ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La dirigenza condivisa
Il cammino di Area DG verso una diffusione della attitudine organizzativa.
di Graziella Viscomi
Sommario: I. Premessa. 1. La riduzione del numero dei semidirettivi. 2. L’adozione di un modello partecipato di gestione degli uffici. 3. La valorizzazione della capacità organizzativa. 4. L’obbligo di completare l’incarico direttivo o semidirettivo. 5. La durata massima per ciascun incarico direttivo e semidirettivo. II. Considerazioni conclusive.
I. Premessa.
Il tema della dirigenza negli uffici giudiziari è risultato figlio di diverse prospettive nel tempo.
Va premesso che la procedura per il conferimento di incarichi direttivi è appannaggio dell’organo di autogoverno ed è presieduta dalla garanzia della riserva di legge in materia di ordinamento giudiziario, che si traduce nel fatto che deve essere la legge a stabilire i criteri generali di valutazione e di selezione degli aspiranti e le conseguenti modalità della nomina.
In passato, era la cosiddetta anzianità senza demerito a determinare la direzione di un ufficio. Si trattava di un sistema che non solo impediva un ricambio generazionale, ma prescindeva anche dalla valorizzazione di particolari caratteristiche gestionali. Se da un lato, infatti, risultava indiscutibilmente (e rigidamente) oggettivo, dall’altro lato, partiva dal presupposto della equivalenza di tutti i magistrati ad occuparsi delle varie tematiche di gestione dell’ufficio, cosa che -l’esperienza concreta insegna- non è.
Ciò emergeva in modo tanto più chiaro quanto complessa diveniva la macchina giudiziaria ed il sistema entro cui si muove.
Dunque, si è passati ad un sistema in cui è centrale la valutazione delle attitudini dell’aspirante.
Gli incarichi di direzione (direttivi e semidirettivi) sono assegnati sulla base della valutazione del percorso professionale dei candidati - il c.d. merito- e della c.d. attitudine direttiva. Il Consiglio Superiore della Magistratura deve, cioè, valutare le capacità di organizzare e gestire l’ufficio e di programmare e gestire le risorse (art. 12 d.lgs. 160 del 2006). I generali criteri di valutazione fissati dalla legge sono poi oggetto di una disciplina adottata dal CSM d’intesa con il Ministro della Giustizia, nella quale vengono indicati gli indicatori dell’attitudine direttiva e vengono definite le fonti di conoscenza e la procedura applicabile. Attualmente la normativa regolamentare di riferimento è contenuta nel Testo Unico sulla dirigenza giudiziaria di cui alla circolare n. P‐14858‐2015 del 28 luglio 2015, in costante aggiornamento.
In poche parole, ai fini della selezione, la normazione secondaria elenca i parametri di riferimento per la valutazione dei candidati; ciascun parametro, al momento dell’esame dei profili degli aspiranti è oggetto di comparazione con gli altri candidati.
Progressivamente, maggiore importanza è stata attribuita anche alla formazione del candidato.
Chiedersi che dirigenza vogliamo non è questione fine a se stessa: non si tratta, infatti, solo di prediligere un modello organizzativo, ma di pensare a tutto l’impianto normativo che, occupandosi del percorso professionale del magistrato, ne traccia tutti gli aspetti (valutazione di professionalità, pareri attitudinali, formazione, criteri di selezione), così permeando l’intero autogoverno.
Area Dg ha iniziato, mesi fa, grazie all’iniziativa promossa da Claudio Castelli, fautore di un gruppo di lavoro che si è interessato di collazionare argomenti sul tema, un percorso di studio a proposito della “dirigenza che vorremmo”.
L’arricchente contributo dei partecipanti ha fatto emergere le diverse prospettive ed i diversi modi di pensare alla dirigenza e così, si è giunti ad una sintesi con il rilascio di un documento da parte del Coordinamento Nazionale, qui oggi in commento.
Queste le proposte operative del detto documento, il cui contenuto si commenterà nelle pagine che seguono:
Nell’ottica del miglioramento della dirigenza è stata evidenziata la necessità della riduzione/razionalizzazione degli incarichi di semi-direzione.
Il dato di partenza è l’assenza di una analisi che, alla stregua della elaborazione delle piante organiche del personale di magistratura di merito, si proponga di comprendere quanti sono gli incarichi semidirettivi veramente utili e funzionali ad assicurare l’andamento dell’ufficio.
Risulta indispensabile, dunque, sia per gli uffici requirenti che giudicanti, la necessità di oggettivizzazione delle esigenze: il numero e la qualità delle risorse da amministrare (in termini di organico, carico di lavoro, udienze, tipologie di servizi, qualità delle materie trattate) devono determinare il numero degli incarichi semi-direttivi da assegnare. Sarà necessario, dunque, formulare criteri oggettivi al fine di ancorare il numero di posti direttivi realmente funzionali ad assicurare il buon andamento dell’ufficio, coniugando efficienza, efficacia e compiti di coordinamento.
Solo a fronte di uno studio di tal fatta che esamini le concrete esigenze degli uffici dando centralità al ruolo di coordinatore che compete al semidirigente, sarà possibile dire quanti dirigenti servono.
Per quanto attiene la funzione giudicante, in particolare, è stato evidenziato che venga razionalizzato, a monte, il numero delle sezioni e che non vi sia coincidenza automatica fra il loro numero e l’individuazione dei dirigenti: appare, infatti, più razionale una previa verifica concreta.
Medesimo ragionamento deve indurre alla verifica delle effettive risorse dei gruppi di lavoro e dei servizi collaterali presso gli Uffici di Procura al fine della individuazione del numero degli Aggiunti che quelle risorse devono gestire.
Non si tratta solo di un calcolo “logico”.
Area Dg crede che sia necessaria un nuovo approccio culturale alla Dirigenza, evidenziando come vi sia circolarità di principi ed intenti.
Se l’incarico a contenuto dirigenziale (direttivo o semidirettivo) è svolto in chiave di coordinamento all’interno di una organizzazione in cui varie deleghe sono (con)divise, va da sé che più agevole sarà il compito dell’incaricato, con conseguente razionalità (e razionalizzazione) della decisione di ridurre il numero dei posti di semidirettivo.
2. L’adozione di un modello partecipato di gestione degli uffici.
Se il dibattito ha certamente rivelato la condivisa sensazione del generale miglioramento delle condizioni degli uffici rispetto al passato, d’altra parte è emersa anche necessità di superare le tante criticità da cui l’attuale modello organizzativo non è immune.
Il sistema corrente, invero, si è prestato ad una distorsione della copertura di incarichi significativi della espressione della partecipazione all’organizzazione degli uffici (rid, magrif, formatori decentrati, ecc.) che, svincolati da una valutazione dei risultati conseguiti finisce per risultare uno sterile elenco di titoli e, a monte, un procacciamento dei medesimi.
Area DG ha scelto di valorizzare la prestazione del magistrato in favore dell’organizzazione dell’Ufficio. In tal senso, nel corpo del documento si è anche riflettuto sulla necessità che le circolari che si occupano della materia diano modificate al fine di agevolare e rendere fruibile l’opportunità di occuparsi di un aspetto organizzativo del proprio ufficio, secondo le proprie attitudini ed inclinazioni.
Attualmente, le vigenti circolari (cfr. in particolare, articolo 4 della circolare sulle Procure) al fine di arginare la balcanizzazione delle deleghe funzionale allo strumentale procacciamento dei titoli, prevede il relativo conferimento solo previa accurata motivazione che dia conto delle ragioni che, sostanzialmente, giustifichino lo svolgimento in capo ai semidirettivi in servizio.
La norma ha avuto la sensibilità di stigmatizzare la frammentazione di competenze col solo fine di creare titoli ad hoc, peraltro sfuggenti a qualsivoglia forma di valutazione.
Dal confronto promosso da Area DG è emersa una volontà di superamento del sistema mediante un coinvolgimento responsabile dei magistrati alla gestione del loro ufficio. Si badi bene che l’espressione responsabile guarda, prima di tutto, ai Dirigenti i quali non saranno esonerati dalle loro competenze, né deresponsabilizzati, ma onerati di scelte adeguate e funzionali al raggiungimento di buoni risultati nell’interesse dell’Ufficio. Responsabilità è, inoltre, richiesta a coloro che assumeranno l’onere della co-gestione di un determinato aspetto della vita professionale poiché, per un verso, costituirà un quid pluris rispetto alle competenze ordinarie e, per altro verso, deve essere oggetto di specifica valutazione.
Sotto il primo profilo, sebbene il dibattito abbia evidenziato posizioni secondo cui l’esercizio di determinati incarichi postuli necessariamente il riconoscimento di un esonero dal lavoro, altra opinione, al contrario, ha evidenziato che per evitare l’effetto distorsivo dell’inseguimento del titolo deve trattarsi di un servizio ulteriore, in modo da incentivare chi è mosso da reale passione, voglia di partecipazione, desiderio di dare un contributo al miglioramento delle condizioni di lavoro.
Del resto, l’idea di Area DG della diffusione delle competenze organizzative favorisce, in nuce, una divisione equa dei compiti, già di per sé idonea a sopperire al plus di impegno richiesto: maggiore è la distribuzione, minore è l’impegno. Speculare a tale tema è la previsione necessaria dello svuotamento di compiti meramente amministrativi, da delegare solo ed esclusivamente al Dirigente Amministrativo prevedendo che tale figura vi sia in ogni ufficio.
Va da sé che l’attribuzione dei compiti debba essere preceduto da interpello.
Area DG ha scelto di offrire un modello concreto e non una mera visione utopistica. Per questo, ha scelto di accompagnare alla condivisione delle competenze organizzative una valutazione del modo in cui il magistrato le ha svolte, tenendo conto dei risultati conseguiti, non dissimilmente da quanto accade nella prospettiva dirigenziale.
Anzi, come meglio si dirà trattando, al paragrafo che segue della relativa proposta di Area DG, si è colta l’occasione per dare un senso al nuovo parametro di valutazione del magistrato, la capacità di organizzare il proprio lavoro,introdotto con la recente riforma dell’ordinamento giudiziario.
3. La valorizzazione della capacità organizzativa.
Area DG crede fortemente nel contributo che ciascun magistrato può offrire alla crescita del proprio ufficio, così come è convinta che -specularmente- il miglioramento del servizio offerto ai cittadini richieda, innanzitutto, una buona organizzazione.
Chi meglio dei soggetti dell’organizzazione può conoscere gli strumenti per migliorarla?
La prossimità di ciascun magistrato al fenomeno organizzativo determina la sua consapevolezza di ciò che funziona e ciò che non funziona. Naturalmente, ciò implica una visione non limitata al proprio personale interesse, ma alla funzionalità dell’Ufficio di riferimento nel suo complesso, finalizzata alla tutela dell’utente finale: il cittadino. Sono molteplici gli aspetti della vita di un uffizio: la necessità di aggiornamento nello studio delle ultime novità legislative e giurisprudenziali, gli aspetti informatici, il monitoraggio dei tempi delle decisioni, la verifica della tempestività dei processi di notificazione, le esigenze logistiche, l’uniformità delle decisioni, prassi e protocolli di ogni genere, ecc. ecc.
Ciascun aspetto richiede attitudini ed inclinazioni differenti la cui valorizzazione non può che giovare all’Ufficio medesimo.
Il nuovo criterio di valutazione di professionalità “la capacità di organizzare il proprio lavoro” è, fra gli aspetti più controversi della riforma dell’ordinamento giudiziario, in quanto sottratto alla tradizionale valutazione in termini di positività, non positività o negatività nell’ambito del più ampio parametro della “capacità” e divenuto oggetto, invece, di valutazione nuova e diversa, secondo le caratteristiche che la normazione secondaria potrà attribuirgli.
Area Dg, preoccupata dal rischio che l’espressione si traduca in un criterio di giudizio che imponga ai magistrati (sin dall’esordio) di burocratizzare la propria funzione, traducendo la valutazione in meri termini di smaltimento (odiosa espressione con la quale non vorremmo più confrontarci), propone, invece, di trasformare in una occasione tale nuovo parametro.
Area Dg crede fortemente che il magistrato debba sentire che il proprio lavoro includa anche l’aspetto organizzativo ed auspica, contemporaneamente, che voglia essere parte attiva fornendo il proprio contributo nella gestione.
Orbene, dare un peso alla partecipazione significa anche darle un valore concreto, mediante valutazione dei risultati conseguiti, quale indice di valutazione della capacità di organizzare il lavoro.
4. L’obbligo di completare l’incarico direttivo o semidirettivo.
La Dirigenza è un servizio. Esserne coinvolti a vari livelli non può che contribuire alla diffusione di questa cultura, per la cui diffusione Area DG intende spendersi concretamente.
Il percorso di studio intrapreso sulla dirigenza è stato reso possibile anche grazie al franco confronto con tanti dirigenti in carica, i quali hanno messo a nudo le difficoltà della funzione, orgogliosamente rivendicato la fatica e l’impegno che richiede occuparsi di organizzazione, soprattutto quando le risorse a disposizione sono scarse ed i ruoli colmi, nonché invitato alla prudenza nella ricerca di soluzioni che, appunto, non si rivelino eccentriche rispetto alle criticità che sono emerse.
Proprio l’ultimo richiamo ha determinato una riflessione su ciò che consenta di conciliare l’efficienza dell’ufficio con la caratteristica di mero possibile momento di una carriera che l’incarico dirigenziale deve rappresentare.
Ne è conseguita la necessità di una riflessione sulla temporaneità che si è rivelato meccanismo insufficiente nella misura in cui ha consentito di formare “la carriera del Dirigente”, mediante la copertura di plurimi incarichi consecutivi senza soluzione di continuità.
Area DG vorrebbe esprimere dirigenti che non perdano mai il contatto con la giurisdizione e, soprattutto, non perdano mai la passione per l’esercizio della giurisdizione medesima.
Un incarico dirigenziale è un impegno. Pertanto, deve essere portato a termine.
In quest’ottica si è proposto di codificare l’effettività del periodo di svolgimento dell’incarico prevedendo che esso debba essere portato ad esaurimento solo alla scadenza effettiva, senza legittimazioni che ne consentano la cessazione anzitempo, con ordinario ritorno alle funzioni giurisdizionali per il tempo necessario allo svolgimento di nuovi concorsi cui il magistrato aspiri.
Preme ad Area DG che il Dirigente non consideri una deminutio il ritorno in servizio, ma una mera conseguenza naturale della cessazione di un munus a termine. Un munus che arricchisce indubbiamente il magistrato e la sua professionalità con maturare di un bagaglio professionale ulteriore che, sempre nell’ottica della condivisione dirigenziale, non può che apportare benefici all’ufficio e, conseguentemente, al servizio che prestiamo per i cittadini. In quanto tale, è un bagaglio che non è disperso dal rientro in servizio, semmai patrimonio da condividere anche nella prospettiva di crescita degli altri colleghi e del loro coinvolgimento attivo.
L’effettività della proposta circa lo svolgimento effettivo dell’incarico per tutta la durata legale, richiede un ripensamento del termine di svolgimento, aspetto oggetto dell’ultimo punto della proposta e che tratteremo nel paragrafo che segue.
