ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sullo stesso tema, si veda anche D.L. 92/2024 “Carcere Sicuro”, note sparse ad una prima lettura: nulla di straordinario, poco di necessario, scarsamente urgente di Ezio Romano, pubblicato il 9 luglio 2024, Il decreto legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario di Fabio Gianfilippi, pubblicato il 10 luglio 2024, Osservazioni sugli interventi in materia di Liberazione anticipata e misure in materia penitenziaria di cui al Decreto legge n. 92 del 4 luglio 2024. Audizione presso la Commissione Giustizia del Senato in materia di D.L. 92 del 2024, 10 luglio 2024 di Maria Cristina Ornano, pubblicato il 15 luglio 2024.
La conversione in legge 112/2024 delle misure (anche) in materia penitenziaria del d.l. 92/2024: pochi correttivi, nuove criticità e capitoli tutti ancora da scrivere
di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1. I nuovi contenuti della legge - 2. Ancora sulla liberazione anticipata. A) una piccola modifica e una grande perdita - 3. segue… B) Prime questioni applicative e uno sguardo dentro le mura - 4. Il nuovo comma 9-bis dell’art. 656 cod. proc. pen.: la faticosa (infruttosa?) ricerca di una ratio - 5. Il nuovo comma 9-ter dell’art. 656 cod. proc. pen.: speciale attenzione alle condizioni di salute compromesse - 6. Adempimenti gravosi in materia di misure di sicurezza detentive di tipo psichiatrico - 7. Una modifica all’affidamento in prova e i rischi di una coperta troppo corta.
1. I nuovi contenuti della legge. Al Parlamento sono bastati appena trentacinque giorni per convertire in legge le disposizioni contenute nel decreto-legge c.d. “Carcere sicuro” n. 92/2024. Trentacinque giorni di caldo torrido, di crescente sovraffollamento carcerario, di nuovi suicidi dietro le sbarre, di critiche diffuse circa i contenuti deludenti del testo, di esortazioni, anche formalmente rese nel corso delle audizioni svolte in Senato, a correggere e integrare quanto contenuto nella decretazione d’urgenza[1].
In effetti le correzioni effettuate sono meno che sporadiche, mentre le integrazioni, invece copiose, non sembrano rispondere alle richieste largamente pervenute al Parlamento, soprattutto quelle volte a immaginare interventi di pronto risultato per mettere mano alla situazione di sovraffollamento drammatico, che sempre più si riscontra nelle nostre carceri.
Richiamandoci in questo contributo ai rilievi già svolti a prima lettura in ordine al decreto-legge[2], si proverà, nei paragrafi seguenti, a concentrarsi sulle novità che più strettamente coinvolgono le competenze dirette della magistratura di sorveglianza. È comunque necessario almeno accennare ad alcuni importanti nuovi contenuti della legge di conversione, di cui non vi era traccia nel decreto-legge 92.
Ci si riferisce in particolare ad alcune disposizioni concernenti il servizio sanitario operante presso gli istituti penitenziari e, soprattutto, all’ampio art. 6-bis, che prova a fluidificare le comunicazioni di dati in materia sanitaria delle persone detenute tra Ministero della salute e Ministero della Giustizia, sicuramente utile in un settore in cui da tempo si riscontravano criticità.
Un capitolo a parte meriterebbe poi la (ri)creazione della figura di un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, di cui all’art. 4-bis della legge di conversione, “per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento” secondo l’incipit del co. 1. Si tratterà di una figura, nominata con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della Giustizia, di concerto con il Ministero delle infrastrutture e trasporti, chiamato a compiere tutti gli atti necessari a realizzare “nuove infrastrutture penitenziarie” e “opere di riqualificazione e ristrutturazione delle strutture esistenti, al fine di aumentarne la capienza e di garantire una migliore condizione di vita dei detenuti”.
Si tratta, in buona sostanza, di un programma di lavoro vasto ed ambizioso, quanto meno a medio, se non a lungo, termine, del quale occorrerà seguire con attenzione il concreto sviluppo. Occorrerà monitorare attentamente obbiettivi specifici, tempistiche, modalità attuative, priorità di interventi, ben consci comunque che da tempo le raccomandazioni europee sottolineano come l’incremento di posti disponibili nelle strutture penitenziare debba costituire una misura del tutto eccezionale, per la sua incapacità di risolvere il problema e di durare: in sostanza i posti in più si saturano rapidamente.
E non è ovviamente soltanto un problema di allocazioni, come tanto gli stati Generali dell’esecuzione penale, quanto in seguito l’istituzione di una Commissione per l’architettura penitenziaria avevano sottolineato, ma dell’esistenza o meno di un progetto risocializzante connesso agli spazi detentivi e al loro significato. E c’è, non da ultimo, il problema di risorse umane già allo stato del tutto insufficienti e rispetto al potenziamento delle quali l’ampliamento degli spazi finisce per essere decisamente secondario. Il carcere è certamente assai più duro, infatti, dove diventa un mero contenitore di corpi, abbandonati ad una quotidianità deprivata di opportunità di contatto con operatori ed operatrici in grado di costruire con le persone dei credibili percorsi di rientro in società.
2. Ancora sulla liberazione anticipata. A) una piccola modifica e una grande perdita. Come più ampiamente si è provato a dire alla prima lettura di quelle disposizioni, il decreto-legge 92 ha previsto che la liberazione anticipata venga ordinariamente concessa dalla magistratura di sorveglianza d’ufficio in occasione della valutazione di ammissibilità dei benefici penitenziari e in vista del fine pena, con una residualità dell’istanza di parte che, per essere ammissibile, deve contenere il riferimento ad un interesse specifico e ulteriore. A monte di questa rarefazione dei momenti in cui si può ottenere il provvedimento da parte della sorveglianza che sancisce la partecipazione all’opera rieducativa tenuta, è stato previsto l’obbligo per il PM che emette l’ordine di esecuzione di informare il condannato che, mediante il proprio comportamento, potrà ottenere una riduzione pena per buona condotta, così anticipando il proprio fine pena sino alla data che viene indicata (fine pena virtuale).
Il nuovo meccanismo concessivo della liberazione anticipata ha superato il vaglio del Parlamento, con una sola rilevante modifica, decisamente migliorativa, ma di dettaglio. Si prevede, infatti, nell’art. 54 co. 2 ord. penit., che siano comunicate al PM dell’esecuzione le concessioni di liberazione anticipata emesse dal magistrato di sorveglianza, e non soltanto le “mancate concessioni” o le revoche, sanando così un difetto evidente della disposizione pensata con il decreto-legge, che di fatto non avrebbe consentito al PM competente di aggiornare il fine pena reale del condannato a fronte della concessione del beneficio.
Resta, tuttavia, quello che a chi scrive appare come un grave vulnus al senso stesso della liberazione anticipata come vera e propria cartina di tornasole, non a caso opportunamente semestralizzata dal legislatore, del comportamento tenuto dalla persona condannata. Un congegno dialogico che, mediante le istanze di parte, semestre per semestre, consente all’interessato di orientare il proprio comportamento, e al magistrato di sorveglianza di studiare gradualmente le evoluzioni personologiche del condannato. Un meccanismo che fornisce un riscontro importante anche all’istituto penitenziario, e una risposta, il più possibile tempestiva, rispetto alle condotte negative poste in essere, a fronte delle quali il rigetto costituisce stimolo a far meglio nel seguito.
Occorre ricordare[3] che, nei primi tempi di vigenza dell’allora nuovo istituto della liberazione anticipata, la stessa Corte Costituzionale, con la sent. 276/1990, ebbe a sottolineare come la valutazione semestralizzata della concessione della liberazione anticipata fosse “il punto di forza dello strumento rieducativo, che si ricollega alle esperienze ed agli insegnamenti della terapia criminologica”.
Ed ancora: “(L)'aspetto sintomatico del comportamento delinquenziale è dato dall'incapacità del soggetto a risolvere i problemi della sua vita attraverso mezzi e per vie socialmente accettabili: e ciò soprattutto perché non ha attitudine a sopportare sacrifici e fatiche nella prospettiva di un bene futuro. Questo aspetto negativo della personalità, ovviamente presente quando il condannato viene sottoposto a trattamento rieducativo, gli preclude ogni incentivo a prestare una per lui sacrificante partecipazione all'azione di risocializzazione, se il premio è rappresentato da una liberazione condizionale o da una semilibertà poste temporalmente a distanza di anni, e talvolta di molti anni. Ecco allora lo strumento di grande valore psicologico rappresentato da una sollecitazione che impegna le energie volitive del condannato alla prospettiva di un premio da cogliere in breve lasso di tempo, purchè in quel tempo egli riesca a dare adesione all'azione rieducativa. Certo, nei primi semestri la spinta psicologica sarà necessariamente eteronoma. Il condannato potrà nutrire scarsa convinzione nell'utilità etica del suo comportamento, ma intanto presterà la sua partecipazione in vista del premio a portata di mano. Poi, via via che, di semestre in semestre, moltiplicherà i suoi sforzi per accumulare benefici l'uno sull'altro, la perseveranza finirà per formare lentamente un comportamento abitudinario, su cui è possibile lo sviluppo di un diverso modo di essere, conseguente alla soddisfazione per i risultati raggiunti e alla fiducia acquisita nelle forze del proprio impegno.”
Sotto questo profilo deve dunque paventarsi una possibile frizione con i principi costituzionali, nella previsione di un procedimento che sia solo residualmente a istanza di parte, collegata alla allegazione di un interesse specifico.
3. segue… B) Prime questioni applicative e uno sguardo dentro le mura. Nonostante fosse stata segnalata come problematica l’assenza di disposizioni intertemporali, le stesse non hanno trovato spazio nella legge di conversione. La situazione attuale non è, perciò, particolarmente chiara, innanzitutto ai destinatari del beneficio, ma anche ai molti operatori ed operatrici che lavorano intorno alla liberazione anticipata.
Secondo il principio del tempus regit actum, la nuova normativa trova fin da subito applicazione. Anche prima, si direbbe, della necessaria messa a punto delle disposizioni del regolamento di esecuzione (che per altro meriterebbe una attualizzazione nel suo complesso, come ampiamente tentato, inascoltata, dalla Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario nel 2021). Non è più necessario, tra l’altro, chiedere il preventivo parere, in precedenza obbligatorio, al pubblico ministero della sede dell’ufficio di sorveglianza. Le Procure della Repubblica stanno emettendo ordini di esecuzione comprensivi del calcolo del “fine pena virtuale” soltanto in relazione alle pene da porre in esecuzione dall’entrata in vigore del decreto – legge, oppure quando occorre mettere mano ad un ordine già emesso, per qualche modifica, come ad esempio il sopravvenire di un ulteriore titolo. Ciò significa che la grandissima parte delle persone attualmente detenute in esecuzione pena non hanno ancora ricevuto, e forse mai riceveranno, un ordine di esecuzione con lo “specchietto” dei semestri di liberazione anticipata che possono ottenere, con relativa quantificazione del fine pena virtuale.
Rispetto a queste persone, perciò, sembra di poter dire che residui un interesse intrinseco ad avere ancora la pronuncia semestralizzata da parte del magistrato di sorveglianza, perché la nuova legge fa fronte al venir meno della possibilità di richiedere il beneficio quando si vuole, mentre si fornisce al condannato una chiara indicazione di che misura avranno via via le riduzioni pena che otterrà. Una situazione che non riguarda la grandissima parte di chi era in esecuzione penale all’entrata in vigore della legge.
Allo stato, i primi ordini di esecuzione emessi con il computo del fine pena virtuale non sono, in alcuni casi, esenti da profili critici. Il testo normativo sembra correttamente indicare che nel provvedimento debbano essere intanto contenuti certamente il fine pena reale al fianco di quello virtuale, ma anche le singole possibili detrazioni, e non dunque soltanto la sommatoria delle stesse. Il meccanismo di concessione della liberazione anticipata, infatti, prevede che l’interessato possa contare, giorno per giorno, ai fini dell’ammissibilità dei benefici penitenziari, non già di tutte le possibili detrazioni, ma soltanto di quelle per le quali ha già espiato la relativa pena. Appaiono quindi forieri di dubbi gli ordini di esecuzione che citano soltanto il fine pena virtuale “finale”, con il rischio che l’interessato ritenga di poter lucrare sin da subito un beneficio che occorre invece maturare via via.
Allo stesso modo il computo semestre per semestre fuga anche il rischio di una indicazione errata del fine pena virtuale “finale”, che deriva dal mero computo dei semestri astrattamente ottenibili (ad es.: tre anni di pena = sei semestri), perché in realtà la progressiva concessione delle riduzioni di pena da quarantacinque giorni ciascuna, determina una riduzione del fine pena che non consente il completamento di tutti i semestri astrattamente da eseguirsi (nello stesso esempio: con tre anni di pena possono completarsi soltanto cinque semestri).
Quanto agli uffici matricola degli istituti penitenziari, c’è da attendersi che l’amministrazione attui opportune modifiche, come già in qualche caso si è notato, rendendo visualizzabile in posizione giuridica entrambi i fine pena: reale e virtuale. Dove ciò non accade è infatti piuttosto grave il rischio che si faccia confusione e si tenga conto soltanto di quest’ultimo.
Una corretta informazione delle persone detenute appare una precondizione per evitare che le nuove disposizioni normative ingenerino dubbi e un profluvio di istanze inammissibili. Per il momento già iniziano a pervenire istanze volte ad ottenere dal magistrato di sorveglianza, o dall’ufficio di Procura, la concessione di tutti i semestri sino al fine pena, fraintendendo il senso della comunicazione del fine pena virtuale, e vi è il rischio di una molteplicità di istanze di beneficio penitenziario inammissibili, perché basate su computi erronei.
4. Il nuovo comma 9-bis dell’art. 656 cod. proc. pen.: la faticosa (infruttosa?) ricerca di una ratio. La legge di conversione ha introdotto, nell’art. 5 della legge, rubricato come “Interventi in materia di liberazione anticipata” un comma 9-bis all’art. 656 cod. proc. pen. La novella introduce la previsione secondo la quale il pubblico ministero, prima di emettere un ordine di esecuzione[4], trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza perché questi disponga la detenzione domiciliare in via provvisoria, fino a decisione del Tribunale di sorveglianza, in favore del condannato ultrasettantenne, ove la pena che questi deve espiare sia compresa tra due e quattro anni. La previsione non riguarda tuttavia i condannati per i delitti contenuti nell’art. 51 co. 3-bis cod. proc. pen. e per quelli compresi nell’art. 4-bis ord. penit.
L’interpretazione della nuova previsione non è ardua per la lettera del testo, ma per la difficoltà di comprendere quale obbiettivo il legislatore abbia in questo caso perseguito. Deve infatti ricordarsi che ordinariamente l’esecuzione delle condanne a pene non superiori ai quattro anni, ai sensi dell’art. 656 co. 5 cod. proc. pen., resta sospesa in attesa delle valutazioni della magistratura di sorveglianza. Nel caso che ci occupa, rispetto ad una tipologia di condannato specialmente fragile, quella degli ultrasettantenni, la modifica si rivela di fatto un irrigidimento, perché l’interessato, invece di attendere dalla libertà una pronuncia della sorveglianza che in ipotesi gli conceda la più favorevole misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, deve ora da subito espiare la propria pena in detenzione domiciliare, salvo l’attesa, verosimilmente piuttosto lunga, tenuto conto delle difficoltà in cui versano i Tribunali di sorveglianza, di una decisione sulla misura alternativa più ampia.
