ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Giustizia e Comunicazione
Editoriale
“Yzur” è la storia di una scimmia e di un uomo che vuole insegnarle la parola.
La scimmia ha sì un suo linguaggio ma l’uomo, dopo lunghi studi, giunge alla conclusione che “non esiste alcuna ragione scientifica per cui la scimmia non sarebbe in grado di parlare.” L’uomo inizia così un elaborato esperimento comunicativo con la scimmia, scadente nei modi e nei risultati, fino a che questa, ammalatasi, viene a mancare dopo una lunga agonia.
Per Borges, che colloca il racconto di Leopoldo Lugones all’origine della letteratura fantastica argentina, gran parte del fascino della storia è nel finale. Il lettore non sa se credere al narratore - all’umanizzazione, pur fatale, della scimmia - o pensare che l’unica conclusione dell’esperienza sia la follia dell’uomo e la fine, triste, della scimmia.
La giustizia ha una sua originaria e passiva forma comunicativa - la pubblicità degli atti e dei procedimenti, le sentenze - e non sembra esistere alcuna ragione apparente, almeno al giorno d’oggi, per cui non sarebbe in grado di comunicare altrimenti, in modo attivo, e per mezzo di altre forme di comunicazione.
La “Guide on communication with the media and the public for courts and prosecution authorities” adottata dalla Commissione per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa (CEPEJ) nel 2018, dichiara che, a differenza degli altri poteri e per ragioni istituzionali e culturali, la magistratura è meno incline alla comunicazione, o meglio, è poco incline a comunicare la propria attività per mezzo delle forme di comunicazione esistenti. La stessa Guida evidenzia che, continuando ad assecondare tale tendenza, la giustizia rischia di rimanere oscura e incomprensibile agli occhi dell’opinione pubblica e dei media, sia per quanto riguarda il funzionamento generale delle istituzioni giudiziarie e la gestione dei casi, sia per quanto riguarda i limiti che la legge impone ai pronunciamenti.
L’uomo del racconto di Lugones dichiara, all’inizio della narrazione, di aver pensato all’esperimento dopo aver letto che “i nativi di Giava attribuiscono l’assenza di linguaggio articolato nelle scimmie non a un difetto, ma a una deliberata astensione”. L’uomo, nel seguito, di fronte alla progressiva intellettualizzazione della scimmia e al suo “ribelle mutismo” racconta: “di colpo realizzai: non parlava perché non voleva parlare”. La giustizia, avverte la Guida, “non può, come in passato, confinarsi a lungo in una torre d'avorio, emettere giudizi senza tener conto di come questi saranno ricevuti e compresi” pur essendo obbligata a mantenere “un equilibrio tra la dignità delle istituzioni giudiziarie e dei loro rappresentanti, il che richiede da un lato una certa discrezione e, dall'altro, la necessità di una comunicazione con mezzi adeguati e moderni”.
La comunicazione nella giustizia è ancora limitata, per scelta, nella sua tradizionale forma di comunicazione o si avvale, o può avvalersi, anche di altre forme? Queste ultime e le loro caratteristiche come si bilanciano con i diritti fondamentali e con i principi, soprattutto costituzionali, che presiedono l’attività giurisdizionale? In quale modo la giustizia è raccontata dai media e come tale racconto influisce sulla giustizia stessa?
Giustizia Insieme vuole offrire ai lettori una riflessione su questi temi, con l’auspicio che gli articoli e le interviste che seguiranno, con cadenza settimanale, siano di stimolo per una discussione sulle possibilità e i rischi che si annidano nel binomio “giustizia e comunicazione”.
Usurpando le categorie di Mauthner, ci chiederemo quanto della narrazione della giustizia sia costituita dalle mere impressioni sensoriali, dall’esperienza immediata, dal dato che semplicemente consegna le proprietà delle cose senza aggiungere cosa esse siano al di là delle loro proprietà.
Ci interrogheremo se discorrere di giustizia implichi in alcuni casi l’invenzione di forze, cause, e cose, o se, invece, disveli il carattere apparente e irreale degli eventi stigmatizzando quanto l’unica immagine fornita tradizionalmente sia pura parvenza. E ci domanderemo se e quando le parole trasformino le cose nel mondo del divenire secondo una finalità ed uno scopo.
Giustizia Insieme orienterà così lo sguardo verso la giustizia che comunica sé stessa, analizzando le forme di comunicazione adottate dai protagonisti dell’attività giudiziaria e, al contempo, aprirà uno spazio per dialogare con i protagonisti della comunicazione della giustizia.
Buona lettura del primo intervento in programma, curato dal Primo Presidente emerito della Corte di Cassazione Giovanni Canzio su “Il linguaggio giudiziario e la comunicazione istituzionale”.
Crisi della coppia e revoca della volontà di accesso alla procreazione medicalmente assistita(nota a Trib. S.M. Capua Vetere, 11 ottobre 2020)
di Antonio Scarpa
Sommario: 1. I fatti di causa e le ordinanze in commento - 2. Art. 700 c.p.c. e ordine di trasferimento nell’utero degli embrioni - 3. Il merito della questione: la revoca del consenso alla procreazione medicalmente assistita.
1. I fatti di causa e le ordinanze in commento
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, adito con ricorso ex art. 700 c.p.c., ha ordinato alla struttura sanitaria convenuta con provvedimento dell’11 ottobre 2020 di procedere all’inserimento in utero degli embrioni crioconservati in custodia sulla persona della ricorrente. Nel 2018 una coppia di coniugi aveva espresso la propria volontà di accedere ad una tecnica di procreazione medicalmente assistita. Operata la fecondazione degli ovuli, si era proceduto alla crioconservazione degli embrioni, giacché il trasferimento nell’utero degli stessi non risultò immediatamente possibile per grave causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna. Nel 2019 il marito aveva tuttavia proposto domanda di separazione e così la moglie aveva diffidato la struttura a procedere comunque all’impianto degli embrioni. L’istanza cautelare esponeva come l’avvio della separazione coniugale non potesse comunque deporre quale revoca della volontà dell’uomo di accedere alla procreazione medicalmente assistita, ammettendosi tale revoca, alla stregua dell’ultima parte del terzo comma dell’art. 6 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, soltanto fino al momento della fecondazione dell’ovulo.
Il marito aveva opposto nelle proprie difese l’assenza dei requisiti soggettivi per l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ex art. 5 della medesima legge n. 40 del 2004, a seguito del venir meno della coppia per la crisi denunciata in sede di separazione, e comunque esprimeva l’intervenuta revoca del consenso.
L’ordinanza resa dal giudice designato supera dapprima le resistenze in punto di sussistenza delle condizioni di ammissibilità dell’invocato provvedimento d’urgenza volto ad ottenere l’impianto degli ovuli crioconservati, individuando nell’art. 700 c.p.c. un mezzo di tutela giurisdizionale pienamente satisfattiva. Per il giudice del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, l’irrevocabilità del consenso alla procreazione assistita doveva poi trarsi dal citato art. 6, terzo comma, della legge n. 40/2004, stante l’avvenuta fecondazione dell’ovulo, dalla quale discendono normativamente un’autonoma e irreversibile determinazione alla genitorialità nonché l’insorgenza della rilevanza costituzionale dell’embrione. L’ordinanza dell’11 ottobre 2020 evidenzia altresì come il requisito della coppia ex art. 5, legge n. 40/2004, sia stabilito al fine di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ferma l’irrevocabilità del consenso espresso una volta che sia avvenuta la fecondazione dell’ovulo, ben potendo scindersi, una volta giunti a questo punto di non ritorno, il nesso tra assunzione della genitorialità e prosecuzione della famiglia. Negata quindi in fatto la ravvisabilità di riserve mentali della donna nella volontà espressa di procedere alla procreazione medicalmente assistita, il giudice designato si “libera” anche di Corte eur. dir. uomo, G.C., 10 aprile 2007, ric. 6339/05, Evans c. Regno Unito, ritenendo il precedente dettato con riguardo alla legislazione britannica, la quale si connota per una valutazione dell’embrione assai diversa da quella dell’ordinamento italiano.
L’ordinanza pronunciata il 27 gennaio 2021 dal collegio del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. ripercorre le medesime argomentazioni: è ammissibile l’utilizzo dei provvedimenti d’urgenza sebbene finalizzato alla condanna ad un facere infungibile con effetti materiali; la legge n. 40 del 2004 tutela il diritto dell’embrione ed in tal senso opera la revocabilità del consenso prestato alla procreazione medicalmente assistita; la separazione della coppia dei soggetti, che abbia manifestato la propria volontà di accedere alle tecniche di procreazione assistita, non elide i presupposti soggettivi di ammissione e non assume rilievo per i diritti acquisiti dal figlio; in particolare, il venir meno del progetto di vita comune dei genitori già consenzienti non può prevalere sull’aspettativa di vita dell’embrione, che si consacra al momento della fecondazione; nessun reale contrasto c’è tra il primo ed il terzo comma dell’art. 6 della legge n. 40 del 2004, giacché l’obbligo di informazione gravante sul medico in ogni fase di applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita non suppone una necessità di integrare o rinnovare il consenso già prestato, se non “in caso di rilevate problematiche o anomalie del processo”; nella specie, avendo i coniugi espresso per iscritto il loro consenso, divenuto irrevocabile con la fecondazione dell’ovulo, doveva intendersi instaurato il rapporto contrattuale ed il medico della struttura doveva perciò procedere alla procreazione medicalmente assistita.
2. Art. 700 c.p.c. e ordine di trasferimento nell’utero degli embrioni
Le difese, che entrambe le ordinanze cautelari disattendono, circa l’inammissibilità del provvedimento d’urgenza richiesto, giacché privo di strumentalità e diretto a conseguire un facere infungibile ed effetti definitivi, suonano nostalgiche quanto la via del ritorno all’Uno suggerita da Plotino.
La strumentalità rispetto alla sentenza di merito e la provvisorietà (e quindi la non decisorietà) degli effetti dei provvedimenti cautelari emergevano, per la verità, ancora abbastanza nitidamente nella struttura originaria del procedimento ex art. 669-bis e seguenti c.p.c. congegnato dalla legge n. 353 del 1990. Secondo l’archetipo in voga nel precedente millennio, i provvedimenti cautelari non dovevano dar luogo alla concretizzazione della tutela normativa, rappresentando soltanto un mezzo per garantirne l’attuazione. Un provvedimento del giudice sarebbe cautelare (anche) perché non permanente, ed anzi munito, come nel modello del legislatore degli anni Novanta, di un’efficacia condizionata all’instaurazione ed agli esiti della causa di merito.