5. La durata massima per ciascun incarico direttivo e semidirettivo.
Non può tacersi che la concreta esperienza dimostri come la procedura di conferma sconti lungaggini che, anche nei casi patologici, laddove vi siano state segnalazioni di manifesta incapacità del Dirigente, portano all’esaurimento dell’intero ottennio anche giungendo a pareri negativi postumi e, dunque, oramai inutili.
Si tratta di una criticità sulla quale Area DG ha ritenuto di dover riflettere.
Come si è detto, inoltre, risulta importante segnare un cammino di passi effettivi verso una riforma, sì da non limitarsi a mere petizioni di principio dal facile consenso, ma concretamente inattuabili, né da -al contrario- arroccarsi su posizioni conservative ostacolo al cambiamento.
Per rendere concreta la prospettiva di effettività del termine di svolgimento dell’incarico, dunque, si rende necessario rimodulare la tempistica del medesimo.
Ecco perché, cercando di bilanciare:
si è giunti alla conclusione che sia opportuno prevedere un termine unico di durata dell’incarico dirigenziale, di sei anni.
L’incarico deve essere, comunque, oggetto di valutazione stante anche il fatto che il giudizio è propedeutico a poter fare domanda per nuovi incarichi, ostando in radice un parere negativo.
Consapevoli che, nei casi di manifesta incapacità, tale termine non possa spirare senza che l’autogoverno reagisca, tuttavia, si è pensato che sarà necessario istituire e disciplinare una procedura d’urgenza per la rimozione dall’incarico, anche in questo caso auspicando in significative novità che la rendano effettiva (si può immaginare di mutuare la disciplina di cui all’art. 700 c.p.c adattandola al momento dell’autogoverno, anche pensando ad un organo unico che curi istruzione e decisione).
II. Considerazioni conclusive.
Area DG è consapevole che le condizioni di lavoro in molti, troppi uffici, determini la difficoltà dei magistrati di avvicinarsi (ed appassionarsi) alle competenze diverse da quelle strettamente giurisdizionali.
Così come deve segnalarsi il rischio che la cartolarizzazione del processo, soprattutto nel settore civile, nonché in grado di appello, allontani (fisicamente e moralmente) i magistrati dalla sede fisica che è luogo di incontro, confronto e, ove valorizzato, vera e propria fucina culturale.
Tuttavia, proprio una diffusa insofferenza denota che, sotto cenere, è acceso il fuoco che stimola i magistrati a percepire quali siano i problemi ed a pensare ad alternative. La presenza di dirigenti accentratori o ostili ai cambiamenti non aiuta, mentre positiva è la presenza di magistrati con compiti di direzione illuminati e propositivi.
Non può, tuttavia, lasciare che sia il caso a determinare la positività delle esperienze. Bisogna, dunque, lavorare a livello normativo (primario e secondario) ed impegnarsi a livello associativo al fine di diffondere la cultura ordinamentale, accrescere la consapevolezza che le questioni ordinamentali riguardano tutti e si inseriscono pienamente fra le mansioni del magistrato, incentivare il coinvolgimento orizzontale nella gestione dell’ufficio, assecondando l’inclinazione dei colleghi.
È impegno di Area DG camminare su questa strada.
È disponibile il primo fascicolo 2024 di Giustizia Insieme
Cento anni di leggi sugli stupefacenti
a cura di Lorenzo Miazzi
con i contributi di Paola Filippi, Lorenzo Miazzi, Michele Toriello, Pierluigi Di Stefano, Giuseppe Bersani, Franco Corleone, Alfredo Pompeo Viola, Tommaso Chirco, Paolo Nencini, Sonia Bergamo, Emanuele Bignamini, Maurizio Sgrò
La pubblicazione raccoglie e rielabora gli interventi del Convegno organizzato dalla nostra rivista il 1° dicembre 2023.
Tutti i fascicoli e gli ebook pubblicati dalla nostra Rivista si possono leggere gratuitamente a questo link https://www.giustiziainsieme.it/it/fascicoli.
Introduzione
di Paola Filippi
Questo fascicolo contiene gli atti del convegno “Cento anni di leggi sugli stupefacenti”, organizzato dalla Rivista in occasione dei 100 anni dalla legge del 18 febbraio 1923 “Recante provvedimenti per la repressione dell’abusivo commercio di sostanze velenose aventi azione stupefacente”.
Riteniamo sia importante tenere accesi i riflettori sull’assunzione, gli effetti e la repressione del traffico degli stupefacenti per le molteplici implicazioni sociali, economiche, sanitarie e di criminalità organizzata sottese a detto fenomeno.
La celebrazione del centenario c’è parsa un’ottima occasione per ribadirlo.
(…)
La disciplina penale delle sostanze stupefacenti tocca temi sensibili la cui cura è diversamente declinata a seconda delle posizioni ideologiche, morali ed etiche, di cui è espressione il legislatore.
Si tratta di temi che peraltro coinvolgono diritti costituzionali di libertà e protezione,
di liberismo e interventismo dello Stato, di salute ed economia.
Con riguardo alla disciplina in materia di stupefacenti, quanto all’approccio repressi- vo, si registrano contrasti anche con riguardo alle pene edittali e lo scontro è sulle sanzioni per le droghe leggere e la lieve entità.
Si tratta poi di una materia che, è bene ricordarlo, deve anche confrontarsi con il diritto alla salute avuto riguardo all’uso terapeutico di talune sostanze stupefacenti nonché, nel settore economico, con lo sfruttamento dei terreni abbandonati dalle culture tradizionali, in questo contesto, non a caso, si inserisce la legge n. 146/2016.
Sono queste le ragioni che spiegano il numero delle leggi che si sono succedute in questi 100 anni – anche in ragione dell’espandersi dell’uso delle droghe –, dei numerosi interventi della Corte costituzionale e addirittura dal ricorso al referendum popolare[1].
In questa raccolta degli atti del convegno l’articolo dal titolo “La legislazione sulle droghe nella società italiana” di Lorenzo Miazzi offre un quadro esaustivo delle discipline in materia di sostanze stupefacenti che hanno caratterizzato il sistema repressivo da quella prima legge del 1923 a oggi.
Naturalmente significativa, in quadro legislativo in costante mutamento, è l’attività giurisprudenziale e lo sforzo dei giudici alla reductio a unum. Su questo tema troverete in questa raccolta gli interessanti articoli di Michele Toriello “La disciplina degli stupefacenti tra normativa e giurisprudenza” e di Pier Luigi Di Stefano “Fatto di lieve entità e le prospettive di riforma”.
Sotto il profilo sociale ed economico è fondamentale avere un’idea concreta dell’impatto della tossicodipendenza. La situazione l’hanno fotografata Alfredo Viola nell’articolo dal titolo “La rilevanza della questione sociale e i risvolti di natura economica” e Sonia Bergamo nell’articolo dal titolo “Persone che usano droghe e stigma socio spaziale”.
La questione che Gramsci già poneva nel 1918 con la domanda: “È la proibizione il modo giusto per affrontare i rischi sociali connessi alle droghe?” la troverete trattata nell’articolo di Giuseppe Bersani intitolato “Riflessioni scientifiche e psichiatriche in tema di legalizzazione della cannabis” e nell’articolo di Franco Corleone “Canapa tra diritto e salute”.
Il tema degli effetti delle sostanze stupefacenti e, in particolare, della cannabis è
trattato da Tommaso Chirco nel suo articolo dal titolo “La cannabis da un punto di vista medico”. Paolo Nencini si è occupato degli effetti dell’uso delle droghe in “I riflessi sanitari e sociali del traffico di droga”.
I rimedi sociali per far fronte alle dipendenze sono trattati da Emanuele Bignamini nell’articolo dal titolo “L’attività dei Servizi pubblici per le dipendenze: utenza, efficacia, caratteristiche, risorse, organizzazione”, infine Maurizio Sgrò tratta delle difficili soluzioni per contemperare l’esecuzione della pena allo stato di dipendenza nell’articolo dal titolo “Giustizia penale e prestazioni sanitarie penitenziarie nell’ambito della dipendenza da sostanze psicoattive”.
[1] Il codice Rocco del 1930, puniva come reato contravvenzionale l’uso palese delle droghe; successivamente la legge del 1957 ha introdotto il delitto punendo indiscriminatamente la detenzione e l’uso personale; nel 1975 è stata introdotta la modica quantità, la materia è stata rivista e sistemata nel testo unico di cui al DPR 309/90, l’art. 74 è stato oggetto di referendum popolare ed è stata così abrogata la modica quantità; il dPR 309/09 è stato oggetto di interventi d’urgenza d.l. 247/91, d.l. 272/05 d.l. 78/13 d.l. 36/14, dlvo 202/16 d.l. 14/17, e di interventi della Corte costituzionale da ultimo le sentenze n. 32/14 e n. 40/19.
Sommario: 1. Giorgio La Pira, l’attualità del suo pensiero e delle sue opere. 2. Giorgio La Pira in Assemblea costituente, i diritti sacri, naturali e inviolabili dell’uomo. 3. Giorgio La Pira e la priorità della coscienza individuale sulla legge formale, la proiezione del film “Non uccidere”. 4. Segue: l’impegno a tutela del lavoro, la vicenda Pignone. 5. Segue: l’impegno per la tutela della casa, gli sfratti a Firenze. 6. La realizzazione della nuova centrale del latte. 7. Giorgio La Pira e l’impegno per la pace. 8. Giorgio La Pira e il valore della vita, Spes contra spem.
1. Giorgio La Pira, l’attualità del suo pensiero e delle sue opere
È un grande piacere per me ricordare un illustre personaggio del secolo che abbiamo alle spalle quale Giorgio La Pira, proprio qui a Pozzallo, nella sua città natale[1].
Premetto che non ho titoli per ricordare Giorgio La Pira, e quindi mi appresto a rendere questo omaggio con la massima modestia.
Il mio vuol essere solo un ricordo; non c’è né storia, né diritto né scienza in quello che andrò ad esporre.
D’altronde, lo stesso Giorgio La Pira abbandonava la c.d. produzione scientifica giovanissimo, ovvero trentenne, visto che gli ultimi suoi studi di diritto romano, del quale era titolare di cattedra nell’Università di Firenze, risalgono alla prolusione del 1934[2] e ad un successivo saggio del 1938[3]; poi si occupò solo dell’uomo, nei suoi bisogni terreni e nella sua spiritualità; ed è su questo suo impegno che io voglio far cadere l’attenzione, poiché è essa, e solo essa, la ragione per la quale noi, ancora oggi, con riverenza, lo ricordiamo.
Se qualcuno, poi, dovesse chiedersi per quale motivo un giurista positivo, quale io posso essere considerato, si mette a fare simili cose, risponderei che riaffermare i diritti inalienabili e primi della persona, attraverso il pensiero e l’opera di Giorgio La Pira, è di questi tempi quanto più necessario, poiché viviamo in un’epoca ove la pace e le libertà individuali sono di nuovo, purtroppo, a rischio.
E inoltre, ricordare Giorgio La Pira è per me in ogni caso un piacere perché a lui mi lega, oltre all’ossequio che porto al suo rigore morale, il suo essere stato fiorentino.
Voi sapete che Giorgio La Pira, siciliano di Pozzallo, ha amato però profondamente la città di Firenze, e non ha mai perso occasione per lodarla.
Dal Natale del 1952, sindaco di Firenze da solo un anno, Giorgio La Pira prese l’abitudine di rivolgersi ai ragazzi delle scuole elementari con una lettera, accompagnata da un piccolo panettone e da un libretto, curato da Piero Bargellini, anch’egli poi sindaco di Firenze nel periodo dell’alluvione del 1966, autore di quattro volumi su La splendida storia di Firenze, volumi che si trovavano all’epoca in molte case fiorentine[4].
Scriveva Giorgio La Pira nella lettera del 1952: “Vi auguro di nuovo tanto bene, ragazzi cari per questo Natale……..Tutto il vostro essere cresca spiritualmente e fisicamente robusto, come pianticella saldamente radicata in questo giardino del mondo che è Firenze…….Di questa città incomparabile, radicata sui monti santi della grazia e della bellezza, voi siete, ragazzi cari, le pietre vive più preziose”[5].
2. Giorgio La Pira in Assemblea costituente, i diritti sacri, naturali e inviolabili dell’uomo
Il primo ricordo di Giorgio La Pira non può non risalire al 1946 e alla sua partecipazione all’Assemblea costituente[6].
Giorgio La Pira fece infatti parte della prima sottocommissione dei 75, ovvero di quella sottocommissione che si occupò dei diritti fondamentali.
2.1. Il tema da ricordare è dunque quello dei diritti naturali, inalienabili dell’uomo, che lo Stato non può toccare, ma solo riconoscere e proteggere, e ciò in contrapposizione allo Stato fascista, che viceversa, per tutto il ventennio, aveva calpestato e negato le libertà della persona.
Giorgio La Pira nell’adunanza del 9 settembre 1946 dichiarava: “E’ necessario che alla costituzione sia premessa una dichiarazione dei diritti dell’uomo, ciò in conformità anche a tutta la tradizione giuridica cosiddetta occidentale. Ma oltre che in omaggio alla tradizione, una dichiarazione dei diritti dell’uomo deve essere ammessa soprattutto come affermazione solenne della diversa concessione dello Stato democratico, che riconosce i diritti sacri, inalienabili, naturali del cittadino, in opposizione allo Stato fascista, che con l’affermazione dei diritti riflessi, e cioè con la teoria che lo Stato è la fonte esclusiva del diritto, negò e violò alla radice i diritti dell’uomo”[7].
Dunque, per Giorgio La Pira esistono dei diritti, che egli arriva a qualificare sacri, che preesistono allo Stato, e che lo Stato non può negare senza commettere abuso, poiché sono diritti che l’uomo ha per natura, o, nella concezione religiosa di Giorgio La Pira, per volontà di Dio, e non diritti che l’uomo ha in quanto concessi dallo Stato.
Uno Stato democratico, infatti, rifiuta la teoria dei diritti c.d. riflessi, tipici dei sistemi totalitari e della filosofia hegeliana dello Stato.
Al riguardo Giorgio La Pira ancora esponeva: “Esiste una base filosofica, che sia a fondamento di questa teoria dei diritti riflessi? Alla domanda si può rispondere affermativamente, in quanto la teoria dei diritti riflessi corrisponde alla concezione hegeliana, che vede lo Stato come un tutto e l’individuo come elemento integralmente subordinato alla collettività, in contrapposto all’altra concezione che, pur rispettando l’esigenza della collettività, vede la persona come un ente dotato di una sua interiore autonomia e quindi considera la libertà e i diritti subiettivi non come concessione, ma come conseguenza di questa interiore autonomia”[8].
2.2. Dunque, la persona è dotata di una sua autonomia, e l’individuo non è integralmente subordinato alla collettività.
La posizione di Giorgio La Pira, peraltro, era interamente condivisa dalle forze politiche del cattolicesimo progressista, delle quali lui faceva parte, e sotto questo profilo merita altresì ricordare l’intervento di Giuseppe Dossetti, avvenuto nell’adunanza della prima sottocommissione sempre il 9 settembre 1946.
Disse Giuseppe Dossetti: “Si vuole o non si vuole affermare l’anteriorità della persona di fronte allo Stato? Questo concetto fondamentale dell’anteriorità della persona, che dovrebbe essere gradito alle correnti progressiste qui rappresentate, può essere affermato con il consenso di tutti”[9].
