ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Magistrati e impegno politico: problemi e prospettive a partire dalla recente definizione della vicenda Emiliano
di Francesco Dal Canto
Sommario: 1. Premessa - 2. Le tappe della vicenda giudiziaria - 3. L’esercizio tardivo dell’azione disciplinare - 4. Il divieto di iscrizione ai partiti politici nel quadro costituzionale - 5. Il d.lgs. n. 109/2006 e la successiva giurisprudenza costituzionale: l’imparzialità del magistrato tra forma e sostanza - 6. La sentenza della Corte cost. n. 170/2018 e il paradosso del divieto di fare politica imposto al magistrato collocato fuori ruolo per fare politica - 7. La sentenza delle Sezioni Unite, tra continuità e discontinuità con la giurisprudenza costituzionale - 8. Prospettive di riforma legislativa, per ricondurre il sistema ad una maggiore coerenza.
1. Premessa
La pronuncia delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione n. 8906/2020 segna l’ultima tappa, prevedibile nei suoi esiti ma non priva di tratti originali, di un tortuoso caso giudiziario che ha visto come protagonista il dott. Michele Emiliano, magistrato in aspettativa per mandato politico-elettorale e noto esponente del Partito democratico[1].
Si tratta di una decisione per alcuni aspetti coraggiosa, laddove essa trae delle conseguenze non scontate dai principi indicati nella precedente decisione della Corte costituzionale n. 170/2018, che, com’è noto, aveva rigettato una questione di costituzionalità promossa nell’ambito dello stesso giudizio. Tuttavia, può anticiparsi fin d’ora, la vicenda lascia nel suo complesso un senso di incompiutezza e insoddisfazione, ovvero la sensazione che il problema effettivo sia stato soltanto lambito.
Al centro della questione vi è il controverso divieto per i magistrati, contemplato nella normativa disciplinare, di iscriversi ad un partito politico o di partecipare organicamente alle sue attività, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. h) del d. lgs. n. 109/2006; la questione si inserisce peraltro, inevitabilmente, in una prospettiva più ampia, ovvero quella della partecipazione diretta dei magistrati alle attività politiche, all’interno della quale si colloca anche l’ipotesi della partecipazione degli stessi alle competizioni elettorali per il rinnovo sia del Parlamento nazionale sia degli organi elettivi di enti territoriali.
Si tratta, in entrambi i casi, di un fenomeno marginale dal punto di vista numerico e tuttavia - a prescindere dallo scarso pregio di tale rilievo sul piano dei principi costituzionali - connotato di un’evidente rilevanza simbolica per le sue potenziali ricadute sulla collocazione della magistratura nell’ordinamento costituzionale e per la sua capacità di condizionare la messa a fuoco dell’immagine dei magistrati nell’opinione pubblica.
Tematica ampia e assai delicata, divenuta oggi, alla luce delle note e sconcertanti cronache degli ultimi mesi[2] - che peraltro niente hanno a che fare con la vicenda che offre lo spunto per queste note - di drammatica attualità.
2. Le tappe della vicenda giudiziaria
Il caso giudiziario prende avvio dal procedimento disciplinare promosso in data 30 ottobre 2014 dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione nei confronti del dott. Emiliano, al quale venivano mossi i seguenti addebiti disciplinari: dalla circostanza che egli fosse titolare di una serie di cariche all’interno del Partito democratico si deduceva la sua formale iscrizione a quel partito politico, inoltre i numerosi incarichi dallo stesso assunti provavano quanto meno la sua partecipazione sistematica e continuativa al medesimo raggruppamento politico, in entrambi i casi in violazione sia dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 109/2006, ai sensi del quale “il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio …”, sia del successivo art. 3, comma 1, lett. h), in forza del quale costituisce illecito disciplinare “l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici …”[3].
Il procedimento disciplinare viene sospeso nel luglio del 2017 per il promovimento, da parte della sezione disciplinare del C.S.M., della questione di costituzionalità del citato art. 3, comma 1, lett. h), in riferimento agli artt. 2, 3, 18, 49 e 98 Cost., in ragione della ritenuta illegittimità di tale previsione nella parte in cui la stessa non escludeva dal novero dei magistrati destinatari del divieto coloro che erano stati collocati fuori ruolo proprio per espletare un mandato elettorale di natura elettiva[4].
Con sent. n. 170/2018[5] la Corte costituzionale respinge tale ricostruzione, rigettando ancora una volta la questione di legittimità. Per il Giudice delle leggi, l’accesso ad un ufficio pubblico di natura politico-elettiva non poteva costituire una scriminante rispetto all’applicazione del divieto disciplinare in questione, atteso che “un conto è l’iscrizione o comunque la partecipazione sistematica e continuativa alla vita di una partito politico, che la fattispecie disciplinare vieta, altro è l’accesso alle cariche elettive e agli uffici pubblici di natura politica”, che, a determinare condizioni, la legislazione vigente consente loro.
Dopo la pronuncia del 2018 il procedimento disciplinare riprende il suo corso, concludendosi con la sent. n. 30/2019 della Sezione disciplinare del C.S.M., con la quale il dott. Emiliano viene dichiarato colpevole degli illeciti disciplinari ascrittigli e condannato alla sanzione dell’ammonimento.
Detta pronuncia viene a propria volta impugnata dinanzi alle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, che, con la sentenza poc’anzi citata, respinge in via definitiva il ricorso.
3. L’esercizio tardivo dell’azione disciplinare
Partiamo da una questione di natura processuale piuttosto rilevante.
Il procedimento disciplinare nei confronti del dott. Emiliano viene promosso a distanza di sette anni (ottobre 2014) dalla sua investitura a segretario regionale del Partito democratico (ottobre 2007) e di dieci anni dalla sua elezione a sindaco di Bari (giugno 2004).
A tale proposito, la difesa del magistrato ricorrente deduce, tra i diversi motivi di ricorso, la nullità della sentenza di condanna della Sezione disciplinare per non avere quest’ultima rilevato l’intervenuta decadenza del Procuratore generale dall’azione disciplinare, ai sensi dell’art. 15, comma 1, del d.lgs. n. 109/2006, dal momento che la stessa era stata esercitata quando il termine annuale dall’acquisizione della notizia dei fatti contestati era già abbondantemente spirato.
Le Sezioni Unite, respingendo tale assunto, osservano che il suddetto termine annuale inizia a decorrere soltanto dall’acquisizione di una notizia “circostanziata” di illecito disciplinare, ossia “dalla conoscenza certa di tutti gli elementi costitutivi dello stesso”, potendo solo da quel momento procedersi ad “un’esauriente formulazione del capo di incolpazione”. Per la Cassazione, peraltro, tale conclusione si pone in linea con la pregressa giurisprudenza per la quale il termine decadenziale deve essere computato non da quando giunge alla Procura generale un generico esposto, nel quale vengono indicati presunti illeciti commessi dal magistrato, bensì dal momento in cui l’illecito trova “concretezza e certezza”, anche a seguito delle indagini svolte dall’autorità giudiziaria[6]. In particolare, si ricorda come la Procura generale presso la Corte di cassazione avesse avuto piena notizia dei fatti contestati soltanto a seguito dell’acquisizione di un circostanziato articolo di stampa, pubblicato nel dicembre 2013, e dal ricevimento, nel marzo 2014, di un esposto nel quale i fatti erano stati descritti in modo “molto particolareggiato”.
In realtà, a partire dal 2007, erano stati pubblicati numerosi articoli di stampa, diligentemente prodotti dalla difesa del ricorrente, dai quali poteva agilmente dedursi la circostanza che il dott. Emiliano era divenuto un autorevole esponente del Partito democratico; per la Suprema Corte, tuttavia, tali elementi non avevano compiutamente integrato la notizia di illecito sia in quanto difettavano di specificità sia perché dagli stessi non poteva evincersi né l’iscrizione del magistrato al partito politico né la sua partecipazione sistematica e continuativa ad esso. Ancora, per la Cassazione il coinvolgimento organico di Emiliano al Partito democratico non poteva essere qualificato tra i “fatti notori”, trattandosi di circostanze in realtà conosciute soltanto dalle persone vicine al magistrato; in termini diversi - pare di capire - si sarebbe posta la questione se ad assumere rilievo fosse stata la candidatura di Emiliano all’incarico di segretario nazionale del Partito democratico, circostanza che, per il Giudice disciplinare, avrebbe effettivamente potuto “in ipotesi presentare i caratteri del notorio”, ma che, nondimeno, si era concretizzata in un tempo successivo all’esercizio dell’azione disciplinare.