Questi schematismi sulla fisionomica provvisorietà dei provvedimenti d’urgenza, già costantemente traditi dalla pratica giurisprudenziale nell’applicazione data all’art. 700 c.p.c., sono poi venuti meno per legge con la Riforma del 2005, in particolare alla luce dei commi aggiunti in calce all’art. 669- octies c.p.c., prevedendosi che le disposizioni sull’inizio o sull’estinzione del giudizio di merito, comportanti l’inefficacia della misura cautelare, non si applicano ai provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., né agli altri provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito, nonché ai provvedimenti emessi a seguito di denunzia di nuova opera o di danno temuto. Il codice di rito ha recepito così, per darle una speciale disciplina, la categoria dottrinale dei provvedimenti anticipatori; esistono, e sono diversamente regolate, misure cautelari il cui contenuto risulta integralmente anticipatorio degli effetti satisfattivi del diritto azionato. I provvedimenti anticipatori immunizzano l’istante dal pericolo di tardività, e non solo di infruttuosità, della sentenza di merito a cognizione piena: essi, perciò, non si limitano a mantenere immutato uno stato di fatto, ma assicurano già una modifica della situazione esistente, in modo da scongiurare l’intempestività della tutela ordinaria[1]. Se scopo del giudice designato per il procedimento d’urgenza è quello di erogare una tutela che fornisca al ricorrente l’utilità sostanziale che egli auspica, in maniera che neppure più dopo questi richieda l’erogazione della cognizione ordinaria, il provvedimento inevitabilmente si concentra quasi del tutto sulla ricerca del ricerca del fumus, trascurando il periculum, perché è divenuta ormai marginale la qualificazione temporale del bisogno di tutela[2]. L’ordinanza che accoglie la domanda ex art. 700 c.p.c. vuole fornire al ricorrente il bene della vita cui ambisce, così che egli non possa avere più interesse a vedere duplicato in una sentenza l’accertamento del suo diritto. Non vi è ragione di parlare tuttora nemmeno di una “strumentalità attenuata” dei provvedimenti d’urgenza, giacché il giudizio di merito, a fronte di una tutela giurisdizionale pienamente satisfattiva ed in grado di anticipare l’assetto sostanziale della sentenza (con “autorità” a tempo indeterminato, ancorché sempre estranea alla forza del passaggio in giudicato) diviene ragionevolmente non più prevedibile.
La vigente regolamentazione che il codice di procedura civile dedica ai provvedimenti d’urgenza non può dirsi, dunque, affatto preoccupata dall’idea che l’art. 700 c.p.c. funzioni come elargizione integrale (e non come assicurazione provvisoria) degli effetti dell’ormai futura ed eventuale sentenza, assecondandone l’evoluzione (o involuzione) da «decisione strumentale al merito» in «decisione di merito anticipata». L’ordinanza interinale viene ammessa così anche quando finisce per precostituire un assetto di interessi definitivo ed irreversibile, come tale non più modificabile né revocabile dal giudice della sentenza che intenda negare l’esistenza della situazione soggettiva cautelata.
Non trova eco nella legge processuale l’allarme per la progressiva atrofizzazione della verifica giudiziale sul periculum in mora, ravvisato dai giudici pressoché automaticamente nella sussistenza del fumus allorché il pregiudizio sia minacciato ad un diritto a contenuto e funzione non (esclusivamente) patrimoniale, proprio come avvenuto nella specie, avendosi riguardo all’adempimento di un contratto relativo all’esecuzione di una tecnica di procreazione medicalmente assistita.
Appare, infine, altra battaglia di retroguardia l’obiezione della inammissibilità dell’ordine ex art. 700 c.p.c. volto all’adempimento di obblighi di non fare o di fare infungibili, ed in quanto tali incoercibili. Oltre a svolgere una finalità preventiva ed avere una funzione inibitoria, la misura cautelare atipica a tutela dell’obbligo insuscettibile di esecuzione forzata ha il suo presidio incentivante nell’art. 614-bis c.p.c., configurandosi l’ordinanza urgente quale “provvedimento di condanna all’adempimento” ai sensi di tale norma.
3. Il merito della questione: la revoca del consenso alla procreazione medicalmente assistita
Le soluzioni adottate nelle ordinanze cautelari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere sono da condividere anche quanto al merito della questione.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 84 del 2016[3], pur dichiarando privo di rilevanza nel giudizio a quo il dubbio di legittimità costituzionale del divieto di revoca del consenso all’impianto dopo la fecondazione dell’ovulo, di cui all’art. 6, comma 3, ultimo capoverso, della legge n. 40 del 2004, ricordava come la giurisprudenza costituzionale (in particolare, sentenze n. 229 del 2015, n. 96 del 2015 e n. 151 del 2009) sia arrivata stabilmente ai seguenti approdi:
- la dignità dell’embrione, quale entità che ha in sé il principio della vita (ancorché in uno stadio di sviluppo non predefinito dal legislatore e tuttora non univocamente individuato dalla scienza), costituisce, comunque, un valore di rilievo costituzionale «riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.»;
- la tutela dell’embrione non è suscettibile di affievolimento (ove e) per il solo fatto che si tratti di embrioni affetti da malformazione genetica, e nella stessa è stata individuata la ratio della norma penale (art. 14, commi 1 e 6, della legge n. 40 del 2004) incriminatrice della condotta di soppressione anche di embrioni ammalati non impiantabili;
- come ogni altro valore costituzionale, anche la tutela dell’embrione è stata ritenuta soggetta a bilanciamento, specie al fine della «tutela delle esigenze della procreazione» ed a quella della salute della donna.
L’art. 6, comma 3, della legge n. 40 del 2004 disciplina le modalità del consenso informato all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, prevedendo un termine minimo di sette giorni tra la manifestazione della volontà e l’applicazione della tecnica e disponendo che la volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti della coppia fino al momento della fecondazione dell’ovulo. Lo stesso art. 6 contempla un dovere del medico di informare dettagliatamente la donna e l’uomo, “prima del ricorso ed in ogni fase di applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita”, sui metodi, sui problemi bioetici, sui possibili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti, sulle probabilità di successo e sui rischi dalle stesse derivanti, sulle relative conseguenze giuridiche e sugli eventuali costi economici dell’intera procedura. Non di meno, se il medico responsabile della struttura può decidere di non procedere alla procreazione assistita “esclusivamente per motivi di ordine medico-sanitario”, la revoca del consenso della coppia viene dalla lettera della norma inevitabilmente subordinata sotto un profilo cronologico al momento della fecondazione dell’ovulo.
Tuttavia, in dottrina si segnala come, vieppiù a seguito delle sentenze della Corte Costituzionale n. 151 del 2009 e n. 96 del 2015, l’irrevocabilità del consenso prestato a tutela dell’embrione si debba ritenere recessiva rispetto alla tutela del diritto alla salute della donna e dei diritti procreativi. In particolare, l’interesse alla tutela dell’embrione, che è alla base del termine ultimo fissato per la revoca della volontà di procedere al trattamento, non potrebbe obbligare irretrattabilmente al trasferimento nell’utero degli embrioni ove lo stesso mettesse il pericolo la salute della donna, o comunque ledesse l’autodeterminazione della stessa nella scelta di sottoporsi al trattamento sanitario[4].
La irrevocabilità della volontà inizialmente espressa all’accesso alle tecniche di procreazione assistita non può invece essere minata, dopo che l’ovulo sia stato fecondato, dall’insorgenza di una situazione di conflitto nella coppia, o dal sopravvenire di una condizione di disaffezione o di distacco di uno solo dei soggetti, non trattandosi di ragioni che possono giustificare un affievolimento della tutela dell’embrione.
In un recente precedente della Corte di Cassazione, il limite alla revocabilità del preventivo consenso alla procreazione assistita, nella specie eterologa, segnato comunque dalla fecondazione dell’ovulo, è stato richiamato per desumere l’inammissibilità dell’azione di disconoscimento della paternità, peraltro vietata esplicitamente dall’art 9, comma 1, della legge n. 40 del 2004[5].
La valenza costitutiva dello status di figlio, che la legge n. 40/2004 affida al consenso alla procreazione medicalmente assistita, è alla base anche della soluzione giurisprudenziale data alla questione della filiazione conseguita ad una fecondazione omologa "post mortem" avvenuta mediante utilizzo del seme crioconservato dell’uomo deceduto prima ancora della formazione dell’embrione[6].
A commento delle ordinanze pronunciate dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere si è scritto che il consenso alla procreazione medicalmente assistita è cosa diversa, per struttura, funzione di tutela ed effetti, dal consenso al trattamento sanitario di cui alla legge 22 dicembre 22 dicembre 2017, n. 219; che la Corte Costituzionale non ha mai affermato l’esistenza di un “diritto alla vita dell’embrione”; che i provvedimenti cautelari in rassegna avrebbero eluso la disciplina posta a tutela dell’autodeterminazione dei soggetti della coppia; che il potere di governo dell’embrione deve essere attribuito congiuntamente alla donna ed all’uomo, quale centro di imputazione complesso degli interessi, in ragione della fusione delle cellule e dell’avvio di un progetto parentale condiviso; che il Tribunale avrebbe eluso l’approdo raggiunto nella sentenza della Corte EDU nel caso Evans c. Regno Unito, ove si affermava che la paternità non può essere imposta [7].
Partendo dall’ultima suggestione, è vero che la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte affermato che, nella materia della procreazione medicalmente assistita, gli Stati conservano –quanto ai temi sui quali non si registri unanimità di vedute – un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S. H. e altri contro Austria).
Le critiche mosse alle ordinanze in commento non sembrano, inoltre, calate sulla fattispecie di causa. In tale fattispecie alla irrevocabilità del consenso sancita dall’art. 6, comma 3, della legge n. 40 del 2004, si contrapponeva l’assunta esigenza di assicurare all’uomo un diritto di ripensamento della volontà espressa di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, in momento successivo alla fecondazione dell’ovulo, quale conseguenza derivata dalla crisi della coppia, delineando, in sostanza, un collegamento funzionale per interdipendenza tra progetto familiare e progetto procreativo, sicché essi simul stabunt, simul cadent[8].
Viceversa, l’irrevocabilità del consenso di cui all’art. 6, comma 3, cit. opera come garanzia della certezza dello status filiationis del nascituro e dell’assunzione della responsabilità genitoriale della coppia, garanzia correlata alla consapevole espressione della volontà di procreare cui l’ordinamento conferisce valenza identificativa della genitorialità legale[9]. Se l’irrevocabilità della volontà della donna trova sempre il limite, dapprima evidenziato, della coerenza con l’art. 32 Cost., la compiuta scelta procreativa dell’uomo di acquisire una veste genitoriale "legale", una volta che l’embrione abbia giuridicamente assunto la dignità di “entità che ha in sé il principio della vita”, riconducibile all’art. 2 Cost., soggiace ragionevolmente alla regola di irreversibilità degli effetti degli atti determinativi dello status della persona rispetto allo stesso soggetto che li abbia compiuti, rendendo il suo ripensamento non meritevole di preminente tutela.