Sono questi, dunque, i cardini della nuova Repubblica, e di quello che poi sarà lo stesso art. 2 della Costituzione: diritti naturali inalienabili e anteriorità della persona allo Stato.
Tuttavia per Giorgio La Pira i diritti della persona non potevano essere solo quelli dell’individuo, tipici della rivoluzione francese del 1789, ma dovevano necessariamente estendersi anche a quelli della collettività, o dei gruppi intermedi, che segnavano così il passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale.
Al riguardo Giorgio La Pira completava il suo intervento asserendo ancora: “Può con questo dirsi completato il quadro dei diritti dell’uomo? Evidentemente no; per completarlo è necessario tener conto delle comunità fondamentali, nelle quali l’uomo si integra e si espande, cioè dei diritti delle comunità…….si arriva così alla teoria del c.d. pluralismo giuridico, che riconosce i diritti del singolo e i diritti delle comunità e con questo dà una vera integrale visione dei diritti imprescrittibili dell’uomo”[10].
Questa era quindi la posizione di Giorgio La Pira su questo delicatissimo tema: i diritti di libertà, individuali e collettivi, seppur in una logica di solidarietà, sono sacri e inalienabili, e la loro soppressione o compressione, per qualunque ragione pretesa, si porrebbe al di là e fuori dall’idea di Stato democratico, il quale, contrapponendosi ai regimi totalitari, rifiuta, e deve rifiutare, le teorie dei diritti riflessi.
2.3. Giorgio La Pira avrà modo di specificare questi concetti anche in periodi successivi, e qui desidero ricordare quanto egli disse il 26 maggio 1956 nel suo discorso di chiusura della campagna elettorale: “V’è un insanabile contraddizione fra due civiltà, la civiltà che ha il vessillo della bandiera comunista e la civiltà che ha un altro vessillo, che, pur essendo cristiano, abbraccia tutti gli uomini che amano la libertà e hanno il gusto della spiritualità e dei valori supremi dell’uomo; sono due mondi contrapposti: uno materialista e l’altro spirituale: sono due tipi di governo e di reggimento della cosa pubblica: l’uno fondato sulla libertà economica, politica, sociale, culturale, religiosa, da correggere, magari, da integrare, ma sempre libertà nelle sue fondamentali strutture di governo e di democrazia; e l’altro che non ammette nessuna libertà: ne’ libertà economica, ne’ libertà politica, ne’ religiosa”[11].
Probabilmente, la contrapposizione che qui ci propone Giorgio La Pira è troppo netta, troppo radicale; tuttavia essa rimarca la sua distanza dal comunismo, la sua solidarietà umana che non rinuncia mai ai valori della libertà, la sua giustizia sociale che non sfocia mai in autoritarismo statuale; perché, appunto, lo Stato viene dopo la persona, in quanto esistono, lo si ripete ancora con le sue parole, i diritti sacri, inalienabili, naturali del cittadino, in quanto la nostra democrazia vede la persona come un ente dotato di una sua interiore autonomia e quindi considera la libertà e i diritti subiettivi non come concessione, ma come conseguenza di questa interiore autonomia.
3. Giorgio La Pira e la priorità della coscienza individuale sulla legge formale, la proiezione del film “Non uccidere”
La seconda vicenda che desidero ricordare risale al 18 novembre 1961[12].
Siamo a Firenze, Giorgio La Pira è sindaco della città per la seconda volta.
3.1. In quel periodo circolava un film di un registra francese, certo Claude Autant-Lara, che si intitolava Tu ne tueras point (“Tu non ucciderai”), e che trattava dell’obiezione di coscienza al servizio militare.
In quegli anni, ancora, nessuna normativa sull’obiezione di coscienza esisteva in Italia, visto che il primo riconoscimento dell’obiezione di coscienza arrivava oltre dieci anni dopo con la legge 15 dicembre 1972 n. 772, cui poi susseguivano le ulteriori leggi 8 luglio 1998 n. 230 e 14 novembre 2000, n. 331.
Il film, già vietato in Francia, era stato bloccato anche a Roma, e ne era interdetta la diffusione.
Giorgio La Pira desiderava tuttavia proiettarlo e farlo conoscere, in quanto lo giudicava di particolare valore morale e utile per aprire un dibattitto sul tema.
Per evitare la censura Giorgio La Pira ha l’idea di proiettarlo in forma privata.
Organizza, così, una sorta di sala cinematografica al Parterre di Firenze, e offre una visione del film solo alle persone da lui espressamente invitate.
Giorgio La Pira fa ciò a tutela di due valori: quello della libertà di manifestazione del pensiero e quello della libertà di coscienza contro la guerra e gli obblighi militari.
La sala si racconta fosse gremita, e gli invitati erano magistrati, giuristi, politici, giornalisti, perfino militari.
3.2. L’iniziativa di Giorgio La Pira, soprattutto in considerazione del fatto che lo stesso aveva un incarico istituzionale, trovò non poche reazioni critiche: tra queste si ricordano quelle dell’allora Ministro della difesa Giulio Andreotti, del direttore dell’Osservatore romano Raimondo Mazzini, e poi di giornalisti, di politici, perfino di componenti del consiglio comunale di Firenze quali Bettino Ricasoli[13].
Addirittura, il ministro dell’interno Scelba emanò una circolare comunicata al Consiglio dei Ministri il 22 novembre 1961, nella quale si prescriveva il divieto di iniziative analoghe per il futuro[14].
Giorgio La Pira rimase assai amareggiato da queste critiche, che a lui sembravano offendere la libertà di coscienza.
Scrisse addirittura a Papa Giovanni XXIII: “Beatissimo Padre, si può andare avanti così? Il retroterra non è il film Non uccidere; è la politica interna italiana, e direi soprattutto il fatto che Firenze sostenga da anni queste tesi: la guerra è impossibile: alla pace non può essere contrapposta altra alternativa che la pace”[15].
Rispose a Giulio Andreotti, asserendo che non capiva: “quale sia il fondamento della tua meraviglia, del tuo stupore e del tuo giudizio”[16], e soprattutto rispondeva al consigliere comunale democristiano Bettino Ricasoli, con un puntiglio che merita di essere ricordato: “Caro Bettino, sarai persuaso anche tu che la lettera (la sua lettera di protesta) è stata scritta senza adeguata responsabile meditazione: perciò la restituisco. Non abbiamo violato nessuna norma giuridica e nessuna norma morale; abbiamo solo affermato il grande principio strutturalmente antitotalitario in base al quale lo Stato non può violare le coscienze e l’intelligenze. E’ il principio cardine della libertà: lo sottoscriverebbe anche il Bettino Ricasoli di ieri! Per queste ragioni non posso permettere che il Bettino Ricasoli di oggi scriva la lettera che ha scritto”[17].
3.3. Giorgio La Pira, per la proiezione del film, verrà denunciato in base all’art. 688 c.p. e in base all’art. 68 della legge di polizia, visto che la proiezione era avvenuta senza la licenza del Questore.
Difeso dagli avvocati Giorgio Della Pergola e Paolo Barile (principi del foro fiorentino dell’epoca, l’ultimo allievo dello stesso Piero Calamandrei), Giorgio La Pira si difese negando di aver diffuso il film in pubblico, e nell’interrogatorio del 14 dicembre 1961 asserì che infatti tutti i partecipanti erano stati da lui invitati, che le autorità erano state preventivamente avvertite, che il film era stato proiettato per sollecitare un dibattito sul tema della pace, e che infine doveva considerarsi incostituzionale ogni censura non riconducibile alla tutela del buon costume.
Il Tribunale di Firenze rimise gli atti alla Corte costituzionale, la quale tuttavia, con ordinanza del 7 febbraio 1963 n. 11, li rinviò al Tribunale di Firenze, per essere stata emanata nel frattempo in materia la nuova legge 21 aprile 1962 n. 161.
Il Tribunale di Firenze, infine, giudicando Giorgio La Pira in forza di questa nuova legge, lo assolveva “perché il fatto non costituisce reato”[18].
Il 29 novembre 1963 Giorgio La Pira scriveva all’arcivescovo di Firenze Ermenegildo Florid: “ormai tutto è passato: resta, in questa crisi, la grande luce di S. Agostino: in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas”[19].
3.4. Perché ricordare questa vicenda?
Perché essa rappresenta in modo eloquente la posizione di Giorgio La Pira nel contrasto fra legge scritta e coscienza individuale, tra autorità e libertà.
E’ un esempio concreto di coerenza pratica di quanto egli, quindici anni prima, aveva sostenuto teoricamente in Assemblea costituente.
La legge morale e i diritti inalienabili dell’uomo, tra i quali certamente Giorgio La Pira ricomprendeva la pace e la libertà di pensiero, non possono non prevalere sulla legge formale, quando questa li contrasti.
Ancora una volta si riafferma la persona, come un ente dotato di una sua interiore autonomia.
4. Segue: l’impegno a tutela del lavoro, la vicenda Pignone
Giorgio La Pira impegnerà tutta la sua vita nella difesa degli ultimi, secondo i valori del Vangelo.
Scriveva di lui Piero Bargellini: “Quando scendeva dalla cattedra universitaria, non si recava a discutere in un caffè o a conversare in un salotto, ma andava a visitare i poveri della San Vincenzo……Era considerato l’amico dei poveri, per i quali aveva organizzato, a San Procolo, anche una Messa domenicale”.
Continuava poi Piero Bargellini: “Restavano ancora da risolvere due gravi e dolorosi problemi: quello della disoccupazione e quello dell’abitazione. Disoccupati e sfrattati accorsero in Palazzo Vecchio dove si era insediato l’amico dei poveri”[20].
Merita allora ricordare quanto Giorgio La Pira fece per i disoccupati e gli sfrattati, in difesa del lavoro e in difesa della casa.
4.1. Sul tema del lavoro va senz’altro ricordata la vicenda della Pignone.
La Pignone, in origine, era una industria metalmeccanica dell’area fiorentina.
Nel periodo della guerra si era ingrandita producendo armi, ma dopo la guerra stentava a trovare una propria identità, e la riconversione nel campo dei telai tessili immaginata dalla proprietà, la Snia Viscosa, non aveva prodotto alcun benefico risultato.
La Pignone riduceva allora il personale, e nel novembre del 1953 annunciava la chiusura degli stabilimenti, nonché il licenziamento di 1750 operai.
Precisamente il 17 novembre 1953 la società veniva messa in liquidazione, e il 18 novembre Giorgio La Pira, in difesa dei lavoratori, inviava una lettera a tutti i vescovi d’Italia.
Il 21 novembre successivo i dipendenti occupavano la fabbrica.
Il giorno dopo, 22 novembre, gli occupanti venivano denunciati in sede penale.
Quello stesso giorno, alle 11,30, i lavoratori occupanti si trasferivano nel piazzale antistante la fabbrica, per assistere ad una Messa celebrata da don Bruno Borghi, prete operaio della Pignone nel 1951; li raggiungeva Giorgio La Pira, e al termine della Messa si intratteneva con loro per esaminare i problemi più urgenti[21].
4.2. Giorgio La Pira scrisse ad una miriade di persone, tra le quali, addirittura, al Pontefice Pio XII: “Beatissimo Padre, l’atto temuto si è verificato: 1750 licenziamenti alla Pignone (totalità dei lavoratori e chiusura dell’azienda)……Qui c’è da salvare qualcosa di più saldo: la fiducia nella democrazia: fiducia non affidata solo alle leggi elettorali, quanto alla reale capacità di risolvere i veri problemi degli uomini: lavoro e casa”[22].
E poi scrisse all’amico Amintore Fanfani: “Caro Amintore, Marinotti ha deciso di chiudere la Pignone………E’ una decisione irresponsabile, illegittima ed ingiustificata: quando capiranno questi proprietari che la vita dei lavoratori non è nelle mani loro?”[23]
4.3. Ma la lettera principale, a mio sommesso parere, è quella che Giorgio La Pira inviava ad Edilio Rusconi, allora direttore del diffusissimo settimanale “Oggi”, che lo aveva attaccato in modo denigratorio per quanto egli stava facendo in difesa dei lavoratori.
Rispondeva Giorgio La Pira: “La Pira? Un imbecille per non dire altro, un visionario, un comunista bianco; lasciatelo cantare, tanto non concluderà nulla”[24].
E poi: “Ma cosa ha fatto? Nessuno lo sa con precisione; tutti sanno che ha fatto cose gravissime: - si figuri, ha fatto occupare dagli operai licenziati la fabbrica del Pignone; ha fatto celebrare la messa per gli occupanti, ha fatto stanziare due milioni per assisterli”[25].
E poi, di nuovo, proprio su quel rapporto tra legge scritta e legge morale: “La legge scritta? Noi siamo seguaci di S. Tommaso d’Aquino – il dottore della Chiesa per definizione – caro Rusconi. Ella non sa: quando la legge scritta fosse in intimo contrasto con quella naturale, allora non è più lex, sed corruptio legis (I,II,95,2; I,II,96,6) non tiene, non vincola non habet legis vigorem”[26]. Ed inoltre: “Anche le creature più alte dell’antichità pagana sentirono vivo questo dramma del contrasto fra la lettera della legge che uccide e lo spirito della giustizia che vivifica: ricorda Antigone? Vi sono leggi di natura, da Dio derivata, che nessuna legge umana può violare”…Non licet tibi……..ibant gaudentes a conspectu concilii quoniam digni habiti sunt pro nomine Jesu contumeliam pati”[27].
4.4. Giorgio La Pira, però, non si limitò a scrivere lettere e a fare teoria, ma si mosse anche concretamente per salvare l’azienda, e questo è l’altro importante aspetto; Giorgio La Pira non era solo un sognatore, era un uomo concreto.
Decise allora di prendere contatti con un altro suo importante amico, Enrico Mattei, presidente ENI, al quale gli propose di rilevare l’azienda.
L’idea era quella di convertire la Pignone nella produzione di turbine, idonee per l’estrazione del petrolio.
Ovviamente la cosa, a questo punto, poteva interessare Enrico Mattei, il quale avrebbe potuto salvare la Pignone non solo alla luce di quello spirito di solidarietà cristiana fatta avanti da Giorgio La Pira, ma anche per una buona ragione imprenditoriale.
Si stavano creando le basi, dunque, per salvare il lavoro a 1750 famiglie.
Dopo varie trattative, tutte seguite attentamente da Giorgio La Pira, la sera del 13 gennaio 1954, al Ministero del lavoro, verrà raggiunto l’accordo con i rappresentanti sindacali dei lavoratori e ENI, e finalmente si potrà comunicare l’acquisto del pacchetto azionario della Pignone[28].
Nascerà la Nuova Pignone, officina meccanica e fonderie, produttrice di turbine idonee all’estrazione di petrolio, con la partecipazione dell’ENI, presieduta da Enrico Mattei, al 60%, e la partecipazione altresì della vecchia proprietà, la SNIA VISCOSA al 40%[29].
5. Segue: l’impegno per la tutela della casa, gli sfratti a Firenze
Un egual impegno sociale Giorgio La Pira poneva in difesa della casa; considerava la casa, insieme al lavoro, un diritto inalienabile della dignità umana; e, da sindaco, voleva fermamente che nessuno, a Firenze, potesse rimanere senza un tetto.