È dunque ferma la volontà della Suprema Corte di non accogliere la tesi dell’intervenuta decadenza dall’azione. E tuttavia, non tutti gli argomenti utilizzati appaiono davvero persuasivi.
Suscita perplessità, in primo luogo, la netta affermazione secondo la quale l’adesione del dott. Emiliano al Partito democratico non potesse qualificarsi come “fatto notorio”. Difficile, infatti, convincersi che al titolare dell’azione disciplinare potesse risultare “incerta” o “non concreta” la circostanza, di assoluto dominio pubblico, che Emiliano fosse divenuto, nel 2007, segretario regionale di un partito politico di rilievo nazionale.
Peraltro, i precedenti che le Sezioni Unite richiamano a supporto di tale conclusione non potevano dirsi propriamente in termini rispetto al caso di specie, perché diversi erano i fatti contestati. Emblematica, a tale proposito, la pronuncia più recente tra quelle richiamate[7], che giudica sulle accuse mosse ad un magistrato di reiterato ritardo nel deposito delle sentenze: in tale occasione la Cassazione, respingendo un’analoga eccezione di decadenza dall’esercizio dell’azione, ricorda che tale imputazione tocca “variegati aspetti dell’agire professionale” e che “i dati preliminari vanno, poi, necessariamente individualizzati e contestualizzati rispetto ad altri significativi riferimenti circa i vari versanti d’impegno giudiziario del magistrato”; sulla base di tali rilievi, il Supremo giudice deduce che in quella circostanza la mera segnalazione dei ritardi, in mancanza di elementi di contesto, non poteva essere sufficiente a integrare in modo esauriente il capo di incolpazione.
Ma è evidente la differenza tra le due situazioni: una cosa è richiedere che la notizia di illecito sia circostanziata nel caso in cui la fattispecie presenti in sé evidenti profili di indeterminatezza, data l’esigenza, come appunto nell’ipotesi del ritardo lavorativo, di tenere conto di innumerevoli fattori di contesto; altra cosa è richiamare la medesima esigenza qualora, come nel caso di specie, si contesti al magistrato di essere iscritto ad un partito politico, circostanza che certamente non presenta analoghi margini di ambiguità.
Suscita poi qualche dubbio che possa considerarsi fatto notorio, come pare ritenere la Cassazione, la mera “candidatura” di un magistrato all’incarico di segretario nazionale di un partito politico e, allo stesso tempo, debba escludersi tale conclusione con riguardo all’avvenuta “elezione” dello stesso magistrato alla carica di segretario regionale di quel partito. E ancora meno persuade l’affermazione secondo la quale la Procura non avrebbe potuto presumere, dalla titolarità di tale carica, la circostanza che il magistrato in questione risultasse iscritto a tale partito politico o, quanto meno, avesse partecipato in modo organico alle sue attività. A tale proposito, peraltro, poteva essere richiamata una precedente pronuncia della Sezione disciplinare che aveva condannato un magistrato configurando quale illecito disciplinare, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lettera h) del d. lgs. n. 109/2006, l’aver assunto l’incarico di segretario (soltanto) provinciale di un partito politico[8].
La sensazione, in definitiva, è che la Corte di cassazione abbia inteso mettere una pezza alla scarsa reattività della Procura generale nell’avviare l’azione e che, d’altra parte, il procedimento disciplinare sia stato in effetti promosso non quando il fatto è divenuto concreto e certo ma quando concreta e certa è divenuta la sua rilevanza mediatica e politica.
4. Il divieto di iscrizione ai partiti politici nel quadro costituzionale
La vicenda Emiliano suggerisce di tornare brevemente sui limiti che la Costituzione impone all’esercizio dei diritti politici dei magistrati. Al centro, com’è noto, vi è l’art. 98, comma 3, Cost., laddove si stabilisce che “si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici” per alcune categorie di dipendenti pubblici, tra i quali, oltre ai militari di carriera in servizio attivo, i funzionari e agenti di polizia e i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero, anche i magistrati.
Assai interessante fare almeno un cenno ai lavori dell’Assemblea costituente, per rendersi conto di come quasi tutti gli argomenti che sarebbero stati oggetto di discussione negli anni successivi, e che sono giunti fino ad oggi, fossero ben presenti fino dal 1947.
L’opzione del rinvio al legislatore ordinario emerse in Assemblea costituente quale soluzione di compromesso tra due opposte visioni[9]. Da una parte chi - soprattutto nell’area dei comunisti e dei socialisti - vedeva con favore, anche come segno di discontinuità sostanziale con il regime fascista[10], l’ipotesi che i magistrati potessero partecipare attivamente alla vita democratica, a partire dall’iscrizione ad un partito, anche avvertendo il rischio (già allora) che l’eventuale divieto potesse indirettamente comprimere i diritti di elettorato passivo degli stessi magistrati[11] e comunque precisando come tale partecipazione dovesse mantenersi nei “limiti di serenità, elevatezza e senso di responsabilità, i quali è necessario accompagnino sempre qualsiasi esplicazione dell’attività di coloro che appartengono all’ordine giudiziario”[12]. Dall’altra coloro che - soprattutto nell’area di conservatori, democristiani e liberali - ritenevano al contrario inopportuna tale prospettiva, in ragione della prevalente esigenza di assicurare l’imparzialità e l’indipendenza della magistratura, anche con riguardo alla sua immagine esterna, atteso che “i magistrati debbono essere non soltanto superiori ad ogni parzialità, ma anche ad ogni sospetto di parzialità” e devono essere messi in condizione di “poter obbedire soltanto all’imperativo della propria coscienza”[13].
Ciascuno dei due indirizzi, ora come allora, poteva vantare dei buoni argomenti e dei tratti di innegabile debolezza. La tesi favorevole alla previsione del divieto si scontrava contro l’obiezione non tanto di comportare una compressione dei diritti politici dei magistrati, perché ciò poteva essere considerato ragionevole sulla base di un bilanciamento con l’interesse contrapposto a preservarne l’imparzialità e l’indipendenza, ma soprattutto perché poteva apparire una soluzione del tutto inadeguata rispetto all’obiettivo perseguito; infatti, data l’impossibilità di pretendere dai magistrati un’effettiva neutralità politico-ideologica, essa costringeva questi ultimi in una “condizione di isolamento” fine a se stesso, imponendoli un dovere di agnosticismo soltanto formale, che poteva rivelarsi, per gli stessi interessi che si volevano preservare, perfino più pericoloso di una professione di fede fatta alla luce del sole[14].
La tesi contraria al divieto, d’altro canto, faceva leva, in particolare, sulla circostanza che lo status di iscritto avrebbe potuto esercitare, in molte situazioni concrete in cui si sarebbe potuto trovare il magistrato, sia nell’esercizio della funzione giurisdizionale sia fuori da tale esercizio, in modo cosciente o anche incosciente, un’“innegabile influenza”; e anche quando il magistrato fosse riuscito a sottrarsi ad essa, quest’ultimo avrebbe potuto divenire bersaglio di critiche capaci di incrinare la fiducia nei suoi confronti e il prestigio dell’intero corpo dei magistrati[15].
Nella situazione incerta e difficilmente riducibile ad una sintesi appena richiamata, a conclusione di un dibattito piuttosto acceso, ben si comprende il motivo per cui venne prontamente accolto dall’Assemblea costituente l’emendamento di mediazione, presentato dall’on. Clerici[16], che poi divenne l’attuale formula dell’art. 98 Cost.: nel chiaro tentativo di favorire una conciliazione tra le opposte visioni, si rinviava al legislatore ogni scelta, rendendo peraltro facoltativo non tanto l’introduzione di un divieto di iscrizione ma, più genericamente, la possibilità di introdurre “limiti” a tale iscrizione[17].
La non scelta del Costituente ha favorito, negli anni successivi, l’originarsi di interpretazioni opposte sullo stesso art. 98, comma 3, Cost., tra chi ha letto tale previsione come un implicito invito al legislatore a procedere all’introduzione del divieto[18], per alcuni addirittura rafforzato dal possibile richiamo all’art. 54, comma 2, Cost.[19], e coloro che, al contrario, hanno desunto dalla stessa un chiaro favor verso la libertà di iscrizione, che poteva essere superato, in una logica strettamente derogatoria, soltanto dinanzi al rivelarsi di “concrete ragioni in contrario”[20].