[1] P. Calamandrei, Introduzione allo studio dei provvedimenti cautelari, Padova 1936, 21 ss.; C. Mandrioli, Per una nozione strutturale dei provvedimenti anticipatori o interinali, Riv. dir. proc. 1964, 551 ss.
[2] E. Dalmotto, Il rito cautelare "competitivo”, in Riv. trim, dir. e proc. civ. 2007, 1, 267 ss.
[3] In questa Rivista, 2017, num. 2, 310 ss., con nota di I. Rivera, La Corte costituzionale torna sulla sperimentazione degli embrioni.
[4] Indicativamente, si vedano A. Cossiri, La l. n. 40/2004 ancora di fronte alla Corte: l’inammissibilità delle questioni sui divieti di revoca del consenso e di ricerca sugli embrioni, in Giur. cost. 2016, 763 ss., nota a Corte Cost. 13 aprile 2016, n. 84; V. Tigano, De dignitate non disputandum est? La decisione della Consulta sui divieti di sperimentazione sugli embrioni e di revoca del consenso alla PMA, in www.penalecontemporaneo.it.; già in precedenza, L. ROSSI CARLEO, Le informazioni per il consenso alla procreazione assistita, in Familia, 2004, 706 ss.; L. BOZZI, Il consenso al trattamento di fecondazione assistita tra autodeterminazione procreativa e responsabilità genitoriale, in Europa e dir. priv., 2008, p. 241 ss.
[5] Cass. 18 dicembre 2017, n. 30294, in Famiglia e diritto 2019, 21 ss., con nota di A. Figone, Revoca del consenso alla fecondazione eterologa, la quale ritiene diversa la posizione dell’uomo rispetto alla posizione della donna ai fini della revoca del consenso alla procreazione assistita dopo la fecondazione, non potendosi alla prima imporre un trattamento sanitario coatto, e peraltro trovandosi il padre del concepito nella stessa diversità di posizione in cui lo colloca la legge n. 194 del 1978, diversità reputata non irragionevole da Corte cost. 31 marzo 1988, n. 38.
[6] Cass. 15 maggio 2019, n. 13000, in Corr. giur. 2020, 748 ss. con nota di D. M. Locatello, L’attribuzione dello status filiationis al nato da fecondazione omologa eseguita post mortem.
[7] S. P. Perrino, L’utilizzo degli embrioni crioconservati dopo la separazione coniugale, in giustiziacivile.com, 6 aprile 2021.
[8] Si veda su tale profilo M. Acierno, Tecniche di riproduzione assistita e revoca del consenso: una questione ancora insoluta, in Rivista AIAF 2015, 2, 31 ss.
[9] Fra le tante voci dottrinali in tal senso, M. D’AURIA, Informazione e consensi nella procreazione assistita, in Familia, 2005, I, 1005 ss.
Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII
di Bruno Capponi
È notizia dell’ultim’ora l’avvenuta predisposizione da parte dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia di emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, presentato al Senato il 9 gennaio 2020 e recante Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie. Si tratta di un articolato contenente previsioni di delega legislativa e non norme dirette (se non nell’art. 15 ter, che tratta promiscuamente i procedimenti in materia di diritti delle persone e della famiglia e taluni aspetti dell’esecuzione forzata), corredato da un’ampia relazione illustrativa.
Giustizia Insieme intende aprire un dibattito ampio su questo testo.
Le considerazioni che seguono debbono intendersi “a prima lettura” di limitati aspetti di un testo complesso (in sé e nella sua integrazione con le precedenti previsioni del d.d.l.), che è destinato a modificare in più punti la tutela giurisdizionale civile. Si può anzi prevedere che le norme delegate costituiranno il più consistente intervento sul codice di procedura, dal tempo della sua promulgazione.
Una considerazione preliminare s’impone. Il Governo presenta il maxi-emendamento come una soluzione “tecnica” che, nei termini presentati dalla stampa generalista, è candidata a ridurre quasi della metà gli attuali tempi di durata dei processi civili. Non entriamo nel merito di tale valutazione, anche perché non sappiamo (non viene detto) sulla base di quali parametri oggettivi essa sia stata formulata. Osserviamo soltanto che a base dell’intervento vengono divisate valutazioni di tipo economico (PIL, ripresa, competitività, Europa), e quando gli economisti si sono occupati di giustizia (un esempio recente è il documento Come ridurre i tempi della giustizia civile diffuso dall’osservatorio sui conti pubblici italiani: https://www.mondoadr.it/wp-content/uploads/cpi-Come-ridurre-i-tempi-della-giustizia-civile.pdf) hanno sempre proposto ricette maltusiane del tipo: (a) disincentivare, «sia per i clienti sia per gli avvocati», il ricorso in giudizio; (b) condannare l’attore soccombente, in appello o in cassazione, a pagare un importo pari al quadruplo del contributo unificato (a favore dello Stato). In caso di ricorso in cassazione contro la c.d. “doppia conforme” e in caso di ulteriore soccombenza, le spese andrebbero liquidate alla parte vincitrice in misura pari almeno al triplo di quelle riconosciute dalla Corte di appello; (c) limitare la possibilità di ricorso in cassazione ai casi attualmente affidati alle sezioni unite; (d) degiurisdizionalizzare i contenziosi civili; (e) sommarizzare, mediante l’impiego generalizzato del procedimento sommario di cognizione, la giustizia civile in tutti i suoi gradi; (f) «i giudici le cui cause vengono annullate dalla cassazione o totalmente riformate in appello in una percentuale superiore al 40 per cento della media nazionale, si dovrebbero veder negato il giudizio di idoneità quadriennale».
Queste ricette “da economista” sembrano non tener conto del tipo di impegno che lo Stato, in base alla nostra Carta fondamentale, assume nei confronti dei cittadini nel delicato settore dell’amministrazione della giustizia. Esse sembrano dare per scontato che il ricorso ai tribunali non sia determinato da esigenze sociali effettive, costituendo piuttosto il soddisfacimento di bisogni di tipo occasionale e voluttuario, determinati anche da equivoci culturali. Esse guardano all’Avvocatura come a un fattore di intoppo e malfunzionamento del sistema, che darebbe prova migliore di sé ove si riuscisse a comprimere il numero degli iscritti ai consigli dell’ordine, dandosi per scontato che la presenza stessa degli avvocati è un fattore di creazione e moltiplicazione di contenzioso. Non ci si rende conto che “disincentivare” il “ricorso in giudizio” significa violare l’art. 24, l’art. 25, l’art. 102 Cost. e ignorare, al tempo stesso, la funzione ordinamentale e istituzionale dell’Avvocatura (posta, dall’osservatorio sui conti pubblici, sullo stesso piano dei “clienti”). E, nel contempo, ove vi fossero abusivi ricorsi e sfruttamenti della “risorsa Giustizia”, altre dovrebbero essere le misure idonee a scoraggiarli; il respingimento indiscriminato è inaccettabile, anche perché finisce per colpire i più deboli.
Insomma, l’atteggiamento che si va diffondendo è lo stesso di chi, credendo che i pronto soccorso siano pieni di malati immaginari e perditempo, proponga di risolvere i problemi della sanità chiudendo gli ospedali; anzi, irrogando sanzioni a chi insista a presentarsi in astanteria con la testa rotta, essendo fondato il sospetto che se la sia rotta apposta.
È in questo preciso clima che si inquadrano gli interventi “tecnici” del maxi-emendamento.
1. Il tema forse più urgente, e che il Ministro tratta però su un altro tavolo (Commissione Castelli), è quello del ruolo e dell’utilizzo della magistratura onoraria. L’art. 12-bis, rubricato Ufficio per il processo, premette che tale struttura organizzativa «è attualmente disciplinata dall’articolo 16-octies del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, dal D.M. 1° ottobre 2015 e dal decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116». Quest’ultimo testo (c.d. “riforma Orlando”) è stato al centro di molte polemiche, per l’utilizzo cui in esso è destinata la magistratura onoraria, di pace e di tribunale (GOT). Il tema è delicato: la sentenza UX 658/18 della Corte di Giustizia ha stabilito che i giudici di pace, da un lato, hanno la qualifica di “giudice europeo” e, dall’altro lato, di “lavoratori” (noi diremmo “lavoratori dipendenti”, pur con contratto a termine), con quanto ne dovrebbe conseguire in tema di tutele previdenziali e assistenziali nonché di retribuzione adeguata. La Corte ha escluso che le modalità di accesso alle funzioni giurisdizionali dei magistrati togati (concorso pubblico) possano costituire motivo legittimo per differenziare il trattamento economico tra le due categorie (che peraltro confluiscono – aspetto che non sempre viene ricordato – nella generale qualifica di “magistrati ordinari”). Tra l’altro, le funzioni giurisdizionali onorarie sono “temporanee” soltanto sulla carta, perché ci sono giudici di pace e GOT che esercitano ininterrottamente le loro funzioni da molti anni, gestendo un proprio autonomo “ruolo” esattamente come fa un magistrato togato, che è dunque sempre più il “giudice della porta accanto”.
Le questioni implicate dalla necessità (che sembra condivisa da tutti, ma il tempo sta scorrendo inutilmente) di ritornare sulla “riforma Orlando” sono numerose.
I GOP (nuovo acronimo che ricomprende tutti gli onorari), allo stato attuale, dovrebbero essere tutti inseriti nell’Ufficio per il Processo (art. 30 comma 1, d.lgs. n. 116/2017), per svolgere le attività indicate dall’art.10: al magistrato onorario vengono conferite “deleghe” (comma 11) in base a precise “direttive” (commi 13,14 e 15) alle quali il magistrato dovrà attenersi, salvo revoca. Gli è preclusa la possibilità di definire tutti i procedimenti a lui assegnati, dovendo limitarsi a emettere quei soli provvedimenti che risolvano “questioni semplici e ripetitive” (comma 12).