5.1. Giorgio La Pira, anche su questo problema, intervenne, però, potremmo dire di nuovo, a modo suo, sopra le righe.
Requisì ville deserte e case sfitte, seppur la legge lo consentisse solo in ipotesi di calamità naturali.
Ma a chi gli citava articoli di legge, Giorgio La Pira tranquillo rispondeva: “Per questa povera gente la calamità è già avvenuta. Lo sfratto è come il terremoto e l’aumento delle pigioni oltre il livello delle possibilità economiche è peggiore d’un alluvione”[30].
Poi ebbe l’ardire di scrivere ai Pretori, competenti per materia all’epoca in tema di locazioni e di sfratti: “Signor Pretore…………io sono proprio preoccupato per questo crescere quotidiano di sfratti e per questa inquietudine – legittima – che va creandosi nella popolazione più povera……….La prego con tutta l’anima di aiutarmi, cioè a dare tutte le proroghe necessarie affinché ci sia dia tempo di provvedere a quella costruzione di case minime per le quali siamo impegnati un po’ tutti”[31].
5.2. Questo, era, dunque l’impegno concreto di Giorgio La Pira: ampliare la città di Firenze con la costruzione di case popolari da poter assegnare ai cittadini in difficoltà economiche in modo che nessuno a Firenze potesse rimanere senza casa.
Di nuovo, una perfetta sintesi tra sentimenti di carità cristiana e senso pratico per la risoluzione dei problemi.
Nel Verbale del Consiglio comunale del 16 ottobre 1952 risulta che Giorgio La Pira disse: “Venendo a parlare delle case, dirò che si è già iniziata la costruzione di case minime a Novoli ed a Varlungo, e presto si inizierà quella al Galluzzo. Vi sono poi le case per gli sfrattati, case vere e proprie e non baracche, che importano una spesa di 96 milioni. Vi è stato aggiunto anche un asilo, che è già in costruzione. In complesso quindi a Firenze noi facciamo investimenti per l’edilizia popolare in questa misura: mille alloggi comunale; mille alloggi per conto del Ministero degli Interni; millecinquecento alloggi Ina-Casa”[32].
5.3. Il problema è che, nel frattempo, Giorgio La Pira immaginava di risolvere provvisoriamente il problema con la requisizione degli alloggi vuoti a Firenze, e per questo ricevette molte critiche e vi furono numerosi contenziosi nei quali il Comune di Firenze restò soccombente.
Il giornale fiorentino La Nazione ricordava la posizione del Ministro dell’Interno su ciò, in base alla quale si doveva riaffermare il principio dell’inviolabilità della legge, ovvero del fatto che un Comune può requisire un immobile solo in ipotesi di calamità naturali.
E qui torniamo, ancora, al rapporto tra legge e coscienza.
Giorgio La Pira rispondeva così al direttore de La Nazione il 12 febbraio 1955: “Egregio direttore, sa lei quante sono le abitazioni sfitte in Firenze? Sono cauto se le dico che si va ben oltre le mille! E davanti a questo spreco di vuoti ecco il dramma di migliaia di famiglie già sfrattate o con l’incubo dello sfratto! Un sindaco che per paura dei ricchi e dei potenti abbandona i poveri, sfrattati, licenziati, disoccupati, è come un pastore che per paura del lupo abbandona il suo gregge. Posso io fare questo? Lei certamente risponderà di no: ed io pure”[33].
6. La realizzazione della nuova centrale del latte
Una ultima vicenda relativa all’impegno sociale di Giorgio La Pira riguarda la realizzazione della nuova centrale del latte di Firenze; essa è stata oggetto addirittura di uno studio monografico[34].
6.1. Ed infatti, appena insediato quale sindaco, Giorgio La Pira avverte la necessità di organizzare un servizio pubblico di distribuzione del latte per consentire a tutta la popolazione, e soprattutto alle classe sociali più disagiate, di poter godere di questo alimento, fino ad allora marginale nei consumi familiari[35].
Giorgio La Pira intende realizzare questo progetto con la creazione di una vera e propria “Centrale del latte”, e come in altre occasioni riesce a coniugare perfettamente i sentimenti di carità cristiana con il senso pratico.
Chiede aiuto, come in altre occasioni, all’amico Amintore Fanfani, che fa arrivare a Giorgio La Pira un finanziamento tramite il Ministero dell’Agricoltura; e poi, soprattutto, riceve l’aiuto di Lodovico Montini, fratello di Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, che riuscì ad ottenere per Giorgio La Pira un finanziamento addirittura dall’America.
Scriveva Giorgio La Pira a Lodovico Montini: “Caro Montini, il latte va benissimo; ormai da un mese i bambini delle scuole di Firenze ricevono ogni giorno questo sostanziale alimento: sono felici! Ora aspetto i denari: mandami, in anticipo, 15 milioni” [36].
Già nel 1952, così, “fra il 21 gennaio e il 31 maggio, prende avvio l’esperimento pilota della distribuzione di latte in 85 scuole elementari fiorentine”[37]; inizia la distribuzione quotidiana del latte ai bambini nelle scuole, agli operai pendolari nelle fabbriche, ai carcerati; sarà anche questo un forte legame tra il sindaco Giorgio La Pira e la sua città.
6.2. Giorgio La Pira ebbe ad esternare infatti il 19 febbraio 1952: “L’esperimento del latte è in pieno, felice sviluppo……E’ una idea elementare di vasta ripercussione, feconda per i suoi risultati fisici, spirituali, politici ed anche economici. Ringraziamo il Signore che ci ha permesso di condurre a termine, a Firenze, questa bella iniziativa assistenziale e fraterna…..Il latte sarà come l’asse attorno al quale potrà svilupparsi tutta una nuova azione assistenziale di dimensioni nazionali”[38].
7. Giorgio La Pira e l’impegno per la pace
Non si può, infine, ricordare Giorgio La Pira senza rimarcare il suo grande impegno per la pace e contro le guerre, impegno al quale egli dedicò enormi energie fino alla fine dei suoi giorni[39].
7.1. Nel 1952 iniziano a Firenze i Convegni internazionali per la pace e la civiltà cristiana; saranno in tutto cinque, dureranno fino al 1957; ad essi Giorgio La Pira invita esponenti politici di tutti i paesi, nella convinzione che il dialogo sia la base imprescindibile per la pace nel mondo.
Nel 1955 Giorgio La Pira prende un’ulteriore iniziativa, che è quella di invitare a Palazzo Vecchio i sindaci delle città capitali del mondo, per siglare un patto di amicizia tra loro; sosteneva che le città avessero la possibilità di svolgere un ruolo centrale per la pace, e dovevano così unirsi in un patto di salvaguardia della stessa.
Nel 1958 iniziano i Colloqui mediterranei, e invita a parteciparvi arabi e israeliani, convinto parimenti che nessuna pace potesse darsi nel mondo se non lavorando sulla pace nel mediterraneo, crocevia di più culture e più religioni, crocevia di diversi sistemi economici e politici, che tuttavia avevano lo specifico dovere di dialogare tra loro e collaborare.
Si è detto di Giorgio La Pira che “negli anni successivi si fece sempre più intenso il suo impegno a favore della pace, come testimoniano le lettere a Nikita Krusciov e al Presidente del Consiglio dell’URSS, il sostegno alla causa dell’indipendenza algerina, e soprattutto i pellegrinaggi, che lo condussero nel cuore medesimo dei popoli cristiani d’Europa”[40].
7.2. Soprattutto, nei giorni tra il 24 – 28 aprile 1965, a Firenze, al Forte di Belvedere, Giorgio La Pira organizza un Symposium sul Vietnam.
Oltre ai laburisti inglesi, era presente l’ex presidente del Consiglio francese Jules Moch, l’osservatore sovietico Modest Rubinstein dell’Accademia delle scienze di Mosca ed alcuni esponenti di organizzazioni internazionali[41].
Disse in quell’occasione Giorgio La Pira: “Il problema vietnamita è arrivato a rappresentare una vera minaccia per la pace mondiale…..Naturalmente i conflitti sono due. Uno è il conflitto che si svolge all’interno del Vietnam fra vietnamiti. L’altro è il conflitto sul Vietnam fra coloro che appoggiano una delle parti contendenti e coloro che appoggiano l’altra. E’ quest’ultimo conflitto che mette in pericolo la pace mondiale. Il primo invece è un conflitto del tutto normale, a cui si possono trovare molti paralleli e precedenti nel corso della storia”[42]
Ovviamente, anche per questa iniziativa Giorgio La Pira fu fortemente criticato.
Giorgio La Pira lo ricorderà in una lettera inviata allo stesso Papa Paolo VI: “Quante accuse ci furono fatte e quanti insulti sulla stampa “indipendente” italiana…..si disse: “e’ cosa comunista!” E’ l’accusa –così ingiusta- che viene, da 15 anni, fatta alle cose di Firenze”[43].
7.3. Infine, il 2 giugno 1965 è in programma la sessione della Tavola Rotonda Est-Ovest a Belgrado sulla questione del disarmo e sul ruolo di un’Europa inedita: denuclearizzata e pacificata.
Giorgio La Pira resta a Firenze e affida a Mario Primicerio il testo del suo intervento da presentare alla tavola rotonda: “La via della pace è costituita da quello che noi abbiamo chiamato a Mosca il “sentiero di Isaia”, cioè la via del disarmo…….convertire, cioè, in investimenti di pace gli investimenti di guerra, trasformare in aratri le bombe, in astronavi di pace i missili di guerra”[44]
7.4. Non v’è bisogno di sottolineare quanto il pensiero di Giorgio La Pira sulla pace e sul disarmo sia attualissimo a fronte dei fatti che stiamo, purtroppo, di nuovo in questo periodo vivendo.
Non v’è bisogno di sottolineare quanto sia importante il monito di Giorgio La Pira verso i potenti del mondo, che hanno il dovere di non trasformare un conflitto interno in un conflitto internazionale, prendendo posizione a favore, oppure contro, una parte, poiché è sempre quest’ultima posizione che trasforma una guerra locale in una guerra di tutti, è quest’ultimo conflitto che mette in pericolo la pace mondiale.
E non v’è bisogno di sottolineare che, se si vuole la pace, come correttamente sosteneva Giorgio La Pira, si deve seguire il sentiero di Isaia, ovvero si deve perseguire il disarmo.
Se si pensa, ad esempio, alla nostra Europa, che con la recente legge francese 1 agosto 2023 n. 703, avente ad oggetto la programmazione militare per gli anni 2024 – 2030, ha invece aumentato le spese militari del 40%, nonché aumentato l’impiego di forze umane, che consentirà di raggiungere il numero di 275.000 militari entro il 2030, ai quali si aggiungeranno 105.000 riservisti entro la fine del 2035, va da sé di quanto si sia lontani da quel sentiero di Isaia predicato da Giorgio La Pira.
8. Giorgio La Pira e il valore della vita, Spes contra spem.
Arriviamo, così, all’ultimo periodo della vita di Giorgio La Pira.
8.1. Già malato, l’amico Giorgio Giovannoni gli chiede di accompagnarlo a Livorno per salutare una nave in partenza della Croce Rossa carica di medicinali per i profughi palestinesi nel Libano.
Giorgio La Pira così risponde all’amico: “Vedi, questa che ho addosso non è una malattia qualsiasi è la malattia. Però quella che si cerca in Palestina non è una pace qualsiasi, è la pace.
Andiamo dunque a salutare quella nave”[45].
8.2. Moriva a Firenze poco dopo, il 5 novembre 1977.
Gli operai del Nuovo Pignone portarono la bara a spalla, da Piazza della Signoria, lungo via Calzaiuoli, fino alla cattedrale di Santa Maria del Fiore, ove il Cardinale Giovanni Benelli tenne la Messa funebre.
Il 4 agosto 1977 Giorgio La Pira aveva fatto testamento nominando “suo erede universale il Convento di S. Marco in Firenze”[46].
Nel 1986 l’arcivescovo di Firenze Silvano Piovanelli apriva il processo diocesano per la causa della sua beatificazione.
Sepolto inizialmente nel cimitero di Rifredi, veniva successivamente trasferito nella Basilica di San Marco, dove ancora oggi si trova, a seguito del suo riconoscimento a venerabile.
8.3. La sua vita fu sempre illuminata da questo principio: Spes contra spem, la speranza, anche ove non c’è niente da sperare.
Relazione tenuta a Pozzallo (RG) il 17 maggio 2024, in un incontro organizzato dall’Università degli studi di Siena con il Comune e l’Ordine degli avvocati di Pozzallo, e con la partecipazione degli alunni delle scuole superiori di Pozzallo e Ispica.
[1] Su Giorgio La Pira si veda principalmente U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, Cultura nuova editrice – Comune di Firenze, 1988, diviso in tre volumi, un primo (1951 – 1954), un secondo (1955 – 1957) e infine un terzo (1961 – 1965); e poi G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, University Press Firenze, 2022, anch’esso diviso in tre volumi.
[2] G. LA PIRA, La genesi del sistema della giurisprudenza romana, in Studi Virgili, Siena, 1934, 159 e ss.
[3] Lo ricorda anche P. GROSSI, Stile fiorentino, Milano, 1986, 199, il quale alla nota 13 ebbe a scrivere al riguardo di Giorgio La Pira: “Come romanista, l’unico saggio successivo fondato su ricerche originali verte su La personalità scientifica di Sesto Pedio, ed è pubblicato in bull. Dell’Istituto di diritto romano, XLV (1938). Altrimenti ripeterà stancamente temi e prospettive già consolidati, senza aggiungervi alcunché”. Si veda anche C. PARENTI, Spunti di riflessione su maestri di luce: Luigi Lombardi Vallauri e Giorgio La Pira, in Scritti per Luigi Lombardi Vallauri, Padova, 2016, II, 1123 e ss.
[4] P. BARGELLINI, La splendida storia di Firenze, Vallecchi editore, Firenze, 1964.
[5] In U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit. I, 199.
[6] Mi piace ricordare, con riferimento all’intervento in Assemblea costituente da parte di Giorgio La Pira, quanto è stato scritto in G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., I, 626: “La mattina dell’8 settembre La Pira è stato alla messa di San Procolo, alla badia fiorentina, a festeggiare i suoi poveri. In serata è dovuto partire per Roma. Lo attende un compito impegnativo l’indomani 9 settembre: presentare la sua Relazione sui principi relativi ai rapporti civili alla I sottocommissione del 75”. Avrebbe voluto un articolo in costituzione del seguente tenore: “Nello Stato italiano che riconosce la natura spirituale, libera, sociale dell’uomo, scopo della Costituzione è la tutela dei diritti originari ed imprescindibili della persona umana e delle comunità naturali nelle quali essa organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona” (cit., pag. 628).
[7] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, 1971, VI, 316.
[8] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, cit., 316.
[9] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, cit., 322.
[10] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, cit., 316.
[11] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 193.
[12] La vicenda è ricordata da U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 105 e ss.; e poi G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 1251 e ss.
[13] V. infatti, U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 106/7
[14] V. ancora DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 106.
[15] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 1253.
[16] DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 106.
[17] DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 107.
[18] V. il resoconto in G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 1254: “Il sindaco di Firenze verrà dunque prosciolto in istruttoria “perché il fatto non costituisce reato”, ma dovrà attendere fino al gennaio del 1964”.
[19] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 1255.