Alla sospensione di cui all’art. 656 co. 5 cod. proc. pen., non possono accedere i condannati per reati di 4-bis ord. penit., ma gli stessi sono esclusi anche dalla disposizione introdotta, nonché gli autori degli altri reati indicati nell’art. 656 co. 9 lett. a). Soltanto per questi ultimi (maltrattanti, autori di incendio boschivo o di atti persecutori di speciale gravità, …), dunque, la disposizione evita che si schiudano le porte del carcere ed introduce la possibilità di una immediata concessione di misura comunque meno gravosa di quest’ultimo. Si tratta però di numeri davvero esigui, considerata da un lato la tipologia di reati e dall’altro l’età dei suoi autori al momento dell’esecuzione penale.
5. Il nuovo comma 9-ter dell’art. 656 cod. proc. pen.: speciale attenzione alle condizioni di salute compromesse. La conversione in legge ha costituito l’occasione per l’introduzione di una ulteriore peculiare previsione, a mente della quale, ancor prima dell’emissione dell’ordine di esecuzione, il pubblico ministero trasmette al magistrato di sorveglianza gli atti perché disponga la detenzione domiciliare in via provvisoria, fino alla decisione del Tribunale di sorveglianza, nei confronti del condannato cui siano stati già concessi gli arresti domiciliari per gravissimi motivi di salute.
La novella consente dunque di evitare il carcere a quei soggetti che non avrebbero potuto beneficiare del meccanismo di cui all’art. 656 co. 10 cod. proc. pen. in ragione del fine pena residuo o della tipologia di delitti per i quali si è giunti a condanna, entrambi profili che, comprensibilmente rispetto alle gravissime condizioni di salute cui si ricollega la previsione, risultano recessivi.
Resta invece ancora una volta non affrontato lo spinoso tema del condannato in condizioni di salute gravi, di cui ci si avveda al momento dell’emissione di un ordine di esecuzione, con trasmissione (ai sensi dell’art. 108 reg. es. ord. penit.) al magistrato di sorveglianza affinché decida secondo l’art. 684 cod. proc. pen.
In questi casi non sempre l’ordine di esecuzione viene contemporaneamente sospeso in attesa della, pur urgente, pronuncia provvisoria, con conseguente “assaggio” di carcere nei confronti di un soggetto dalla salute in ipotesi compromessa.
6. Adempimenti gravosi in materia di misure di sicurezza detentive di tipo psichiatrico. All’interno dell’art. 10 della legge 112, destinato a contenere una miscellanea di interventi dalle finalità diverse (come deducibile dalla rubrica omnibus), si leggono alcune previsioni acceleratorie specialmente onerose, contenute nel nuovo art. 658-bis e poi in un comma 1-bis dell’art. 679 cod. proc. pen.
In sostanza si prevede che, quando è disposta in condanna una misura di sicurezza da eseguirsi in REMS, il pubblico ministero deve chiedere al magistrato di sorveglianza, senza ritardo, e comunque entro cinque giorni, la fissazione dell’udienza per gli accertamenti relativi all’attualità della pericolosità sociale ex art. 679.
In quest’ultima disposizione si legge come, su tale richiesta, il magistrato di sorveglianza debba provvedere alla fissazione dell’udienza senza ritardo, e comunque entro cinque giorni dalla richiesta medesima. La previsione lascia adito a dubbi interpretativi. È chiaro che il legislatore intende sollecitare la più rapida definizione del procedimento, e tuttavia il termine di almeno dieci giorni prima dell’udienza, indicato per l’avviso alle parti dall’art. 666 co. 3 cod. proc. pen., non appare venuto meno. Deve quindi ritenersi, affinché entrambe le disposizioni siano rispettate, che il termine oggi previsto dall’art. 679 co. 1-bis ord. penit., di natura comunque meramente ordinatoria, concerna la sola fissazione dell’udienza, la cui data non potrà che essere successiva ai cinque giorni, per consentire corretti avvisi alle parti.
Fino alla decisione, comunque, la novella prevede che permanga la misura di sicurezza provvisoria, applicata ai sensi dell’art. 312 cod. proc. pen., con computo del tempo trascorso a tutti gli effetti di legge. Si prevede, altresì, che il pubblico ministero possa richiedere al magistrato di sorveglianza che questi disponga una misura di sicurezza provvisoria, nelle more della decisione.
Per come accennato, si tratta di un congegno che grava procure e magistratura di sorveglianza di una serie di adempimenti urgenti che, tuttavia, corrono il rischio di scontrarsi, ad una prova di realtà, contro il noto problema di REMS che non dispongono di spazi disponibili per accogliere chi deve eseguire una misura di sicurezza detentiva psichiatrica e che, perciò, anche a fronte di una sollecita pronuncia, potrebbero non condurre al risultato sperato. La possibilità di disporre una misura di sicurezza in via provvisoria, non già disposta nel corso del processo di cognizione, per quanto – si direbbe – non solo quella detentiva, da parte del magistrato di sorveglianza, inaudita altera parte, non è per altro privo di criticità per la forte carenza di garanzie che ne deriva.
7. Una modifica all’affidamento in prova e i rischi di una coperta troppo corta. Nella legge di conversione (art. 10-bis) è stata prevista persino una modifica dell’art. 47 ord. penit., la disposizione che concerne l’affidamento in prova al servizio sociale, il fiore all’occhiello (secondo l’arcinota definizione di Bricola) dell’ordinamento penitenziario.
Vi si chiarisce che la ampia misura alternativa non debba essere concessa soltanto a chi disponga di opportunità di reinserimento connesse alla possibilità di svolgere una attività lavorativa, sia di tipo autonomo che dipendente, ma anche quando, in sostituzione, possa accedere ad un idoneo servizio di volontariato o ad attività di pubblica utilità, senza remunerazione, nelle forme e con le modalità di cui agli articoli 1, 2 e 4 del decreto del Ministro della Giustizia 26.03.2001, in quanto compatibili, nell’ambito di piani di attività predisposti entro il 31 gennaio di ogni anno, di concerto tra gli enti interessati, le direzioni penitenziarie e gli uffici per l’esecuzione penale esterna e comunicati al presidente del tribunale di sorveglianza territorialmente competente.
La giurisprudenza di legittimità già da tempo considera che ai fini della concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale non sia necessaria la sussistenza di un lavoro, ad esempio perché la persona non può svolgerlo per ragioni di età o di salute (cfr. cass. 1023/2018 e, più di recente, 14003/2023), ma anche quando il lavoro non sia altrimenti disponibile, potendo questo requisito essere surrogato da un'attività socialmente utile anche di tipo volontaristico (vd., già, cass. 18939/2013).
La novella, dunque, sotto questo profilo, sembra ricalcare spazi già percorsi, ed in effetti è esperienza quotidiana che, nel merito, vengano concessi affidamenti in prova a chi dimostri di potersi impegnare, o già si impegni, in strutturate esperienze di volontariato che, non di rado, costituiscono un’occasione di risocializzazione che può far da volano anche al reperimento successivo di opportunità lavorative.
Tuttavia, deve sottolinearsi come la speciale centratura su requisiti specifici che questi servizi dovrebbero avere, ed il riferimento a piani di attività predisposti annualmente, corrano il rischio di imbrigliare l’opzione surrogatoria in maglie più strette di quelle oggi in uso, con la conseguenza di inibire iniziative di parte volte alla costruzione di credibili percorsi di volontariato che non vi rientrino. D’altra parte i servizi sono ormai da tempo chiamati ad utilizzare il volontario e le iniziative di pubblica utilità a fronte di una molteplicità di istituti, tanto da aver saturato, in alcuni territori, l’offerta disponibile.
Si tratta comunque di un profilo interpretativo che occorre rimettere al prudente apprezzamento dei tribunali di sorveglianza, che ormai da mezzo secolo maneggiano uno strumento duttile e ricchissimo, come l’affidamento in prova al servizio sociale, facendo dell’individualizzazione dei verbali prescrittivi la miglior garanzia di misure effettivamente risocializzanti. Può in tal senso immaginarsi che si valorizzi una ratio dell’intervento legislativo come volto ad aprire nuove possibilità, sensibilizzando opportunamente i territori, e non, con effetto paradossale, a irrigidire i requisiti di accesso.
[1] Vd., in sede di audizione, M. RUOTOLO, Riflessioni sui possibili margini di intervento parlamentare in sede di conversione del decreto-legge 4 luglio 2024, n. 92 (decreto carcere). Appunti a prima lettura, in Sistema penale, 11.07.2024 e C. ORNANO, Audizione di M. Cristina Ornano sul D.L. 92/2024 "carcere sicuro" Commissione Giustizia del Senato 10 luglio 2024, in questa rivista, 15.07.2024. In dottrina anche M. PELISSERO, La pervicace volontà di non affrontare i nodi dell’emergenza carceraria, in Sistema penale, 18.07.2024 e F. FIORENTIN, Un impianto inadeguato agli obiettivi da rafforzare in sede di conversione in Guida al Diritto, 27.07.2024, pp. 92 ss.
[2] Ci si riferisce, in questa rivista, a F. GIANFILIPPI, Il decreto-legge 4 luglio 2024 n. 92 “Carcere sicuro” e le attese del mondo penitenziario, 10.07.2024.
[3] Si tratta di un rilievo già ampiamente sviluppato nell’audizione svolta dallo scrivente presso la Commissione Giustizia del Senato il 10.07.2024 nell’ambito dei lavori in vista della Conversione in legge del d.l. 92/2024, documentazione in www.senato.it.
[4] Insiste particolarmente su questo profilo, replicato anche nel nuovo co. 9-ter, come una vera e propria criticità di sistema F. FIORENTIN, Domiciliari a ultrasettantenni: necessari protocolli operativi. Le procedure di esecuzione, in corso di pubblicazione in Guida al Diritto, n. 32-33.
Brevi note sul caso Gazzoni
Un messaggio per gli studenti e le studentesse di giurisprudenza
di Gabriella Luccioli
Nella calura agostana si è sviluppato un vivace dibattito su alcuni quotidiani e su varie chat in ordine alle riflessioni esposte dal professor Gazzoni alla pagina 51 dell’ultima edizione del suo Manuale di Diritto Privato: a fronte delle forti accuse rivolte alla magistratura e dell'asprezza dei toni adottati dall'illustre accademico si pone l’interrogativo se sia preferibile stendere un velo di silenzio, condannando l’autore ad un inappellabile giudizio di irrilevanza ed evitando di apprestare un’ulteriore cassa di risonanza al suo pensiero, oppure formulare una critica serrata a quanto scritto, anche al fine di tentare di offrire ai destinatari del Manuale, e quindi soprattutto agli studenti, una visione più obiettiva, più equilibrata e più ponderata del lavoro dei giudici. Prevale infine questo secondo orientamento, in considerazione della oggettiva gravità del fatto che sono state inserite in un volume diretto alla formazione e alla maturazione degli studenti e dei futuri professionisti del diritto, inserendole nel paragrafo 3 del capitolo 4, concernente l’interpretazione della norma giuridica, considerazioni prive di ogni valenza scientifica e impregnate di pregiudizi, che hanno suscitato la giusta reazione della Prima Presidente della Corte di Cassazione e del Presidente dell’ANM.
Da molti vengono ricordate a sua discolpa le peculiarità caratteriali del docente, la risalente propensione a rivolgere critiche feroci ad ogni categoria di giuristi, sinanche a singoli esponenti del mondo accademico: in effetti la lettura di varie note a sentenza al vetriolo e delle precedenti edizioni del Manuale lascia trasparire una tendenza del loro autore sempre più marcata nel tempo ad un linguaggio aggressivo ed insofferente, specie con riferimento a determinate tematiche, ad accuse di incompetenza rivolte ai vari operatori del diritto, in passato confinate nella parte introduttiva di detto Manuale. Non c'è dunque da meravigliarsi per la durezza delle affermazioni contenute nella pagina in commento, ma è indubitabile che tali atteggiamenti o debolezze del professor Gazzoni, spesso trasmodanti in irridente avversione personale, non possono giustificare o comunque incidere sul giudizio di gravità dell’accaduto.
Né può invocarsi il principio di libertà dell’insegnamento sancito dall’art. 33 Cost. e dall’art. 13 della Carta di Nizza, che costituisce un principio cardine anche nel panorama europeo ed internazionale e che secondo l'opinione diffusa tra i costituzionalisti si pone a tutela non solo o non tanto della libertà individuale dei docenti, ma soprattutto a vantaggio dello stesso insegnamento e dei suoi destinatari:[1] ed invero tale libertà non è senza limiti, ma va necessariamente bilanciata con la tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti e con il rispetto delle istituzioni dello Stato. La doverosità di tale bilanciamento chiama in gioco la responsabilità del docente che discende dal vincolo educativo che lo lega ai suoi discepoli.
Nel caso in esame il limite posto dal rispetto di interessi diversi meritevoli di tutela è stato ampiamente superato: non ha nulla a che vedere con il compito del cattedratico di costruzione e trasmissione del sapere la diffusione di opinioni personali dirette ad incidere pesantemente sulla fiducia dei discenti nella giurisdizione, e quindi sul funzionamento del sistema.
È importante in primo luogo ricordare agli studenti che mentre è del tutto legittimo criticare anche in modo serrato le sentenze, in uno spirito di civile e feconda polemica, non è corretto rivolgere i propri strali ai giudici che quelle sentenze hanno emesso, perché ogni decisione non appartiene all’estensore o al presidente del Collegio, ma è una pronuncia dell’Ufficio di riferimento, come la sua stessa intestazione ben pone in evidenza.
Il professor Gazzoni si compiace di lanciare molti schizzi di fango sulla magistratura, con il risultato di screditarne l’immagine e minarne la credibilità, inserendosi disinvoltamente nella battaglia in atto di varie forze politiche contro l’ordine giudiziario. L’immagine che egli consegna ai suoi discepoli è quella di una magistratura arrogante, presuntuosa, psicologicamente instabile, legibus soluta, incapace di coltivare il dovere dell’umiltà. Difficile immaginare di peggio, ricordando anche le parole di Calamandrei: “Signori giudici, il vostro potere è così grande che l’umiltà per voi è il prezzo dovuto perché siate legittimati ad esercitarlo”.
I magistrati sono additati come “non di rado” psicolabili, con una valutazione apodittica e talmente generica, nonostante la chiamata ad adiuvandum di un illustre giurista, da screditare chi la sostiene. La maggioranza di essi sono donne (vero, le donne hanno superato il 56%), e giudicano “non di rado” in modo eccellente, ma dimostrano un equilibrio molto instabile nei giudizi di merito in materia di famiglia e di figli: anche qui è evidente, pur nel vago riferimento alla materia del diritto di famiglia e ai giudizi di merito, la genericità dell’accusa, così come è evidente la doppia offesa alle donne, in quanto appartenenti alla categoria ed in quanto donne. In questo approccio la teoria della differenza, in cui le magistrate credono da tempo con convinzione rivendicando la specificità della propria appartenenza di genere, si sostanzia in un giudizio di instabilità al quadrato.
Affiorano così i tanti pregiudizi e stereotipi che hanno accompagnato le donne in magistratura e che hanno reso impervio il loro percorso per ottenere il pieno riconoscimento della loro professionalità e competenza da parte dei colleghi, del foro e dei cittadini. Affiora ancora alla memoria il dibattito in seno all’Assemblea Costituente, nel quale emerse con chiarezza l’atteggiamento di sufficienza, talvolta di insofferenza e di arroganza, della grande maggioranza dei costituenti nei confronti dell’accesso delle donne agli uffici pubblici ancora preclusi, e segnatamente alle funzioni giurisdizionali. Le opinioni da molti di loro sostenute erano impregnate di pregiudizi e triti luoghi comuni fortemente ancorati alla cultura del passato, con i quali dovette confrontarsi lo straordinario impegno profuso dalle poche donne presenti nella Costituente. È sconcertante che di tali visioni ci si debba ancora occupare, a quasi 60 anni dall’ingresso delle donne in magistratura: si tratta di un’onda lunga di ritorno che spinge all’indietro, tentando di cancellare diritti e valori che sembravano definitivamente acquisiti.