La complessità del quadro costituzionale di riferimento, la presenza di numerose e concorrenti ipotesi interpretative sul tappeto e l’assenza di una casistica rilevante che potesse fornire l’occasione per intervenire, hanno favorito la lunga latitanza del legislatore su questa materia[21].
Peraltro, occorre ricordare che il C.S.M., utilizzando le larghe maglie fornite dall’art. 18 della c.d. legge sulle guarentigie (r.d. lgs. n. 511/1946), con il conforto indiretto della Corte costituzionale[22], ben prima della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 aveva inaugurato una giurisprudenza disciplinare piuttosto cauta, e nel complesso equilibrata, rispetto alla definizione dei limiti alla libertà di espressione dei magistrati[23]. Lo stesso C.S.M., del resto, già nel 1986 si era espresso a favore dell’introduzione del divieto di iscrizione dei magistrati ai partiti politici[24].
Così come è utile ricordare che, pur su un piano diverso da quello disciplinare[25], il Codice etico approvato dall’Associazione nazionale dei magistrati nel 1993 prevedeva, all’art. 8, con una formula nella sostanza ripresa nel testo oggi vigente, approvato nel 2010, che “il magistrato garantisce e difende l’indipendente esercizio delle proprie funzioni e mantiene una immagine di imparzialità e indipendenza. Evita qualsiasi coinvolgimento in centri di potere partitici o affaristici che possono condizionare l’esercizio delle sue funzioni o comunque appannarne l’immagine. Non accetta incarichi né espleta attività che ostacolino il pieno e corretto svolgimento della propria funzione o che per la natura, la fonte e le modalità del conferimento, possano condizionarne l’indipendenza”.
5. Il d.lgs. n. 109/2006 e la successiva giurisprudenza costituzionale: l’imparzialità del magistrato tra forma e sostanza
L’inerzia del legislatore si conclude con l’entrata in vigore della riforma Castelli dell’ordinamento giudiziario (legge n. 150/2005): una prima formulazione, più ambigua e restrittiva - ove in particolare si precludeva l’adesione a “centri politici” - viene sostituita, con legge n. 269/2006, con una più stringata ai sensi della quale risulta vietata al magistrato sia l’iscrizione sia la “partecipazione sistematica e continuativa” ai partiti politici, oltre al “coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato” (cfr. art. 3, comma 1, lett. h, del d.lgs. n. 109/2006).
Numerosi i dubbi sollevati dalla dottrina su tale previsione, giunta al cospetto della Corte costituzionale in ben due occasioni.
Nel primo caso, definito con sent. n. 224/2009, si è chiesto al Giudice delle leggi di valutare la legittimità costituzionale sia del divieto in sé considerato sia della sua applicazione nei confronti di un magistrato all’epoca collocato fuori ruolo per lo svolgimento di un incarico tecnico; ad avviso della Sezione disciplinare, in particolare, il divieto formale ed assoluto per il magistrato di iscrizione ai partiti politici, rafforzato da una sanzione per la sua violazione, sarebbe andato oltre la nozione giuridica di “limitazione” prevista nella Carta costituzionale, ponendosi in collisione sia con il principio costituzionale della parità dei diritti politici in capo a tutti i cittadini (art. 51 Cost) sia con il ruolo riservato dalla Costituzione ai partiti politici, qualificati come essenziale luoghi di partecipazione democratica (art. 49 Cost.).
Com’è noto, la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione: pur riconoscendo che i magistrati debbano godere in linea di principio degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino e possano dunque non soltanto condividere un’idea politica ma anche manifestare espressamente le proprie opinioni al riguardo, la stessa ha tuttavia ribadito, sulla scia del precedente rappresentato dalla sent. n. 100/1981, che “le funzioni esercitate e la qualifica rivestita dai magistrati non sono indifferenti e prive di effetto per l’ordinamento costituzionale”, come peraltro si desume dalla disciplina costituzionale, che, “da un lato, assicura [ai magistrati] una posizione peculiare, e dall’altro, correlativamente, comporta l’imposizione di speciali doveri”.
Per il Giudice costituzionale, l’imparzialità e l’indipendenza dei magistrati sono valori che vanno tutelati “non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza e imparzialità”. E’ in questa prospettiva - sottolinea ancora il Giudice delle leggi - che la Costituzione consente al legislatore di introdurre il divieto dei magistrati d’iscrizione ai partiti politici, così da evitare che “l’esercizio delle loro delicate funzioni sia offuscato dall’essere essi legati ad una struttura partitica che importa anche vincoli gerarchici interni”; e ciò anche allo scopo di “rassicurare” il cittadino “sul fatto che l’attività del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, non sia guidata dal desiderio di far prevalere una parte politica”[26].
Tale orientamento si riferisce sia al magistrato in servizio sia a quello che non esercita le funzioni giudiziarie, dal momento che il dovere di imparzialità riguarda anche il suo “operare da semplice cittadino, in ogni momento della sua vita professionale”.
È quest’ultimo l’aspetto più originale, e anche controverso, della pronuncia del 2009. Com’è stato a tale proposito notato, infatti, “altro è essere iscritti a un partito mentre si esercitano funzioni giudiziarie, altro è essere iscritti quando, pur appartenendo all’ordine giudiziario, non si esercitano tali funzioni”; mentre nel primo caso, infatti, i vincoli derivanti dall’appartenenza al soggetto politico potrebbero, in determinate circostanze, influire direttamente sulla libertà e indipendenza di giudizio, nell’altro caso tale rischio sembra escluso in radice, o meglio, esso pare degradare in un pericolo ben diverso, assai più aleatorio, quello per cui la pregressa appartenenza partitica potrebbe essere in grado, al momento del rientro del magistrato in ruolo, e pur essendo nel frattempo venuta meno ogni formale adesione, di produrre una sorta di “macchia indelebile” su tutta la sua carriera, passata e futura, appannandone irrimediabilmente l’immagine d’imparzialità[27].
Torna, dunque, la tradizionale alternativa, che discende dallo stesso art. 98 Cost., se la ratio del divieto debba essere individuata esclusivamente nell’obiettivo di scongiurare potenziali problemi di “doppia fedeltà” del magistrato oppure se essa vada estesa anche all’ulteriore esigenza di assicurare la percezione esterna d’indipendenza e imparzialità dello stesso[28]. E la Corte sceglie senza indugio la lettura più comprensiva, considerando sovrapponibili l’interesse a garantire l’imparzialità del magistrato e quello a salvaguardare la mera apparenza di essa.
Si tratta di un indirizzo non scontato. Imparzialità e apparenza di imparzialità, sostanza e forma, sebbene spesso unite in una sorta di macro-valore unitario, sono concetti ontologicamente diversi. L’imparzialità ha a che fare con l’idea stessa di giudice e di funzione giurisdizionale[29], è coessenziale alla loro natura, in stretto collegamento con l’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge; essa si accerta nel momento in cui il magistrato forma il suo convincimento e rende giustizia, per escludere che egli abbia subito condizionamenti in relazione a interessi esterni alla controversia[30]. L’apparenza di imparzialità rileva, invece, al diverso scopo di salvaguardare l’immagine esterna della magistratura nel suo complesso, per non pregiudicare il rapporto di fiducia che deve sussistere tra il corpo dei magistrati e l’insieme dei cittadini, atteso che, pur non trovando la funzione giurisdizionale una diretta legittimazione nella sovranità popolare e più in particolare nel consenso dei consociati, la democrazia resta il fondamento ultimo anche del potere giudiziario, nel cui nome, d’altra parte, è amministrata la giustizia ai sensi dell’art. 101 Cost.[31].
Apparenza e sostanza d’imparzialità sono principi di indiscutibile pregio ma posti a presidio di interessi costituzionali diversi la cui lesione non determina il medesimo disvalore, essendo indubbio che sia prioritario l’obiettivo di salvaguardare l’imparzialità del giudice nel momento della decisione[32]. Non è escluso, dunque, in linea di principio, che l’intento di tutelare uno dei due valori possa andare a discapito dell’altro: entra qui in gioco, tornando alla questione decisa dalla Corte costituzionale, la nota obiezione secondo la quale dichiarare pubblicamente una certa inclinazione politica comporta un’assunzione di responsabilità dinanzi all’opinione pubblica tale che l’imparzialità, forse incrinata nella sua parvenza esteriore, può in verità risultare rafforzata nella sua sostanza, ovverosia con riguardo all’esercizio concreto della giurisdizione[33].