Indubbiamente, il modello organizzativo del nuovo ufficio, già presente nella legge di delega 28 aprile 2016, n. 57, è inedito. Prima di essa, i GOT erano inquadrati quali ausiliari all’interno di un ufficio, nel quale tuttavia non si confondevano (pur potendo essere assegnatari di un autonomo ruolo istruttorio e decisorio). Nel futuro, i giudici onorari dovrebbero al tempo stesso essere incardinati nell’ufficio per il processo; compito delicatissimo del presidente sarà quello di garantire un giusto equilibrio tra l’attività che l’onorario svolgerà nella sua veste di giudice (“questioni semplici e ripetitive”), e ciò che potrà essere chiamato a fare quale “assistente” del giudice professionale. Il rischio, evidentissimo, è che le scoperture di organico – che non costituiscono certo l’eccezione nei nostri tribunali – spingano gli uffici di dirigenza a privilegiare la funzione “servente” dei magistrati onorari, i quali per di più – a differenza dei giudici di pace – non hanno nessuna esperienza quali titolari di un ufficio autonomo.
È vero che il presidente del tribunale disporrà così di una corposa “massa di manovra”, indubbiamente assai utile per meglio equilibrare gli assetti organizzativi (verosimilmente a vantaggio dei togati); ma è vero anche, per converso, che il nuovo modello finisce per aggravare i suoi compiti dirigenziali, così come, d’altra parte, le limitazioni all’attività dei GOT – i quali sinora non ne hanno di fatto conosciute – finiranno per aggravare il lavoro dei magistrati togati.
Insomma, le resistenze corporative ai giusti (quantomeno per il passato) riconoscimenti della magistratura onoraria rischiano di essere pagate dagli utenti di un servizio giustizia sempre più deficitario ed evanescente, se è vero che il principale problema che il legislatore ha inteso risolvere è (soltanto) quello di escludere l’equiparazione, coi dovuti distinguo, tra magistratura professionale e onoraria.
C’è, in ogni caso, una prospettiva costituzionale che non può essere trascurata. L’art. 106, comma 2, Cost., ammette la nomina di magistrati onorari «per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli». Ciò presuppone che il legislatore costituzionale abbia dato per scontato che il giudice onorario (utilizzato, di norma, come giudice di primo grado: il monito viene anche dalla recente Corte cost. n. 41/2021) non potesse occuparsi di quel contenzioso particolarmente delicato e qualificato, tradizionalmente di competenza del tribunale. Il costituente aveva dinanzi agli occhi una situazione profondamente diversa da quella attuale: sin dalla fine dell’ottocento, e per i primi decenni del ’900, il giudice conciliatore si era trovato a conoscere di una parte percentualmente molto elevata del complessivo contenzioso in materia civile (con punte che arrivavano ad oltre l’80%), mentre i giudici professionali (pretore e tribunale) si occupavano del residuo contenzioso, che evidentemente era tutt’altro che bagatellare sebbene risultasse legato ad un’economia di tipo agricolo più che di tipo commerciale o addirittura industriale.
Il pensiero del costituente va dunque attualizzato e reinterpretato, perché la situazione di fatto e istituzionale è, negli anni, profondamente mutata. Occorre dunque chiedersi quale valore possa conservare oggi il riferimento alle competenze dei giudici “singoli”.
A nostro avviso, attualizzare tale riferimento significa leggerlo in rapporto alla c.d. giustizia minore. Non è interpretazione di tipo conservatore: va anzi preso atto che nel principio costituzionale vi è un germe di evoluzione, non essendosi inteso identificare anche per il futuro la giustizia onoraria in ciò che essa era all’epoca (altrimenti la Costituzione si sarebbe espressa in modo diverso, inibendo al giudice onorario di “invadere” la quota di giurisdizione riservata ai giudici professionali) ma soltanto individuare un limite verso l’alto: quello coincidente con la competenza del giudice di primo grado di rango più elevato, il tribunale. Sebbene non sia semplice (ora come allora) definire con ragionevole approssimazione cosa debba intendersi per “giustizia minore” (è un qualcosa destinato anche a cambiare nel tempo), va preso atto che il costituente ha preferito fare oggettivo riferimento a quella che era, all’epoca, la competenza del più importante ufficio giudiziario di primo grado.
Al tempo stesso, va preso atto che il giudice onorario, una volta nominato, entra a pieno titolo nel ruolo di “magistrato ordinario”, con la conseguenza di poter godere di tutte le garanzie proprie dell’esercizio della giurisdizione.
Ci sembra dunque che l’ufficio del processo, che oggi prevede la partecipazione dei GOP, vada totalmente ripensato, che vada in conseguenza differita l’entrata in vigore del d.lgs. n. 116/2017 e che ciò debba avvenire prima dell’entrata in vigore delle nuove norme delegate.
2. Altro tema delicato è quello dell’incremento degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie (art. 2). Anche questa materia è soggetta a un importante profilo costituzionale, allorché tali strumenti siano organizzati non soltanto per diffondere la cultura della mediazione (come la relazione afferma in più punti), ma soprattutto quale condizione di procedibilità in materie determinate.
La Corte Costituzionale ha sempre ribadito che l’assoggettamento dell’azione giudiziaria all’onere del previo esperimento di rimedi amministrativi o, comunque, non giurisdizionali «è legittimo soltanto se giustificato da esigenze di ordine generale o da superiori finalità di giustizia, fermo restando che, pur nel concorso di tali circostanze, il legislatore deve contenere l’onere nella misura meno gravosa possibile» (Corte cost. 24 febbraio 1995 n. 56); il legislatore, in altri termini, non deve «rendere la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa» (Corte cost. 27 luglio 1994 n. 360; Corte cost. 23 novembre 1993 n. 406).
Su questa stessa linea si assesta la Corte di Giustizia UE, la quale a più riprese ha confermato l’orientamento della nostra Consulta (cfr., per tutte, Corte Giust. CE 18 marzo 2010 n. 317).
Dal comma 1 dell’art. 24 Cost. si ricava così che la tutela giurisdizionale dei diritti dev’essere liberamente azionabile, e può sopportare, in settori determinati, limitazioni temporanee soltanto se funzionali ad un interesse di rilievo pubblicistico. Debbono ricorrere taluni requisiti: a) natura delle parti (pubblica amministrazione o impresa di pubblico interesse) giacché il previo esperimento della procedura amministrativa può giustificarsi sul riflesso e della “spontanea” conformazione a legalità, e dell’economicità della fase preventiva che consente di evitare procedure più lunghe e dispendiose (Corte cost. 6 luglio 1970 n. 116, Corte cost. 16 luglio 1970 n. 150, Corte cost. 27 febbraio 1974 n. 46, Corte cost. 17 luglio 1974 n. 234); b) carattere degli accertamenti demandati (Corte cost. 18 gennaio 1991 n. 15, a proposito degli enti previdenziali che dispongono di apposita organizzazione e personale specializzato, ciò che rende utile il previo esame della controversia in sede amministrativa); c) esigenza di porre un freno all’eccesso di tutela giurisdizionale «in vista di un interesse della stessa funzione giurisdizionale» (Corte cost. 1° giugno 1964 n. 47, Corte cost. 6 luglio 1970 n. 116, Corte cost. 4 marzo 1992 n. 82); d) opportunità di limitare il previo esperimento di fasi amministrative a settori particolari (Corte cost. 16 giugno 1964 n. 47, Corte cost. 8 luglio 1969 n. 125).
L’insistenza del nostro legislatore sugli strumenti alternativi, e ciò vale anche per il maxi-emendamento, ha un alto tasso di ambiguità: da un lato si afferma di voler diffondere una cultura che non sia soltanto quella della spada (ma va considerato che il giudice conciliatore, a dispetto del suo nome, la conciliazione non l’ha mai particolarmente curata, soprattutto quella in sede non contenziosa; va cioè considerato che ogni popolo ha la cultura che ha, e i relativi cambiamenti non avvengono per factum principis ma richiedono molto tempo e la modifica di molte condizioni di base); dall’altro lato, non si fa mistero che la diffusione di quella cultura viene sollecitata soprattutto al fine di liberare i ruoli del giudice, operazione che non ha punti di contatto con la diffusione di cultura e mentalità nuove. Si assiste alla ripetizione dell’operazione tentata nel 1991 con l’istituzione del giudice di pace: la versione nobile dell’operazione è stata la creazione di un “giudice della vicinanza e della tolleranza”; quella meno nobile è stata l’individuazione di un magistrato “minore” in grado di liberare i ruoli dei togati dalle questioni di minore importanza. Gli strumenti alternativi sono alimentati da un sistema che funziona; ma se debbono essere la toppa di un sistema che ha smesso di funzionare, è lecito pensare che anche il loro funzionamento non sarà garantito.
Andrebbe certamente considerato che nel nostro attuale sistema il soggetto che ha maggiori responsabilità nell’ingolfamento dei contenziosi (anche in Cassazione, tramite la sezione tributaria) è la pubblica amministrazione: proprio quel soggetto che, paralizzato dalla responsabilità contabile dei suoi vari agenti, risulta essere il meno propenso a soluzioni alternative dei suoi innumerevoli contenziosi. D’altra parte, la presenza di strumenti alternativi di più facile ed economico accesso può facilmente produrre il fenomeno dell’emersione di contenzioso inespresso: un bene per la collettività, un problema per chi – lo vedremo subito – ha quale primario obiettivo quello di reprimere il contenzioso già emerso.
3. Sul processo di cognizione di primo grado, il maxi-emendamento gioca la carta del principio di eventualità indiscriminato: gli atti introduttivi debbono contenere, a pena di decadenza, anche le allegazioni istruttorie. È una scelta che avvicina il rito ordinario a quello del lavoro, destinato a cause semplici e ripetitive (come sono tutte quelle in cui il rito lavoro s’è diffuso dopo il 1973), e che rischia però di alterare la parità delle parti, specie ove venga ridotto il termine di costituzione per il convenuto. Non vogliamo entrare nel merito specifico delle scelte divisate dalla relazione (aggiungere, negli artt. 163 e 167 c.p.c., che la descrizione dei fatti e degli elementi di diritto debba aver luogo «in modo chiaro e specifico» non ci sembra la soluzione miracolosa al fine «di rendere più agevole e comprensibile» la posizione delle parti); osserviamo soltanto che si continua (lo si fa dal 1990) a intervenire sulle attività di parte, che vengono compresse e sanzionate sempre più, e nulla si dice delle attività che competono al giudice. Si fa finta di non accorgersi che il problema dell’udienza è quello di cui si discute da sempre, e di cui molto si è discusso proprio in relazione al rito lavoro: il giudice deve arrivarvi preparato e deve arrivarvi con l’idea di decidere, non di rinviare. In questo, i giudici civili avrebbero molto da imparare dai giudici amministrativi, i quali ogni volta che si siedono in pubblica udienza decidono qualcosa, e non concedono rinvii e termini per trattazioni scritte perché il contraddittorio si realizza in udienza oralmente, magari con differimenti ad horas (il pomeriggio per la mattina). Qui servirebbe per davvero un cambio di abitudini e mentalità, non soltanto nel comune sentire riguardo agli strumenti alternativi!
