parlare di una società culturalmente omogenea, che esprimeva scelte di criminalizzazione funzionali ai propri interessi, spacciati come interessi collettivi. Nella consapevolezza, dunque, che il c.d. minimo etico era il comune denominatore solo di una porzione della società.
La democrazia e la crescente complessità sociale hanno portato alla luce la disomogeneità culturale ed economica che caratterizza la popolazione e il processo di lenta disgregazione di numerosi valori può essere osservato proprio attraverso gli interventi del Parlamento e della Corte costituzionale sul testo del codice penale. In questa mutata prospettiva, il diritto penale è divenuto luogo di rielaborazione dei conflitti, ovviamente mantenendo il suo intrinseco e ineliminabile carattere autoritario.
La visione del diritto penale come luogo di rielaborazione dei conflitti – con il suo carico di razionalità e, potrebbe aggiungersi, di tolleranza e rispetto delle minoranze – appartiene ormai al bagaglio delle utopie? In realtà, il populismo mira alla creazione di consenso e il consenso produce ulteriore consenso, sempre più abbassando l’asticella dei limiti costituzionali e attizzando il fuoco della conflittualità. Ecco così che il populismo si avvicina alla teoria del consenso e pericolosamente si veste dei panni della democrazia.
4. Consenso sociale e populismo rispetto al diritto penale.
A questo punto della riflessione insorge la tentazione di schematizzare brevemente, sotto il profilo penale, le differenze fra la teoria del consenso sociale e il populismo.
Anzitutto, può ritenersi che il consenso sociale appartiene al mondo ideale di una giustizia penale amministrata nel segno della coesione fra i consociati e della solidarietà, mentre il populismo caratterizza invece il mondo reale nella sua complessità. Entrambe le rappresentazioni sono viziate da parzialità: il consenso sociale di una democrazia rappresentativa rinvia sempre a una volontà della maggioranza, quale che essa sia e comunque essa si sia costituita; il populismo, alla stregua di quanto rilevato in precedenza, è alimentato da una continua manipolazione della collettività o di una sua parte.
Sul piano del metodo, inoltre, la teoria del consenso mira alla mediazione e all’inclusione, mentre il populismo evoca il conflitto e rafforza l’emarginazione. Questa distinzione coglie indubbiamente nel vero soprattutto rispetto al populismo, che anzi rinviene la sua ragion d’essere proprio nella logica del conflitto.
Infine, la teoria del consenso sociale si riflette maggiormente sulla fase della criminalizzazione primaria, rimanendo tendenzialmente estranea alla fase della criminalizzazione secondaria, cioè della persecuzione giudiziale, e a quella dell’esecuzione, che trovano la propria disciplina in regole oggettive – fissate dalla legge nel rispetto dei vincoli costituzionali – che affidano al giudice il compito di accertare la responsabilità di un imputato considerato come persona, e non come rappresentante di una devianza combattuta dalla legge, e obbligano lo Stato a garantire un’esecuzione della pena conforme a logiche risocializzatrici e riconciliative. Questa ripartizione non è invece possibile nell’ottica populistica, che al contrario impregna di sé tutte e tre le fasi, a ciascuna di esse imprimendo il suo contenuto.
Cosa resta al fondo di questa schematizzazione? La sensazione è che la teoria del consenso sociale appartiene al mondo della razionalità e della democrazia, mentre il populismo, nelle sue radici più profonde, ha molto a che spartire con la psicanalisi dell’inconscio e la psicologia sociale.
5. Conclusioni.
Potremmo sintetizzare le brevi considerazioni svolte affermando che il populismo è per sua natura antiscientifico, in quanto alimentato esclusivamente dagli umori e dagli istinti della massa; è conflittuale, perché vive di contrapposizioni tra una comunità e i suoi nemici interni ed esterni; è ondivago, giacché l’assenza di contenuti vincolanti e di valori di riferimento consente continui mutamenti di opinioni e convinzioni; è semplificativo all’estremo, poiché si fonda su postulati elementari e indimostrati, che devono restare tali perché altrimenti si esporrebbero all’accusa di intellettualismo.
Accingendoci a concludere questo scritto, ci rendiamo improvvisamente conto che tutto quanto è stato finora descritto risulta esasperato dalla pandemia in corso, che ha segnato il tramonto di ogni verità condivisa, ha cagionato la moltiplicazione dei più vari sospetti (sulle origini del virus, sulla volontarietà della sua diffusione, sulle manovre speculative compiute su mascherine e guanti e così via), ha rivelato la confusione dei governi sulle terapie praticabili e, a seguire, ha provocato le accuse contro le istituzioni e contro i c.d. esperti. Il “fai da te” ha invaso anche i settori più tecnici e ciascuno è divenuto portatore di una propria teoria.
Non è colpa del popolo, sia chiaro: allargando la visuale al piano internazionale, dai politici che nelle fasi iniziali hanno ostinatamente negato l’esistenza del problema, fino ai mass media che hanno dato voce e credito anche alle più incredibili sciocchezze, le maggiori responsabilità ricadono su coloro che, avendo avuto un ruolo pubblico, non lo hanno gestito nell’interesse pubblico. Concludendo con queste parole, però, mi accorgo della difficoltà di definire cosa sia oggi il pubblico interesse.