Coerentemente il professor Gazzoni si dichiara a favore della sottoposizione a visita psichiatrica degli aspiranti magistrati sollecitata a suo tempo da Francesco Cossiga, che ha in qualche misura ispirato la recente introduzione con una legge dello Stato del colloquio psicoattitudinale, sulla cui opportunità non è qui il caso di soffermarsi.
E ancora, i magistrati sono posseduti da quella hybris che li fa sentire superiori alla legge, a livello di padreterni, e che li induce ad imporre la propria visione del mondo. Un’accusa siffatta esce dalla genericità in forza del riferimento a quelle sentenze e a quei giudici che hanno deciso in materia di fine vita. Soccorre qui il ricordo di ciò che scrisse Gazzoni a commento della sentenza Englaro nel famoso articolo Sancho Panza in Cassazione[2], in cui definì quella decisione la peggiore tra le molte da lui lette negli anni in materia di persona, la più lontana da una decisione di diritto, e soprattutto accusò il Collegio di essersi eretto a legislatore, emettendo una pronuncia per un verso contra legem, per altro verso legibus soluta, imponendo il proprio punto di vista etico in palese violazione dell’art. 101 Cost., violando altresì il principio fondamentale in uno Stato democratico della divisione dei poteri, con l’usurpazione di quello legislativo, nonché il principio di eguaglianza con il dettare una legge ad personam.
Eppure i due conflitti di attribuzione sollevati poco dopo da Camera e Senato furono dichiarati inammissibili dalla Corte Costituzionale con ordinanza n. 334 del 2008, nella quale la Consulta escluse la sussistenza di indici atti a dimostrare che i giudici avessero utilizzato la decisione come mero schema formale per esercitare funzioni di produzione normativa o per menomare l’esercizio del potere legislativo.
Nella pagina del Manuale in esame il rapido riferimento alla legge n. 219 del 2017 in materia di consenso informato appare unicamente diretto a sostenere l’illegittimità di una decisione emessa prima della sua entrata in vigore, mentre si omette di rilevare che detta legge ha interamente recepito i principi dettati dalla sentenza Englaro.
Negli stessi termini il professore ebbe a suo tempo a commentare il decreto del Tribunale di Modena del 5 novembre 2008 sempre in materia di trattamento di fine vita, definito come “espressione, più che di un sereno e umile esercizio della funzione giurisdizionale, di una vera e propria crociata condotta in nome di una sorta di religione laica. Il giudice si è così trasformato nel missionario di una causa, basata su un valore, contro altri valori”.[3]
Ed ancora, il tema del reclutamento e della progressione in carriera dei magistrati, oggetto di un infinito dibattito e di iniziative legislative anche recenti e certamente meritevole di ulteriore riflessione, viene qui affrontato con poche battute in chiave esclusivamente denigratoria della categoria.
Affiora insomma da quella pagina un’ideologia oscurantista e cattivista che certamente non favorisce il dialogo tra accademia e magistratura, ma alimenta il conflitto tra operatori del diritto e indebolisce le istituzioni. E spiace constatare che questa esigenza di una feconda messa in campo di punti di vista diversi e di rispetto non formale tra le istituzioni, questa percezione di appartenenza alla medesima comunità scientifica, non sono minimamente riscontrabili nei due ultimi lunghi scritti in replica del professor Gazzoni[4], arroccati caparbiamente ed unicamente nella difesa del proprio pensiero.
Ad una tale dimostrazione di faziosità, nella sua abissale lontananza da quella cultura del dialogo che dovrebbe ispirare il rapporto tra università e giurisdizione, è necessario opporre una prospettiva diversa, aperta ed inclusiva, che aiuti gli studenti ad orientarsi in un panorama ordinamentale delicato e complesso, li avvicini senza pregiudizi alla giurisprudenza nel suo farsi diritto vivente e fornisca loro gli strumenti per definire correttamente il ruolo del giudice come garante dei diritti dei cittadini nello Stato costituzionale. Una prospettiva che solleciti coloro che intendono avviarsi alla professione del magistrato a guardare con fiducia al mondo della giurisdizione, avendo ben presente che questo lavoro richiede entusiasmo, una forte vocazione ed una tensione morale che si sostanzia nello spirito di servizio verso la comunità, in un continuo scambio di idee e di sentimenti in una società in continua evoluzione.
Una prospettiva che al tempo stesso incoraggi le studentesse impegnate a costruire il loro futuro di giuriste a credere in se stesse, ad avere piena consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri ed a superare le residue discriminazioni sul piano normativo e soprattutto su quello culturale, abbattendo archetipi resistenti al cambiamento e facendo emergere con forza la dignità e la sensibilità delle donne. [5]
[1]V. per tutti POTOTSCHNIG, voce Insegnamento (libertà di), in Enc. Dir., p. 721
[2]In Il diritto di famiglia e delle persone, 2018, p. 107.
[3] Così in Continua la crociata parametafisica dei giudici-missionari della c.d. “morte dignitosa”, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2009, p. 288.
[4]Per fatto personale, in Persona & Danno, 29 agosto 2024.; Per fatto personale. Supplemento, in Persona & Danno, 3 settembre 2024.
[5] Sia consentito il riferimento a Consigli alle giovani magistrate. Intervista di Paola Filippi a Gabriella Luccioli, in Giustizia insieme, 10 marzo 2024.
Immagine: Winslow Homer, La scuola di campagna, olio su tela, 1871, Saint Louis Art Museum.
Il tempo del riesame amministrativo (Nota a Cons. Stato, Sez. VI, 27 febbraio 2024, n. 1926)
di Cristina Fragomeni
Sommario: 1. Il quadro fattuale – 2. Il potere di autotutela della pubblica amministrazione. Evoluzione concettuale – 3. Dalla valorizzazione del fattore tempo al fenomeno, diametralmente opposto, della sua mitigazione. L’iter espositivo percorso dal Consiglio di Stato – 4. Rilievi conclusivi.
1. Il quadro fattuale.
La Sesta Sezione del Consiglio di Stato si pronuncia sulla questione del termine per l’annullamento in sede di autotutela.
Nella fattispecie in disamina, l’odierna appellante è titolare di un permesso di costruire conseguito in data 26 aprile 2012, «per la realizzazione di un sottotetto in legno/ferro ventilato con copertura a falde e sovrastanti manto di tegole e pannelli fotovoltaici» su fabbricato. Con provvedimento del 30 marzo 2018, il Comune di Aversa dispone l’annullamento d’ufficio del permesso; con successivo provvedimento del 27 dicembre 2019, ingiunge all’appellante la demolizione delle costruzioni abusive dapprima assentite nonché il ripristino dello stato dei luoghi, nel termine di novanta giorni decorrente dalla notificazione. Avverso i prefati provvedimenti l’appellante insorge innanzi al TAR per la Campania, Sezione Ottava.
Il giudice di prime cure respinge il gravame con sentenza n. 6136 del 15 dicembre 2020, impugnata dinanzi al Consiglio di Stato. In tale sede, l’appellante lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 21 nonies, l. 7 agosto 1990, n. 241 e 6, l. 7 agosto 2015, n. 124, avuto peculiare riguardo alla perimetrazione, operata da quest’ultimo, del termine indeterminato prima fissato dalla norma, con definizione in diciotto mesi dell’arco temporale per l’esercizio del potere amministrativo, nonché agli ulteriori presupposti richiesti dalla disciplina richiamata ai fini dell’annullamento d’ufficio di un provvedimento amministrativo. Il Comune di Aversa controdeduce alle avverse doglianze insistendo per la reiezione dell’appello.
2. Il potere di autotutela della pubblica amministrazione. Evoluzione concettuale
Definiti i contorni della vicenda, si ritiene che il relativo approfondimento non possa prescindere dall’evocazione, sebbene in prospettiva di sintesi, delle autorevoli elaborazioni dottrinali in materia di autotutela, le quali si posizionano in un rapporto di propedeuticità rispetto al tema, in tale sede centrale, del termine per l’annullamento d’ufficio. Tanto si premette anche sul presupposto che quella dell’autotutela costituisce, anzitutto, una problematica di teoria generale dell’ordinamento, «che richiede di chiarire se debba esser riservato ed a chi debba esser riservato l’uso della forza»[1]. In tal senso, Benvenuti, che per primo ha discusso di autotutela decisoria all’interno dei suoi lavori[2], ha definito la stessa come il potere della pubblica amministrazione di «farsi ragione da sé», in occasione della rimozione degli ostacoli frapposti alla realizzazione dell’interesse pubblico, nonché come la capacità dell’Amministrazione medesima di dipanare i conflitti, potenziali ovvero attuali, deflagrati tra i propri atti e i destinatari dell’esercizio del potere, al di fuori dell’intervento dell’autorità giurisdizionale[3].
Si assume, dunque, l’avvenuta integrazione di una «situazione di contrasto», cagionata dall’invalidità dell’atto amministrativo, tra interessato e pubblica amministrazione, la quale ultima è consapevole del fatto che ogni anomalia afferente a tale rapporto rappresenta, prima di tutto, un contrasto con il pubblico interesse alla cui cura essa stessa è preposta[4]. In coerenza con la visione esposta, si è parlato di «retrattabilità» in quanto connotato del regime di efficacia del provvedimento amministrativo[5].
L’esercizio del potere di autotutela decisoria si sostanzia nell’adozione di provvedimenti di secondo grado, aventi ad oggetto provvedimenti amministrativi precedenti ovvero fatti equipollenti. Entro i confini dell’autotutela decisoria, alla stregua di un criterio funzionale, si discerne, dunque, tra poteri di riesame, che investono il regime di validità di provvedimenti ovvero di fatti equipollenti anteriori, e poteri di revisione, con ripercussioni sui profili dell’efficacia e dell’esecuzione di atti precedenti[6].
Parte della dottrina, orientandosi in senso differente, ha rimarcato l’inferenza della legittimazione ad agire della pubblica amministrazione in sede di autotutela dalla medesimezza del potere primario dispiegato, reputando vani i tentativi tesi all’individuazione di un autonomo fondamento del potere amministrativo di riconsiderazione unilaterale degli atti[7]. Lungo tale direttrice si ascrive, di conseguenza, l’accortezza lessicale che accorda predilezione al termine «riesame» anziché al termine «autotutela», dai contorni maggiormente impropri. Sulla scorta di tale indirizzo, il potere amministrativo assorbirebbe i connotati dell’inesauribilità, con annessa legittimazione della pubblica amministrazione ad esercitarlo in una determinata direzione nonché in quella opposta[8], secondo tempistiche scandite, nel perseguimento del fine precipuo di tutela dell’interesse pubblico[9].
Le posizioni riportate convergono nel riconoscere in qualità di fondamento di un potere così strutturato la «supremazia» della pubblica amministrazione ovvero, suo corollario, il carattere autoritativo degli atti amministrativi[10].
Tuttavia, la delineata impostazione non è stata trasposta all’interno della Carta costituzionale; anzi, sarebbe stata proprio la Costituzione ad introdurre, con il principio di tipicità, limiti all’esercizio del potere amministrativo[11].
L’avvento della Costituzione ha innescato un cambiamento nei termini del dibattito, stimolando la focalizzazione delle produzioni dottrinali in materia sul versante della conciliabilità con il testo costituzionale e, in particolare, con il principio di legalità[12], con conseguente formulazione della conclusione secondo cui il potere di riesame deve essere attribuito ai sensi della legge[13].
Con la legge 11 febbraio 2005, n. 15 si immettono nel corpo della legge n. 241/1990 gli artt. 21 quinquies e 21 nonies contenenti, rispettivamente, la disciplina della revoca e dell’annullamento d’ufficio. L’innovazione in tal modo operata ha incentivato l’approdo ad un regime nel quale la consumazione del potere amministrativo si svolgerebbe sotto l’influsso di una previsione legislativa[14], la cui ratio alberga nella certezza del diritto, potenzialmente in grado di restituire razionalità complessiva alla condotta amministrativa[15].
Invero, l’art. 21 nonies, nella sua originaria enunciazione, tipizzava in termini piuttosto lati i presupposti per l’esercizio del potere di riesame, salva la previsione, successivamente inserita per effetto dell’art. 6, l. n. 124/2015 (innovazione richiamata dall’appellante) nel testo dello stesso art. 21 nonies[16], per cui l’annullamento dei provvedimenti di autorizzazione e attribuzione di vantaggi economici deve intervenire entro diciotto mesi dalla loro adozione (ora dodici mesi)[17], in tal modo tracciando una «presunzione di non ragionevolezza del termine» spirato, con sbarramento dell’azione di autotutela[18]. Sicché è possibile scorgere l’ispirazione della novella in discorso ad una finalità, oltre che semplificatoria, di tutela del privato dall’irragionevolezza del tempo dell’azione amministrativa[19].
Più in generale, la fissazione di un termine circostanziato per l’esercizio del potere amministrativo si pone in netta antitesi rispetto alla concezione del carattere immanente ed inesauribile del potere medesimo, tradizionalmente collocata alla base dell’istituto dell’autotutela, generando punti di ricaduta sulla natura di quest’ultima, così rimodellata come un potere non più generale, bensì assegnato all’Amministrazione in via eccezionale ed esplicabile in ossequio ai tempi e alle modalità di cui alla legge[20]. Dalle modifiche normative in materia di annullamento d’ufficio del provvedimento emergerebbe, pertanto, un «disegno sistematico» che affonda le origini in due assunti: l’esigenza della precisazione ad opera del legislatore di presupposti e limiti per l’esercizio del potere di autotutela da parte della pubblica amministrazione; la dissipazione del potere di autotutela decisoria che non sia esercitato nell’osservanza di un termine definito, salvo differente previsione[21].
3. Dalla valorizzazione del fattore tempo al fenomeno, diametralmente opposto, della sua mitigazione. L’iter espositivo percorso dal Consiglio di Stato.
Le considerazioni innanzi esposte hanno consentito di gettare luce sul fenomeno della valorizzazione del fattore tempo, il quale, oltre che a livello costituzionale, come si ricorderà, si è registrato anche al di fuori dei confini nazionali: si pensi all’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
La genesi della predetta valorizzazione è stata rintracciata nell’avvio di un processo di rivalutazione del privato, non più suddito, ma cittadino titolare di situazioni giuridiche soggettive e di pretese di partecipazione attiva all’esercizio del potere[22]; processo di rivalutazione che, a sua volta, ha implicato il ripensamento dell’intero rapporto amministrativo[23].
Circoscrivendo la riflessione alla normativa rilevante nella vicenda in rassegna, la demarcazione del termine ragionevole per l’annullamento d’ufficio, operata con la cosiddetta legge Madia, avrebbe introdotto un «nuovo paradigma» nella relazione tra cittadino e Amministrazione, sancendo limiti all’esercizio del potere della seconda per la tutela delle situazioni giuridiche soggettive facenti capo al primo[24], con una spiccata tensione, oltre che alla stabilizzazione del rapporto amministrativo, alla responsabilizzazione della pubblica amministrazione. Il contesto ricostruito trae linfa anche dai principi di buona fede e collaborazione che devono informare, come risaputo, i rapporti tra cittadino e Amministrazione.
A tenore dell’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, così come novellato dalla legge sopra menzionata, la pubblica amministrazione può annullare ex officio il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’art. 21 octies, fatta salva la previsione di cui all’art. 21 octies, comma 2, al ricorrere di ragioni di interesse pubblico, nell’osservanza di un termine ragionevole che, quanto all’epoca di inquadramento dei fatti della controversia in esame, non può superare il limite di diciotto mesi, considerati gli interessi di destinatari e controinteressati.
Dal raffronto tra i presupposti di cui all’art. 21 nonies e il provvedimento di autotutela gravato[25],risulta di immediata rilevazione l’elusione dello spazio temporale in cui avrebbe dovuto materializzarsi l’iniziativa di rimozione del permesso di costruire: il limite di diciotto mesi, per gli atti in discorso, decorre dal momento di entrata in vigore della novella legislativa; nel caso all’esame, a rigore, essendo trascorsi oltre trentuno mesi dal dies a quo, l’Amministrazione ha abbondantemente superato il termine perentorio stabilito dal legislatore.