Altra idea, non nuova, che domina le nuove proposte è quella del respingimento. Sebbene la relazione non ne faccia parola, la proposta è di abrogare l’art. 164, comma 4, c.p.c. per i vizi dell’editio actionis: si prevede in alternativa che il giudice, invece di rilevare la nullità e provvedere sulla rinnovazione, pronunci «ordinanza provvisoria di rigetto della domanda proposta, quando quest’ultima è manifestamente infondata ovvero se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito nel n. 3 dell’articolo 163 ovvero se manca l’esposizione dei fatti di cui al n. 4 dello stesso articolo» (la nullità è posta sullo stesso piano della manifesta infondatezza); e tale ordinanza non sarebbe reclamabile, mentre lo sarebbe l’ordinanza di accoglimento, che non acquisterà efficacia di giudicato ex art. 2909 c.c. e non avrà autorità in altri processi (in caso di accoglimento del reclamo il procedimento prosegue davanti ad un magistrato diverso appartenente al medesimo ufficio). Il diverso regime assegnato al provvedimento secundum eventum – che ricorda la scelta operata dall’art. 669 terdecies c.p.c., cassata dalla Corte costituzionale – lascia ben intendere che la portata della nuova regola è nel senso di facilitare i respingimenti, cioè i rigetti delle domande con provvedimenti sommari esattamente nel medesimo contesto che attualmente prevede la possibilità di rinnovazione con sanatoria ex nunc.
Quale interesse realizza un rigetto con ordinanza provvisoria? Nel caso dell’accoglimento l’interesse è quella della formazione anticipata del titolo esecutivo. Ma il rigetto, in sé, quale interesse potrà mai realizzare?
Bizzarro ci sembra il passaggio della relazione, in cui si parla della «introduzione, sia per le cause di competenza del giudice monocratico sia per le cause di competenza del collegio, di un modello uniforme di decisione nel quale il giudice, al completamento dell’istruttoria, fissi l’udienza di rimessione della causa in decisione (che per le cause nelle quali il giudice decida in composizione collegiale continuerà a celebrarsi davanti al giudice relatore)» e ciò non solo per il requisito di pubblicità dell’udienza, ma soprattutto perché l’udienza (che una volta era detta) di discussione non può che svolgersi dinanzi al giudice che dovrà decidere la causa.
Altra cifra riconoscibile del divisato intervento è quella della sommarizzazione. Sempre più si richiedono al giudice valutazioni sommarie prognostiche (lo vedremo infra); il sommario di cognizione cambia nome e collocazione topografica (trasloca dal Libro IV al Libro II e si chiamerà “procedimento semplificato di cognizione”: potenza delle parole!), ma ciò non toglie la scarsa fortuna che il modello ha avuto, forse proprio a causa della sua scarsa diluizione. Di certo, attualmente si compare dinanzi al giudice molto prima col sistema della citazione a udienza fissa, che non col sistema del ricorso.
4. La scelta del respingimento del contenzioso come ordinario dispositivo deflattivo si acutizza (era prevedibile) nelle proposte per il giudizio di appello: anzitutto si vuole che «l’impugnazione incidentale tardiva perde efficacia anche quando l’impugnazione principale è dichiarata improcedibile», e non soltanto inammissibile (noti i contrasti di giurisprudenza sul punto, mai sanati nonostante la nuova stagione “nomofilattica”); poi si prospetta «una razionalizzazione delle norme in tema di improcedibilità e di manifesta infondatezza dell’appello demandando al legislatore delegato l’individuazione della forma con cui l’appello è dichiarato improcedibile e il relativo regime di controllo e che, al di fuori dai casi in cui deve essere pronunciata l’improcedibilità dell’appello ai sensi dell’articolo 348 c.p.c., l’impugnazione, quando ne ricorrono i presupposti, sia dichiarata manifestamente infondata con decisione da assumersi in forma semplificata a seguito di trattazione orale con sentenza che potrà essere succintamente motivata anche con rinvio a precedenti conformi». Il messaggio non potrebbe essere più chiaro.
Si vorrebbero restringere – dopo averli …separati in casa! – i presupposti per la concessione dell’inibitoria in appello, allineandoli, quanto al periculum, con quelli dell’art. 373 c.p.c.: il legislatore delegato dovrebbe prevedere «a quali condizioni può disporsi la sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza impugnata sia disposta; indicando i parametri sui quali deve basarsi la valutazione, precisando che si deve formulare un giudizio prognostico di manifesta fondatezza dell’impugnazione o, alternativamente, quando sussiste il rischio di un grave e irreparabile pregiudizio derivante dall’esecuzione della sentenza, con l’ulteriore precisazione che tale rischio può consistere nella possibilità di insolvenza, quando la sentenza contiene la condanna al pagamento di una somma di denaro». Ne deduciamo, appunto, che fumus e periculum si sono separati, ma posto che sembra piuttosto difficile bollare un atto di appello come “manifestamente infondato” (lo dimostra l’applicazione dell’art. 348 bis c.p.c.), il risultato è che l’inibitoria dell’art. 283 si confonderà con quella dell’art. 373 c.p.c.
La ricorrenza del riferimento al carattere “manifesto” dell’infondatezza della domanda o del gravame sembra una pericolosa costante: evidentemente le concezioni degli economisti iniziano a diffondersi, mentre chi è solito frequentare gli uffici giudiziari sa quanto sia difficile bollare con simili valutazioni in limine le attività di parte, così come ha potuto constatare il fallimento dell’art. 348 bis col suo requisito della non ragionevole probabilità di accoglimento dell’impugnazione. Ma, tant’è, l’idea che la giustizia possa e anzi debba essere amministrata in forme sommarizzate anche nei gradi di gravame è dura a morire, e ad affermare il contrario si rischia di essere bollati come nemici della Patria.
Si conferma l’idea che l’istanza di inibitoria può essere premessa per una sanzione da devolversi alla cassa delle ammende: «si prevede che l’istanza di sospensione possa essere proposta o riproposta nel corso del giudizio di appello, anche con ricorso separato rispetto all’atto introduttivo, purché siano esposti, a pena di inammissibilità, gli specifici elementi sopravvenuti dopo la proposizione dell’impugnazione o dopo il rigetto. Si demanda al legislatore delegato l’adozione di disposizioni che scoraggino il rischio di moltiplicazione delle istanze di sospensione, prevedendo che se l’istanza è dichiarata inammissibile o manifestamente infondata il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l’ha proposta al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, con possibilità di revocare tale ordinanza con la sentenza che definisce il giudizio». Non si consente, invece, il reclamo avverso il provvedimento di inibitoria: soluzione che, dopo le recenti decisioni “nomofilattiche” della Cassazione sull’art. 615, comma 1, c.p.c., più non trova, a mio avviso, alcuna seria giustificazione.
Anche a proposito dell’inibitoria la direttiva, candidamente affermata, è quella di non far comparire le parti dinanzi al giudice che decide: «per quanto concerne la trattazione si prevede che tale fase si svolga davanti al consigliere istruttore, al quale sono attribuiti i poteri di dichiarare la contumacia dell’appellato, di procedere alla riunione degli appelli proposti contro la stessa sentenza, di procedere al tentativo di conciliazione, di ammettere i mezzi di prova, di procedere all’assunzione dei mezzi istruttori e di fissare udienza di discussione della causa anche ai sensi dell’articolo 281-sexies del codice di procedura civile». Non mancano poi «disposizioni volte a semplificare e accelerare la fase decisoria introducendo la possibilità che, all’esito dell’udienza in camera di consiglio fissata per la decisione sull’istanza prevista dall’articolo 283 c.p.c., il collegio possa provvedere ai sensi dell’articolo 281-sexies c.p.c., assegnando ove richiesto un termine per note conclusive scritte antecedente all’udienza di discussione»: il tutto, se ben comprendiamo, senza aver mai visto in faccia le parti (o i loro difensori) e senza che queste ultime abbiano avuto il piacere di conoscere in pubblica udienza chi le giudicherà.
Del resto, tale direttiva è costantemente riaffermata: «con riferimento alla fase decisoria si prevede l’eliminazione delle udienze di comparizione non necessarie stabilendo che, esaurita l’attività prevista negli articoli 350 e 351 c.p.c., il consigliere istruttore provveda direttamente all’assegnazione di termini per consentire il deposito dell’atto contenente la precisazione delle conclusioni, e ulteriori termini per il deposito delle comparse conclusionali e termini non superiori a 15 giorni per il deposito delle memorie di replica e a fissare successiva udienza avanti a sé nella quale la causa è rimessa in decisione, con riserva di riferire al collegio e con deposito della sentenza nei successivi sessanta giorni». Se ne deduce che il collegio si formerà in camera di consiglio e che la parte lo conoscerà soltanto all’atto della pubblicazione della decisione: in tal modo vengono risolti alla radice i frequenti problemi che nascono in caso di diversità tra il collegio che si è formato all’udienza di discussione e il collegio che viene indicato nell’intestazione della sentenza. All’Europa, che dagli economisti è dominata, si potrà pure raccontare che queste misure realizzeranno una compressione dei tempi di definizione dell’appello, ma che ne penseranno i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo?
5. Anche riguardo alla Cassazione la prospettiva è «di semplificazione e di accelerazione di tale giudizio, al fine di conseguire l’obiettivo di ridurre i tempi di durata del processo, razionalizzando il procedimento e adeguando le modalità di risposta della Corte alle diverse tipologie di contenzioso e agli esiti prefigurati».
L’unificazione del rito camerale va salutata con favore, anche se è temibile l’introduzione di un procedimento camerale accelerato per i ricorsi inammissibili, improcedibili o, ancora, manifestamente infondati.
Il destino della Cassazione è quello di essere sempre più ingolfata, e ciononostante di acquisire sempre nuovi compiti: ora è il turno del “rinvio pregiudiziale in cassazione”. Potrà essere un ottimo modo di esercizio della funzione nomofilattica, ma potrebbe anche rivelarsi un aggravio per la Corte e, al tempo stesso, un fattore di grave rallentamento dei contenziosi di merito. Peraltro, sullo sfondo resta l’eterna questione: che dovere hanno, i giudici di merito, di applicare i principi di diritto formulati, anche d’ufficio, dalla Cassazione? Più il giudizio di legittimità si “verticizza”, più cresce la forza centrifuga che concepisce quello giurisdizionale come un potere diffuso, dove la nomofilachia può viaggiare anche dal basso verso l’alto.