Si tratta di un delicato gioco di equilibri. Certo è che, seguendo questo ordine di idee, il Giudice delle leggi avrebbe potuto ritenere ragionevole, come veniva prospettato nell’ordinanza di rimessione, differenziare tra il magistrato iscritto al partito mentre esercita la funzione giurisdizionale, soggetto a vincoli oggettivi di appartenenza potenzialmente idonei a pregiudicarne l’imparzialità di giudizio, dal magistrato fuori ruolo, in ipotesi disposto a lasciare la tessera al momento del ritorno alla giurisdizione, la cui imparzialità, data l’assenza di contestualità tra adesione al partito ed esercizio della funzione, non avrebbe potuto essere messa in discussione se non nella sua sola percezione esteriore[34].
In definitiva, ciò che lascia parzialmente insoddisfatti della richiamata giurisprudenza costituzionale non sono tanto gli esiti cui essa giunge, perché non vi è dubbio che, specie in determinati periodi storici, sia essenziale che la magistratura operi in un clima di fiducia nei rapporti con l’opinione pubblica, bensì il ragionamento un po’ semplicistico dalla stessa seguito, che non sembra operare troppe distinzioni, né valutare sufficientemente la natura disomogenea degli interessi costituzionali da porre in equilibrio.
6. La sentenza della Corte cost. n. 170/2018 e il paradosso del divieto di fare politica imposto al magistrato collocato fuori ruolo per fare politica
La vicenda Emiliano costituisce dunque la seconda occasione nella quale la Corte costituzionale si trova ad esaminare direttamente il dubbio di costituzionalità del divieto di partecipazione “organica” ai partiti politici. La novità principale, rispetto al caso del 2009, sta tutta nella circostanza che il magistrato in questione, come detto, risulta questa volta collocato fuori ruolo proprio per ragioni politico-elettorali; e ciò, quanto meno a prima impressione, faceva suonare il suddetto divieto ancora più irragionevole.
La Corte, con la nota sent. n. 170/2018, coglie comunque l’occasione per rimettere a fuoco l’intera problematica. In primo luogo, il Giudice delle leggi precisa che l’art. 98, comma 3, Cost., lungi dall’“imporre” alcunché, demanda al legislatore la mera “facoltà” di intervenire nel delicato bilanciamento tra diritti politici ed esercizio indipendente della funzione giurisdizionale, allo scopo di “impedire condizionamenti all’attività giudiziaria che potrebbero derivare dal legame stabile che i magistrati contrarrebbero iscrivendosi ad un partito o partecipando in misura significativa alla sua attività”.
In secondo luogo, viene confermato dal Giudice costituzionale l’indirizzo, ormai consolidato, secondo il quale, pur godendo i magistrati in linea di principio degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni cittadino, la peculiarità delle funzioni dagli stessi esercitate comporta che la loro indipendenza deve essere garantita non soltanto con specifico riferimento all’esercizio delle funzioni giudiziarie ma anche “in ogni aspetto della vita pubblica”. La Corte dunque ribadisce, ancora una volta senza perdersi in troppi distinguo, che “sostanza e apparenza” sono valori entrambi “alla base della fiducia di cui deve godere l’ordine giudiziario in una società democratica”. E tanto l’iscrizione al partito politico quanto la partecipazione continuativa alla vita dello stesso incidono sia sull’imparzialità del magistrato sia sulla sua apparenza: ciò che la norma disciplinare vuole evitare, infatti, è che si creino vincoli e “legami suscettibili di condizionare (anche per il futuro) l’esercizio delle funzioni, oltre che di offuscare l’immagine del magistrato presso l’opinione pubblica”.
Per la Corte, peraltro, le due fattispecie disciplinari dell’iscrizione e della partecipazione organica alle attività del partito, pur accomunate dalla medesima ratio, rilevano in modo diverso: non tutte le forme di partecipazione, infatti, sono idonee a compromettere l’“integrità” del magistrato ma soltanto quelle che comportano “legami di natura stabile”, oltre che “manifesti all’opinione pubblica”. È il carattere di “stabilità” del legame, quindi, che viene posto dalla Corte costituzionale sulla linea di confine tra partecipazione legittima e partecipazione illegittima alla vita di un partito.
Da ciò consegue che l’atto di iscrizione al partito politico è in sé rivelatore “di una stabile e continuativa adesione del magistrato ad un partito politico, il cui oggettivo disvalore non è suscettibile di attenuazioni”. Dunque, per il Giudice delle leggi l’iscrizione ad un partito costituisce un dato oggettivo, “di significato certo”, che manifesta uno schieramento organico del magistrato con una delle parti politiche in gioco: ciò vale allo stesso modo sia per il magistrato che svolge assiduamente attività politica sia per il collega che, pur titolare di una tessera, non partecipa ad alcun tipo di iniziativa; la Corte lo sottolinea espressamente quando ricorda che è ben “configurabile un’iscrizione che non segua una partecipazione assidua e costante alla vita del partito”. L’idea, in definitiva, è quella secondo cui l’adesione formale ad un partito politico comporta sempre dei precisi vincoli interni, incompatibili con l’esercizio della funzione giurisdizionale; neppure un cenno viene fatto alle trasformazioni subite dai partiti politici negli ultimi decenni, che, com’è noto, hanno determinato il progressivo e sensibile allentamento di tali vincoli[35], né al fatto che il magistrato iscritto potrebbe cancellare la sua iscrizione al momento di rientrare nella giurisdizione e dunque far venir meno ogni presunto legame oggettivo con il partito.
Ancora una volta, forma e sostanza d’imparzialità vanno a braccetto, ma è la forma cui la Corte sembra prestare una speciale attenzione, onde scongiurare il rischio che il magistrato possa apparire “ideologicamente orientato” o, peggio, “di parte”; e in questo senso, l’iscrizione al partito è sanzionata come atto simbolico, “solenne e formale”, dal quale si desume un disvalore a prescindere da ogni altra considerazione.
Diverso è il discorso con riguardo alla seconda fattispecie contemplata dal d.lgs. n. 109/2006, laddove essa colpisce soltanto la partecipazione “continuativa e sistematica” alle attività di partito, ovvero quel tipo di partecipazione organica che, a prescindere dal dato formale dell’iscrizione, potrebbe effettivamente comportare l’insorgere di legami suscettibili di condizionare l’esercizio delle funzioni giurisdizionali.
Sono due i passaggi della motivazione che meritano di essere sottolineati a tale proposito.
In primo luogo, la Corte ritiene che il divieto di partecipazione organica alle attività di partito debba essere mantenuto anche nei confronti del magistrato impegnato in politica, e ciò per due principali ragioni: a) da un lato, perché svolgere la campagna elettorale e, in caso di elezione, esercitare un mandato politico-elettivo non comporta, per il Giudice delle leggi, l’assunzione di vincoli stringenti assimilabili a quelli che discendono dalla partecipazione organica ad un partito politico; b) dall’altro, perché ci si trova in un contesto normativo che consente al magistrato “di tornare alla giurisdizione, in caso di mancata elezione oppure al termine del mandato elettivo o dell’incarico politico” e pertanto “va preservato il significato dei principi di indipendenza e imparzialità, nonché della loro apparenza, quali requisiti essenziali che caratterizzano la figura del magistrato”.
Si tratta di considerazioni piuttosto opinabili. È opinabile, infatti, che l’indipendenza e l’imparzialità di un magistrato siano messe in discussione dal suo coinvolgimento organico nelle attività di un partito e non dall’assunzione di un incarico politico-elettivo, tenuto conto che ciò può realizzarsi (quasi) esclusivamente grazie al sostegno di quel partito. La Corte, del resto, riconosce che “nessun cittadino, nemmeno il cittadino-magistrato, si candida da solo”, dal momento che la sua candidatura deve trovare spazio (nella stragrande maggioranza dei casi) all’interno di liste di partito, e che, una volta eletto, il suo incarico politico si svolgerà abitualmente all’interno di una “dialettica dominata dal confronto tra i partiti politici”.
Sembra che la Corte immagini, poco realisticamente, che un magistrato possa svolgere la campagna elettorale e, in caso di elezione, il successivo mandato politico, passando necessariamente attraverso i partiti, ma rimanendo, in osservanza di un (peraltro malinteso) divieto di mandato imperativo, rispetto ad essi libero e svincolato[36]. Difficile non registrare la contraddizione insita nel ragionamento, ovvero la sua artificiosità, o, com’è stato detto, il suo “fragile formalismo”[37].