Nonostante tale evidente scollatura dell’agire amministrativo rispetto alla trama normativa di riferimento, il giudice di primo grado ha, a suo tempo, concluso per il rigetto del ricorso introduttivo e dei motivi aggiunti, rinvenendo un argomento decisivo in tal senso nella falsa rappresentazione dello stato effettivo dei luoghi da cui avrebbe tratto alimento il provvedimento di primo grado: il ricorrere delle relative circostanze, infatti, oltre a rendere superflua l’esternazione di qualsivoglia ragione di interesse pubblico[26], determina la non operabilità del termine per l’annullamento d’ufficio[27].
La delimitazione temporale del potere di annullare d’ufficio, come sottolineato, è giustificata da un affidamento che esiste esclusivamente nelle ipotesi di buona fede[28]; in mancanza, può operare l’eccezione di cui al comma 2 bis dell’art. 21 nonies, anch’esso introdotto dalla l. n. 124/2015[29]. Più puntualmente, per il caso di provvedimenti ottenuti in funzione di una falsa rappresentazione dei fatti ovvero di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, è prevista una dequotazione del termine, che perde l’attitudine ad arginare l’intervento in autotutela della pubblica amministrazione, difettando un affidamento legittimo in capo al privato da preservare.
La giurisprudenza, approfondendo, ha riferito all’art. 21 nonies un’ermeneutica che consente di trascendere il termine per l’annullamento d’ufficio, oltre che nell’ipotesi in cui la falsa attestazione in ordine ai presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo sia discesa da una condotta di falsificazione penalmente rilevante (nel qual caso soltanto si renderà necessario l’accertamento definitivo in sede penale), anche laddove, come sarebbe avvenuto nel caso di specie a giudizio del TAR, l’erroneità dei predetti presupposti sia addebitabile, a titolo di dolo, alla parte. In tal caso, attesa l’inesatta prospettazione di parte delle circostanze giuridiche e fattuali prodotte a suffragio dell’emissione dell’atto illegittimo a sé favorevole, logicamente preclusiva della profilazione di una posizione di affidamento tutelabile, sarebbe irragionevole pretendere dall’Amministrazione l’osservanza della tempistica incalzante di cui alla normativa più volte richiamata; conseguentemente, si dovrà esclusivamente aderire al canone di ragionevolezza per soppesare e risolvere il conflitto tra gli interessi in gioco[30].
Il carattere non necessario dell’accertamento con sentenza penale passata in giudicato limitatamente alle false rappresentazioni dei fatti, come ricordato dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento, si pone in armonia con il tenore letterale del comma 2 bis dell’art. 21 nonies, che, impiegando la congiunzione disgiuntiva «o», configura due distinte categorie provvedimentali che legittimano l’Amministrazione ad esercitare il potere di annullamento ex officio anche decorso il termine previsto, esigendo esclusivamente per le dichiarazioni sostitutive false l’accertamento con sentenza avente autorità di cosa giudicata[31].
Re melius perpensa, il tracciato ordito normativo e giurisprudenziale, come specificato dal Consiglio di Stato, non si attaglia al caso di specie. La considerazione, evidenziata dal Consiglio di Stato, che presenta efficacia dirimente è la seguente: il differimento del termine iniziale per l’annullamento d’ufficio deve essere causato dalla impossibilità per la pubblica amministrazione di espletare un’istruttoria completa, nell’ambito del procedimento di primo grado, sulla spettanza del bene della vita, impossibilità eziologicamente riconducibile alla condotta dell’istante.
Nella vicenda in esame, l’Amministrazione non ha concretamente provveduto né a rappresentare la presenza di dichiarazioni false acclarate con sentenza penale passata in giudicato né a provare la sussistenza di una falsa rappresentazione dei fatti, disattendendo l’onere motivazionale su di essa gravante di documentare la non veritiera prospettazione di parte.
Vi è di più. Le ragioni sottese alla rimozione del titolo edilizio illegittimamente rilasciato in prime cure, che si compendiano nella difformità dello stato progettuale dallo strumento urbanistico, avrebbero dovuto nonché potuto essere apprezzate nell’ambito della fase istruttoria del procedimento amministrativo preordinato al relativo rilascio, escludendosi, per tale via, l’imputabilità alla condotta del privato della impossibilità per l’Amministrazione di eseguire una compiuta istruttoria. Nella fattispecie controversa, insomma, l’Amministrazione comunale ha omesso di dedurre, nella opportuna sede istruttoria, non ricorrendo alcun ostacolo in tale direzione, le circostanze ed i fatti funzionali alla corretta deliberazione sull’istanza presentata dal privato. La stessa mancata precisazione all’interno degli elaborati progettuali dell’altezza dell’edificio, argomenta il Consiglio di Stato, non poteva escludere il dovere dell’Amministrazione di condurre un’accurata istruttoria ai fini del rilascio del permesso di costruire.
Tirando le fila dell’analisi svolta, nel giudizio del Collegio, l’istruttoria prodromica all’emanazione del permesso di costruire presenta lacune addebitabili all’Amministrazione che si ripercuotono sul successivo segmento procedimentale dell’autotutela, occludendo la possibilità di far valere una falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato, peraltro non provata dall’Ente appellato.
In carenza dei presupposti per l’applicabilità della deroga di cui al comma 2 bis dell’art. 21 nonies, rimane fermo l’obbligo di osservare il termine per l’annullamento d’ufficio. In definitiva, una volta assentito l’intervento, la caducazione del permesso di costruire avrebbe dovuto disporsi nel rispetto del termine di diciotto mesi ratione temporis vigente.
Sulla ponderazione degli interessi in gioco, ancorché l’interesse pubblico al corretto assetto urbanistico-edilizio del territorio possa assumersi in re ipsa[32], un ulteriore profilo di illegittimità del provvedimento di secondo grado avversato, nel giudizio del Consiglio di Stato, involge il presupposto normativo del bilanciamento degli interessi di destinatari e controinteressati, nella fattispecie pretermesso.
Il rilievo di tale ultimo presupposto, anch’esso orientato alla protezione dell’affidamento, è indiscutibile, tanto da promuovere, a parere di chi scrive, una connotazione dell’istituto dell’autotutela in senso garantistico[33], nel quadro della conformazione dell’agere amministrativo alla cornice storica e fattuale in cui si inseriscono, unitamente al provvedimento amministrativo di primo grado[34], le situazioni giuridiche soggettive scaturenti dallo stesso provvedimento e pregiudicabili per effetto dell’esercizio del potere di riesame (o viceversa, se si aderisce all’angolo prospettico del controinteressato)[35].
4. Rilievi conclusivi.
Alla luce della decisione assunta dal Consiglio di Stato a definizione della controversia sottoposta alla propria cognizione, può affermarsi che le questioni in essa scrutinate hanno riguardato:
a) il potere di autotutela (recte, i presupposti per il suo corretto esercizio);
b) alla radice della controversia, la decisività della conduzione da parte della pubblica amministrazione di un’istruttoria congrua rispetto agli scopi perseguiti[36].
Quanto al primo punto, sulla riforma Madia in materia di annullamento in autotutela sono scorsi fiumi di inchiostro e qualche spunto si è tentato di fornire nei paragrafi che precedono[37].
Mentre, su un piano più generale, merita in questa sede rilevare che sull’approccio al tema del riesame degli atti amministrativi ha notevolmente inciso l’evoluzione socioeconomica nonché quella giuridica, determinando una graduale riduzione delle ipotesi di autotutela doverosa previste dalla legge[38],nell’obiettivo di «valorizzare la tempestività e completezza dell’istruttoria delle domande dei privati all’atto della loro presentazione, in una visione necessariamente responsabilizzante delle Amministrazioni pubbliche». Atteso il processo di dequotazione che ha interessato il termine ragionevole per l’annullamento d’ufficio, all’«autotutela doverosa totale» si è affiancata la categoria dell’«autotutela doverosa parziale», sotto cui è sussumibile l’esaminata previsione di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, l. n. 241/1990, nella misura in cui permette alla pubblica amministrazione di esercitare il potere corrispondente sine die, senza attenersi al vincolo temporale elaborato dal legislatore.
Tanto chiarito, in fase di chiusura, appare opportuno porre l’accento sul carattere impreteribile rivestito dal corretto svolgimento dell’istruttoria procedimentale, svolgimento che, osservato attraverso la lente dei fatti esaminati, è risultato determinante ai fini della soccombenza dell’Amministrazione appellata nel contenzioso in oggetto, cagionando la permanenza di quell’asimmetria informativa che la stessa fase istruttoria è deputata a minimizzare[39]. Il tutto ancor prima della riscontrata (in sede di appello) omessa dimostrazione della falsa rappresentazione dei fatti, asseritamente sottostante al rilascio del permesso di costruire, che ha implicato l’inapplicabilità della deroga codificata dal comma 2 bis dell’art. 21 nonies e la riviviscenza del termine di diciotto mesi; termine nella fattispecie già decorso, con annessa trasformazione dell’affidamento in fattore ostativo[40].
[1] Sul punto, si veda F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), in Federalismi.it, 2015, 20, 6.
[2] F. Benvenuti, Scritti giuridici, 1959; Id., (voce) Autotutela (Dir. Amm.), in Enc. dir., vol. IV, Milano, 1959, 537.
[3] G. Coraggio, Autotutela (Dir. Amm.), in Enc. Giur. Treccani (ad vocem), Roma, 1989.
[4] F. Benvenuti, (voce) Autotutela (Dir. Amm..), cit., 537 ss.
[5] M.S. Giannini, (voce) Atto amministrativo, in Enc. dir., VI, Milano, 1959, 187 - 193.
[6] E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2020, 554.
[7] G. Corso, L’efficacia del provvedimento amministrativo, Milano, 1969; Autotutela (Dir. Amm.), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, 2006, 609 ss.
[8] G. Corso, L’efficacia del provvedimento amministrativo, cit., 337; G. Coraggio, (voce) Annullamento d’ufficio degli atti amministrativi, in Enc. giur., Treccani, 1988.
[9] Sul punto, sia consentito rinviare a C. Fragomeni, Effettività della tutela giurisdizionale e riedizione del potere amministrativo, in Il diritto dell’economia, 2023, 2, 237 ss.
[10] Si sono riportati degli «schemi concettuali» impiegati in dottrina per descrivere il fenomeno dell’inesauribilità del potere, richiamati da M. Trimarchi, Decisione amministrativa di secondo grado ed esaurimento del potere, in P.A. Persona e Amministrazione, 2017, 1, 191 - 192.
[11] Si è esclusa, in ossequio al dettato costituzionale, la riconduzione all’Amministrazione in quanto entità di una «preminente dignità nei confronti degli altri soggetti»; tale preminenza dovrebbe propriamente attribuirsi ai singoli comportamenti della pubblica amministrazione, regolati dall’ordinamento giuridico, estrinsecazioni di una potestà attribuita dall’esterno ed esercitata in «forme tipiche». In tal senso, M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 2000, 187.
[12] Sul punto, a cagion d’esempio, è stata evidenziata l’incomprensibilità della ragione per cui il principio di legalità debba comportare il riconoscimento alla pubblica amministrazione di una peculiare «autorità» nel rilevare l’illegittimità di un atto in precedenza ritenuto legittimo. Si veda, in tal senso, G. Falcon, Questioni sulla validità e sull’efficacia del provvedimento amministrativo nel tempo, in Dir. amm., 2003, 1 ss.
[13] G. Corso, L’efficacia del provvedimento amministrativo, cit., 206 ss - 337.
[14] In senso difforme, S. Tuccillo, Contributo allo studio della funzione amministrativa come dovere, Napoli, 2016, 178, che riconosce il carattere comunque inesauribile conservato dal potere, in ragione dei caratteri della funzione.
[15] M. Trimarchi, Decisione amministrativa di secondo grado ed esaurimento del potere, cit., 202 ss.
[16] In una visione d’insieme, si è osservato che il citato art. 6, in controtendenza rispetto alla maggior parte degli interventi di riforma, non contiene enunciazioni di principio, ma introduce disposizioni, in apparenza disorganiche, volte a rinnovare profondamente l’istituto dell’autotutela amministrativa. In tal senso, F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), cit., 4.
[17] In dottrina, si è sostenuto che il riferimento normativo ai provvedimenti di autorizzazione e attribuzione di vantaggi economici possa essere inteso come comprensivo della complessità dei provvedimenti favorevoli al privato. In tal senso, M. Macchia, La riforma della pubblica Amministrazione. Sui poteri di autotutela: una riforma in senso giustiziale, in Giorn. dir. amm., 2015, 5, 621 ss.
[18] C. Contessa, L’autotutela amministrativa all’indomani della ‘legge Madia’, in www.giustizia-amministrativa.it, 2018, 4, 12.
[19] G. B. Mattarella, La riforma della pubblica amministrazione. Il contesto e gli obiettivi della riforma, in Giorn. dir.
amm., 2015, 621 ss. Ad una logica affine aderisce l’art. 2 della legge n. 241/1990, instaurando una connessione tra la doverosità dell’azione amministrativa, da un lato, e l’obbligo di provvedere nell’osservanza del termine, dall’altro, pena il profilarsi di un regime di responsabilità in capo alla pubblica amministrazione per il cosiddetto danno da ritardo, ai sensi art. 2 bis della stessa legge. In tal senso, l’art. 2 sancisce il principio di tempestività, estrinsecazione del principio di certezza dell’azione amministrativa. Su tale ultimo punto, L. Salvemini, LA P.A. tra silenzio e discrezionalità nella tutela degli interessi ambientali La discrezionalità amministrativa: un parametro per valutare la legittimità del silenzio assenso?, in dirittifondamentali.it, 2020, 2, 732.
[20] F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), cit., 5.
[21] In tal senso, M. Trimarchi, L’inesauribilità del potere amministrativo. Profili critici, Napoli, 2018; F. Francario, Riesercizio del potere amministrativo e stabilità degli effetti giuridici, in Federalismi.it, 2017, 8, 29.
[22] E. Liberali, Potere amministrativo, tempo e consumazione: riflessioni a margine di Cons. Stato, sez. VI – 19 gennaio 2021, n. 584, in www.ildirittoamministrativo.it.
[23] Resta fermo il carattere poliforme della relazione tra Amministrazione e amministrato, la quale «dipende dalla trama normativa di riferimento, nonché dagli interessi sostanziali in gioco». Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 19 gennaio 2021, n. 584.
[24] Cfr. Cons. Stato, Commissione Speciale, 30 marzo 2016, n. 839. In termini diversi, a parere della Commissione Speciale: «è possibile affermare che la legge n. 124, con la novella all’art. 21-nonies della legge n. 241, abbia introdotto una nuova ‘regola generale’ che sottende al rapporto tra il potere pubblico e i privati: una regola di certezza dei rapporti, che rende immodificabile l’assetto (provvedimentale-documentale-fattuale) che si è consolidato nel tempo, che fa prevalere l’affidamento».
[25] Segnatamente, il provvedimento di secondo grado avversato è adottato in quanto:
a) verificati in maniera «più attenta» gli atti, dai grafici allegati al permesso di costruire, l’altezza massima del sottotetto risulterebbe superiore rispetto al limite previsto, peraltro misurato a partire da un livello sopraelevato rispetto al piano di calpestio;
b) dagli elaborati allegati al permesso, sarebbe inferibile un’elusione del valore minimo prescritto per la pendenza delle falde;
c) gli elaborati progettuali non conterrebbero la specificazione dell’altezza dell’edificio prima e dopo l’intervento, mentre dall’elaborato tecnico non sarebbe deducibile l’altezza complessiva anteriore all’intervento, così impedendo la conduzione delle opportune verifiche in ordine al rispetto dei limiti stabiliti.