6. A conclusione di queste primissime, disorganiche e parziali note, in attesa del dibattito che speriamo ampio ci permettiamo di esprimere qualche provvisoria conclusione.
Per “rilanciare” la giustizia civile col giusto passo – senza inseguire le pallide chimere della “degiurisdizionalizzazione”, che pure occupano uno spazio consistente nell’iniziativa che stiamo commentando – occorre anzitutto fornire ai magistrati strumenti adeguati, dopo aver adeguato il numero dei magistrati in relazione all’impatto attuale degli affari contenziosi. Senza, non ci sarà un’inversione di rotta nell’amministrazione della giustizia civile. È la macchina, l’organizzazione di base a dover ripartire. Occorre aumentare il numero dei giudici civili, diminuire il carico di ruolo di ciascun giudice. È questa la prima e vera misura urgente che non può più essere rinviata. Il problema che ci ha portati sull’orlo del baratro non è legato alla redazione o all’interpretazione di questa o quella norma processuale, ma esclusivamente alla mole del contenzioso riversato sul singolo giudice. Ogni giudice civile è stato ed è letteralmente schiacciato dal peso del contenzioso che dovrebbe gestire dinamicamente, e che invece lo paralizza. Ogni giudice è ormai portato a vedere il suo “ruolo” come una macchina infernale che, vivendo di vita propria, non si riesce a dominare (viene alla mente il Chaplin di “tempi moderni”). Per intervenire sul problema occorre dunque investire ingenti risorse economiche, e i tempi appaiono propizi.
Ben venga l’ufficio di cui all’art. 12-bis, preferibilmente con la partecipazione di brillanti giovani laureati, i quali possono ora aspirare all’uditorato compiuti i trent’anni e dopo essersi sottomessi a formazioni post-universitarie che forse non tutti possono permettersi; ma a ciò deve corrispondere una maggiore responsabilizzazione: attualmente, lasciato in completa solitudine, il giudice civile pensa di dover rispondere soltanto per sé stesso e soltanto per gli adempimenti che a lui sono personalmente rimessi (e che potrebbero essergli contestati in sede disciplinare). Il giudice civile, come tutte le vittime, ha un atteggiamento difensivo, non propositivo. Ciò determina il suo isolamento rispetto alla struttura che lo ospita, senza mai fare di lui la componente decisiva per la sua efficienza. È normale che il giudice civile non abbia una segreteria, che le parti non sappiano a chi indirizzarsi se debbano contattarlo fuori dall’udienza? Noi vogliamo pensare che il giudice debba assumere, convenientemente supportato, un ruolo di gestione dinamica dei contenziosi, ma attualmente la cancelleria “non riferisce messaggi”, “non sa se e quando il giudice verrà”. Sembra quasi che il giudice sia un semplice ospite della struttura, non sempre gradito.
Per troppo tempo il giudice civile ha ragionato come un facitore di provvedimenti: tanti fascicoli incamero, tanti provvedimenti pubblico e del resto nulla può interessarmi.
Ma se il giudice civile è il primo a non chiedersi quale sia lo scopo ultimo della sua attività; quando potrà essere disponibile alle parti il suo provvedimento; in che termini di tempo dovrà provvedere perché il suo intervento sia davvero utile per incidere nella realtà controversa; quale concreta utilità chi è ricorso alla giustizia potrà ricavare da quell’intervento; quale concreta possibilità di attuazione potrà avere il provvedimento adottato nella sede della cognizione, è giocoforza che la sua attività non potrà essere da altri considerata in termini di efficienza. Al contrario, l’ufficio del giudice deve prendersi carico di tutto ciò che avviene nel processo, dall’iscrizione della causa a ruolo fino alla pubblicazione della sentenza e la sua attuazione. Il giudice non può disinteressarsi del pratico funzionamento della struttura nella quale egli è inserito, soltanto perché non è chiamato a rispondere disciplinarmente di determinati adempimenti “che non gli competono”. Egli deve invece ragionare nell’ottica della parte a cui favore è reso il servizio, e in quest’ottica hanno la stessa importanza vuoi lo studio teorico del problema di diritto dalla cui risoluzione dipende la decisione della causa, vuoi l’adempimento pratico connesso, ad es., alla pubblicazione e comunicazione della sentenza alle parti. L’insieme di queste attività dev’essere seguito dall’ufficio del giudice, senza potersi distinguere le questioni “teoriche” (di cui sinora s’è occupato il giudice in splendida solitudine) da quelle “pratiche” (di cui sinora s’è occupata la cancelleria senza pensare di doverne mai rispondere al giudice).
Accanto a misure che incidano sulle strutture, e che sono le più urgenti, occorrono anche (ma non sono certo i più urgenti) interventi sul codice di procedura; ma, a differenza di quanto s’è fatto finora, questi interventi non debbono introdurre nuove complicazioni appesantendo il lessico di norme divenute, di rimaneggiamento in rimaneggiamento, dei veri labirinti di parole, di termini, di espressioni a volte contraddittorie. Si considerino gli artt. 183, 492 e 499 c.p.c.: anche un non tecnico è in condizioni di giudicarne la pessima fattura, l’uso scorretto della lingua italiana, la dannosa duplicazione di concetti che sono il prodromo di gravi questioni interpretative e applicative. Si tratta di norme-sceneggiatura, che vorrebbero descrivere nel dettaglio le attività processuali e che spesso si traducono in una comica previsione pantomimica di eventi che non possono ripetersi sempre uguali per l’intero contenzioso civile.
Le norme processuali debbono essere riportate a chiarezza ma anche a essenzialità; previsioni di dettaglio debbono essere evitate, perché gli operatori – che sono tutti dei professionisti – quali destinatari elettivi di queste norme debbono essere in condizioni di applicarle con ragionevolezza, duttilità, modo, adattandole alle particolarità dei singoli casi.
Va preso atto dell’irragionevolezza di quanto sinora realizzato dal legislatore che ha finito, coi suoi continui e insipienti interventi sul codice di procedura, per aggravare lo stato di crisi della giustizia civile. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: legge processuale complicata, malintesa e inapplicata, giudici civili abbandonati a loro stessi, utilizzazione incontrollata di magistrature onorarie in forte predicato di incostituzionalità (esemplare la recente vicenda degli aggregati in Corte d’appello), fughe dalla giustizia ordinaria verso sedi in cui molto difficilmente i diritti dei cittadini potranno essere adeguatamente tutelati secondo gli standard costituzionali, valorizzazione esagerata della sentenza di primo grado (da chiunque pronunciata) e svalorizzazione ingiustificata di tutte le impugnazioni. Scoraggiamento, respingimento, sanzioni. Il tutto a costi sempre più alti.
Attraversando il bardo (Sguardi sull’aldilà)
di Ennio Nicotra*
*Direttore d'orchestra
(Ritorno alla terra",maggio 2021, G.Iofrida)
È difficile parlare di Battiato, in questi giorni tanto è stato detto e scritto.
Tutte cose autentiche e sincere. Non è semplice aggiungere qualcosa che non si sia già sentito.
La sua scomparsa ha suscitato una grande emozione, un dolore anche per noi amici che in fondo eravamo informati sulle sue condizioni di salute. Non la voglio chiamare morte.
Franco si è dissolto, è evaporato, un’uscita di scena enigmatica che calza a pennello sul personaggio lasciandoci basiti.
La nostra è stata una breve ma intensa amicizia.
Ci siamo conosciuti dopo che lui decise di propormi come direttore artistico alla Sinfonica Siciliana, durante quel brevissimo periodo, 5 mesi, in cui fu assessore, aveva sentito parlare di me, di ciò che facevo, aveva letto il mio libro.
Ti presenti intimorito davanti una persona famosa e sconosciuta e senti un contatto immediato, ti sembra di conoscerla da sempre, che da sempre faccia parte della tua vita. Tu apri il tuo animo a lui e lui a te, o forse il contrario.
Avverti una profonda sintonia.Ci si sentiva nudi al suo confronto, come se ti stesse attraversando con i raggi x. Come di fronte ad un confessore.
Sapevi che non potevi nascondergli nulla, che lui di te sapeva tutto.
Piccoli accanto ad un gigante, ma un gigante fragile, delicato, fra i suoi quadri e le migliaia di libri della sua biblioteca.
Queste capacità aveva Franco. Ti confessava episodi intimi con estrema semplicità come se tu fossi il suo unico amico, questa disarmante semplicità mi lasciava stupefatto mentre lo ascoltavo, al punto da distrarmi dall’argomento del discorso. Si poteva aprire il proprio animo, certi della sua completa comprensione.
Mai avevo incontrato una persona in grado di dare tanto con poche semplici parole.
Ti faceva ascoltare in anteprima nuove canzoni con l’entusiasmo di un bambino.
Avvertivi una connessione mentale più unica che rara.
Si parlava di musica ma anche di filosofia, di vita e di morte, ammesso che essa esista.
Questo argomento non lo scalfiva, sapeva che si trattava di un naturale passaggio dall’altro lato.
Sono sicuro che adesso lui ha trovato ciò che si aspettava di trovare.
Mi mancano le nostre discussioni ma sono certo che la nostra sia solo una pausa temporanea e che un giorno riprenderanno.
Apertura di borse senza autorizzazione della Procura della Repubblica, ma con il consenso del contribuente?
La questione al vaglio delle Sezioni unite
di Ginevra Iacobelli
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 10664 del 2021, ha rimesso al Primo Presidente, per eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione sulla legittima acquisizione di documentazione extracontabile rinvenuta in una valigetta, aperta senza previa autorizzazione della procura della repubblica, ma con il consenso del contribuente.
L’ordinanza richiama quelli che, almeno apparentemente, sono due orientamenti contrapposti, per poi affrontare la distinta questione della modalità di estrinsecazione del consenso e della sua rilevanza in caso di mancata informazione, da parte dei verificatori, della facoltà di farsi assistere da un difensore.
Sommario: 1. Inquadramento delle questioni - 2. L’art. 52 del D.P.R. n. 633 del’72 - 3. Le (apparenti) questioni poste dall’ordinanza di rimessione.
1. Inquadramento delle questioni
L’ambito delle ispezioni e delle verifiche tributarie è denso di tensioni tra diritti costituzionalmente garantiti: da una parte, i diritti inviolabili dell’individuo, massimamente espressi dagli articoli 13, 14 e 15 della Costituzione, dall’altra, il principio di capacità contributiva e di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa, rispettivamente disciplinati dagli articoli 53 e 97 della Costituzione.
I poteri di ispezione e verifica trovano, senza dubbio, un fondamento costituzionale nel principio di capacità contributiva, il cui rispetto è legato a doppio filo all’attività di controllo, irrinunciabile e unica a garantire il corretto assolvimento dell’obbligazione tributaria e un’adeguata repressione dell’evasione fiscale.