Senza contare, come prima s’è accennato, che i divieti di iscrizione e di partecipazione organica inducono di fatto il magistrato che intende impegnarsi in politica a sviluppare i rapporti con il proprio partito, che necessariamente precedono la candidatura, in modo indiretto o “occulto”, in omaggio alla sola apparenza[38]. Apparenza che, prima o poi, finisce comunque per essere anch’essa pregiudicata, dal momento che l’appartenenza al partito diviene inevitabilmente palese al momento dell’inserimento del magistrato nelle liste elettorali e, in caso di elezione, dell’iscrizione al gruppo parlamentare corrispondente al partito di riferimento.
In secondo luogo, la Corte sottolinea come la valutazione sui requisiti di “sistematicità e continuatività” della partecipazione del magistrato alla vita di un partito escluda ogni “automatismo sanzionatorio”, essendo possibili “soluzioni adeguate alla peculiarità dei casi”, nel senso che sono consentite al giudice disciplinare “le ragionevoli distinzioni richieste dalla varietà delle situazioni che la vita politico-istituzionale presenta”. Si tratta di un’affermazione rilevante, arricchita per giunta dall’ulteriore, seguente precisazione del Giudice costituzionale: “se tale rilievo vale, in generale, per tutti i magistrati, vale particolarmente per coloro, tra di essi, che siano collocati in aspettativa per soddisfare i diritti fondamentali garantiti dall’art. 51 Cost.”.
Se ne ricava che, a parte l’iscrizione formale, sempre vietata, per il resto il livello di coinvolgimento nella vita di un partito politico che può essere considerato “tollerabile” varia a seconda di una serie di circostanze concrete; tra di esse, particolare rilevanza assume la situazione in cui si trova un magistrato in aspettativa per mandato elettorale. In altre parole, sebbene il divieto di partecipare organicamente alla vita del partito valga anche per il magistrato fuori ruolo impegnato in politica, tuttavia, nei suoi confronti, tale divieto è suscettibile di essere applicato con un’intensità inferiore rispetto a quanto sia possibile nei confronti degli altri suoi colleghi, sia quelli in ruolo sia quelli fuori ruolo per ragioni diverse.
Considerazione che rende ancora più evidente quanto sia impervio il crinale sui cui si muove il ragionamento della Corte: con una mano si nega che il sistema contenga una disarmonia, con l’altra si pone una sorta di “puntello” che ha come unico obiettivo sostanziale quello di temperare tale disarmonia.
7. La sentenza delle Sezioni Unite, tra continuità e discontinuità con la giurisprudenza costituzionale
All’indomani della sent. n. 170/2018 della Corte costituzionale, come anticipato, il giudizio disciplinare riprende il suo corso, per giungere, in seguito alla condanna della Sezione disciplinare, dinanzi alle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione: quest’ultima, nel rigettare il ricorso, riprende nella motivazione la maggior parte degli argomenti utilizzati dal Giudice delle leggi, anche se non mancano passaggi originali.
Da segnalare, innanzi tutto, la questione di costituzionalità che il ricorrente chiede alla Corte di promuovere avverso l’art. 3, comma 1, lett. h), del d.lgs. n. 109/2006[39]. Per affrontare nel merito il prospettato dubbio di costituzionalità, dichiarato poi manifestamente infondato, la Corte di cassazione si diffonde in una lunga disamina sulla posizione costituzionale della Magistratura e sui principi di autonomia, indipendenza e soggezione soltanto alla legge (p.to 8 delle Ragioni della decisione), i quali, lungi dal costituire privilegi dell’ordine giudiziario, sono funzionalmente necessari per assicurare l’imparzialità del magistrato nel momento in cui è chiamato ad esercitare la funzione giurisdizionale, “con obiettività e senza preconcetti, seguendo soltanto la propria coscienza […], senza aspettative di vantaggi e senza timore di pregiudizi (sine spe, sine metu)”.
Anche la Cassazione si sofferma sui concetti di imparzialità e di apparenza d’imparzialità, ma con sfumature diverse da quelle registrate nella pronuncia costituzionale. “Il giudice” - ricordano le Sezioni Unite - “ha il dovere non soltanto di essere imparziale ma anche di apparire tale”, ovvero essere “al di sopra di ogni sospetto di parzialità”; con la differenza che, mentre l’essere parziale si declina in relazione al concreto processo, “l’apparire imparziale costituisce, invece, un valore immanente alla posizione istituzionale del magistrato, indispensabile per legittimare, presso la pubblica opinione, l’esercizio della giurisdizione come funzione sovrana” (p.to 8.1 delle Ragioni della decisione). La Corte conclude su questo punto osservando che, “proprio il dovere del magistrato di assicurare la propria immagine pubblica di imparzialità, rende particolarmente critico il rapporto tra il giudice e la politica ed oltremodo delicata la sua partecipazione alla vita politica del paese” (p.to 8.3 delle Ragioni della decisione).
Si tratta di un passaggio che segna un primo elemento di discontinuità con la pronuncia del Giudice costituzionale del 2018. La Cassazione, a tale proposito, precisa che “la condivisione di un’idea politica, di per sé incomprimibile, e persino la manifestazione espressa di appartenenza ad un partito politico non sono, in quanto tali, incompatibili con l’esercizio imparziale dell’ufficio pubblico ricoperto”; tuttavia, il legislatore ordinario, in attuazione di un precetto costituzionale, ha voluto che il magistrato “non abbia tessere di partito” affinché egli “non sia percepito come uomo di parte, affinché l’esercizio della giurisdizione non possa essere inteso come strumento di lotta politica”.
La differenza appare evidente. Mentre la Corte costituzionale individua, quanto meno formalmente, il fondamento delle due fattispecie disciplinari nell’esigenza di salvaguardare, al contempo, l’imparzialità del magistrato e la sua immagine esteriore, al contrario la Cassazione, più schiettamente, sembra presumere che la ratio di tali limitazioni consista soprattutto nell’esigenza di preservare l’“immagine pubblica di imparzialità” del magistrato, precisando poi - e non è difficile immaginare che in questo richiamo il pensiero sia andato alla difficile situazione italiana di questi ultimi mesi - che tale esigenza è tanto più avvertita nelle società moderne sovente “caratterizzate da tensioni nei rapporti tra poteri dello Stato” (p.to 8.2 delle Ragioni della decisione).
La Cassazione torna, poi, sulla questione riguardante la presunta contraddizione tra divieto di partecipare in modo organico alla vita di un partito e diritto di candidarsi alle elezioni politiche e di svolgere, eventualmente, il mandato politico elettorale. In motivazione si richiamano i medesimi argomenti, non del tutto convincenti, già utilizzati dalla Corte costituzionale per confutare tale lettura, compresa una particolare attenzione a negare, in considerazione della loro diversa natura giuridica, la sussistenza di una contraddizione tra il divieto di iscrizione al partito politico e la possibilità, per il magistrato eletto, di iscriversi invece al gruppo parlamentare (p.to 4 delle Regioni della decisione).
Meritevole di considerazione è anche il punto nel quale la Cassazione confuta la tesi del ricorrente secondo cui il giudice disciplinare avrebbe dovuto tenere conto delle previsioni dello Statuto del Partito democratico ove si prevede - analogamente, peraltro, a quanto avviene per molti partiti politici - che l’iscrizione al partito costituisce un presupposto indispensabile per poter essere candidati alle cariche politico-istituzionali; tale constatazione, in effetti, per quanto non decisiva, rendeva la richiamata disarmonia del sistema ancora più evidente, o meglio la connotava di un aspetto formale, dato che il solo modo per Emiliano di esercitare il suo diritto costituzionale di accedere alle cariche elettive, ai sensi dell’art. 51 Cost., era quello di iscriversi al partito. La Cassazione respinge tale rilievo, sottolineando che la normativa interna dei partiti politici, in quanto associazioni private, non poteva essere qualificata alla stregua di una fonte del diritto, né poteva integrare il precetto disciplinare “immettendovi nozioni che la legge non prevede”; non è ammissibile, per la Cassazione, “che la normativa interna di un partito politico possa scriminare, rendendole lecite, condotte che la legge vieta e configura come illeciti disciplinari”, anche perché la tesi propugnata dal ricorrente avrebbe irragionevolmente condotto a “mutare, di volta in volta, il significato della norma disciplinare, a seconda di quanto previsto dagli atti interni dei singoli partiti”.
Difficile contestare gli argomenti sviluppati dalle Sezioni Unite ma, ancora una volta, si manifesta in tutta la sua evidenza lo iato tra il piano formale e il piano sostanziale del problema: nel caso specifico, la sola alternativa che di fatto si presenta al magistrato è quella tra candidarsi come iscritto al partito, lasciando la magistratura, oppure abbandonare ogni velleità politica.