[26] TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 12 giugno 2018, n. 574.
[27] Cons. Stato, Sez. IV, 18 luglio 2018, n. 4374.
[28] Peraltro, la maturazione del termine in esame comporta il consolidamento degli effetti prodotti dal provvedimento: la convalescenza, unitamente all’obbligo di tener conto degli interessi di destinatari e controinteressati (razionalizzato nel testo dell’art. 21 nonies), integra un’applicazione del principio della tutela del legittimo affidamento. Al riguardo si è osservato che l’istituto dell’autotutela si posiziona in corrispondenza del punto di raccordo tra potere amministrativo e riedizione, da un lato, tutela dell’affidamento del privato, dall’altro. Cfr. Corte cost., 9 marzo 2016, n. 49. Per quanto più strettamente afferisce alla tutela dell’affidamento, si vedano, sul versante dottrinale, a titolo esemplificativo, F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano, 1970; F. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 1995; F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’amministrazione, in Dir. Proc. Amm., 2018, 3; G. Mannucci, L’affidamento nel rapporto amministrativo, Napoli, 2023.
[29] E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, cit., 560.
[30] Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 27 giugno 2018, n. 3940. In dottrina si è osservato che l’orientamento in discorso apparirebbe preordinato «a circoscrivere l’ambito di operatività del termine di diciotto mesi, in evidente contrasto con le finalità di tutela dell’interesse alla stabilità degli assetti ordinamentali che ispirava la riforma del 2015». In tal senso, P. Otranto, Autotutela decisoria e certezza giuridica tra ordinamento nazionale e sovranazionale, in Federalismi.it, 2020, 14, 247.
[31] Cons. Stato, Ad. Plen.,17 ottobre 2017, n. 8.
[32] Cfr, sul punto, Cons. Stato, Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 8, in cui si sostiene che: «le generali categorie in tema di annullamento ex officio di atti amministrativi illegittimi trovino applicazione (in assenza di indici normativi in senso contrario) anche nel caso di ritiro di titoli edilizi in sanatoria illegittimamente rilasciati, non potendosi postulare in via generale e indifferenziata un interesse pubblico in re ipsa alla rimozione di tali atti».
[33] Definisce l’autotutela come «sistema di guarentigie sostanziali», a fronte di provvedimenti imperativi, M. Pellegrini, L’annullamento d’ufficio del provvedimento amministrativo nella legislazione e giurisprudenza più recenti, in Annali della Facoltà Giuridica dell’Università di Camerino, 2019, 8, 26.
[34] G. Ghetti, Autotutela della Pubblica Amministrazione, in Dig. Disc. Pubbl., vol II, Torino, 1987, 80 ss.
[35] P. Otranto, Autotutela decisoria e certezza giuridica tra ordinamento nazionale e sovranazionale, cit., 242 – 243.
[36] M. De Benedetto, Istruttoria amministrativa, in Enciclopedia Treccani. Diritto on line, 2012.
[37] Tra i tanti apporti, si rammentano: M. A. Sandulli, Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, in P. L. Portaluri (a cura di), L’Amministrazione pubblica nella prospettiva del cambiamento: il codice dei contratti e la riforma Madia, Napoli, 2016, 125 ss.; Id.,Gli effetti diretti della 7 agosto 2015 L. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio assenso e autotutela, in Federalismi.it, 2015, 17; M. Ramajoli, L’annullamento d’ufficio alla ricerca di un punto di equilibrio, in Giustamm.it, 2016, 6; R. Caponigro, Il potere amministrativo di autotutela, in Federalismi.it, 2017, 23; A. Carbone, Il termine per esercitare l’annullamento d’ufficio e l’inannullabilità dell’atto amministrativo, in A. Rallo - A. Scognamiglio (a cura di), I rimedi contro la cattiva amministrazione. Procedimento amministrativo ed attività produttive ed imprenditoriali, Napoli, 2016, 85 ss.; C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di) Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017; G. Manfredi, Il tempo è tiranno: l’autotutela nella legge Madia, in Urb. App., 2016, 1; M. Allena, L’annullamento d’ufficio. Dall’autotutela alla tutela, Napoli, 2018.
[38] Cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415, che ha ricordato: «si pensi all’abrogazione della previsione, in passato di ampia incidenza casistica, di cui all’art. 1, comma 136, della l. 30 dicembre 2004, n. 311,che faceva obbligo alla P.A. di annullare i provvedimenti illegittimi comportanti oneri finanziari, fatta eccezione per quelli incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali efficaci da più di tre anni ad opera dell’art. 6, comma 2, della l.7 agosto 2015, n. 124; ovvero, al contrario, a quanto ancora oggi previsto dall’art. 94 del codice antimafia, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che impone, ove successivamente alla stipula del contratto siano accertati tentativi di infiltrazione mafiosa, oppure emergano cause correlate di decadenza, di sospensione o di divieto, alle stazioni appaltanti di revocare le autorizzazioni e le concessioni o di recedere dai contratti. Ma un esempio ancor più lampante è rinvenibile proprio nella disciplina dei controlli in materia di s.c.i.a., che ove travalichino la tempistica assegnata in via per così dire “ordinaria” (sessanta o trenta giorni, a seconda che si tratti o meno di materia edilizia), impone (non facoltizza) l’adozione dei provvedimenti conformativi, sospensivi o inibitori «in presenza delle condizioni previste dall’art. 21-novies», e dunque in primo luogo nel rispetto del limite temporale (oggi) di dodici mesi».
[39] H. Simon, Il comportamento amministrativo, Bologna, 1967.
[40] F. Caringella, Affidamento e autotutela: la strana coppia, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2008, 2, 425 ss.
Il decalogo dell’oppressione[1]
di Maria Teresa Covatta
In 114 pagine i talebani compendiano nuove e vecchie regole che dovranno normare la vita dei cittadini afghani e preservare la loro virtù, secondo i criteri indicati dal Ministero per la promozione della virtù e la repressione del vizio, creato appositamente per prevenire qualunque forma di cedimento a comportamenti ritenuti amorali.
Regole naturalmente indirizzato in gran parte alle donne e al loro corpo che evidentemente si presenta come una vera e propria ossessione per il regime: se agli uomini si prescrive di non portare pantaloni al di sopra del ginocchio e di non radersi, alle donne si prescrive il totale occultamento del corpo, occhi compresi, e di non parlare in pubblico perché anche la voce, oltre ai capelli, a una mano o un piede, è considerata idonea a indurre in tentazione e corrompere la morale degli uomini.
Al di là dell'obbligo del burqa, già stabilito come primo provvedimento adottato alla presa del potere dei Talebani dopo la terribile debacle del 15 agosto del 2021; e dopo la sospensione del diritto all'istruzione, il divieto di svolgimento di attività lavorative fuori casa, il divieto di uscire di casa se non per ragioni eccezionali (quali?), viene ora la proibizione di parlare in pubblico, ascoltare musica e di cantare. ultimo atto di una strategia che vuole annientare e rendere invisibili le donne in quanto tali.
Caterina Caselli ha pubblicato in questi giorni un video in cui, con voce quasi rotta dal pianto, ci ha raccontato che cosa significa per l'essere umano cantare, intima espressione del proprio io e manifestazione del proprio pensiero, del dolore come della gioia, insomma della propria esistenza in generale; e ci ha ricordato che neanche agli schiavi era proibito cantare in nessuno dei tanti vergognosi periodi in cui l'essere umano ha ritenuto possibile assoggettare un altro essere umano alle proprie regole e ai propri voleri, nella vita e finanche nella morte.
In un interessante report su quanto sta accadendo in Afghanistan, dal titolo evocativo di “il silenzio delle innocenti”, l’Ispi, l'Istituto per gli Studi Politici Internazionali, ha commentato il contenuto del documento pubblicato dal governo talebano corredandolo con precisisi dati statistici: circa tre milioni le studentesse delle scuole secondarie escluse dalle classi; 12 anni è l'età oltre la quale l'istruzione femminile è “temporaneamente sospesa” da circa 3 anni; il 17% delle bambine si sposa ben prima dei 15 anni; una bambina su quattro mostra profondi segni di depressione (Fonte BBC, Save the Children, Unicef).
Dati che non lasciano spazio ad alcun dubbio su quanto sta succedendo nel Paese da tre anni a questa parte, a quanto pare sempre più consolidando il potere del clero oltranzista, a dispetto di tutte le proteste che comunque le donne afghane stanno continuando a manifestare, non solo quelle espatriate all'estero ma persino quelle rimaste sul territorio, nonostante arresti, fustigazioni ed altre forme di violenza fisica e morale utilizzati per placare il dissenso.
Lo dimostra il video pubblicato on line e di cui ha dato notizia ieri (28.8) ANSA.Mondo.it, che mostra le donne afghane che si filmano mentre cantano per strada per contestare il divieto: decine di donne che hanno dato vita a un movimento di protesta online, sfidando il divieto della nuova legge.
La violazione dei diritti umani insita in questo nuovo compendio normativo, così come la violazione degli articoli che compongono la dichiarazione dei diritti dell'uomo, è di tutta evidenza perché codifica il divieto per le donne di accesso alle cure mediche, alla giustizia, di assumere impieghi e incarichi pubblici, di frequentare saloni di bellezza, palestre o persino di camminare nei parchi pubblici, anche se accompagnate.
Parlando con l’emittente Rukhsana Media, il presidente dell'associazione degli avvocati afghani Mr Wahid Sadat ha spiegato che “da un punto di vista legale questo documento non solo contraddice i principi fondamentali dell'Islam in cui la promozione della virtù non è mai stata definita attraverso la forza, la coercizione, la tirannia, ma viola le leggi interne del Paese e contravviene a tutti gli articoli della dichiarazione universale dei diritti umani”.
Anche tra gli attivisti e le organizzazioni internazionali il dissenso è unanime.
Grida inascoltate sicché è dato chiedersi se, a fronte del silenzio delle innocenti, non vi sia un altro silenzio ancora più pesante che può definirsi il silenzio dei colpevoli: l'assordante silenzio della comunità internazionale che in omaggio ad interessi geopolitici ed economici manca completamente di qualunque forma di reazione, condanna e sanzione a fronte di quella che correttamente è stato definito come il più devastante “apartheid di genere” dei nostri tempi, ora messo nero su bianco al fine di statuire tutte le regole cui le donne si devono conformare, riunite in una sorta di testo unico dell'orrore che non lascia spazio a interpretazioni o a forme di comprensione neppure rispetto ad un ideale comportamentale connesso alla religione.
In una intervista alla CNN Fawzia Koofi, già prima donna vicepresidente del deposto Parlamento afghano, ha criticato l'implicita complicità della comunità internazionale che sta lentamente normalizzando i rapporti con il governo talebano.
Quello che sta accadendo, ha detto, è spaventoso “eppure il mondo intero si comporta come se fosse normale; ci sono state pochissime reazioni o commenti alla normativa emessa e i talebani sono incoraggiati da questa indifferenza”.
Com’era immaginabile, del resto, l’interesse economico e geopolitico per l’Afghanistan ha consentito a molti Paesi, benché non siano ancora registrati veri e propri riconoscimenti ulteriori rispetto a quelli già fatti nell'immediatezza dell'insediamento del potere talebano, di avvicinarsi all’Afghanistan per interessi specifici, soprattutto connessi alle materie prime necessarie per le produzioni mondiali di items tecnologici indispensabili per il mondo occidentale, cellulari al primo posto.
Interessi economici o geopolitici che hanno coperto, così come è accaduto per il grido delle donne iraniane, la messa al bando della donna in Afghanistan, senza distinzioni di ceto sociale o di appartenenza. O meglio sarebbe dire la mattanza dei diritti e di qualunque forma di manifestazione della vita.
Certo si può ritenere che si tratti di una ideologia talmente forte da resistere persino all’esigenza di riottenere le somme congelate presso le banche americane, la cui restituzione è stata subordinata al rispetto dei diritti umani nel Paese e di cui il popolo afgano avrebbe bisogno per risollevarsi dalla povertà e dalla fame.
Ma forse si potrebbe anche ritenere che, forti del rinnovato interesse economico e geopolitico palesato da alcune grandi potenze, il nuovo decalogo normativo e la sua pubblicazione sia uno stress test fatto alla comunità internazionale, passando sul corpo e sula vita delle donne.
A fronte di tutto questo non resta che sperare e affidarsi alla società civile.
Ancorché abbia subito, così come le determinazioni dell'ONU, considerevoli sconfitte, come dimostrato dalle tante manifestazioni in favore delle donne iraniane che allo stato sembrano non aver sortito nessun effetto sul destino del sesso femminile in quel Paese, la protesta civile esprime il senso della coscienza dei cittadini del mondo, inarrestabile e che, in quanto tale, prima o poi otterrà dei risultati.
Pensare il contrario, anche se forse è realistico, non consente di dormire la notte.
[1] Si veda anche L’Afghanistan: cronistoria di una crisi annunciata di Maria Teresa Covatta, pubblicato su Giudice donna, n. 2/2021, apparso poco dopo la presa del potere dei Talebani. Su Questa Rivista, si veda Per non dimenticare le donne afghane di Maria Teresa Covatta, Il dramma dell’Afghanistan: è fallita l’esportazione della democrazia o il sistema internazionale dei diritti umani? di Tania Groppi, Il Ministero per la promozione della Virtù e la prevenzione del Vizio di Maria Teresa Covatta.
Foto: Marius Arnesen, Women in burqa with their children in Herat, Afghanistan, 2009, via Wikimedia Commons.
I giovani e la guerra
(nota a Cass. 9 giugno 2022 n. 18626)
“Queste nostre parole sono dettate da una profonda aspirazione: il consolidamento della pace nel mondo… abbiamo il dovere di spendere tutte le nostre energie per il rafforzamento di questo bene”.
(Giovanni XXIII, Pacem in terris, 11 aprile 1963, punto 89)
Sommario: 1. Roma. Corte di Cassazione. La protezione internazionale che debba darsi a chi rifiuti di farsi coinvolgere in un conflitto armato che comporti il rischio di commissione di crimini di guerra o contro l'umanità. 2. Parigi. Palazzo dell’Eliseo. La dichiarazione di Emmanuel Macron circa l’invio di truppe nel conflitto Russia/Ucraina. 3. Di nuovo in Italia. Breve rassegna dell’evoluzione dell’art. 52 Cost. 4. Sintesi: la Corte di Cassazione 9 giugno 2022 n. 18626 e il diritto fondamentale dell’uomo a non esser obbligato a prender parte ad una guerra.
Roma. Corte di Cassazione. La protezione internazionale che debba darsi a chi rifiuti di farsi coinvolgere in un conflitto armato che comporti il rischio di commissione di crimini di guerra o contro l'umanità.
1. Si annota l’ordinanza Cass. 9 giugno 2022 n. 18626.
Si tratta di una pronuncia non recente, che tuttavia merita la nostra attenzione per (almeno) due diverse ragioni:
a) perché si tratta di un’ordinanza che si inserisce in un preciso e costante orientamento della Corte di Cassazione, e ad essa infatti possono unirsi, senza alcuna pretesa di completezza, le decisioni conformi anteriori di Cass. 3 marzo 2022 n. 7047; Cass. 18 maggio 2021 n.13461; Cass. 8 gennaio 2021 n. 102; Cass. 21 ottobre 2020 n. 22873; e Cass. 19 novembre 2019 n. 30031;
b) e perché, soprattutto, seppur sotto l’angolo visuale della protezione internazionale, ha ad oggetto un tema purtroppo oggi di grandissima attualità, e che è quello della guerra, nonché del diritto (o meno) di un cittadino a non esserne coinvolto.
1.1. Questo il fatto.
Due coniugi ucraini si allontanano dall’Ucraina per raggiungere l’Italia; per primo raggiunge l’Italia il marito, e ciò per sottrarsi al servizio militare e alla guerra; poi lo segue la moglie, che si unisce a lui.