D’altra parte, è indubbio che i poteri richiamati interferiscono con i diritti di libertà, in particolare con i diritti di libertà personale, inviolabilità del domicilio e segretezza della corrispondenza.
Più chiaramente, durante le verifiche e gli accessi tributari, si assiste ad una contrapposizione di due esigenze: da una parte, quella dell’amministrazione di esercitare i poteri ispettivi necessari a garantire la tutela degli interessi tributari, dall’altra, quella del contribuente, volta ad evitare che un potere di indagine incontrollato ed eccessivo possa qualificarsi come lesivo della libertà personale e di altri diritti costituzionalmente garantiti.
È in un’ottica di bilanciamento tra le opposte esigenze richiamate che il legislatore prevede il rispetto di determinate garanzie nell’esercizio delle funzioni amministrative in esame, individuando tassativamente le ipotesi tollerate di limitazione delle libertà e la necessità di munirsi, in taluni casi, di un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria che autorizzi siffatte limitazioni.
In tal senso, taluna dottrina[1] pone la disciplina costituzionale delle ispezioni e delle verifiche tributarie a cavallo tra libertà personale e libertà domiciliare, entrambe assistite dalla doppia riserva di legge e di giurisdizione, quale elemento di effettiva tutela.
La previsione della riserva di legge tutela tali libertà, per cui nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge, ex art. 23 Cost.; la riserva giurisdizionale, inoltre, implica che ogni provvedimento restrittivo sia adottato con atto dell’autorità giudiziaria.
È chiaro, però, che il perseguimento del fine fiscale costituisce il presupposto di un’attività ispettiva che, in certi limiti, può realizzarsi anche in assenza di un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria. In tal senso può essere letto, in senso esemplificativo, l’ultimo comma dell’art. 14 Cost. per cui “gli accertamenti, le ispezioni e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali”.
Occorre, allora, chiedersi in quali casi l’autorizzazione debba intendersi come atto presupposto del potere ispettivo, a sua volta funzionale all’acquisizione di prove utilizzabili per l’atto finale, per cui dalla invalidità dell’autorizzazione (o dalla sua assenza) deriva l’invalidità di tutti gli atti e del provvedimento conclusivo.
Il riferimento è, altresì, alla questione della utilizzabilità/inutilizzabilità della prova.
Non ogni violazione delle norme istruttorie porta alla inutilizzabilità della prova raccolta, ma solo la violazione delle norme poste a tutela di interessi del singolo.
Al fine di affrontare compiutamente le questioni sollevate dall’ordinanza, occorre, allora, esaminare il momento procedimentale di assunzione delle prove, per verificare la giustificazione delle varie norme sull’attività istruttoria in punto di interesse tutelato.
Le norme costituzionali rilevanti in materia sono quelle che disciplinano la libertà personale (art. 13 Cost.), l’inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.) e la libertà e la segretezza della comunicazione (art. 15 Cost.).
Occorre, poi, nella comparazione tra norma istruttoria e norma costituzionale, concentrare l’attenzione sulle condizioni procedimentali per il suo esercizio. Per poter argomentare di prova illegittimamente acquisita occorre, infatti, l’esistenza di una grave irregolarità nel modus operandi del potere ispettivo.
2. L’art. 52 del D.P.R. n. 633 del ’72
L’ordinanza di rimessione in commento muove da un ricorso per Cassazione proposto dal contribuente avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale che, accogliendo le motivazioni dell’Agenzia delle Entrare, tra le altre, ha dichiarato legittima l’acquisizione di documentazione extracontabile rinvenuta in una valigetta senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria, ma con consegna spontanea e senza coercizione da parte del contribuente, rilevando, in aggiunta, che la mancata informazione, al momento dell’accesso, della facoltà di farsi assistere da un professionista di fiducia non è sanzionabile, in mancanza di specifica previsione normativa, “con la nullità del processo verbale di constatazione” (i.e. nullità dell’avviso di accertamento).
Assume, cioè, rilievo centrale la questione della modalità di acquisizione della documentazione extracontabile rinvenuta in sede di accesso.
Gli aspetti procedurali dell’attività di controllo esterna ai fini dell’Imposta del valore aggiunto e delle Imposte dirette sono disciplinati dal combinato disposto degli articoli 33 del D.P.R. 600/1973 e 52 del D.P.R. 633/72.
In particolare, l’articolo 33 del D.P.R. 600/73 prevede i controlli ai fini delle imposte dirette con espresso rinvio all’articolo 52 del D.P.R. 633/72 che regolamenta gli aspetti procedurali per l’esecuzione di accessi, ispezioni e verifiche ai fini dell’imposta del valore aggiunto, così disciplinando i poteri degli uffici.
Rubricata “Accessi, ispezioni e verifiche”, la norma prevede che gli uffici possono disporre l’accesso di impiegati dell’Amministrazione finanziaria per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni, ricerche e ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e la repressione dell’evasione.
Nel dettaglio, è previsto che ..“Gli uffici possono disporre l'accesso di impiegati dell'Amministrazione finanziaria nei locali destinati all'esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, nonché in quelli utilizzati dagli enti non commerciali e da quelli che godono dei benefici di cui al decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l'accertamento dell'imposta e per la repressione dell'evasione e delle altre violazioni. Gli impiegati che eseguono l'accesso devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo dell'ufficio da cui dipendono. Tuttavia, per accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione è necessaria anche l'autorizzazione del procuratore della Repubblica. In ogni caso, l'accesso nei locali destinati all'esercizio di arti e professioni dovrà essere eseguito in presenza del titolare dello studio o di un suo delegato.
L'accesso in locali diversi da quelli indicati nel precedente comma può essere eseguito, previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni.
È in ogni caso necessaria l'autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell'autorità giudiziaria più vicina per procedere durante l'accesso a perquisizioni personali e all'apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l'esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all'articolo 103 del codice di procedura penale”.
Come richiamato, al primo comma, immediatamente dopo l’attribuzione del potere ispettivo agli organi amministrativi, il legislatore detta la regola generale per cui gli impiegati che eseguono l’accesso devono essere muniti di apposita autorizzazione che ne indica lo scopo, rilasciata dal capo ufficio da cui dipendono.
L’ampio potere attribuito all’amministrazione è, poi, diversamente declinato nell’esigenza di bilanciamento con i più alti diritti costituzionali della libertà personale, libertà domiciliare e segretezza della corrispondenza.
Un’analisi attenta della disposizione permette, però, di rilevare talune differenze in punto di tuteladi tali diritti.
Se norma di disciplina generale è quella della necessaria autorizzazione del capo ufficio, è previsto che a questa, in taluni casi, si aggiunga la necessaria autorizzazione del procuratore della Repubblica.
L’art. 52, co. 1, in tal senso, specifica che, per accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione, è necessaria l’autorizzazione del procuratore della Repubblica, attribuendo piena tutela alla inviolabilità del domicilio. In tal senso, la previsione è rafforzata al secondo comma per cui l’accesso nei locali adibiti esclusivamente a domicilio (diversi dai locali promiscui di cui al primo comma) è consentito solo in caso di gravi indizi di violazione delle norme tributarie.
Il terzo comma dell’art. 52 del decreto attribuisce stessa massima tutela alla libertà personale, prevedendo che è “in ogni caso” necessaria l’autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria per procedere, durante l’accesso, a perquisizioni personali.
Lo stesso terzo comma si occupa, poi, del possibile contrasto dei poteri di accesso con il diritto alla segretezza della corrispondenza, richiedendo, altresì, l’autorizzazione del pubblico ministero anche in caso di apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e per l’esame di documenti coperti dal segreto professionale.
L’esercizio di poteri istruttori è destinato ad incidere, inevitabilmente, su posizioni soggettive del contribuente attinenti alla libertà personale, alla inviolabilità del domicilio, e alla segretezza della corrispondenza, ma, a ben vedere, diversa è la tutela prevista dal legislatore.
Se a fronte della libertà personale e della inviolabilità del domicilio è sempre richiesta la preventiva autorizzazione da parte del pubblico ministero, più attenuata, almeno nelle intenzioni del legislatore, appare l’esigenza di tutela della segretezza della corrispondenza, richiedendosi una preventiva autorizzazione solo a fronte di una condotta di apertura coattiva da parte dell’amministrazione.
Non sfuggirà all’interprete che il rilievo della coattività della condotta, assente nella disciplina degli accessi domiciliari e della perquisizione personale, compare nel terzo comma dell’art. 52, esclusivamente con riferimento all’apertura di borse, plichi e documenti.
Tirando le fila, la previsione appare impostata secondo un climax discendente: massima tutela è attribuita all’inviolabilità del domicilio e alla libertà personale. Diversamente, la segretezza della corrispondenza è circondata da cautele solo con riguardo al rifiuto espresso da parte del contribuente.
3. Le (apparenti) questioni poste dall’ordinanza di rimessione
Chiarito il quadro legislativo di riferimento, è, allora possibile affrontare nel dettaglio la questione posta dall’ordinanza in commento per verificare se, effettivamente, sussistono orientamenti contrapposti nella giurisprudenza di legittimità.
L’ordinanza muove dal presupposto per cui la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha assunto una posizione non concorde in ordine alla questione se il consenso manifestato dal contribuente o da soggetti a questo in vari modi collegati possa sanare le acquisizioni probatorie eseguite senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria, specificando, a sostegno della questione, che “non vi è una specifica previsione normativa circa il rilievo da attribuire al comportamento del contribuente”.
Quanto sopra riportato necessità però, quanto meno, di un chiarimento.
A fondamento dell’esigenza di rimessione, si richiama un primo orientamento secondo cui, sia il consenso espresso che la mancata manifestazione di un dissenso del contribuente o di terzi rispetto all’esercizio di un’attività ispettiva eseguita al di fuori delle garanzie predisposte dal legislatore a tutela del contribuente non hanno efficacia sanante, espresso, in particolare, dalla richiamata pronuncia del 1 ottobre 2004 n. 19689.
Tuttavia, la pronuncia richiamata muove, evidentemente, da una fattispecie diversa e non assimilabile. È la stessa ordinanza di rimessione che, nel richiamare testualmente il provvedimento del 2004, fa riferimento ad un accesso domiciliare eseguito senza autorizzazione e ritenuto illegittimo sull’assunto che la mancata opposizione del contribuente non equivale a consenso né rende legittimo un accesso al di fuori delle previsioni legittime e, comunque, l’eventuale consenso è privo di rilievo non essendo richiesto da nessuna legge.