Riguardo poi alla distinzione tra le due fattispecie contemplate all’art. 3, comma 1, lettera h), del d.lgs. n. 109/2006, di particolare interesse le considerazioni svolte dalla Cassazione in merito alla seconda. Come detto, qui la pronuncia costituzionale aveva lasciato alle Sezioni unite uno spazio di manovra in linea di principio piuttosto ampio: il Giudice delle leggi, infatti, come le stesse sottolineano, aveva fornito una “interpretazione garantista, in bonam partem”, di tale illecito, rimarcando la necessità di valutare “caso per caso”, precisando altresì come tale rilievo valesse a maggior ragione per i magistrati “collocati in aspettativa per soddisfare i diritti fondamentali garantiti dall’art. 51 Cost.”.
E proprio qui si registra la maggiore distanza tra Corte costituzionale e Corte di cassazione[40].
Laddove la prima incentivava il Giudice disciplinare a percorrere la (impervia) strada delle distinzioni tra magistrato in ruolo, magistrato fuori ruolo per ragioni tecniche e magistrato fuori ruolo per ragioni politiche, prospettando la possibilità di operare bilanciamenti differenziati, la Cassazione sottolinea, senza infingimenti, come, allorquando la condotta di partecipazione ad un partito politico sia connotata dai caratteri di sistematicità e continuatività, “essa assume rilievo per tutti i magistrati, senza che possa distinguersi tra magistrati che svolgono funzioni giudiziarie e magistrati fuori ruolo e senza che possano rilevare le ragioni per le quali questi ultimi sono stati collocati fuori ruolo”.
La Cassazione rifiuta, dunque, la logica dei distinguo fondata sulle differenze soggettive.
Si tratta di un indirizzo improntato ad una interpretazione più rigida, e tendenzialmente più restrittiva, dell’illecito disciplinare, che conduce a condannare il dott. Emiliano anche in relazione alla seconda fattispecie, dal momento che i numerosi incarichi dallo stesso ricoperti e la sua candidatura alla carica di segretario nazionale costituivano, per le Sezioni unite, un “indice sicuro dell’organica partecipazione” alla vita del partito.
La Corte, in altre parole, rifiuta la prospettiva di condannare Emiliano per la sola iscrizione al partito politico, circostanza certa e insuscettibile di valutazioni differenziate, e al contempo assolverlo per l’atro capo di imputazione, ritenendo la sua partecipazione alla vita del partito “tollerabile” all’esito di un bilanciamento “mirato” dei valori costituzionali coinvolti.
Troppo alto, forse, il rischio che tale indirizzo potesse essere letto, fuori e dentro la magistratura, come una sorta di pur blanda apertura nei confronti dell’ingresso dei magistrati in politica.
8. Prospettive di riforma legislativa, per ricondurre il sistema ad una maggiore coerenza
Sia la Corte costituzionale sia la Cassazione, pur con alcune differenze, hanno dunque ritenuto non contraddittoria la scelta del legislatore di vietare al magistrato il coinvolgimento organico nelle attività di un partito politico e, al contempo, di riconoscergli il diritto di candidarsi ad una carica politico-elettiva ai sensi dell’art. 51 Cost. Tale conclusione è frutto di un complesso bilanciamento che, malgrado gli sforzi profusi da entrambe le Corti, non appare del tutto convincente perché, di fatto, finisce per giustificare una scissione tra due situazioni che sono nella realtà inscindibilmente collegate.
Più in generale, le pronunce appena esaminate, pur partendo dall’esigenza di rassicurare i cittadini sulla netta separazione tra sfera della politica e sfera della giurisdizione, finiscono per eludere le questioni sostanziali collegate a tale obiettivo, che oggi attengono non tanto alla partecipazione dei magistrati alla vita dei partiti politici ma al fenomeno, più diffuso, della titolarità da parte degli stessi di cariche elettive o politico-amministrative (anche non elettive) ai più vari livelli dell’ordinamento[41].
Ciò precisato, è ovvio che l’angolo visuale dal quale le due Corti, ovviamente con ruoli ben diversi, hanno potuto esaminare il problema non poteva che essere parziale, nel senso che esse si sono trovate a confrontarsi soltanto con singole disposizioni di un contesto normativo assai più ampio e articolato, dove le diverse previsioni fanno sistema l’una con l’altra. Tale sorta di “impotenza” è percepibile quando, ad esempio, nella sent. n. 170/2018, la Corte costituzionale, nel ritenere legittima l’applicazione del divieto disciplinare anche ai magistrati fuori ruolo per ragioni politico-elettorali, precisa che ciò vale in particolare “in un contesto normativo che consente al magistrato di tornare alla giurisdizione”.
È pertanto utile, in conclusione, collocarsi in una prospettiva più ampia, allargando lo sguardo al complesso delle disposizioni applicabili ai magistrati che assumono incarichi di natura politico-elettiva[42], nella consapevolezza che la ragionevolezza che il legislatore è chiamato a perseguire riguarda non soltanto le scelte sui singoli istituti ma l’insieme delle regole dedicate al problema più generale.
A tale proposito, nel tornare brevemente sulle previsioni costituzionali rilevanti sul punto, merita innanzi tutto sgombrare il campo da un ricorrente equivoco: quello secondo cui la Costituzione consentirebbe al legislatore, ai sensi dell’art. 98, comma 3, Cost., di introdurre delle limitazioni al diritto del magistrato di partecipare alle attività di un partito politico mentre, invece, la stessa non permetterebbe in alcun modo di limitare il suo accesso alle cariche elettive[43]. E’ vero, al contrario, che la Carta costituzionale, pur con formule non espressamente mirate sui magistrati, lascia al decisore politico un’ampia discrezionalità di incidere anche sull’elettorato passivo[44], ovviamente nei limiti della ragionevolezza; in particolare, ciò si evince sia dall’art. 51, comma 1, Cost., ove si stabilisce che l’accesso alle cariche elettive viene garantito “secondo i requisiti stabiliti dalla legge”, sia, con specifico riferimento al mandato parlamentare, dall’art. 65, comma 1, Cost., ai sensi del quale “la legge determina i casi di ineleggibilità e incompatibilità con l’ufficio di deputato o di senatore”. Per fare soltanto un esempio, è sulla base della discrezionalità concessa da tali disposizioni costituzionali che il legislatore ha ritenuto di introdurre, all’art. 7 del d.P.R. n. 361/1957, l’ineleggibilità assoluta, tra gli altri, dei “funzionari di pubblica sicurezza” e, al successivo art. 8, la mera ineleggibilità relativa dei magistrati.
Ciò precisato, merita soffermarsi più in dettaglio sulle regole previste in tema di ineleggibilità e di rientro in ruolo dei magistrati.
Quanto al primo ambito, l’art. 8 del d.P.R. n. 361/1957, che si applica alle elezioni al Parlamento nazionale ed europeo, stabilisce che i magistrati, con esclusione di quelli in servizio presso le giurisdizioni superiori, anche in caso di scioglimento anticipato delle Camere e di elezioni suppletive, “non sono eleggibili nelle circoscrizioni sottoposte, in tutto o in parte, alla giurisdizione degli uffici ai quali si sono trovati assegnati o presso i quali hanno esercitato le loro funzioni in un periodo compreso nei sei mesi antecedenti la data di accettazione della candidatura” e che gli stessi “non sono in ogni caso eleggibili se, all’atto dell’accettazione della candidatura, non si trovano in aspettativa”[45]. Si noti, per inciso, che l’obbligo di aspettativa degrada ad una mera facoltà del magistrato per i mandati negli enti territoriali[46].
Al rientro in ruolo è dedicato invece l’art. 50, comma 1, del d.lgs. n. 160/2006, ai sensi del quale il ricollocamento avviene, nel caso di cessato esercizio di una funzione elettiva extragiudiziaria e ad eccezione dei magistrati della Corte di cassazione, della Procura generale presso la stessa o della Direzione nazionale antimafia, “in una sede diversa vacante appartenente ad un distretto sito in una regione diversa da quella in cui è ubicato il distretto presso cui è posta la sede di provenienza, nonché in una regione diversa da quella in cui in tutto o in parte è ubicato il territorio della circoscrizione nella quale il magistrato è stato eletto”.