Il marito chiede al giudice italiano la protezione internazionale dovuta alla circostanza che, altrimenti, egli sarebbe stato costretto al servizio militare e alla partecipazione del conflitto armato in atto.
La questione arriva all’attenzione della Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione osserva che la domanda volta ad ottenere lo status di rifugiato non può prescindere: “dalla considerazione della attuale, notoria, esistenza di un conflitto armato internazionale, che interessa l'intero territorio ucraino, in relazione al quale deve ritenersi altrettanto notoria e comunque plausibile la connotazione di tale conflitto in termini di elevato rischio di commissione di crimini di guerra e contro l'umanità”.
Sulla base di questa premessa la Corte di Cassazione chiarisce altresì che: “in tema di protezione internazionale, deve essere riconosciuto lo status di rifugiato politico all'obiettore di coscienza che rifiuti di prestare il servizio militare nello Stato di origine, ove l'arruolamento comporti il rischio di un coinvolgimento, anche indiretto, in un conflitto caratterizzato anche solo dall'alto rischio di commissione di crimini di guerra e contro l'umanità, costituendo la sanzione penale prevista dall'ordinamento straniero per detto rifiuto atto di persecuzione ai sensi del d.lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 2, lett. e), e dell'art. 9, par. 2, lett. e), della direttiva n. 2004/83/CE come interpretato da C.G.U.E., 26 febbraio 2015, (causa C-472/13, Shepherd contro Germania), che estende la tutela anche al personale militare logistico e di sostegno (Cass. n. 13461/2021, Cass. n. 102/2021, Cass. n. 30031/2019)”.
Per questi motivi, così, la Corte di Cassazione riconosce al cittadino ucraino lo status di rifugiato, e, quanto alla moglie, rileva che: “l'attuale conflitto armato internazionale, che interessa l'intero territorio ucraino, con diffuso coinvolgimento di civili ed alla base di fenomeni di sfollamento di grandi dimensioni, giustifica il diretto riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi del d.lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c)”.
1.2. Si consideri, infatti, che l’art. 9, 2° comma, lettera e) della Direttiva 2004/83 CE, e l'art. 7, comma 2, lett. e) del d.lgs. 19 novembre 2007 n. 251 in attuazione di quella direttiva, richiamati dalla pronuncia annotata, ritengono sussistere lo stato di persecuzione a fronte di una sanzione penale in conseguenza del rifiuto di prestare il servizio militare collegato ad un conflitto armato ove possano perpetuarsi crimini di guerra o contro l’umanità.
Esattamente l’art. 9, 2° comma, lettera e) del e) della direttiva 2004/83 CE dispone che: “Gli atti di persecuzione che rientrano nella definizione di cui al paragrafo 1 possono, tra l'altro, assumere la forma di…… azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all'articolo 12, paragrafo 2”.
E parimenti l'art. 7, comma 2, lett. e) del d.lgs. 19 novembre 2007 n. 251 statuisce che: “Gli atti di persecuzione di cui al comma 1 possono, tra l'altro, assumere la forma di:….azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie che comportano gravi violazioni di diritti umani fondamentali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare per motivi di natura morale, religiosa, politica o di appartenenza etnica o nazionale”.
Dunque, per la normativa europea ed interna, costituisce atto di persecuzione, che attribuisce il diritto allo status di rifugiato, l’obbligo di prestare servizio militare quando questi possa comportare il coinvolgimento in conflitti armati con commissione di crimini.
E, peraltro, per la Corte di Cassazione, la: “esistenza di un conflitto armato internazionale” rende, di per sé sola:“plausibile la connotazione di tale conflitto in termini di elevato rischio di commissione di crimini di guerra e contro l'umanità”.
1.3. La decisione, come premesso, non è isolata, ma costituisce espressione di un costante e conforme orientamento della Corte di Cassazione.
Tutti i precedenti di cui sopra, e che qui di nuovo si richiamano (Cass. 3 marzo 2022 n. 7047; Cass. 18 maggio 2021 n.13461; Cass. 8 gennaio 2021 n. 102; Cass. 21 ottobre 2020 n. 22873; Cass. 19 novembre 2019 n. 30031), attengono a fatti analoghi, relativi alla guerra in Ucraina, iniziata fin dal 2014, e affermano medesimi principi di diritto.
Merita, se del caso, esporre in modo più esteso la prima pronuncia, ovvero Cass. 19 novembre 2019 n. 30031, poiché è quella che ha posto le basi argomentative delle decisioni successive.
Esattamente in quella pronuncia si legge, preliminarmente, che l’UNHCR, nelle Linee Guida in materia di protezione internazionale n. 10, statuisce che l’obiezione di coscienza è: "il rifiuto di obbedienza ad una legge o ad un comando dell'autorità perché considerato in contrasto con i principi e le convinzioni personali radicati nella propria coscienza. L'obiettore di coscienza è dunque un cittadino che, dovendo prestare servizio militare armato, contrappone il proprio rifiuto all'uso delle armi ed attività ad esse collegate".
Questo rifiuto è considerato legittimo dalla Corte di Cassazione, tanto che questa prosegue asserendo che l’obiezione di coscienza nient’altro è se non: “l’esercizio dei diritti di libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici”.
Venendo poi al caso di specie, ovvero alla guerra in Ucraina, la Corte di Cassazione prosegue asserendo che: “Orbene, il caso di specie rientra nella fattispecie delineata dalla Corte di giustizia, in quanto il conflitto in cui il ricorrente rischia concretamente di essere arruolato - e per il quale è stato ricercato ai fini dell'arruolamento, come è incontroverso in atti - è già caratterizzato da svariati crimini di guerra e contro l'umanità, tali da legittimare sia il rifiuto di prestare il servizio militare, sia il riconoscimento della protezione internazionale in conseguenza di esso”.
E poi ancora: “Nel suo ultimo Rapporto 2015-2016, Amnesty International riferisce che entrambe le parti in conflitto in Ucraina "hanno commesso crimini di guerra, tra cui tortura e altri maltrattamenti dei prigionieri", riportando una serie di episodi, sia perpetrati dai separatisti del Donbass che dall'esercito ucraino o dalle forze paramilitari che lo coadiuvano, come il gruppo di estrema destra Pravyi Sektor. Una ricerca condotta dall'International Partnership for Human Rights dall'ottobre 2014 all'ottobre 2015, pubblicata a fine 2015, conferma che entrambe le parti hanno perpetrato crimini di guerra e crimini contro l'umanità, presentando il Rapporto alla Corte penale internazionale, ai sensi dell'art. 15 dello Statuto di Roma”.
Conviene poi riportare per esteso i seguenti passi della motivazione di Cass. 19 novembre 2019 n. 30031:
“Gli sforzi del governo ucraino per salvaguardare l'integrità territoriale dell'Ucraina e ristabilire la legge e l'ordine nelle zone di conflitto hanno continuato ad essere accompagnate da accuse di sparizioni forzate, arbitrarie e detenzione, così come torture e maltrattamenti di persone sospettate di attentati contro l'integrità territoriale o di terrorismo o ritenute sostenitrici della Repubblica di Donetsk e della Repubblica di Luhansk. Elementi del servizio di sicurezza dell'Ucraina sembrano godere di un alto grado di impunità, con rare indagini sulle accuse che li riguardano.
Da tutto ciò deriva, quindi, la persistente violazione dei diritti umani e la commissione di crimini di guerra in Ucraina, che legittimano la decisione del ricorrente di sottrarsi al fondato timore di essere arruolato e inviato nelle zone di guerra. Legittimo è, infatti, il rifiuto di partecipare alle operazioni militari se questo possa comportare anche il solo rischio di commissione di crimini di guerra o di gravi violazioni dei diritti umani.
Quanto poi alla punizione per la renitenza alla leva o la diserzione, si evidenzia che l'UNHCR, nel rilevarne l'aumento nel 2015 per svariati fattori "tra i quali l'obiezione a prendere parte ad una guerra civile in cui sono stati segnalati crimini di guerra contro i prigionieri commessi da entrambe le parti e dove è probabile che vengano uccisi dei connazionali", testimonia che "il Governo ha intensificato i procedimenti penali nei confronti di coloro che sono sospettati di renitenza alla leva e alla mobilitazione, e vi sono segnalazioni riguardanti l'uso di misure coercitive in alcune aree. Vi sono altresì segnalazioni riguardanti la fuga di uomini dalle ANCG attraverso la Federazione russa o cercando di evitare i checkpoint ufficiali alla frontiera per paura di essere mobilitati." (p. 34).
Venendo poi alle previsioni dell'ordinamento del paese di eventuale rimpatrio, la renitenza alla leva è punita dagli artt. 335, 336 e 337 c.p. Ucraino con una pena da 2 a 5 anni ma, come si è visto, la diserzione può oggi comportare la fucilazione e comunque pene oggettivamente sproporzionate ed eccessive che, nel caso di specie, esporrebbero il ricorrente al fondato rischio di gravissimi danni.
Sussiste quindi la ragionevole e concreta possibilità che in caso di rientro in Ucraina il ricorrente venga inviato a prestare il proprio servizio militare e che, tenuto conto di tutte le circostanze sopra esposte, sia plausibile che egli possa essere coinvolto, seppur anche solo indirettamente, anche nella commissione di crimini di guerra di cui l'esercito ucraino si è macchiato e continua tuttora a macchiarsi nei confronti dei cosiddetti separatisti, di prigionieri e della popolazione civile.
In tal drammatico contesto il rifiuto a prestare il servizio militare sarebbe il solo mezzo per il ricorrente per evitare la partecipazione a tale conflitto”.
Parigi. Palazzo dell’Eliseo. La dichiarazione di Emmanuel Macron circa l’invio di truppe nel conflitto Russia/Ucraina.
2. Questo orientamento della nostra Corte di Cassazione acquista particolare significato e valore, a mio sommesso parere, proprio in questi ultimi anni, dove purtroppo, da varie parti, si sono aperti nuovi preoccupati teatri di guerra, tutt’ora in corso.
L’Europa, in relazione ad essi, ha manifestato posizioni meno neutrali che in passato, o, se si vuole, più bellicose; e il primo Stato europeo che può annoverarsi tra quelli che hanno avuto questo nuovo atteggiamento è la Francia, e penso convenga così ricordare alcune vicende francesi comprese tra il 2023 e il 2024.
2.1. La Francia, in primo luogo, approva il 1° agosto 2023 la legge n. 703 avente ad oggetto la programmazione militare per gli anni 2024 – 2030[1].
Detta legge prevede un forte aumento delle spese militari, che vengono fissate in 413,3 miliardi di euro da qui al 2030, il 40% in più rispetto al passato.
Questa spesa, peraltro, non coinvolge gli aiuti all’Ucraina, poiché quelli sono assicurati con una uscita separata, deliberata dalla legge finanziaria e dal Ministero dell’economia, e non dal Ministero della difesa.
Sarà inoltre aumentato l’impiego di forze umane, che in base alla nuova legge consentirà di raggiungere il numero di 275.000 militari entro il 2030, ai quali si aggiungeranno 105.000 riservisti entro la fine del 2035.
Per far fronte alle nuove esigenze e alle nuove spese la legge prevede, poi, che talune industrie possano essere obbligate a costruire degli stocks di materie o composti strategici di interesse militare.
Da segnalare, infine, che un emendamento parlamentare alla legge prevedeva che una parte delle spese necessarie per l’aumento di queste esigenze militari potesse esser sopportato con i risparmi esistenti sui libretti dei cittadini francesi, ed in particolar modo sul c.d. Livret A[2].
Questa previsione veniva giudicata incostituzionale dal Conseil Constitutionel con DC 2023 – 854, 28 luglio 2023 e pertanto non inserita nella legge[3].
Desidero precisare che il Livret A è un libretto di risparmio nel quale non possono essere depositati più di € 23.000,00, e nessuno può avere più di un libretto.
Si tratta, pertanto, del risparmio del popolo, delle riserve economiche delle classi sociali più povere.
Come si sia potuto pensare di prendere i denari necessari a far fronte alle spese militari da quei libretti, si ha difficoltà a comprendere.
2.2. A fine febbraio 2024, con riferimento alla guerra tra Russia ed Ucraina, Emmanuel Macron dichiarava: “non c’è consenso, oggi, per inviare in maniera ufficiale, assumendosene la responsabilità, delle truppe sul terreno di guerra, ma in una prospettiva dinamica niente deve essere escluso”[4].
La frase, non condivisa da altri capi di Stato Europei, e nemmeno dagli Stati uniti d’America, suscitava egualmente un certo allarme tra la popolazione francese, e la questione che si poneva era se tali affermazioni non potessero dar vita ad una mobilitazione della popolazione civile, e non solo militare, verso l’Ucraina.
La preoccupazione sorgeva in relazione all’interpretazione da dare a talune disposizioni giuridiche, dalle quali una certa esegesi avrebbe potuto portare a ritenere che, effettivamente, il Capo di Stato e il suo Governo abbiano il potere di inviare in guerra anche dei civili a prescindere dalla loro volontà.
Un sunto di queste posizioni veniva reso anche in un servizio di TF1[5].
2.3. Per rispondere a queste inquietudini intervenivano alcuni costituzionalisti, nonché lo stesso Governo, ricordando come la materia fosse oggi regolata proprio dalla nuova legge di programmazione militare 1° agosto 2023 n. 703.
L’art. 23 di quella legge prevede infatti che: “In caso di minaccia, attuale o prevedibile, può essere decisa con un decreto del Consiglio dei Ministri la requisizione di tutte le persone, fisiche o morali, e di tutti i beni e i servizi necessari per farvi fronte”, pena una sanzione detentiva di cinque anni ed una ammenda di € 500.000,00 in caso di opposizione.[6]
Si è detto, tuttavia, che la legge, seppur equivocabile nel suo tenero letterale, dovesse essere attentamente letta e correttamente interpretata.
A questo fine prendeva posizione Jean Paul Markus, professore di diritto pubblico all’Università di Parigi, il quale precisava che la menzionata disposizione ha solo modernizzato la vecchia disciplina del Code de la défense del 1959,nient’altro, essendo il diritto alla requisizione in campo militare esistente da lungo tempo con l’art. L.2141-3 di quel codice, e precisava altresì che queste minacce, cui la legge fa riferimento per consentire la requisizione, devono in ogni caso riguardare le attività essenziali alla vita della Nazione, la protezione della popolazione, l’integrità del territorio, la permanenza delle istituzioni della Repubblica, o ancora devono essere giustificate dalla messa in opera degli impegni internazionali dello Stato in materia di difesa[7].
Quindi, ogni interpretazione della legge fuori da questo contesto doveva ritenersi inammissibile e scorretta.
2.4. Parimenti interveniva il primo ministro di allora, Elisabeth Borne, la quale precisava che la riforma fosse intervenuta sulla base soprattutto di una esigenza pratica, visto che i vecchi testi erano sparsi in più fonti, soggetti a più interpretazioni, e inadatti ai bisogni della nostra epoca[8].
Ulteriore intervento veniva fatto dal Ministro della Difesa, il quale altresì rassicurava che non si trattasse di inviare dei civili sui teatri di guerra, quanto, semmai, di rispondere a dei bisogni urgenti di salvaguardia degli interessi della difesa nazionale, per esempio con la requisizione di società specialistiche o di trasporto privato[9].
Anche per il senatore ecologista Guillaume Gontard questa riforma era da considerare ben inquadrata dal punto di vista giuridico; per Guillaume Gontard questa legge non cambiava molto rispetto al diritto già esistente, e limitava infatti la requisizione di persone e cose soltanto a fatti eccezionali e gravissimi[10].