[20] P. BARGELLINI, La splendida storia di Firenze, cit.. IV, 238.
[21] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 866.
[22] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 257.
[23] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 864.
[24] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 253.
[25] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 251.
[26] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 250.
[27] Non ti è lecito………..Uscivano felici dal Tribunale perché avevano avuto l’onore di sopportare offese per il nome di Gesù”.
[28] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 869.
[29] Ancora G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 894.
[30] P. BARGELLINI, La splendida storia di Firenze, cit.. IV, 238.
[31] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., I, 159.
[32] V. al riguardo, P.L. BALLINI, Giorgio La Pira. Sindaco di Firenze, ambasciatore di pace, Pagliai Polistampa, 2024, 71.
[33] P.L. BALLINI, Giorgio La Pira. Sindaco di Firenze, ambasciatore di pace, cit., 76.
[34] V. infatti L. PAGLIAI, Giorgio La Pira e il piano latte, Edizioni polistampa, 2010.
[35] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 121 e ss.
[36] V. U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 121.
[37] Così, L. PAGLIAI, Giorgio La Pira e il piano latte, cit., 125.
[38] Richiamato da L. PAGLIAI, Giorgio La Pira e il piano latte, cit., in quarta di copertina.
[39] V., fra i molti, M. GIOVANNONI, Il professore Giorgio La Pira amico della Cina, in AA.VV., Chang’an e Roma, Padova, 2019, 37 e ss.;
[40] Così, A. MATTONE, La Pira, Giorgio, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, I, 2013, 1152. Si veda anche T. ALEXEEVA, Diritto romano attuale e costituzione: prospettive geopolitiche, Padova, 2020, 138, sui rapporti tra la Costituzione sovietica e la Costituzione della Repubblica romana.
[41] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., III, 1508.
[42] P.L. BALLINI, Giorgio La Pira. Sindaco di Firenze, ambasciatore di pace, cit., 173.
[43] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., III, 1509.
[44] P.L. BALLINI, Giorgio La Pira. Sindaco di Firenze, ambasciatore di pace, cit., 173.
[45] In www.TOSCANAOGGI.IT.
[46] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., III, 1847.
Lo scritto riprende alcuni dei temi trattati nel corso della relazione tenuta al convegno sul tema “Diritto d'amore” tenutosi a Roma nei giorni 25, 26 e 27 gennaio 2024 organizzato dall'Associazione Cammino. Si tratta della quinta di una serie di pubblicazioni sulla nostra Rivista in tema di "diritto d'amore" per condividere le riflessioni emerse in occasione del Convegno. Si veda Diritto d'amore e responsabilità civile di Alessandra Cordiano, Diritto, biodiritto e amore di Roberto Giovanni Conti, Diritti d'amore e rapporti familiari di Mirzia Bianca, Il diritto d’amore in una prospettiva multidisciplinare di Gabriella Luccioli.
Amori “tossici” e diritto di libertà affettiva
una riflessione metagiuridica sulla violenza di genere e domestica
di Filippo Romeo
Sommario: 1. Amori “tossici”. Una prima riflessione metagiuridica sull’universo delle relazioni personali e familiari. - 2. La violenza domestica e gli ordini di protezione contro gli abusi familiari. - 3. Violenza di genere e processo alla luce della Riforma Cartabia. Vittimizzazione secondaria e coordinamento tra giudice civile e penale. - 3.1. Non mediabilità della violenza domestica nel processo di famiglia. – 3.2. Rifiuto del figlio di incontrare i genitori e ascolto diretto del minore. – 3.3. Le allegazioni di violenza e la possibilità di ricorrere agli ordini di protezione. – 4. Una breve riflessione conclusiva.
1. Amori “tossici”. Una prima riflessione metagiuridica sull’universo delle relazioni personali e familiari.
Questo breve scritto - muovendo dagli insegnamenti di Cesare Massimo Bianca - si propone di sviluppare una riflessione “metagiuridica” sull’universo delle relazioni personali e familiari attraverso una sorta di lente “speciale”: il diritto d’amore. In particolare, si affronterà il tema degli i “amori tossici”. Nell’approcciare l’argomento occorre sottolineare che “nel quadro di un rapporto di coppia l’amore indica una relazione paritaria fondata sul rispetto. Quando non c’è rispetto e prevale la sopraffazione ci troviamo davanti ad un amore ferito, ad un amore malato”[1]. Ben si comprende, pertanto, l’importanza del “confine”. La linea di demarcazione segnata dal rispetto, ove superata, ci consegna una relazione affettiva connotata da elementi di “tossicità”[2].
In stretta aderenza con quanto appena evidenziato, evocative suggestioni si colgono in un recente libro dedicato al tema degli “amori tossici”. L’Autrice, in particolare, esordisce affermando che “l’amore ha bisogno di confini perché è un ballo a due. Nella danza di coppia il confine non è rigido ma è chiara la linea di rispetto, bordo invisibile eppure preciso: la giusta distanza permette di danzare senza soffocarsi né schiacciarsi i piedi, ma anche di essere abbastanza prossimi per poter andare allo stesso ritmo. Il confine in una relazione è come il ballo: una metafora dello scambio. Si va insieme, non come specchio reciproco, ma in modo che ciascuno dei due possa passare nel posto dell’altro e tornare al proprio, superando il confine con levità, disegnando variazioni soggettive i cui movimenti si incontrano senza fondersi”[3].
Questa suggestiva metafora, tuttavia, si scontra con la realtà di tutti i giorni. Nella vita quotidiana con l’altro, infatti, non esiste una procedura certa per “gestire la distanza”, così come avviene nel ballo. Peraltro, i rapporti interpersonali risultano oggi oltremodo complessi e di non facile gestione. Le molteplici e mutevoli dinamiche di coppia appaiono connotate dalla persistenza di un tessuto di legami tra ex coniugi o ex conviventi chiamati ad interpretare congiuntamente il ruolo di genitori e ad esercitare correttamente la responsabilità genitoriale[4]. Le relazioni familiari, infatti, nonostante la rottura del menage sono destinate a durare nel tempo e non sempre è facile conciliare le esigenze della famiglia originaria con quelle delle nuove famiglie che, nel frattempo, hanno preso forma[5].
Inoltre, non sempre risulta possibile regolare la complessa trama di relazioni familiari che si sviluppa nel corso del tempo. Il vivere insieme - anche alla luce dell’irrequietezza esistenziale che sembra scandire la vita degli adulti - non è più inquadrabile all’interno di un modello precostituito[6]. In questo scenario, sempre più spesso - e i tanti fatti di cronaca lo confermano in modo inequivocabile - la “coreografia dell’Io con l’Altro”, finisce con il risultare imperfetta, sgraziata e sovente tragica[7].
Peraltro, l’immaturità e l’egoismo dei genitori impediscono sovente di attuare l’interesse del minore che - a ben vedere - passa non solo attraverso il “diritto alla bigenitorialità” ma anche attraverso l’intrecciarsi di plurimi legami affettivi[8]. Si impone “un adattamento del diritto vigente al fine di attribuire rilievo a rapporti fondati su relazioni meramente affettive mediante l’individuazione di regole funzionali ad istituire una gerarchia tra ruoli genitoriali inevitabilmente destinati a sovrapporsi”[9]. Anche in questo caso, in assenza di regole di diritto, ben si comprende l’importanza del “confine” per gestire in modo equilibrato la presenza di un “terzo genitore” nella non sempre lineare trama di rapporti familiari che convergono intorno al minore[10].
Ciò premesso, evitando approcci di matrice qualunquista, occorre tracciare una linea di demarcazione netta tra il “conflitto” e la “violenza”[11]. Ciò che differenzia la relazione conflittuale dalla relazione violenta è l’esercizio del “potere”: la violenza, infatti, si connota per la condizione di supremazia dell’uomo nei confronti della donna[12]. Il conflitto, pertanto, si trasforma in violenza quando l’uomo si pone in posizione di “asimmetria” rispetto alla donna e tende a dominarla (rectius sottometterla) anche attraverso l’uso intenzionale della forza fisica[13].
Ben si comprende - anche alla luce del vertiginoso aumento dei casi di violenza in famiglia - come nell’ambito delle relazioni di coppia i “confini” vengano sovente abbattuti[14]. Prende pervicacemente forma l’amore “tossico” che si modula sull’appropriazione psicofisica del partner, si nutre della sua vitalità fino a giungere all’atto estremo della sopraffazione: non è un caso che nel nostro Paese i casi di femminicidio hanno raggiunto numeri allarmanti.
Nella ricostruzione di questo scenario non può sottacersi che l’uccisione della (ex) partner costituisce la punta di un iceberg sommerso, fatto di reiterate violenze, vessazioni, umiliazioni subite - all’interno delle mura domestiche - dalle vittime e dai figli minorenni sotto forma di violenza assistita[15]. Tale aspetto è altrettanto grave. Al riguardo, non si può sottacere che i bambini testimoni di violenza subiscono un vulnus alla salute psicofisica non inferiore a quello dei bambini vittima di violenza diretta. Inoltre - circostanza che non può essere sottovalutata - si trasmette ai bambini una modalità dialogica distorta che è destinata a riproporsi: violenza genera violenza e la perpetua[16].
L’amore “tossico” - passando sovente attraverso l’idealizzazione del partner - si connota per la presenza di “confini perturbati”: confini abbattuti nell’invasione simbiotica dell’amore assoluto. Rispetto all’amore assoluto l’abbandono - si pensi al fenomeno del c.d. ghosting - non è un’opzione accettabile. Come una catena impossibile da spezzare, l’amore assoluto sfocia nella violenza. Ancor peggio, in nome dell’amore assoluto si arriva a uccidere: quante volte - nell’ipocrita tentativo di giustificare il brutale gesto compiuto - abbiamo sentito dire “la amavo così tanto che non potevo vivere senza”.
L’assoluto è sempre il male dell’amore, rivelandosi intriso d’odio. La tossicità viene “dall’amore che vuole farsi Uno”. Ben si comprende - nella consapevolezza che “Due non possono mai fare Uno, se non nella sopraffazione dell’altro” - l’importanza del confine: quest’ultimo, infatti, come meglio vedremo, può salvare la vita.
Tuttavia, molto spesso, la donna non arriva a comprendere in tempo utile di essere vittima di una dipendenza affettiva e (conseguentemente) di poter cadere in una trappola mortale[17]. La questione è estremamente delicata. Il fenomeno della violenza intrafamiliare, infatti, è multiforme e il soggetto violento agisce su tutti i piani - psicologico, economico, fisico - con un obiettivo costante: innescare un vortice di violenza al fine di “intrappolare” la donna. Bloccando ogni via di fuga, il partner violento è animato dall’unico scopo di possedere il controllo della donna, come nel c.d. gaslighting[18].
2. La violenza domestica e gli ordini di protezione contro gli abusi familiari.
L’ampiezza e la trasversalità della violenza di genere - fenomeno non riconducibile esclusivamente a contesti degradati, ma anche ad ambienti familiari agiati e di classe sociale elevata - ha spinto il legislatore, nel corso del tempo, a cercare di adeguare la disciplina giuridica di matrice civilistica alla luce delle questioni di genere legate alla violenza domestica e assistita. Già a partire dal lontano 2001 - novellando il codice civile con l’inserimento degli artt. 342-bis e 343-ter - il legislatore aveva attenzionato il fenomeno della violenza domestica anche sul piano dei rimedi civilistici, introducendo gli “ordini di protezione” contro gli abusi familiari.
A distanza di vent’anni, il legislatore delegato, con la legge n. 206/2021, torna ad occuparsi di violenza domestica e di genere all’interno del processo civile. Attraverso il d.lgs. 22 ottobre 2022, n. 149 - nella più ampia cornice della Riforma Cartabia del processo civile - viene operato un incisivo e sistematico intervento, introducendo nel nuovo Titolo IV-bis, una sezione intitolata “Della violenza domestica e di genere” (artt. 473-bis.40 ss. c.p.c.)[19]. La ratio di tali norme - come meglio vedremo - è quella di dotare il giudice delle controversie familiari di più ampi poteri nonché di strumenti specifici per garantire adeguate forme di tutela alle vittime di violenza ed evitare il fenomeno della c.d. “vittimizzazione secondaria”[20].
In questo scenario, la Riforma Cartabia ha fatto confluire - limitandosi ad apportare qualche apprezzabile novità - la normativa codicistica degli ordini di protezione contro gli abusi familiari all’interno della Sezione VII (artt. 473-bis.69 - 473-bis.71 c.p.c.) del nuovo Titolo IV-bis.
Invero, l’intervento del legislatore del 2001 risulta - ancora oggi - apprezzabile e ciò grazie alla flessibilità e all’ampiezza della misura di protezione, sia sotto il profilo personale che patrimoniale. La disciplina, in linea con quanto avviene in altri ordinamenti europei, si connota:
Inoltre, è espressamente previsto che il giudice possa emettere un “ordine di non avvicinamento”, intimando all’autore della condotta pregiudizievole di tenersi distante dai luoghi abitualmente frequentati dai familiari vittime degli abusi, dai luoghi di lavoro e dalle scuole dei figli (art. 473-bis.70, comma 1°, c.p.c.). Proprio in queste circostanze il legislatore cerca - non solo metaforicamente - di porre un confine invalicabile e di “gestire” la distanza per proteggere le vittime di violenza[22].
Non meno rilevanti appaiono le misure economiche previste a carico del soggetto violento o abusante ed a favore del nucleo familiare che per effetto dell’ordine di allontanamento rimane privo di mezzi adeguati di sostentamento (art. 473-bis.70, comma 2°, c.p.c.). In tali casi, infatti, il giudice dispone che il familiare allontanato corrisponda un assegno periodico a favore delle persone conviventi[23].
Infine, l’art. 473-bis.69, comma 1°, c.p.c. ha introdotto - novità di sicuro rilievo - la possibilità di adottare misure di protezione anche quando la convivenza è cessata. Tale soluzione è certamente apprezzabile, atteso che i comportamenti violenti, in moltissimi casi, vengono posti in essere proprio quando la convivenza è venuta meno, spesso quale reazione alla rottura della stessa. Ancora una volta, ben si comprende la rilevanza - non solo metaforica - del confine fisico. Quest’ultimo può essere in grado di salvare la vita alla donna vittima di violenza.
3.Violenza di genere e processo alla luce della Riforma Cartabia. Vittimizzazione secondaria e coordinamento tra giudice civile e penale.
Ciò detto, occorre rilevare che il già richiamato Titolo IV-bis, Capo III, Sezione I del codice di rito contiene un complesso di disposizioni che “si applicano nei procedimenti in cui siano allegati abusi familiari o condotte di violenza domestica o di genere posti in essere da una parte (della coppia) nei confronti dell’altra o da un genitore nei confronti dei figli minori” (art. 473-bis 40 ss.)[24].
La disciplina dedicata alla violenza domestica o di genere fa emergere l’attenzione per la tutela della vittima al di là dell’ambito penalistico. Al riguardo, l’obiettivo primario è quello di evitare - trasformando il processo in un’altra forma di violenza - l’odioso fenomeno della c.d. vittimizzazione secondaria. In particolare, la nuova normativa - applicabile ogni qual volta vengano allegati atti di violenza - crea una “corsia preferenziale” che, grazie all’abbreviazione dei termini a comparire, dovrebbe consentire al giudice di accordare una più tempestiva tutela alle vittime di violenza[25].