Per quanto riguarda il rientro in ruolo dei magistrati candidati alla Camera e al Senato e risultati non eletti, l’art. 8, comma 2, del d.P.R. n. 361/1957 stabilisce che essi “non possono esercitare per un periodo di cinque anni le loro funzioni nella circoscrizione nel cui ambito si sono svolte le elezioni”[47]. Nessun limite è invece previsto per il magistrato che sia stato candidato in una circoscrizione diversa da quella in cui esercitava la giurisdizione - ciò che avviene tendenzialmente sempre - il quale, dunque, in caso di mancata elezione, può tornare immediatamente nella sede di provenienza.
Alla luce di questa sommaria ricognizione, appare evidente che, a fronte di un quadro costituzionale che offre al decisore politico un’ampia possibilità di intervento sia sul fronte della partecipazione del magistrato alla vita dei partiti sia su quello della sua candidatura ad incarichi di natura elettiva e successivo rientro in ruolo, ci troviamo di fronte, come più volte ribadito, a scelte legislative piuttosto schizofreniche: ad una disciplina abbastanza restrittiva sul primo profilo corrisponde un regime in definitiva blando, frammentario e a tratti irrazionale, sul secondo[48].
Questa disarmonia, ritenuta tollerabile dalla Corte costituzionale, non deve impedire al legislatore - che ovviamente agisce su un piano diverso e può beneficiare concretamente di una visione d’insieme della complessiva tematica - di intervenire per ricondurre ad una maggiore efficacia e coerenza l’intero sistema, in modo tale che la disciplina dei singoli istituti risulti espressione del medesimo punto di equilibrio tra esigenze della politica ed esigenze della giurisdizione[49].
De iure condendo, e in linea teorica, tale coerenza potrebbe essere perseguita con soluzioni alternative.
Una prima ipotesi potrebbe essere quella di lasciare inalterata la disciplina riguardante l’ineleggibilità e il rientro in ruolo e, al contempo, mettere mano alla normativa disciplinare, in particolare abrogando il divieto di iscrizione al partito politico, nell’ottica, da un lato, di assicurare una più effettiva tutela ai diritti politici di cui anche il magistrato, al pari di ogni altro cittadino, deve godere e, dall’altro, di evitare che lo stesso possa contrarre, in caso di candidatura, relazioni occulte con la politica che potrebbero mettere a rischio la sua imparzialità più di quanto non possa fare una pubblica assunzione di responsabilità dinanzi all’opinione pubblica[50]. Peraltro, quanto meno in linea di principio, tale prospettiva, seppur in modo meno esplicito, potrebbe essere colta anche de iure condito, accedendo alla tesi di chi ha proposto un’interpretazione restrittiva della formula “partecipazione sistematica e continuativa all’attività dei partiti” proprio allo scopo di non precludere forme di “contatto” del magistrato con i partiti politici, così da “non dar luogo ad una contraddizione insuperabile”.[51]
Una seconda ipotesi, diametralmente opposta, sarebbe invece quella di non modificare la disciplina vigente sul divieto di coinvolgimento organico nei partiti politici e intervenire sull’altro fronte, introducendo un regime più rigoroso con riguardo all’accesso dei magistrati alle cariche pubbliche. Ciò potrebbe essere realizzato, in linea di principio, ampliando le ipotesi d’ineleggibilità[52], ovvero, più verosimilmente, inibendo l’esercizio delle funzioni giudiziarie per un periodo congruo di tempo sia prima della candidatura che dopo la campagna elettorale, nonché, in caso di elezione, successivamente alla fine del mandato parlamentare[53].
Una soluzione ancora più netta, ma sempre nel senso di tenere del tutto separate le due sfere, sarebbe senza dubbio quella di considerare la scelta del magistrato di candidarsi e di scendere nell’agone politico come “irreversibile”[54]. A tale proposito, degna di interesse appare senz’altro la delibera approvata dal C.S.M. lo scorso 21 ottobre 2015, rimasta peraltro senza seguito, nella quale si era formulata una proposta tesa perseguire, come ha avuto modo di sottolineare l’allora Vice-Presidente Giovanni Legnini, “non tanto un effetto di disfavore all’accesso dei magistrati agli incarichi elettivi” bensì un limite volto ad assicurare che “l’indipendenza della magistratura possa essere messa in discussione dalla militanza a qualunque titolo”[55]. Tale proposta, in particolare, prevedeva che, dopo un periodo “prolungato” di attività politica, il magistrato non potesse rientrare nei ruoli della magistratura ma dovesse transitare nei ranghi dell’Avvocatura dello Stato e/o della dirigenza pubblica, anche alla luce della constatazione per la quale la conservazione del posto di lavoro, garantita dall’art. 51, comma 3, Cost., non coincide con il diritto di continuare ad esercitare le stesse funzioni espletate in precedenza[56].
Proprio mentre si scrive è in corso di predisposizione un progetto di riforma elaborato dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che sembra andare in una direzione simile a quella richiamata da ultimo: in esso si intende prevedere, in particolare, che il magistrato che ha svolto un mandato politico per almeno sei mesi in un organo politico elettivo (Parlamento nazionale, Parlamento europeo, Consiglio regionale) o di governo (ministro, assessore regionale) debba essere ricollocato, alla fine dell’esperienza politica, in un ruolo autonomo del Ministero della Giustizia o di altro Ministero.
Non è possibile in questa sede diffondersi sulla bontà delle singole proposte.
A chi scrive sembra peraltro che, alla luce delle progressive trasformazioni che ha conosciuto la funzione giurisdizionale nelle società contemporanee, sempre più “compartecipe” della definizione delle regole derivanti dalle scelte politiche[57], ma anche tenuto conto della grave crisi di immagine e credibilità che sta attraversando la magistratura negli ultimi mesi, sia oggi necessario adottare scelte radicali, trasparenti e, per quanto possibile, prive di ambiguità, tese a sgombrare il campo da ogni dubbio circa possibili indebite commistioni tra sfera politica ed esercizio della giurisdizione.
Se è vero, come si è detto, che sostanza e apparenza d’imparzialità sono valori distinti, è pur vero che viviamo in tempi assai delicati, nei quali appare indispensabile non offrire argomenti a coloro che, magari strumentalmente, vorrebbero accreditare l’idea pericolosa che la giustizia sia amministrata a servizio di una parte.
[1] Sindaco di Bari per due mandati, dal giugno 2004 al giugno 2014, poi assessore del comune di San Severo e infine Presidente della Regione Puglia, a partire dal giugno 2015; segretario regionale del Partito democratico dall’ottobre 2007 all’ottobre 2009 e dal febbraio 2014 al maggio 2016, Presidente regionale del medesimo partito dal novembre 2009 al gennaio 2014 e, nel marzo 2017, candidato come segretario nazionale per la stessa formazione politica.
[2] Il riferimento, quasi scontato, è ai gravi casi, rilanciati dalle cronache degli ultimi mesi e sui quali sono in corso delle inchieste giudiziarie, di commistione tra politica e magistratura in vista di alcune nomine di competenza del C.S.M. Su tali vicende il Presidente della Repubblica (G. Mattarella, Intervento in occasione della cerimonia commemorativa dell’anniversario di alcuni magistrati uccisi per l’impegno nel contrasto alla violenza terroristica e mafiosa, Roma, 18 giugno 2020, disponibile in www.quirinale.it) ha recentemente sottolineato come il fenomeno faccia intravedere “un’ampia diffusione della grave distorsione sviluppatasi intorno ai criteri e alle decisioni di vari adempimenti nel governo autonomo della Magistratura” e abbia rilevato una “modestia etica” capace di minare il prestigio e l’autorevolezza dell’intero ordine giudiziario.
[3] Sulla questione della sottoponibilità al procedimento disciplinare del magistrato in aspettativa parlamentare, da ultimo, cfr. G. Campanelli, Il magistrato parlamentare: la rilevanza disciplinare dei suoi comportamenti alla luce del d.lgs. n. 109/2006 tra scelte legislative e problemi aperti, in Consulta online, 18 luglio 2020.
[4] Cfr. ord. n. 111/2017, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale, n. 45/2017.
[5] Da cui sono tratti i virgolettati che seguono (cfr., in particolare, p.ti 5 e 6 del Considerato in diritto).
[6] Nella motivazione vengono richiamate le seguenti pronunce della Cass. civ., Sez. unite: 8 febbraio 2001, n. 50, 24 novembre 2010, n. 23780 e 9 giugno 2017, n. 14430.
[7] Cfr. la già citata Cass. civ., Sez. unite, 9 giugno 2017, n. 14430.
[8] Cfr. Sez. disc. C.S.M., sent. 15 giugno 2010, n. 100.