2.5. In conclusione, si è ritenuto che non vi sia il rischio che il Presidente della Repubblica e il suo Governo possano inviare in Ucraina in modo forzato dei civili, e che pertanto talune affermazioni riscontrate sui social, e tendenti ad affermare il contrario sulla base della riforma di cui alla legge 1° agosto 2023 n. 703, fossero da considerare abusive, false, o comunque non corrispondenti alla realtà[11].
Da ricordare, comunque, che in occasione degli 80 anni dallo sbarco in Normandia, il 6 giugno scorso 2024, il Presidente della Repubblica francese, dinanzi alle forze armate, di nuovo dichiarava: “mentre i pericoli aumentano…..voi ricordate che noi siamo pronti a consentire i medesimi sacrifici per difendere quello che per noi è più caro, la nostra terra di Francia e i nostri valori repubblicani”[12].
Di nuovo in Italia.
Breve rassegna dell’evoluzione dell’art. 52 Cost.
3. Se torniamo in Italia, direi che è opportuno ripercorrere brevemente le vicende che hanno caratterizzato il rapporto tra obbligo militare e obiezione di coscienza[13].
3.1. Si tratta di una storia che possiamo addirittura far risalire alla stessa unità d’Italia e alla coscrizione obbligatoria del 1861, combattuta fortemente dalla popolazione del meridione contro le imposizioni dell’esercito piemontese.
Eguali rivolte si ebbero durante la grande guerra del 1915-18: furono circa 470.000 i processi per renitenza alla leva, e oltre un milione i processi per altri reati militari come diserzione, procurata infermità, disobbedienza aggravata, ammutinamento. V’è stato poi il ventennio della dittatura, e in quel contesto vale la pena ricordare la legge 8 giugno 1925 n. 969 avente ad oggetto l’Organizzazione della Nazione per la guerra[14], nonché la Leva Fascista: fu attiva in maniera obbligatoria dal 1926 al 1943; si celebrava in modo solenne il 24 maggio, anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia nella prima guerra mondiale; dal 1934, il 16 ottobre, in tutti i comuni, si celebrava la festa della ginnastica nazionale; il giuramento che i giovani prestavano era il seguente: “Giuro di eseguire senza discutere gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario, con il mio sangue, la causa della rivoluzione fascista”.
3.2. In Assemblea costituente un’ampissima maggioranza fu favorevole a postulare il servizio militare obbligatorio[15].
Nella commissione dei 75, addirittura, solo Francesco De Vita, un giovane di 33 anni, si oppose al servizio militare obbligatorio, e il testo provvisorio dell’art. art. 52 Cost. veniva infatti così: “approvato all’unanimità, meno un voto contrario”[16].
Nel plenum, contro quel testo, vi fu solo l’emendamento di Arrigo Cairo per il quale “Il servizio militare non è obbligatorio”.
Su quell’emendamento, a votazione per appello nominale, la stragrande maggioranza dei componenti l’Assemblea votò contro; furono favorevoli all’emendamento un numero assai ristretto di onorevoli, tra i quali va ricordato Piero Calamandrei; si astenne Aldo Moro, e non era presente alla votazione Giorgio La Pira[17].
Ci fu anche un emendamento di Giovanni Ernesto Caporali per porre in Costituzione il diritto all’obiezione di coscienza, che così disponeva: “Sono esenti dal portare le armi coloro i quali vi obiettino ragioni filosofiche e religiose di coscienza”; ma anche questo emendamento non veniva approvato[18].
Vi fu inoltre la proposta di un comma aggiunto da parte di Umberto Calosso, per il quale “Nel bilancio dello Stato, le spese per le forze armate non potranno superare le spese per la pubblica istruzione, salva legge del Parlamento di durata non superiore a un anno”; ma anche questa proposta fu bocciata, sul presupposto dell’impossibilità di mettere sullo stesso piano le spese militari con quelle concernenti l’istruzione[19].
La situazione era, d’altronde, quella ben delineata da Luigi Gasparotto, Ministro della difesa dell’epoca oltre che componente dell’Assemblea costituente, il quale sostenne che il servizio militare poteva sì in futuro rispondere a criteri di volontariato, ma che al momento non erano maturi i tempi per una scelta del genere.
Dichiarava infatti Luigi Gasparotto nell’adunanza del 22 maggio 1947: “Il problema del volontariato l’ho sollevato io per primo. Io ho detto però che, pur essendo, in principio, favorevole al volontariato, riconoscevo che a questo non si poteva arrivare che gradualmente, perché al momento attuale non sarebbe applicabile…..Con questo intendevo e intendo non chiudere le porte al volontariato che, gradualmente e fatalmente, dovrà andare in applicazione”[20].
3.3. Direi che questa previsione di Luigi Gasperotto è quanto poi si realizzerà negli anni a venire.
All'inizio degli anni '60 si avranno infatti le prime difese del diritto all’obiezione di coscienza, e tra queste prese di posizione vanno ricordate quelle di cattolici eminenti quali Giorgio La Pira, Ernesto Balducci e Lorenzo Milani.
a) Giorgio La Pira, in data 18 novembre 1961, e nella sua qualità di Sindaco di Firenze, autorizzava la proiezione del film "Non uccidere", incentrato sul tema dell'obiezione di coscienza, nonostante il divieto imposto dalla censura; peraltro dando ampia diffusione all’evento e invitando alla proiezione numerosi parlamentari, ministri, magistrati, sacerdoti e anche militari.
L’Osservatore romano criticò l’iniziativa e contestò il valore etico del film.
Giorgio La Pira subì un processo per questa iniziativa e fu accusato della commissione dei reati di violazione delle norme relative alla proiezione pubblica di pellicole cinematografiche e di apologia di reato.
Il Tribunale di Firenze, tuttavia, investito della causa, rimise la questione alla Corte costituzionale con riferimento al diritto di libera manifestazione del pensiero, ma la Corte costituzionale, con l’ordinanza del 16 febbraio 1963 n. 11, dichiarò infondata la questione e rimise gli atti al Tribunale, che alla fine però dichiarò che il fatto commesso da Giorgio La Pira non costituiva reato[21].
b) Padre Ernesto Balducci pubblicava sul Giornale del mattino, il 13 gennaio 1963, un articolo dal titolo: “La chiesa e la Patria”, con il quale si schierava a favore dell’obiezione di coscienza; subì un processo per apologia di reato e fu condannato.
In quell’articolo Ernesto Balducci scriveva che “l’autorità pubblica trova un limite invalicabile nelle leggi morali………i cittadini che sono in grado di avvertire l’iniquità della legge hanno non dico il diritto ma il dovere di disobbedire ……..per quanto riguarda l’obbligo di obbedire alla Patria quando essa chiama alle armi, anch’esso è subordinato alla giustizia naturale…….. nel caso di una guerra totale i cattolici avrebbero non dico il diritto ma il dovere di disertare. Servirsi della riserva che il cittadino non può giudicare da solo sulla liceità della guerra, significa dimenticare che siamo in un’epoca di democrazia, cioè in un’epoca che, provvidenzialmente, lega in modo stretto l’opinione del privato cittadino e le decisioni del potere pubblico”.
c) Don Lorenzo Milani, parimenti, rispondeva ai Cappellani militari in concedo in Toscana, che, in un comunicato apparso il 11 febbraio 1965, avevano considerato l’obiezione di coscienza estranea al comandamento cristiano dell’amore e espressione di viltà; egli prese posizione totalmente contraria e fu per questo denunciato all’autorità giudiziaria da parte di un gruppo di ex combattenti; don Lorenzo Milani venne assolto in primo grado dall’accusa di apologia di reato, e credo sia importante riportare una parte della motivazione di quella sentenza, pronunciata dal Tribunale di Roma il 15 febbraio 1966: “Se è vero che un ordinamento autenticamente democratico non deve temere la libera espressione delle idee, per quanto polemiche e spregiudicate esse possono sembrare - essendo tristo privilegio dei cosiddetti regimi « forti » (leggi: autoritari) quello della repressione penale delle idee - condannare il Milani per quanto ha ritenuto di scrivere sul problema dell'obiezione di coscienza equivarrebbe a colpire non già un'azione concretamente contraria al precetto penale, ma una mera opinione, per eversiva che questa possa essere o possa considerarsi. D'altra parte l'attività dell'imputato ben si può inserire nel quadro del movimento di propaganda per l'abrogazione o la modificazione di una legislazione ritenuta iniqua e dannosa, il che in uno Stato libero come il nostro è esplicazione della facoltà di critica delle leggi ed espressione di collaborazione per un migliore ordinamento giuridico anziché lesione o messa in pericolo di pubblici interessi. Il Milani, pertanto, va assolto dal delitto ascrittogli trattandosi di persona non punibile perché il fatto non costituisce reato”.
La sentenza fu tuttavia appellata, ed in appello il verdetto fu modificato, ma la condanna contro don Lorenzo Milani non poté avere seguito, in quanto sopravvenne la sua morte il 26 giugno 1967.
d) In concreto, comunque, il diritto all’obiezione di coscienza si sarebbe sviluppato solo successivamente, e a partire dagli anni Settanta, con tre successive leggi, la prima del 1972, la seconda del 1998, infine la terza del 2000.
3.4. La legge 15 dicembre 1972 n. 772, per la prima volta, riconosceva il diritto all'obiezione di coscienza e al servizio civile sostitutivo per motivi morali, religiosi e filosofici[22].
Gli obbligati dovevano presentare domanda in tal senso almeno 60 giorni prima dalla chiamata alla leva, e la domanda era sottoposta al giudizio di una commissione del Ministero della Difesa.
I giovani ammessi al beneficio dovevano prestare un servizio civile maggiorato nel tempo di otto mesi.
Si trattava, dunque, non del riconoscimento di un diritto, quanto piuttosto, al momento, di una concessione dello Stato, che lo stesso Ministero della difesa poteva o meno concedere in presenza di certi presupposti.
Da segnalare, tuttavia, che quella legge prevedeva altresì che, in caso di guerra, gli obiettori di coscienza potessero essere assegnati solo a servizi non armati”[23].
V’era, dunque, un primo riconoscimento non solo a non prestare servizio civile armato, ma nemmeno a essere chiamati alle armi in caso di guerra.
3.5. Alla legge del 1972 seguiva la legge 8 luglio 1998 n. 230, che sanciva, per la prima volta, il pieno riconoscimento giuridico dell'obiezione di coscienza.
Con quella legge, infatti, l'obiezione di coscienza non fu più un mero beneficio concesso dallo Stato ma divenne un diritto della persona[24].
Soprattutto l’art. 13, 4° comma, ribadiva un concetto già esternato dalla precedente legge, ovvero che: “In caso di guerra o di mobilitazione generale, gli obiettori di coscienza che prestano il servizio civile o che, avendolo svolto, siano richiamati in servizio, sono assegnati alla protezione civile ed alla Croce rossa”.
3.6. La terza tappa veniva rappresentata dalla legge 14 novembre 2000, n. 331 recante "Norme per l'istituzione del Servizio Militare professionale", la quale mutava profondamente la natura del servizio di leva, che diventava volontario e professionale, e poneva fine all’idea che per evitare il servizio militare si dovesse essere obiettori di coscienza.
Ad essa poi si aggiungeva la legge 23 agosto 2004 n. 226 che anticipava al 1° gennaio 2005 la sospensione della leva obbligatoria, sospensione ancora oggi in atto.
Credo si possa affermare che il percorso fatto dal nostro legislatore con le leggi del 1972, del 1998 del 2000 e del 2004, abbia, in una certa maniera, e come anticipato, concretizzato la previsione già espressa in Assemblea costituente da Luigi Gasparotto, e in base alla quale i doveri di difesa della patria da parte dei cittadini non si esercitano necessariamente con le armi.
In questo modo, se si vuole, coordinando in senso evolutivo l’art. 52 Cost. con gli altri valori costituzionali.
3.7. Peraltro, in questa linea evolutiva penso si collochino le regole del codice dell’ordinamento militare di cui al d. lgs. 15 marzo 2010 n. 66, nonché la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
a) Il codice dell’ordinamento militare, all’art. 1929, 2° comma, prevede che il servizio militare obbligatorio possa essere ripristinato con decreto del Presidente della Repubblica “se il personale in volontario in servizio è insufficiente, mediante il richiamo in servizio di personale militare volontario cessato dal servizio da non più di cinque anni”, e ciò nel caso “si sia deliberato lo stato di guerra ai sensi dell’art. 78 della Costituzione”.
Ed ancora il codice dispone con l’art. 2097, che: “Coloro che, per obbedienza alla coscienza, nell'esercizio del diritto alle libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, opponendosi all'uso delle armi, non accettano l'arruolamento nelle Forze armate e nelle Forze di polizia dello Stato, possono adempiere gli obblighi di leva, in tempo di guerra o di grave crisi internazionale, prestando, in sostituzione del servizio militare, un servizio civile, diverso per natura e autonomo dal servizio militare, ma come questo rispondente al dovere costituzionale di difesa della Patria e ordinato ai fini enunciati dai principi fondamentali della Costituzione”.
b) Parimenti, l’art. 10, 2° comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea recita che: “Il diritto all’obiezione di coscienza è riconosciuto secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”.
Dunque, da ciò si deduce che la difesa della Patria, anche in ipotesi di guerra o di grave crisi internazionale, per le nostre leggi nazionali, può aver luogo con la prestazione di un servizio civile non armato.
E ciò in coerenza con le precedenti normative sopra richiamate, in quanto l’art. 10 della legge 15 dicembre 1972 n. 772, già disponeva che: “In tempo di guerra, gli ammessi a prestare servizio militare non armato possono essere assegnati a servizi non armati”; l’art. 13, 4° comma, della legge 8 luglio 1998 n. 230, ribadiva che: “In caso di guerra gli obiettori di coscienza sono assegnati alla protezione civile ed alla Croce rossa”; e infine l’art. 2 lettera f) della legge 14 novembre 2000, n. 331 statuiva che il reclutamento obbligatorio in caso di guerra e di insufficienza del personale in servizio può esser dato “salvo quanto previsto dalla legge in materia di obiezione di coscienza”.
3.8. Sempre in questa linea evolutiva penso si debba collocare la sentenza della Corte Costituzionale 19 dicembre 1991 n. 467, la quale ha statuito che: “la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all'uomo come singolo, ai sensi dell'art. 2 Cost.»; [...] la sfera umana della coscienza individuale deve essere considerata come il riflesso giuridico più profondo dell'idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti…. e la sfera di potenzialità giuridiche della coscienza individuale rappresenta, in relazione a precisi contenuti espressivi del suo nucleo essenziale, un valore costituzionale così elevato da giustificare la previsione di esenzioni privilegiate dall'assolvimento di doveri pubblici qualificati dalla Costituzione come inderogabili (c.d. obiezione di coscienza)”.
E sempre in questo ambito vanno collocati gli orientamenti dottrinali che riconducono l’obiezione di coscienza all’art. 2 Cost. [25], e, infine, nella medesima linea evolutiva si inseriscono altresì la Direttiva CE 2004/83, nonché la nostra Corte di Cassazione con gli orientamenti già indicati nel primo paragrafo di questo scritto; ed in questo modo torniamo al punto di partenza.
Sintesi: la Corte di Cassazione 9 giugno 2022 n. 18626 e il diritto fondamentale dell’uomo a non esser obbligato a prender parte ad una guerra.
4. E il punto di partenza io credo consista nella possibilità di affermare, basandosi sulla normativa esistente e sull’ordinanza Cass. 9 giugno 2022 n. 18626 e suoi precedenti conformi, che così come in Francia si è escluso che dei cittadini possano essere inviati sul fronte di guerra a prescindere dalla loro volontà, stessa regola valga anche per la nostra Italia, e, aggiungerei, per tutti i paesi democratici.
4.1. Va premesso che la nostra Corte di Cassazione ha affrontato la questione sotto il profilo della protezione internazionale e della possibilità o meno di riconoscere ad uno straniero lo status di rifugiato.