I principi direttivi elaborati dal legislatore della Riforma appaiono allineati alle disposizioni normative vigenti nell’ordinamento italiano - e in particolare con le novità introdotte dal Codice Rosso - anche con riferimento alla trasmissione da parte del giudice penale al giudice civile degli atti relativi a procedimenti penali per reati di violenza, in cui sono stati assunti provvedimenti cautelari nei confronti di una delle parti del procedimento in corso avente ad oggetto la separazione dei coniugi, l’affidamento dei figli minori, la responsabilità genitoriale.
L’importanza del “coordinamento istituzionale” tra il giudice civile e il giudice penale non esclude, tuttavia, la valorizzazione:
Al riguardo, il legislatore impone di delimitare il mandato conferito al consulente. Tale precisazione appare importante e opportuna. Sovente, infatti, si registrano casi in cui, senza che ciò faccia parte del mandato del giudice, la relazione del consulente si spinge fino ad esprimere giudizi sulla personalità dei genitori ovvero sulla loro idoneità genitoriale ai fini dell’adozione del provvedimento di affidamento e/o collocamento dei figli minori[28].
Invero, tale prassi appare molto pericolosa poiché i giudici - pur potendosi discostare dalle indicazioni contenute nella relazione - tendono a recepire acriticamente le conclusioni del consulente. A tal riguardo, occorre ricordare che nell’ambito del processo di famiglia la consulenza è sempre di tipo psicologico. Allo psicologo, in qualità di consulente del giudice, verrà attribuito il difficile compito di valutare le relazioni all’interno della famiglia anche al fine di fare venire alla luce eventuali violenze perpetrate da un genitore. L’operazione non è semplice perché l’autore delle condotte violente riesce spesso a mascherare tali comportamenti; le vittime di violenza hanno difficoltà a denunciare le condotte del familiare[29]. Dietro la difficoltà a denunciare si cela, oltre al legame affettivo, anche il timore di essere posti sullo stesso piano del perpetuatore della violenza, con possibili ripercussioni sui provvedimenti di affidamento dei figli minori.
Altro aspetto di primaria importanza attiene al fatto che la Riforma ha dato vita ad un complesso di disposizioni che, in virtù dell’esigenza di tutelare la vittima della violenza o degli abusi, accordano ad essa una corsia preferenziale di tutele improntata ai principi di “tempestività” e di “cautela”: ben si comprende, in questa prospettiva, l’importanza di dare alle vittime risposte adeguate in tempi rapidi.
A quest’ultima finalità è diretta la disposizione che prevede una speciale tipologia di ascolto, volta a tutelare in modo particolare il minore vittima di violenza o abusi. L’art. 473-bis.45 c.p.c. aggiunge all’ascolto già regolato dagli articoli 473-bis.4 e 473-bis.5 c.p.c. un ascolto che deve essere condotto “personalmente” e “senza ritardo” dal giudice, evitando ogni contatto del minore con la persona indicata come autore della violenza o abusi. La norma prevede al comma 2° una tutela ulteriore del minore vittima di violenza, evitando di procedere all’ascolto quando il minore è stato già ascoltato nell’ambito di un altro procedimento anche penale e le risultanze dell’adempimento acquisite agli atti sono ritenute sufficienti ed esaustive. Tale disposizione - sicuramente apprezzabile nell’ottica di evitare peculiari forme di vittimizzazione secondaria - è diretta ad evitare al minore un ulteriore trauma che potrebbe derivare da un ascolto superfluo.
3.1. Non mediabilità della violenza domestica nel processo di famiglia
Altra disposizione diretta ad evitare la “vittimizzazione secondaria” è l’art. 473-bis.43 c.p.c. dedicato al tema della mediazione familiare. Il divieto di iniziare il percorso di mediazione familiare quando è stata pronunciata la sentenza di condanna, anche in primo grado, è diretto a tracciare una distinzione netta tra mera “conflittualità” e “atti di violenza” o “abusi familiare”.
Il legislatore della Riforma - in linea con quanto stabilito nell’art. 48 della Convenzione di Istanbul e diversamente dalla scelta fatta in materia di ordini di protezione - ha ritenuto che la violenza non consenta, in nessun caso, di garantire una condizione di equilibrio tra le parti nella costruzione del setting di mediazione[30].
La stessa ratio è ascrivibile al secondo comma ove si prevede che il mediatore interrompa immediatamente il percorso di mediazione familiare intrapreso , se nel corso di esso abbia notizia di abusi o di violenze. Il giudice può comunque invitare le parti a rivolgersi a un mediatore familiare se nel corso del giudizio ravvisa l’insussistenza delle condotte allegate (art. 473-bis.42 ult. comma, c.p.c.)[31].
3.2. Rifiuto del figlio di incontrare i genitori e ascolto diretto del minore
A tale disposizione deve accostarsi quella sul rifiuto del figlio di incontrare il genitore (art. 473-bis.6 c.p.c.), la quale dà luogo a un procedimento istruttorio da parte del giudice per indagare le ragioni sottese al rifiuto e al disagio del minore[32]. Anche in questo caso il giudice deve procedere “senza ritardo” ad ascoltare il minore[33].
La questione assume particolare rilievo rispetto ai minori in età adolescenziale: in questi casi il figlio tende ad esprime il suo rifiuto in maniera molto netta ma, molto spesso, non vuole o non riesce a spiegare le cause che stanno alla base della sua decisione e che generalmente affondano nella relazione affettiva. In simili situazioni risulta molto importante l’ascolto diretto del minore da parte del giudice.
A tal riguardo, com’è noto, la riforma ha escluso l’ascolto delegato al CTU, ai servizi sociali nonché ai giudici onorari. Invero, in molte circostanze, i giudici hanno mostrato di “temere” l’ascolto. Certamente non è facile trovare giusto approccio al fine di verificare l’attendibilità del minore e distinguere così il “vero” dal “falso”. Il bambino, infatti, rappresenta un inventato vissuto all’interno del quale occorre selezionare i dati tipizzanti del racconto, riuscendo a cogliere le “credenze assertive” del minore. Inoltre, non sempre agevole appare verificare se il racconto del minore è “impermiabile” al conflitto dei genitori, evitando così il “contagio dichiarativo”.
Preso atto di ciò, nulla vieta che il giudice possa farsi assistere al momento dell’ascolto da un ausiliario esperto: si pensi ad uno psicologo infantile o dell’età evolutiva. Non è dato dubitare che nei casi di violenza domestica un tale affiancamento potrebbe risultare importante, considerata la difficoltà di fare emergere la violenza perpetrata all’interno del nucleo familiare e di “decifrare” le (complesse) dinamiche familiari.
In ogni caso, occorre segnalare che pochi Tribunali dispongono di un’aula destinata all’ascolto dei minori attrezzata con sistemi audiovisivi e vetri unidirezionali[34]. Anche in considerazione di questa circostanza, il legislatore ha espressamente previsto che, qualora la registrazione audiovisiva non sia possibile, il giudice provvederà a redigere un verbale descrivendo “dettagliatamente il contegno del minore”.
Il legislatore, inoltre, ha sancito che “prima di procedere all’ascolto, il giudice indica i temi oggetto dell’adempimento ai genitori, agli esercenti la responsabilità genitoriale, ai rispettivi difensori e al curatore speciale del minore, i quali possono proporre argomenti e temi di approfondimento e, su autorizzazione del giudice, partecipare all’ascolto” (art. 473-bis.5, comma 3°, c.p.c.). La questione è estremamente delicata. Invero, se la partecipazione dei difensori all’audizione - da intendere, in ogni caso, in termini di mera presenza - può trovare una “giustificazione” dal punto di vista processuale, la partecipazione dei genitori rischia di “inquinare” le dichiarazioni del minore. Pertanto, occorre affidarsi alla sensibilità dei giudici nel fare in modo di evitare situazioni di imbarazzo nel minore al momento dell’ascolto[35]. Non è dato dubitare, infatti, che l’ascolto deve svolgersi in modo tale da garantire l’esercizio effettivo del diritto del minore di esprimere liberamente la propria opinione, e quindi con tutte le cautele e le modalità atte ad evitare interferenze, turbamenti e condizionamenti, ivi compresa la facoltà di vietare l’interlocuzione con i genitori[36].
3.3. Le allegazioni e la possibilità di ricorrere agli ordini di protezione
La disciplina, inoltre, prevede un complesso di disposizioni dirette ad accelerare il procedimento come l’abbreviazione dei termini fino alla metà, l’ammissione di “mezzi di prova anche al di fuori dei limiti previsti dal codice civile, nel rispetto del contraddittorio e del diritto alla prova contraria” (art. 473-bis.42, comma 1°, c.p.c.). Si palesa l’esigenza di dare a questi procedimenti una “corsia preferenziale” nell’esclusivo interesse della vittima. Unica avvertenza: le allegazioni delle condotte devono essere precise e circostanziate, al fine di evitare abusi e strumentalizzazioni.
Preso atto che il termine “allegazioni” potrebbe avere una portata ampissima - potendosi fare riferimento non solo a violenze allegate o denunciate ma anche a fatti di violenza semplicemente segnalati o riferiti - si deve osservare che può risultare pericoloso giungere ad escludere un rapporto significativo tra il genitore presunto violento e il figlio minore in presenza di fatti solo segnalati o riferiti. Prescindere da un approfondimento istruttorio e da un accertamento del giudice, comporterebbe una ricaduta inaccettabile sui principi del giusto processo e dunque sul diritto di difesa e sul principio del contraddittorio[37].
Il tema è molto delicato. Anche nell’ottica di tutelare la relazione “genitore-figlio”, occorre verificare i fatti di violenza da parte del giudice delle controversie familiari. L’accertamento giudiziale pieno, infatti, è irrinunciabile ove si debbano assumere provvedimenti riguardanti: l’affidamento o il collocamento dei figli minori; la regolamentazione della responsabilità genitoriale; la limitazione o la cessazione della responsabilità genitoriale.
Quando si ravvisa la fondatezza delle “allegazioni” il giudice deve adottare i provvedimenti più idonei a tutelare la vittima. A tal riguardo, appare apprezzabile la scelta del legislatore di richiamare esplicitamente gli “ordini di protezione” tra le misure idonee da adottare a tutela delle vittime di condotte violente all’interno dei nuclei familiari.
4. Una breve riflessione conclusiva
Alla luce di quanto evidenziato, non si può fare a meno di esprimere un giudizio positivo per le nuove previsioni in tema di violenza di genere e violenza domestica[38]. Da questo punto di vista - la Riforma Cartabia ci consegna un processo della famiglia regolato non solo da fredde norme processuali ma anche da regole etiche che devono ispirare e guidare il lavoro di tutti gli operatori del diritto a vario titolo coinvolti nella (non facile) “gestione” delle relazioni affettive connotate da elementi di “tossicità”.
In quest’ottica, non posso fare a meno di sottolineare l’importanza della specializzazione. In materia di diritto di famiglia servono giudici, avvocati e consulenti altamente specializzati anche al fine di poter “governare” correttamente le complesse dinamiche relazionali soprattutto nella fase patologica del rapporto di coppia. Risulta fondamentale poter contare sulla professionalità di operatori del diritto “coraggiosi” e disposti a lavorare in stretta sinergia. Fermo restando il precipuo rispetto dei ruoli e delle specifiche competenze - oggi più che in passato - non si può prescindere dall’idea di lavorare tutti insieme per arginare un fenomeno che ormai ha assunto una dimensione dilagante. Per porre un serio argine alla violenza di genere e domestica occorre lavorare su due fronti. Da un lato è necessario fornire agli operatori del diritto strumenti sempre più adeguati a combattere questa piaga sociale garantendo l’accesso alla giustizia e la tutela delle vittime. Dall’altro - aspetto altrettanto importante - occorre continuare a discutere di questi temi e inculcare l’idea che l’amore, nel quadro di una relazione paritaria, si deve sempre fondare sul rispetto[39].
Ciò detto, quando l’amore finisce occorre guardare oltre: la coppia può fissare nuove regole e nuovi confini attraverso lo strumento negoziale. Al di fuori dei casi di violenza domestica, la negoziazione assistita dagli avvocati in separazione e divorzio appare oggi strumento imprescindibile per pianificare il conflitto familiare in tempi rapidi e certi nell’interesse di tutti i soggetti coinvolti nella crisi familiare, ivi compresi i figli. Pertanto, partendo dall’idea che la composizione dei conflitti è un valore, non solo etico-sociale, occorre farsi parte attiva - nel quadro di una vera e propria sfida culturale - per garantire una piena affermazione della c.d. “giurisdizione forense”[40].
Lo scritto riproduce - sia pur con qualche modifica e talune integrazioni il testo della relazione svolta in occasione del Convegno “Diritto d’Amore” (Roma, 25-27 gennaio 2024) organizzato in occasione dei venticinque anni di Cammino – Camera Nazionale Avvocati per le persone, per i minorenni e per le famiglie.
[1] Riprendo in questa sede le parole pronunciate dalla Presidente Gabriella Luccioli durante il suo intervento conclusivo al Convegno “Diritto d’Amore” (Roma, 25-27 gennaio 2024).
[2] Come meglio vedremo, quando la relazione non è paritaria e l’uomo si pone in una posizione di prevaricazione rispetto alla donna si sconfina nella violenza.
[3] Cfr. L. Pigozzi, Amori tossici. Alle radici delle dipendenze affettive in coppia e in famiglia, Milano, Rizzoli, 2023, p. 11.
[4] Tra i diritti enunciati con la Riforma della filiazione assume un ruolo prioritario il diritto del figlio all’assistenza morale. Viene sancito, in buona sostanza, il diritto del figlio di “essere amato” dai suoi genitori. Com’è noto, in sede di approvazione della legge delega l’espressione letterale “diritto del figlio di essere amato dai genitori” - fortemente auspicata dal Prof. Cesare Massimo Bianca - non ha trovato ingresso nella Riforma. Tuttavia, non è dato dubitare che assistere moralmente il proprio figlio altro non significa che averne cura amorevole. Il dato è tutt’altro che irrilevante: in un ordinamento che storicamente ha mostrato poca attenzione ai fatti di sentimento, il diritto all’amore dei genitori assurge a diritto fondamentale del minore. Pertanto, l’interesse del minore, a ricevere affetto dai genitori, si oggettivizza in un valore rilevante per l’ordinamento giuridico, differenziandosi così, dall’interesse all’affetto nelle relazioni tra adulti, che resta giuridicamente irrilevante. Sul tema del diritto all’amore vedi C.M. Bianca, Diritto civile, Vol. 2.1, VII ediz. A cura di M. Bianca e P. Sirena, Milano, Giuffrè, 2023, p. 380 ss. Spunti di sicuro interesse si rinvengono – nel solco dell’insegnamento del Maestro - in P. Spaziani, Il diritto all’assistenza morale (art. 315 bis c.c., come inserito dall’art. 1, comma 8, L. N. 219/2012), in La riforma della filiazione, a cura di C.M. Bianca, Padova, Cedam, 2015, p. 67 ss.