Evidentemente, però, la decisione poggia sull’analisi dell’art. 52, co. 1, D.P.R. 633/72 che, come innanzi evidenziato, attribuisce tutela decisamente più ampia alla inviolabilità del domicilio, rispetto a quanto invece previsto dall’art. 52, co.3, più propriamente afferente al caso dell’apertura di borse.
Ancora, a sostegno del primo orientamento, si richiama una pronuncia della Corte di Cassazione del 19 ottobre 2005, n. 20253 che, anche dallo stralcio riportato nell’ordinanza di rimessione, ha ad oggetto la diversa questione della perquisizione di un soggetto terzo, la cui inerzia non può riverberarsi in danno del contribuente.
Anche in tal caso, l’ambito applicativo è ictu oculi diverso e poggia, ancora una volta, sulla corretta interpretazione di una norma (art. 52, co.3, prima parte) che non pare applicabile al caso di specie, maggiormente afferente alla libertà personale e di autodeterminazione del contribuente stesso.
Da ultimo, la sentenza 6 giugno 2018, n. 14701, richiamata ancora a sostegno del primo orientamento, ritiene inutilizzabili i documenti acquisiti nei locali adibiti promiscuamente ad abitazione e a sede dell’attività imprenditoriale, in assenza di autorizzazione della procura della repubblica. Lo stesso stralcio riportato in sede di ordinanza di rimessione per cui “i superiori principi non possono essere derogati per effetto della consegna spontanea della documentazione da parte del contribuente, ove si consideri che secondo questa Corte essa non può .. rendere legittimo un accesso operato al di fuori delle previsioni legislative e, comunque, perché l’eventuale consenso o dissenso dello stesso contribuente all’accesso, legittimo o illegittimo che sia è del tutto privo di rilievo giuridico non essendo richiesto e/o preso in considerazione da nessuna norma di legge” è ripreso da due ulteriori decisioni, rispettivamente 19689 e 19690 del 2004, anch’esse afferenti ad un accesso domiciliare.
Non è in dubbio che l’accesso in locali adibiti a domicilio, in tutto o in parte, sia circondato da tutele di ampio raggio, in cui non rileva l’eventuale consenso o dissenso espresso dal soggetto verificato.
Diverso pare, però, il caso dell’apertura di borse ove l’autorizzazione della procura giustifica e legittima la sola condotta coattiva.
Il riferimento alla coattività, nella seconda parte dell’art. 52, co. 3, del decreto non può ritenersi vano o casuale, ma, piuttosto, pare avallare una diversa soluzione interpretativa, prospettata anch’essa dall’ordinanza di rimessione, per cui “il diritto alla segretezza ha natura di diritto disponibile, sicché se l’apertura di pieghi sigillati, borse, mobili.. avvenga con il consenso del titolare del diritto di libertà, oggetto di compressione, pur in assenza di autorizzazione dell’autorità giudiziaria, non dovrebbe derivare alcuna sanzione di inutilizzabilità dei documenti”.
Lo stesso rilievo per cui il consenso è privo di rilevanza giuridica, non essendo richiesto e/o preso in considerazione da nessuna norma di legge, se ha senso per il primo comma dell’art. 52 e per la prima parte del comma 3 dello stesso articolo, perde rilievo con riferimento al comma 3, oggetto di analisi, ove, se è vero che non è richiesto espressamente un consenso, esso può dedursi a contrario dal rilievo della coattività dell’apertura, che, evidentemente, viene meno in presenza di consenso.
Per tutto quanto detto, non pare che le perplessità sollevate nell’ordinanza di rimessione siano mosse da due filoni contrapposti, poiché le pronunce intese a sostegno dell’orientamento “negazionista” sono tutte riferibili ai diversi diritti dell’inviolabilità del domicilio e della libertà personale (art. 52, comma 1 e comma 3, parte prima).
Del resto, numerosi sono i provvedimenti, anche recenti, richiamati a sostegno del secondo orientamento, per il quale è da valorizzare il comportamento del contribuente, attenzionando l’espressione “apertura coattiva” contenuta nell’art. 52, comma 3, per evidenziare che la stessa sussiste solo quando non vi sia il consenso del contribuente (ex multis Cass. 18 maggio 2015, n. 3294; Cass. 4 ottobre 2018, n. 24306; Cass. 19 gennaio 2021 n. 727).
Così inteso, nemmeno può accogliersi l’affermazione dell’ordinanza per cui “il superamento della violazione dell’obbligo di premunirsi della necessaria autorizzazione dell’autorità giudiziaria a seguito del consenso postula che questo sia validamente espresso, il che comporta che sia stato adeguatamente informato, cioè che sia reso in piena libertà di giudizio”, poiché un vero obbligo non sussiste se non in caso di condotta coattiva.
Più chiaramente, l’autorizzazione è necessaria per procedere durante l’accesso all’apertura coattiva di borse, cioè per poter procedere anche contro il volere del soggetto indagato. Diversamente, se questi vi consente spontaneamente, l’autorizzazione non ha più ragione d’essere.
Anzi, il riferimento alla coattività della condotta pare escludere la necessità di autorizzazione non solo di fronte a spontaneità del contribuente, ma altresì dinanzi a comportamenti volontari, e non spontanei, anche eseguiti su richiesta dei verificatori, finanche a ricomprendere i casi di mancato rifiuto espresso all’apertura.
L’assenso può, però, assumere significati differenti ed è pertanto necessario esaminare, nei casi concreti, il valore dello stesso.
L’analisi della normativa di cui al D.P.R. 600/1973 e 633/1972 deve essere completata con l’art. 12, L. 212 del 2000 (cd. Statuto del Contribuente), rubricato “diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali”.
È noto che le norme dello Statuto del contribuente, in attuazione degli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario, immanenti ad esso, in alcuni casi idonei a prescrivere specifici obblighi a carico dell’Amministrazione finanziaria.
Per quanto qui di rilievo, l’art. 12, co. 2, dello Statuto prescrive il diritto del contribuente, al principio di una verifica tributaria, di essere informato delle ragioni che abbiano giustificato la verifica e della facoltà di farsi assistere da un difensore abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria.
La previsione normativa richiamata rafforza l’esigenza di contraddittorio preventivo tra fisco e contribuente, ma nessuna sanzione espressa è prevista in caso di violazione della stessa.
Puntum dolens è, allora, comprendere la valenza delle prescrizioni contenute nello Statuto - in particolare dell’art. 12 - e quali siano gli effetti della eventuale inosservanza degli obblighi previsti a carico dell’amministrazione finanziaria.
Non può ritenersi risolutiva l’affermazione, pure riportata nell’ordinanza di rimessione, per cui le norme che disciplinano gli accessi non prevedono “la nullità del processo verbale di constatazione” in caso di omessa informazione. La mancata previsione della nullità dell’atto non sembra, infatti, idonea ad escludere, in ogni caso, la rilevanza delle violazioni.
In tal senso, si richiama la decisione della Corte di Cassazione, in tema di violazione dell’art. 12, comma 7 dello Statuto, che ha dichiarato l’invalidità dell’atto di accertamento emanato prematuramente. A tale conclusione, secondo gli Ermellini, deve giungersi “nonostante la mancanza di una espressa previsione in tal senso, derivando l’invalidità “ineludibilmente dal sistema ordinamentale, comunitario e nazionale, nel quale la norma opera e, in particolare, dal rilievo che il vizio del procedimento si traduce, nella specie, in una divergenza dal modello normativo (…) di particolare gravità, in considerazione della rilevanza della funzione..” (Corte di Cassazione, Sezioni Unite 29 luglio 2013 n. 18184).
La Corte, pertanto, avalla l’idea per cui le nullità non sono tassative, ma legate alla funzione che assolve la prescrizione normativa e alla gravità del pregiudizio arrecato dalla condotta difforme dal modello legale.
Senza dubbio, secondo quanto richiamato, la violazione dell’art. 12, comma 7, dello Statuto e l’emissione di un avviso di accertamento prima della scadenza dei 60 giorni dalla notifica del processo verbale di constatazione determinano la nullità del provvedimento per violazione del principio del contraddittorio e lesione del diritto di difesa.
Occorre, però, verificare se la gravità del pregiudizio derivante dalla violazione del comma 2 dell’art. 12 per la mancata informazione circa la facoltà di farsi assistere da un professionista sia altrettanto grave e difforme dal modello legale da determinare la inutilizzabilità dell’acquisizione.
In senso contrario, pare muovere la natura amministrativa del procedimento tributario.
Al di là dei numerosi orientamenti per cui l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non comporta l’inutilizzabilità degli stessi[2], può comunque affermarsi che la procedura di verifica non possa ritenersi illecita poiché, diversamente da quanto avviene in caso di violazione del termine per emissione dell’atto, la mancata informazione è del tutto incapace di intaccare il diritto del contribuente di difendersi di fronte non solo all’atto finale del procedimento che è l’avviso di accertamento, ma anche al processo verbale di constatazione.
Per quanto detto, la mancata informazione sulla possibilità di farsi assistere da un difensore non pare idonea a decretare l’inutilizzabilità delle acquisizioni effettuate e la nullità dell’avviso di accertamento.
L’ordinanza di rimessione, in conclusione, evidenzia la stretta connessione che potrebbe esservi tra la mancata informazione al diritto di farsi assistere da un difensore e il consenso espresso all’apertura della borsa, prospettando la questione per cui la presenza di un professionista potrebbe assicurare una piena informazione delle ragioni di tutela del contribuente e garantire a quest’ultimo l’espressione valida di un consenso libero in correlazione con un’attività amministrativa che si traduca in una eventuale intromissione della sfera personale.
Invero, le due norme non paiono in tal senso connesse, non dovendosi ritenere che l’assenza di un professionista al momento dell’accesso renda, di per sé, coattiva la condotta dell’amministrazione o inidoneo il consenso espresso dal contribuente alle richieste dei verificatori.
La questione andrà, piuttosto, indagata caso per caso. In particolare, occorrerà verificare se il consenso (i.e. mancato dissenso) sia avvenuto per libera volontà, per timore reverenziale oppure in seguito a inganno, pressioni, minacce o esercizio di poteri al di fuori di quelli consentiti per legge.
Solo in tali casi è evidente che il consenso non assumerà alcun rilievo giuridico.
[1] Victor Uckmar, Francesco Tundo in “Codice delle ispezioni e verifiche tributarie”, LaTribuna, anno 2005, pag. 9 e ss.
[2] Ex multis Cass. Civ. 13 novembre 2018, n. 29131; Cass. civ. 19 giugno 2001, n. 8344; Cass. civ. 23 aprile 2007, n. 9568)
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