Tuttavia questo angolo visuale non impedisce, a mio sommesso parere, di attribuire un valore e una portata generale ai principi di diritto ivi affermati, in quanto la protezione internazionale si riconosce a chi, in base allo stesso art. 10, 3° comma Cost., non possa esercitare nel suo paese le libertà democratiche riconosciute nel nostro ordinamento; cosicché ogni diritto riconosciuto allo straniero non può non rappresentare parimenti un diritto che hanno anche i cittadini e tutti gli essere umani, e ciò anche in base alla convenzione di Ginevra del 1951, nonché in base all’art. 7 del d. lgs. 19 novembre 2007 n. 251, che riconosce la protezione internazionale a chi subisca: “violazione grave dei diritti umani fondamentali”.
4.2. Ciò premesso:
a) la Corte di Cassazione, a fronte dell’ordinamento interno e comunitario, ha configurato l’obiezione di coscienza come un vero e proprio diritto umano fondamentale; ciò è scritto a chiare lettere, ed infatti si legge nella pronuncia a commento che l’obiezione di coscienza nient’altro è se non: “l’esercizio dei diritti di libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici”.
b) Parallelamente, l’obiezione di coscienza comporta il diritto di rifiutare la coscrizione militare, e questo diritto è mantenuto anche in tempo di guerra.
Ciò trova precisa conferma nella evoluzione della nostra normativa, ed esattamente già negli artt. 10 della legge 15 dicembre 1972 n. 772, 13, 4° comma, della legge 8 luglio 1998 n. 230, e 2 lettera f) della legge 14 novembre 2000, n. 331.
Oggi ciò trova conferma nell’art. 2097 del codice dell’ordinamento militare di cui al d. lgs. 15 marzo 2010 n. 66, per il quale, secondo il testo già riportato: “Coloro che, per obbedienza alla coscienza, nell'esercizio del diritto alle libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, opponendosi all'uso delle armi, non accettano l'arruolamento nelle Forze armate e nelle Forze di polizia dello Stato, possono adempiere gli obblighi di leva, in tempo di guerra o di grave crisi internazionale, prestando, in sostituzione del servizio militare, un servizio civile, diverso per natura e autonomo dal servizio militare”.
c) Questo diritto all’obiezione di coscienza, infine, assurge a diritto umano, pieno e inalienabile, se nel conflitto armato al quale si dovrebbe prender parte possano essere commessi crimini di guerra o contro l’umanità.
Ancora Cass. 9 giugno 2022 n. 18626: “deve essere riconosciuto lo status di rifugiato politico all'obiettore di coscienza che rifiuti di prestare il servizio militare nello Stato di origine, ove l'arruolamento comporti il rischio di un coinvolgimento, anche indiretto, in un conflitto caratterizzato anche solo dall'alto rischio di commissione di crimini di guerra e contro l'umanità”.
4.3. Tre puntualizzazioni vanno date su questo principio:
a) la prima è che il diritto a non prender parte ad una guerra che comporti il rischio della commessione di crimini va riconosciuto ad ogni livello e non solo con riguardo all’esclusione dalle forze militari, poiché si tratta di una tutela prestata: “non soltanto alle unità cd. operative, ma anche al personale militare logistico e di sostegno” (Cass. 3 marzo 2022 n. 7047), in quanto: “anche il personale ausiliario, di supporto e logistico può avvalersi dell'obiezione di coscienza” (Cass. 3 marzo 2022 n. 7047).
b) La seconda puntualizzazione è che tale diritto non è escluso dalla circostanza che il coinvolgimento possa avere solo carattere indiretto: “il rischio di un coinvolgimento, anche indiretto, in un conflitto” (Cass. 9 giugno 2022 n. 18626).
c) La terza è che la valutazione dell’esistenza o meno del rischio va fatta con un criterio di “ragionevole plausibilità” e non di “elevata probabilità, in quanto non può darsi: “ricorso ad un criterio di "elevata probabilità" che risulta diverso, e molto più restrittivo, di quello di "ragionevole plausibilità" al quale fa riferimento la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea” (Cass. 8 gennaio 2021 n. 102). E così: “Si configura infatti "ragionevole plausibilità" in ogni caso in cui, in ragione delle caratteristiche del conflitto, sussista il rischio che possano essere commessi, dal personale militare, crimini di guerra o contro l'umanità”. (Cass. 8 gennaio 2021 n. 102 e Cass. 3 marzo 2022 n. 7047), ovvero si tratta di una condizione di mera verosimiglianza: “possa ritenersi verosimile la commissione di crimini di guerra” (Cass. 18 maggio 2021 n. 13461).
Tutto ciò è comunque superfluo con riferimento all’Ucraina, dove crimini di guerra, per la nostra Corte di Cassazione, su dati di enti e associazioni internazionali, sono già stati commessi: “Il conflitto in cui il ricorrente rischia concretamente di essere arruolato è già caratterizzato da svariati crimini di guerra e contro l'umanità tali da legittimare sia il rifiuto di prestare il servizio militare, sia il riconoscimento della protezione internazionale in conseguenza di esso” (Cass. 19 novembre 2019 n. 30031).
4.4. Credo, così, si possa affermare che, in caso di guerra, nessuno può essere obbligato ad impugnare le armi.
Chi rifiuti di farlo può essere tuttavia obbligato, ai sensi dell’art. 2097 del codice dell’ordinamento militare, ad “un servizio civile”.
Tuttavia questa assegnazione non può aver luogo se la guerra presenta, anche “indirettamente” (Cass. 9 giugno 2022 n. 18626), la “ragionevole plausibilità” (Cass. 8 gennaio 2021 n. 102 e Cass. 3 marzo 2022 n. 7047), se non addirittura “la verosimiglianza” (Cass. 18 maggio 2021 n. 13461), della commissione di crimini di guerra o contro l’umanità.
E poiché, sembra, almeno a me, difficile immaginare una guerra ove non vi sia, nemmeno nella sua sola potenzialità e/o verosimiglianza, il rischio della commissione di crimini, il passo è breve per affermare, puramente e semplicemente, chenessuno in Italia, in Europa, o in ogni altro Stato democratico di libertà, può essere con la forza inviato su un teatro di guerra, o subire sanzioni, o la perdita di diritti, per il rifiuto che vi opponga.
Di nuovo, per la Corte di Cassazione, la: “esistenza di un conflitto armato internazionale” rende di per sé sola:“plausibile la connotazione di tale conflitto in termini di elevato rischio di commissione di crimini di guerra e contro l'umanità” (Cass. 9 giugno 2022 n. 18626).
Si tratta di un importante messaggio di pace, da trasmettere soprattutto ai nostri giovani.
Così come nessuno può essere condannato a morte, o ridotto in schiavitù, o torturato, allo stesso modo nessuno può essere obbligato a partecipare ad una guerra contro la propria coscienza, perché obbligarlo alla guerra contro la sua volontà e la sua coscienza costituirebbe di per sé già tortura, o riduzione in schiavitù, o, con buona probabilità, condanna a morte.
4.5. Due ultime osservazioni per terminare:
a) la prima è che, probabilmente, è proprio questo lo spartiacque tra uno Stato democratico e uno Stato totalitario, tra uno Stato che riconosce i diritti umani, o assoluti, o inalienabili dell’uomo, e uno Stato che, al contrario, ritiene che nessun diritto abbia l’uomo fuori dalle determinazioni del pubblico potere.
Se si vuole, è la base della nostra stessa democrazia porre l’uomo al centro del sistema, e sotto questo profilo possono così risuonare ancor oggi le parole che Giorgio La Pira pronunciò presso la sottocommissione del 75 il 9 settembre 1946:
È necessario che alla Costituzione sia premessa una dichiarazione dei diritti dell’uomo, soprattutto come affermazione solenne della diversa concessione dello Stato democratico, che riconosce i diritti sacri, inalienabili, naturali del cittadino, in opposizione allo Stato fascista, che con l’affermazione dei diritti riflessi, e cioè con la teoria che lo Stato è la fonte esclusiva del diritto, negò e violò alla radice i diritti dell’uomo”[26].
b) La seconda è che il diritto: “al rifiuto all'uso delle armi ed attività ad esse collegate” (così, ancora, Cass. 19 novembre 2019 n. 30031) costituisce un diritto umano e fondamentale dell’uomo, ovvero un diritto che non può essere modificato, o fatto venir meno, né da un Capo di Stato, né da un Governo, né da un Parlamento, né da un giudice, in quanto nessuna legislazione, e nessun orientamento giurisprudenziale, possono comprimere ciò che è inalienabile.
A niente rilevano i nuovi possibile scenari; nessun scenario può intaccare i diritti umani fondamentali dell’uomo.
[1] https:/www.legifrance.gouv.fr/dossierlegislatif/JORFDOLE000047403917.
[2] https://www.vie-publique.fr/loi/288878-loi-du-1er-aout-2023-programmation-militaire-2024-2030-lpm#: “Un article, introduit par amendement parlementaire, prévoyait qu'une partie des fonds collectés dans le cadre du livret A serait affectée au financement des entreprises de l'industrie de la défense. Cet article a été censuré par le Conseil constitutionnel comme cavalier législatif (sans lien avec l'objet du projet de loi initial)”.
[3] Conseil Constitutionel 2023 – 854, DC 28 luglio 2023, al punto 23 così statuisce: “L’article 52 complète l’article L. 221-5 du code monétaire et financier afin de prévoir l’affectation au financement d’entreprises de l’industrie de défense de certaines ressources collectées au titre de livrets d’épargne réglementée. Il prévoit également la remise au Parlement d’un rapport d’évaluation de ce dispositif. Introduites en première lecture, ces dispositions ne présentent pas de lien, même indirect, avec celles du chapitre III du titre II du projet de loi initial, et en particulier avec celles précitées de son article 24”.
[4] Questa la frase di Emmanuel Macron: “Il n'y a pas de consensus aujourd'hui pour envoyer de manière officielle, assumée et endossée, des troupes au sol. Mais en dynamique, rien ne doit être exclu."
[5] https://www.tf1info.fr/politique/ Grace a une loi de 2023 Emmanuel Macron peut il envoyer au front des civils et les mettre en prison s’ils refusent?
[6] Questo il testo di legge n. 703/2023, art. 23: "En cas de menace, actuelle ou prévisible […] la réquisition de toute personne, physique ou morale, et de tous les biens et les services nécessaires pour y parer, peut être décidée par décret en Conseil des ministres". Sera par ailleurs "puni d’un emprisonnement de 5 ans et d’une amende de 500.000 euros", quiconque viendrait à s'opposer à de telles réquisitions.
[7] Jean Paul Markus (le site lessurligneurs.eu), precisa infatti che ciò può avvenire solo: “pesant sur les activités essentielles à la vie de la Nation, la protection de la population, l’intégrité du territoire, la permanence des institutions de la République ou de nature à justifier la mise en œuvre des engagements internationaux de l’État en matière de défense”.
[8] Questa la dichiarazione di Elisabeth Borne secondo quanto riportato da https://www.tf1info.fr/politique/:“Le droit des réquisitions est le fruit d'un empilement de textes épars, obéissant à des objectifs et à des procédures qui n'apparaissent ni homogènes ni coordonnés et dont la rédaction semble parfois désuète, sujette à interprétation ou, plus largement, inadaptée aux besoins de l'époque".
[9] Questa la posizione del Ministro della difesa, in quanto la norma ha lo scopo di: "répondre à un besoin urgent de sauvegarder les intérêts de la défense nationale (par exemple par la réquisition de société spécialisée capable de récupérer les débris d’un avion de chasse qui se serait abîmé en mer)". Il s'agirait aussi d'être en capacité de "mettre en œuvre nos engagements de défense lorsqu’un État allié bénéficie de mesures de réassurance (par exemple, dans le cadre des actions de l’Otan, permettre à très bref délai la projection de moyens militaires vers l’étranger, en s’appuyant le cas échéant sur des moyens de transport privés en complément des moyens militaires) (https://www.tf1info.fr/politique/)."
[10] Guillaume Gontard, che precisa: “à des circonstances tout à fait exceptionnelles et gravissimes" (https://www.tf1info.fr/politique/).
[11] Ancora https://www.tf1info.fr/politique/: “Faire appel à des civils, réquisitionnés pour leurs compétences et leur expertise, serait uniquement justifié par le besoin de répondre à des menaces spécifiques (attaques contre les réseaux de télécommunication, destruction de satellites, sabotages de câbles sous-marins ou de gazoducs...)”.
[12] Esattamente, riportato dal quotidiano Le figaro: “Alors que les périls montent…….vous rappellez que nous sommes prets à consentir aux memes sacrifices pour défendre ce qui nous est le puls cher, notre terre de France e nos valeurs républicaines”.
[13] V. in argomento F.C. PALAZZO, Obiezione di coscienza, voce dell’Enc. del diritto, Milano, 1979, XXIX, 539 e ss.
[14] L’art. 3 di quella legge prevedeva che: “In caso di mobilitazione generale e in caso di mobilitazione parziale, quando se ne constati dal Governo la necessità, e nella misura che crederà opportuna, tutti i cittadini, uomini e donne, e tutti gli Enti legalmente costituiti, sono obbligati a concorrere alla difesa morale e materiale della Nazione e sono sottoposti ad una disciplina di guerra”.
[15] V. in argomento P. D’AMELIO, Leva militare, voce dell’Enc. del diritto, Milano, 1974, XXIV, 186 e ss.
[16] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, 1971, VI, 698.
[17] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, 1971, III, 1904 e ss.
[18] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, cit., III, 1909.
[19] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, cit., III, 1909 – 1914.
[20] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, cit., III, 1906.
[21] Per questa vicenda v. anche SCARSELLI, Attualità di Giorgio La Pira, in questa rivista, 24 giugno 2024.
[22] Esattamente, l’art. 1 di quella legge prevedeva che: “Gli obbligati alla leva che dichiarino di essere contrari in ogni circostanza all'uso personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza, possono essere ammessi a soddisfare l'obbligo del servizio militare nei modi previsti dalla presente legge. I motivi di coscienza addotti debbono essere attinenti ad una concezione generale della vita basata su profondi convincimenti religiosi o filosofici o morali professati dal soggetto”.
V. in argomento BETTINELLI, Profilo di diritto costituzionale della disciplina legislativa dell’obiezione di coscienza, Giur. cost., 1972, 2928
[23] V. infatti l’art. l’art. 10 legge 15 dicembre 1972 n. 772, per il quale: “In tempo di guerra gli ammessi a prestare servizio militare non armato o servizio civile sostitutivo possono essere assegnati a servizi non armati, anche se si tratti di attività pericolose”.
[24] Esattamente l’art. 1 di questa nuova legge disponeva che: “I cittadini che, per obbedienza alla coscienza, nell'esercizio del diritto alle libertà di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, opponendosi all'uso delle armi, non accettano l'arruolamento nelle Forze armate e nei Corpi armati dello Stato, possono adempiere gli obblighi di leva prestando, in sostituzione del servizio militare, un servizio civile”.
L’art. 4 poi riconosceva agli obiettori la possibilità di indicare “le proprie scelte in ordine all'area vocazionale e al settore d'impiego, ivi compresa l'eventuale preferenza per il servizio gestito da enti del settore pubblico o del settore privato, designando fino a dieci enti nell'ambito di una regione prescelta”. Inoltre per la prima volta, e diversamente dalla legge del 1972, l’art. 9. 4° comma statuiva che “Il servizio civile ha una durata pari a quella del servizio militare di leva e comprende un periodo di formazione e un periodo di attività operativa”.
[25] Per la riconduzione del diritto all’obiezione di coscienza all’art. 2 Cost. v. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1976, II, 1038; PEDIO, Osservazioni sulla obiezione di coscienza, Foro it., 1953, II, 207; BETTINELLI, Profilo di diritto costituzionale della disciplina legislativa dell’obiezione di coscienza, cit., 2928.
[26] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, 1971, VI, 348.
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