[5] A tal riguardo non si può fare a meno di ricordare come i ripetuti conflitti tra ex coniugi ovvero tra ex conviventi mettano a serio repentaglio la salvaguardia dei diritti dei figli, i quali rischiano di rimanere intrappolati dai sentimenti negativi, dalle frustrazioni dei genitori. Molti genitori sembrano dimenticare che i figli sono i primi a subire la disgregazione della famiglia e a rimanere depauperati dalla separazione dei genitori. In questo scenario connotato da una genitorialità “tossica” prende forma e si innesta il tema della tutela del minore nel processo civile. Su tali profili sia consentito rinviare a F. Romeo, I diritti del minore nelle controversie familiari fra novità giurisprudenziali e prospettive di riforma, in Familia, 2021, p. 646.
[6] Il diritto di famiglia, infatti, è chiamato oggi a confrontarsi con un’articolata e complessa molteplicità di situazioni interpersonali soggette a modificazioni continue. Gli effetti di queste inedite dinamiche familiari - espressione ed estrinsecazione della personalità degli individui - vanno ben oltre ogni forma di tipizzazione (anche extraconiugale) e sovente neppure raggiungono la soglia del giuridicamente rilevante. Il quadro appena tratteggiato è reso ancora più complesso dalla globalizzazione e dal che ha prodotto l’abbattimento delle barriere geografiche e la circolazione di modelli culturali del tutto diversificati. Le criticità e le difficoltà tipiche delle famiglie straniere, con cui è oramai imprescindibile confrontarsi, richiederebbero di dotarsi di un bagaglio minimo di competenze interculturali, tradizionalmente estranee al mondo giuridico. Su tali profili spunti di sicuro interesse si rinvengono in A. Cordiano, Funzioni e ruoli genitoriali nelle famiglie allargate e ricomposte: una comparazione tra modelli normativi e alcune riflessioni evolutive, in www.comparazionedirittocivile.it, 2012, p. 1 ss. ed ivi, in particolare, 4 ss.
[7] Quando il “conflitto” si tramuta in “violenza” appare arduo gestire la distanza. Non a caso - come meglio vedremo - la Riforma Cartabia del processo civile dedica ampio spazio ai temi della violenza domestica e di genere (v. infra § 2 e § 3). Si può quindi affermare che l’amore si traduce in diritto quando viene inteso come fatto di sentimento che genera disvalore (i.e. amore “tossico”).
[8] Molte volte i genitori appaiono accecati dal rancore e dall’odio. I figli - sovente usati come scudi umani - vengono deprivati del diritto ad essere amati.
[9] Cfr. E. Al Mureden, Le famiglie dopo il divorzio tra libertà, solidarietà e continuità dei legami affettivi, in Famiglia e Diritto, 2021, p. 26.
[10] Ci muoviamo nell’ambito delle cc.dd. famiglie allargate o ricomposte In tali tipologie familiari uno o entrambi i partnerprovengono da una precedente unione e convivono con in figli nati da una o da entrambe le relazioni e, sovente, con i figli nati da quella attuale. La complessità della situazione scaturisce dal fatto che le funzioni parentali di cura e di assistenza - talvolta quasi integralmente mantenute dai genitori biologici - sono, molto spesso, esercitate in maniera condivisa, delegando al genitore sociale compiti sostanziali di cura morale e materiale della prole, senza che a ciò corrisponda un formale e giuridico riconoscimento.
[11] Invero, non è inusuale - soprattutto tra i non addetti ai lavori - che i termini “conflitto” e “violenza” vengano utilizzati come sinonimi. Come meglio vedremo, la distinzione appare una necessità imprescindibile. Al momento della disgregazione del nucleo familiare è fisiologico il conflitto. Quest’ultimo si palesa con manifestazione anche “violente” ascrivibili al malessere, alla sofferenza, alla rabbia che la separazione sovente porta con sé, ma produce delle dinamiche relazionali che mantengono i confliggenti in condizioni paritetiche e non che sfociano necessariamente in atti di violenza.
[12] Occorre sempre ricordare che la violenza contro le donne rappresenta “una delle espressioni più pronunciate dello squilibrio di potere tra donne e uomini, costituendo allo stesso tempo una violazione dei diritti umani e uno dei principali ostacoli all’uguaglianza di genere” (cfr. Consiglio d’Europa, Strategia per l’uguaglianza tra donne e uomini 2014-2017, Strasburgo, febbraio 2014, p. 5). In quest’ottica, appare utile richiamare le definizioni di «violenza contro le donne» e di «violenza domestica» contenute nell’art. 3 della Convenzione di Istanbul (Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica adottata dal Consiglio d'Europa l'11 maggio 2011, è entrata in vigore il 1° agosto 2014). Con la prima definizione si designa “una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro la donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di tali atti la coercizione o privazione arbitraria della libertà personale, sia nella vita pubblica che privata”. Con la seconda definizione si suole fare riferimento a “tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”. Il richiamato art. 3 della Convenzione di Istanbul, pertanto, tratteggia un rapporto di prevaricazione che pone le donne in una posizione di totale subordinazione rispetto agli uomini. Il concetto di violenza - come palesato dal dato normativo - trascende l’aggressione fisica ed include anche vessazioni psicologiche, ricatti economici, minacce, violenze e persecuzioni di vario genere, fino a sfociare nella forma estrema e drammatica del femminicidio. Non è un caso che, ancora oggi, si registra un senso di impunità diffusa: le risposte degli Stati nell’affrontare questa violenza - spesso basate su stereotipi patriarcali del rapporto tra uomo e donna - non sempre appaiono adeguate e l’accesso alla giustizia non sempre facile.
[13] Purtroppo, occorre rilevare che in molti procedimenti di affidamento della prole, di decadenza della responsabilità genitoriale, di competenza ordinaria e minorile, caratterizzati da violenza domestica (fisica, psicologica o economica) e assistita su minori, si è riscontrata una certa tendenza a derubricare la violenza all’ordinario e fisiologico conflitto familiare. Sul punto vedi A. Cordiano, Violenze assistite, domestiche di genere nelle disposizioni del nuovo procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2023, p. 654 s. laddove - a conferma di quanto appena rilevato - si richiamano le risultanze dell’importante lavoro svolto dalla Commissione d’inchiesta sul femminicidio, istituita al Senato in composizione bicamerale nella precedente legislatura. Peraltro, non si può fare a meno di rilevare - ma sul punto si tornerà nel prosieguo del discorso - che il processo di derubricazione della violenza in conflitto può determinare odiose forme di vittimizzazione secondaria.
[14] La violenza - come confermano le scienze empiriche - è caratterizzata da ciclicità e che tende a (ri)proporsi o ad acutizzarsi in occasione di eventi a vario titolo traumatici, come accade nelle crisi separative o per le scelte in ordine all’affidamento dei minori.
[15] La violenza assistita è quella patita da un figlio quando assiste alla violenza - nelle sue varie estrinsecazioni - perpetrata da un genitore nei confronti dell’altro. Tale forma di violenza rientra nella violenza domestica.
[16] Occorre guardare alla violenza di genere e alla violenza domestica e assistita, come un fenomeno sociale con gravi ripercussioni transgenerazionali. Peraltro, i minori che assistono alla violenza all’interno del nucleo familiare, corrono il serio rischio - problema impossibile da sottovalutare - di soffrire di disturbi del comportamento e di disturbi emotivi. Attesa l’escalation di violenza a cui stiamo assistendo negli ultimi anni, la questione sta assumendo le fattezze di una vera e propria piaga sociale.
[17] La violenza all’interno della coppia comincia con episodi occasionali ed è molto importante sin da subito non sottovalutare certi comportamenti a cui spesso, soprattutto nelle prime fasi della relazione, non è dato molto peso. Saper riconoscere i segnali iniziali di una relazione maltrattante è importante per metterle fine prima che questa diventi un “labirinto” da cui è difficile uscire.
[18] Le donne che finiscono in una spirale di violenza si sentono sempre più isolate, intrappolate e senza via d’uscita. Peraltro, dai racconti delle vittime di violenza è possibile capire come alcuni atteggiamenti abbiano connotato quel rapporto sin dal suo inizio.
[19] La disciplina si applica alla fattispecie generale degli abusi familiari, che ricomprende le ipotesi di violenza nelle due varianti della violenza diretta o assistita e le ipotesi di abusi in senso stretto.
[20] Sull’odioso fenomeno della “vittimizzazione secondaria” v. infra § 3.
[21] L’allontanamento si esegue fissando la dimora in un luogo diverso dalla casa familiare, a distanza tale da evitare occasioni di interferenza con la vita familiare dei conviventi. Quando si oltrepassa il “confine” e non si riesce a “gestire la distanza” interviene il giudice fissando la distanza minima.
[22] Anche in questa circostanza sarà il giudice, nell’emettere un ordine di non avvicinamento, ad intimare all’autore della condotta pregiudizievole di tenersi distante dai luoghi abitualmente frequentati dai familiari vittime degli abusi, dai luoghi di lavoro e dalle scuole dei figli. Sul contenuto degli ordini di protezione vedi C.M. Bianca, Diritto civile, Vol. 2.1, La famiglia, VII ediz., a cura di M. Bianca e P. Sirena, 2023, p. 603 ss.
[23] L’assegno a favore del coniuge e dei figli si determina secondo i criteri previsti in caso di separazione. Il giudice fissa le modalità di corresponsione della somma e può disporre - aspetto sicuramente importante - che essa sia versata direttamente agli aventi diritto dal datore di lavoro del familiare allontanato, detraendola dalla retribuzione ad esso spettante (sul punto vedi C.M. Bianca, op. ultima cit., p. 605).
[24] Dal tenore letterale dell’art. 473-bis.40 c.p.c. si coglie la scelta effettuata dal legislatore: non delimitare in nessun modo l’ambito di applicazione delle disposizioni speciali. In tal modo, saranno ricomprese nell’ambito di applicazione delle nuove norme tutte le forme di violenza. Pertanto, in presenza di tutte le forme di violenza (fisica, psicologica, economica) - in aderenza a quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul - il giudice potrà attivare quella “corsia preferenziale” idonea ad intercettare e contrastare senza indugio la violenza o gli abusi consumati all’interno del nucleo familiare. Fondamentale, infatti, risulta l’esigenza di evitare la “sottovalutazione” dei fatti di violenza lamentati con il rischio (concreto) di non riuscire ad interrompere il c.d. ciclo della violenza.
[25] Su tali profili vedi M.G. Albiero, I fatti di violenza e il processo, in C. Cecchella (a cura di), La riforma del processo e del giudice per le persone, per i minorenni e per le famiglie, Torino, Giappichelli, 2023, p. 305 s., ove si sottolinea come la “specialità” delle disposizioni si coglie anche negli ampissimi poteri di impulso del giudice, il quale “già dalle prime fasi processuali dovrà accertare la fondatezza o meno delle allegazioni di violenza, anche solo a livello di fumus”. Sul delicato tema delle “allegazioni” vedi infra 3.3.
[26] Del resto, la Corte di Cassazione ha più volte affermato che il giudice civile non è vincolato ai provvedimenti adottati dal giudice penale e deve accertare autonomamente con pieni poteri istruttori, le allegazioni di fatti di violenza, escludendo così ogni automaticità (tra le tante vedi Cass. 19 maggio 2020, n. 9143 ove si rileva che il giudice civile deve “accertare i fatti con pienezza di cognizione, sottoponendoli al proprio vaglio critico e senza essere vincolato dalle soluzioni e dalle qualificazioni adottate dal giudice penale”).
[27] Si pensi ai casi di violenza psicologica. In tali circostanze l’apporto del CTU appare veramente utile anche al fine di vagliare la compatibilità di condotte e stati psicofisici rispetto alla prospettazione di un quadro assimilabile ad una dinamica di violenza. Ovviamente, rimane ferma la discrezionalità del giudice nella valutazione del fatto, nella sua interpretazione e nelle conseguenti decisioni.
[28] L’esigenza di delimitare il mandato conferito trova coerente spiegazione nell’ottica di evitare che il consulente possa “sostituirsi” al giudice.
[29] Non è dato dubitare che le vittime di violenza di genere e, soprattutto, le vittime di violenza domestica incontrano molte difficoltà - anche in relazione al legame affettivo con l’autore della violenza - a denunciare.
[30] La condizione di equilibrio tra le parti rappresenta una precondizione fondamentale per assumere scelte libere e non condizionate e, dunque, pienamente consapevoli.
[31] Il principio di “non mediabilità” della violenza di genere e domestica nel processo di famiglia, pertanto, sembra debba intendersi come non assoluto. Sul punto vedi M.G. Albiero, I fatti di violenza e il processo, cit., p. 317.
[32] Non è dato dubitare che dietro il rifiuto si annida una compromissione della relazione “genitore-figlio”.
[33] Il giudice - in base a quanto previsto dall’art. 473-bis.6, comma 2° - deve procedere allo stesso modo quando “sono allegate o segnalate condotte tali da ostacolare il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo tra il minore e l’altro genitore o la conservazione di rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.
[34] Su tali questioni vedi G. Bertoli, L’ascolto della persona di età, in C. Cecchella (a cura di), La riforma del processo e del giudice per le persone, per i minorenni e per le famiglie, Torino, Giappichelli, 2023, p. 265 ss. ed ivi in particolare p. 268.
[35] Sul punto vedi G. Bertoli, L’ascolto della persona di età, cit., p. 268.
[36] Il giudice, durante l’ascolto, deve avere nei confronti del minore quella cura e quell’attenzione che non hanno dato i genitori.
[37] Appare importante che l’allegazione sia ampia e dettagliata e ciò al fine di evitare che la previsione di un procedimento più “veloce” e connotato da più ampi poteri officiosi e inquisitori del giudice della famiglia possano divenire - snaturandone la ratio - strumento di abuso del processo, determinando l’applicazione di provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale in presenza di allegazioni non del tutto fondate (rectius infondate).
[38] Come già evidenziato merita sicuro apprezzamento l’aver dato alle controversie familiari contrassegnate da fatti di violenza, una corsia preferenziale, con l’abbreviazione dei termini processuali e con la previsione di specifiche disposizioni per evitare fenomeni di vittimizzazione secondaria. Altrettanto apprezzabile risulta la scelta del legislatore di intervenire in modo deciso rispetto al delicato tema del rifiuto del figlio minorenne di incontrare uno dei genitori ovvero rispetto all’esigenza di delimitare - pur senza sminuirne il ruolo - compiti e funzioni del consulente. Non è dato dubitare che attraverso un accertamento giudiziale pieno, affidato ad un giudice specializzato supportato, ove necessario, da ausiliari esperti sul tema della violenza domestica la Riforma potrà contribuire a dare risposte più efficaci alle vittime di violenza.
[39] Nei rapporti di coppia la coreografia “dell’Io con l’Altro” per non apparire sgraziata (rectius tragica) non può essere totalizzante. L’amore “sano”, fondato sul rispetto, ha bisogno di confini, di bordi che dovrebbero restare porosi, mobili, morbidi e consentire il passaggio di ciò che li nutre, come fa la membrana di una cellula, definita ma non assoluta, stabile ma non necrotizzata.
[40] Con la procedura di negoziazione, infatti, l’avvocato è chiamato a condurre il proprio assistito verso una soluzione concordata, svolgendo in tal modo una funzione applicativa e interpretativa del diritto al pari del giudice, nel rispetto delle norme imperative e dell’ordine pubblico.
Immagine: dettaglio di Paola Gandolfi, Reportage, olio su tela, 2023.
Abstract: il presente lavoro mira a offrire un commento ad una interessante ordinanza istruttoria del 8 marzo 2024 in cui si affronta il tema delle modalità con cui può e deve essere consentito allo straniero, cui è riconosciuta la protezione sussidiaria, l’esercizio in sicurezza di un suo diritto fondamentale come quello di contrarre matrimonio in Italia.
Sommario: 1. La questione affrontata nel provvedimento giudiziale - 2. Il matrimonio dello straniero in Italia, ammissibilità e controlli - 3. La condizione dello straniero, cui è riconosciuta la protezione sussidiaria, in Italia - 4. La soluzione del caso di specie.
1. La questione affrontata nel provvedimento giudiziale
Una interessante ordinanza istruttoria - datata otto marzo 2024 - pone all’attenzione dell’interprete la delicata questione delle modalità con cui può (e deve) essere garantito al migrante, nel paese di accoglienza, il godimento in sicurezza dei propri diritti fondamentali.
La vicenda in questione origina, più nello specifico, dal rifiuto manifestato da un comune rispetto alla richiesta di un cittadino straniero – titolare dello status di protezione sussidiaria- alla propria richiesta di pubblicazioni matrimoniali poiché questi non era stato in grado di ottemperare a quanto previsto dall’art. 116 del c.c. e quindi di presentare all’Ufficiale di Stato Civile una dichiarazione dell’autorità competente del proprio paese dalla quale risulta che nulla osti alle suddette pubblicazioni matrimoniali.
Lo straniero – nel contestare la decisione dell’Ufficiale di Stato Civile – evidenzia come in ragione del suo status di soggetto cui è riconosciuta la protezione sussidiaria non solo è impossibilitato a fare rientro fisico nel paese d’origine – dato il timore di essere rintracciato dai suoi agenti persecutori – ma anche che qualsiasi contatto intrattenuto con le autorità del suo paese lo avrebbe potuto esporre al pericolo di essere individuato dai suoi persecutori in Italia.
Di fatti egli si era trovato costretto a migrare dal suo paese di origine proprio perché era stato minacciato da un gruppo armato paramilitare che gli avrebbe imposto il pagamento di un “pizzo” per l’esercizio della propria attività, vincolo cui poi egli si sarebbe sottratto così trovandosi nella necessità di chiudere l’attività e lasciare la propria zona di origine, temendo ripercussioni sulla propria incolumità.
In ragione di tali fatti, considerate anche le fonti consultate ed il racconto dettagliato del richiedente, la Commissione Territoriale cui lo stesso aveva rivolto la sua domanda di protezione internazionale aveva riconosciuto che in caso di rientro nel suo paese di origine sarebbe stato esposto al rischio di subire “trattamenti inumani o degradanti qualificabili come danno grave ai sensi dell'articolo 14, lettera B, D. Lgs 251/2007”.
Il Tribunale, investito della questione, si trova a dover bilanciare da un lato il diritto del nubendo ad esercitare un proprio diritto fondamentale (tutelato inter alia anche dall’art. 12 della CEDU) dall’altro la necessità di garantire un controllo pubblicistico sulla condizione soggettiva del nubendo soprattutto perché questi aveva dichiarato di essere già sposato nel suo paese d’origine, il tutto senza esporlo a possibili pericoli per la sua incolumità fisica.
2. Il matrimonio dello straniero in Italia, ammissibilità e controlli
Il nostro ordinamento consente allo straniero di contrarre matrimonio in Italia, tanto con un cittadino italiano, tanto una persona di diversa nazionalità purché però egli presenti all'ufficiale di stato civile una dichiarazione dell'autorità competente del proprio Paese, dalla quale risulti che, secondo le leggi cui è sottoposto, nulla osta al matrimonio (art. 116, 1° co.). Questo perché la capacità matrimoniale dipende dalla legge nazionale del nubendo (v. art. 27 della L. n. 218/1995).
Data quindi la non facile applicazione e interpretazione della legge straniera il legislatore italiano ha scelto di recepire la valutazione compiuta in altro ordinamento e adeguarsi ad essa.
Tuttavia la giurisprudenza si è trovata – già prima del precedente in commento – ad affrontare la questione relativa all’impossibilità per il nubendo di presentare il nullaosta proveniente dalle autorità del proprio paese d’origine.
In particolare, lo straniero si può trovare nell’oggettiva impossibilità di presentare la documentazione de quaquando manchi un'autorità nazionale competente a certificare la capacità matrimoniale dei propri cittadini. In questi casi, la giurisprudenza ha ritenuto che possa essere autorizzata la pubblicazione, previo accertamento del contenuto della legge nazionale dello straniero, e del fatto che sussistano le condizioni per rilasciare il nulla osta (v. T. Treviso 15.4.1997)
Oppure sono state autorizzare le pubblicazioni anche in presenza di un esplicito diniego dell’autorità nazionale allorché si accerti giudizialmente che tale diniego è fondato su delle norme straniere che non rispettano l'ordine pubblico internazionale (v. art. 16, della L. n. 218/1995). Un caso frequente è dato dai provvedimenti con cui l'autorità competente subordinava il rilascio del nullaosta alla conversione all'Islam del coniuge (v. T. Taranto 13.7.1996).
Nella presente fattispecie, però, non può dirsi che vi sia una oggettiva impossibilità per il nubendo di procurarsi il nullaosta, né tantomeno si è in presenza di un diniego contrario all’ordine pubblico.
Non solo, deve anche evidenziarsi che sempre l'art. 116 c.c. al secondo comma, stabilisce che lo straniero, che voglia contrarre matrimonio in Italia, debba rispettare alcune norme previste dalla legge italiana; tra le quali vi è soprattutto quella relativa alla libertà di stato. Si tratta di norme che il legislatore ritiene di ordine pubblico e che, quindi, devono essere applicate a tutti i matrimoni celebrati in Italia.
L’acquisizione della documentazione dalle autorità nel paese d’origine diviene quindi un passaggio imprescindibile non solo ai fini della verifica della capacità matrimoniale ma soprattutto ai fini del controllo di natura pubblicistica sulle condizioni necessarie per contrarre matrimonio, in considerazione anche del fatto che è lo stesso nubendo ad avere dichiarato di essersi sposato nel suo paese.
3. La condizione dello straniero, cui è riconosciuta la protezione sussidiaria, in Italia
Delineato quindi il quadro dei controlli che devono essere svolti al fine di consentire allo straniero di contrarre matrimonio in Italia, ci si deve soffermare sulla condizione dello straniero in Italia, ed in particolare di quello cui è riconosciuto lo status di protezione sussidiaria.
Al riguardo occorre evidenziare che già nell’impianto Costituzionale vi sono due norme fondamentali che garantiscono allo straniero il pieno ed effettivo godimento dei diritti fondamentali in Italia.
In primo luogo, vi è l’art. 2 della Carta, che pone l'obbligo per lo Stato di riconoscere e garantire i diritti fondamentali “dell'uomo”; cioè il nucleo fondamentale di diritti essenziali è riconosciuto dal nostro ordinamento alla persona in quanto tale e quindi anche ai cittadini stranieri. L'art. 10, poi, al secondo comma nel delegare al legislatore ordinario il compito di disciplinare la condizione giuridica dello straniero prevede che tale normativa “debba essere conforme alle norme e ai trattati internazionali”.
Tali principi trovano poi applicazione nell’art. 2 del Testo Unico Immigrazione laddove è previsto esplicitamente che “lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l'Italia e il presente testo unico dispongano diversamente.” (cfr. Art. 2 D. Lvo 286 del 1998).
Su versante sovranazionale il pieno godimento dei diritti fondamentali è garantito – inter alia - dall’art. 14 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo il quale esplicitamente prevede che “il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.”
Ciò premesso, l’art. 116 del codice civile – che, come detto, consente allo straniero di contrarre matrimonio in Italia previa la presentazione del nullaosta dell’autorità nazionale – sembra essere una norma perfettamente coerente con detti principi, e dei quali è declinazione specifica per la materia matrimoniale. L’obbligo di presentazione della documentazione, infatti, è funzionale solo ed esclusivamente a compiere i controlli che vengono svolti dall’ufficiale di Stato Civile anche sul cittadino, e che sono funzionali a garantire l’applicazione di norme (come ad esempio quella sulla libertà di stato) ordine pubblico.
Sicché non può dirsi che in linea generale ed astratta l’art. 116 c.c. determini una qualche discriminazione diretta a danno dello straniero. Anzi – in una condizione di perfetta e speculare reciprocità – obbliga lo straniero a presentare della documentazione assolutamente analoga a quella che è tenuto a presentare il cittadino.
Ciò posto però è da considerarsi che l’applicazione di questa norma apparentemente neutra possa determinare, date le peculiarità di un caso di specie, una forma di discriminazione c.d. indiretta. In altre parole, può avvenire che una disposizione come l’art. 116 c.c. apparentemente neutra, metta una persona, in ragione della sua peculiare condizione, in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone, rendendo particolarmente difficoltoso l’esercizio del diritto in essa consacrato.
Ora, l’applicazione rigorosa dell’art. 116 c.c. nel caso in cui a richiedere le pubblicazioni matrimoniali sia uno straniero che gode dello status di protezione sussidiaria potrebbe proprio generare questo effetto.
Non può infatti richiedersi ad un soggetto che è fuggito dal proprio paese avendo il timore di essere perseguitato di farvi rientro al fine di richiedere documentazione amministrativa. Ma non solo allorché il riconoscimento della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, consegua ad una minaccia portata da un soggetto privato, non può nemmeno chiedersi al migrante di mettersi in contatto a distanza con le autorità nazionali al fine di richiedere la documentazione necessaria.
Questo perché nel caso in cui la minaccia venga portata da un agente privato lo status della protezione sussidiaria può essere riconosciuto solo “qualora risulti che le autorità statuali non contrastino tali condotte o non forniscano protezione contro di esse” (cfr. da ultimo Cass. Civ. Sez. 1 - , Ordinanza n. 6984 del 15/03/2024).
Sicché proprio l’incapacità delle forze statuali di opporsi alle organizzazioni criminali private che controllano il territorio e di garantire ai propri cittadini una adeguata protezione mettendoli in condizione di esercitare i propri diritti rappresenta un impedimento per lo straniero. Egli infatti – in simili fattispecie – ha il legittimo il timore tanto di rivolgersi alle autorità del suo paese, o comunque di ricevere da queste un trattamento non rispondente alla tutela dei suoi diritti.
Tale timore è stato anche esplicitamente preso in considerazione dal Legislatore tanto è vero l’art. 24 comma 2 del D.Lvo 251 del 2007 prevede che “quando sussistono fondate ragioni che non consentono al titolare dello status di protezione sussidiaria di chiedere il passaporto alle autorità diplomatiche del Paese di cittadinanza, la questura competente rilascia allo straniero interessato il titolo di viaggio per stranieri”, con ciò evitando contatti tra lo straniero e le autorità del suo paese.
4. La soluzione del caso di specie
Date queste premesse l’ordinanza in questione cerca di trovare il giusto contemperamento tra gli opposti interessi mediante una lettura costituzionalmente orientata delle norme processuali ed in particolar modo dei poteri officiosi del giudice civile.
Infatti, il provvedimento in esame parte proprio dall’affermazione delle due contrapposte esigenze cioè da un lato non è esigibile che il cittadino straniero entri in contatto con le autorità consolari e diplomatiche del paese di origine; e dall’altro che ai fini della decisione sull’accoglimento o meno della richiesta di pubblicazioni è comunque necessario indagare l’effettiva assenza di impedimenti matrimoniali in capo al ricorrente.
Ne consegue quindi che è lo stesso giudice – mediante una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 213 c.p.c. alla luce dell’art. 10 comma 3 Cost. – a richiedere le informazioni all’ambasciata ed al consolato del paese di origine del nubendo.
Nel fare ciò il giudice adotta le misure concrete volte alla protezione dei dati personali del richiedente impedendo che si venga a sapere dove lo stesso risiede, mediante un provvedimento di divieto di rivelazione del luogo di residenza e del domicilio anche della compagna alle autorità nazionali con cui la suddetta ambasciata ed il suddetto consolato dovranno relazionarsi.
Lo strumento quindi mediante il quale il giudice trova un punto di equilibrio tra le due contrapposte esigenze nel caso di specie è dato dallo strumento probatorio officioso di cui all’art. 213 c.p.c.
Al riguardo occorre osservare, per vero, che la giurisprudenza (v. su tutte Cass. Civ. n. 1484/2014), ha da sempre sostenuto che il potere officioso previsto dall'art. 213 può essere attivato solo quando sia necessario acquisire informazioni relative ad atti o documenti che la parte sia impossibilitata a fornire in giudizio.
L’impossibilità in questo frangente viene interpretata in senso soggettivo come inesigibilità e lo strumento probatorio officioso diviene il modo con cui lo Stato italiano garantisce ed assicura l’effettivo esercizio della libertà matrimoniale allo straniero.
Tale soluzione, del resto, è coerente con il principio di cooperazione istruttoria sancito dall’articolo 4 della direttiva 2011/95/UE e dall’articolo 8 del d.lgs n. 25/2008 che governa l’intera materia della protezione internazionale e che – nel caso di specie – viene applicato dal giudice anche oltre i confini del processo relativo all’impugnazione dei dinieghi rilasciati dalle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della Protezione Internazionale.
Si tratta a tutta evidenza di un supporto che il giudice officiosamente dà alla parte, supplendo mediante i suoi poteri officiosi, ad un suo deficit probatorio.
Tale carenza però è determinata dalla posizione di particolare vulnerabilità che il migrante ha all’interno di un processo. È infatti inesigibile richiedere a coloro che fuggano dal timore di un danno grave alla persona – nel caso di specie già riconosciuto da una decisione amministrativa – la produzione di documenti o comunque di atti reperibili nel proprio paese d’origine per le ragioni che si sono individuate in precedenza.
Al fine quindi di garantire alla parte processualmente debole il pieno ed effettivo esercizio dei propri diritti giudiziali è compito del giudice – mediante i propri poteri officiosi – riequilibrare le posizioni processuali, riportando la c.d. parità delle armi tra le due posizioni contrapposte in giudizio. Del resto – in un’ottica complessiva – si può notare come anche in altre fattispecie ove sono previsti poteri istruttori officiosi essi sono volti alla tutela della parte processualmente più debole (ad esempio il lavoratore, il minore, o il consumatore).
Estendere quindi il principio della cooperazione istruttoria anche oltre i confini del processo relativo al riconoscimento della protezione internazionale – sempre se ne sussistono analoghe esigenze di tutela della parte debole - è quindi coerente, non solo con i principi costituzionali in materia di condizione giuridica dello straniero (Art. 10 Cost.), ma anche con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, garantito dagli artt. 24, 103 e 113 Cost. e dall’art. 19 T.U.E: e 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che impone di mettere la parte processualmente “debole” in una posizione di parità processuale rispetto alla parte pubblica, di modo che possa esercitare in modo “effettivo” i suoi diritti fondamentali trovando riscontro alle sue istanze di tutela qualora a seguito di un’istruttoria eventualmente “cooperata” risultino fondate.
Immagine: Theodore Robinson, Il corteo nuziale, 1892, Terra Foundation for American Art, Chicago.
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