[9] Cfr., di recente, S. Aru, La discussa partecipazione dei magistrati alla politica, in Rivista AIC, n. 1/2020, 457ss. e G. E. Polizzi, Il magistrato al Parlamento, Padova, 2017, 80ss.
[10] In realtà il riferimento al Fascismo venne utilizzato nel dibattito in Assemblea costituente in modo ambivalente, dal momento che durante il regime si pretese, con legge n. 1482/1940, l’iscrizione al partito come condizione imprescindibile per la progressione in carriera, ma si trattava, ovviamente, del partito unico nazionale fascista; cfr. G. Neppi Modona, La magistratura e il fascismo, in AA.VV., Fascismo e società italiana, Torino, 1973, 127ss.
[11] Cfr. Intervento di F. Musotto (Partito socialista) in Assemblea costituente nel corso della seduta del 8 novembre 1947.
[12] Cfr. Circolare n. 1941/1945 del Ministro della Giustizia Palmiro Togliatti che ben esprime un chiaro orientamento di apertura che in seguito sarebbe stato riproposto da numerosi Costituenti nel corso dei lavori in Assemblea costituente.
[13] Cfr. Intervento di A. Moro (Democrazia cristiana) in Assemblea costituente nel corso della seduta del 7 novembre 1947.
[14] Cfr. Intervento di C. Ruggiero (Partito socialista) in Assemblea costituente nel corso della seduta del 7 dicembre 1947.
[15] Cfr. Intervento di A. Bozzi (Unione democratica nazionale-Partito liberale) in Assemblea costituente nel corso della seduta del 6 novembre 1947.
[16] Cfr. Intervento di E. Clerici (Democrazia cristiana) in Assemblea costituente nel corso della seduta del 5 dicembre 1947.
[17] Cfr. S. Senese, Magistrati e iscrizione ai partiti politici, in Quaderni della giustizia, n. 61/1986, 9. Di formulazione “agnostica” parla N. Pignatelli, Il divieto di iscrizione ai partiti politici: un cavallo di troia, in AA.VV., Scritti dei dottorandi in onore di Alessandro Pizzorusso, Torino, 2005, 343.
[18] Cfr. V. Falzone-F. Palermo-F. Cosentino, La Costituzione della Repubblica italiana, Roma, 1948, 180.
[19] Ai sensi del quale chi è chiamato a svolgere funzioni pubbliche è tenuto ad “adempierle con disciplina ed onore”; in tale senso R. Manfrellotti, La moglie di Cesare e l’uomo ragno. Brevi note sulla partecipazione dei magistrati alla competizione politica, in La dis-eguaglianza nello Stato costituzionale, a cura di M. Della Morte, Napoli, 2016, 308.
[20] S. Senese, Magistrati e iscrizione, cit., 9. In senso analogo cfr. anche N. Pignatelli, Il divieto di iscrizione, cit., 34, A. Saitta, Art. 98, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto e M. Olivetti, Torino, 2006, 1921 e L. Carlassare, Amministrazione e potere politico, Padova, 1974, 107.
[21] In realtà vi sono stati alcuni tentativi, il principale dei quali fu quello realizzato dal Governo, nei primi anni Novanta, con l’approvazione del d.lg. n. 141/1991, evidentemente approvato in considerazione della straordinaria necessità e urgenza di tale intervento, intitolato “divieto di iscrizione ai partiti politici per gli appartenenti alle categorie indicate nell’art. 98, comma 3, Cost.”; gli effetti di tale decreto - ove peraltro non erano previste sanzioni in caso di inosservanza del divieto - si esaurirono tuttavia ben presto a causa della non conversione dello stesso da parte del Parlamento.
Qualche anno più tardi, con legge n. 276/1997 si è previsto, all’art. 2, comma 8, che non potevano essere nominati giudici onorari aggregati coloro che ricoprivano o avevano ricoperto, nel triennio precedente alla nomina, “incarichi direttivi o esecutivi nei partiti politici”
[22] Cfr. Corte cost. n. 100/1981, nella quale il Giudice costituzionale, dopo aver riconosciuto che i magistrati “debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino”, precisa che “deve pur ammettersi che le funzioni esercitate e la qualifica da essi rivestita non sono indifferenti e prive di effetto per l’ordinamento costituzionale”.
[23] La Sezione disciplinare aveva qualificato come illecito la partecipazione attiva alla lotta politica (sent. 6 febbraio 1965, proc. n. 43) e, più in generale, quelle manifestazioni di pensiero dalle quali poteva evincersi un’organica appartenenza del magistrato ad una determinata parte politica, ma non aveva sanzionato la pubblica manifestazione di simpatia per un partito nell’imminenza delle elezioni (sent. 18 luglio 1964, proc. n. 83) o la pubblica adesione ad un documento di propaganda elettorale presentato da un partito politico (sent. 3 giugno 2004, proc. n. 16); sul punto cfr. G. Tarli Barbieri, La partecipazione dei magistrati, cit., 76 e 83s. e L. Imarisio, La libertà di espressione dei magistrati, cit., 245ss.
[24] Cfr. Cfr. G. Borrè, Art. 98, comma 3, in Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1994, 452.
[25] Sulla differenza tra il piano disciplinare e quello deontologico sia consentito il rinvio a F. Dal Canto, Lezioni di ordinamento giudiziario, II edizione, Torino, 2020, 288.
[26] Si tratta - come può vedersi - di un indirizzo coerente con l’orientamento più generale, in più occasioni ribadito nella giurisprudenza costituzionale, per il quale i valori dell’indipendenza e dell’imparzialità dei magistrati non sono posti a tutela soltanto dell’ordine giudiziario “riduttivamente inteso come corporazione professionale”, bensì essi “appartengono “alla generalità dei soggetti” e si pongono come “presidio dei diritti dei cittadini” (cfr., tra le altre, Corte cost., sent. n. 497/2000).
[27] Cfr. G. Ferri, I magistrati e la politica: il problema del divieto di iscrizione ai partiti nella sentenza n. 224 del 2009, in Studium iuris, n. 2/2010, 139ss.; in senso adesivo rispetto a questo passaggio della pronuncia costituzionale cfr. invece S. De Nardi, L’art. 98, terzo comma, Cost., riconosce al legislatore la facoltà non solo di “limitare” bensì di “vietare” l’iscrizione dei magistrati a partiti politici (anche se sono collocati fuori ruolo per svolgere un compito tecnico), in Giur.cost., 2009, 5125 ss. e R. Chieppa, Il divieto di attività politica dei magistrati: meglio tardi che mai (ricordi storici delle tesi dell’associazione dei magistrati), ivi, 2009, 2855.
[28] Cfr. L. Imarisio, La libertà di espressione dei magistrati tra responsabilità disciplinare, responsabilità deontologica ed equilibri del sistema informativo, in Magistratura e democrazia italiana: problemi e prospettive, a cura di S. Sicardi, Napoli, 2010, 255s.
[29] N. Bobbio, Quale giustizia, quale legge, quale giudice, in Quale giustizia, 1971, 268.
[30] Cfr., tra le altre, Corte cost., sent. n. 155/1996.
[31] Cfr., per tutti, G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, 1997, 175ss.
[32] Inoltre, le norme poste al servizio della loro tutela non sono pienamente fungibili: l’imparzialità viene salvaguardata attraverso previsioni che impediscono al giudice di decidere questioni riguardanti interessi cui egli, per varie ragioni, è oggettivamente legato, l’apparenza si assicura sanzionando quello stesso giudice quando tiene comportamenti esteriori che possono far dubitare del suo equilibrio e della sua misura. Da notare che, per la giurisprudenza della Corte di cassazione, la circostanza che il magistrato manifesti pubblicamente il proprio orientamento politico non incide, di per sé, sulla sua capacità di decidere con imparzialità, mentre, in casi particolari, esso può certamente influire sulla fiducia dei cittadini nei suoi confronti, segnatamente quando si registrano eccessi o sovraesposizioni; cfr. Cass., sez. VI, sent. n. 3499/2008 e, in dottrina, N. Zanon-F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, V Edizione, Bologna, 2019, 215.
[33] Cfr. per tutti S. Senese, La riforma dell’ordinamento giudiziario, in Contributo al dibattito sull’ordinamento giudiziario, a cura di F. Dal Canto e R. Romboli, Torino, 2004, 25ss.
[34] Tale conclusione, per inciso, poteva trovare una sponda in quell’orientamento dottrinario secondo cui il divieto di iscrizione al partito politico è suscettibile di “graduazioni”, tenendo conto che l’art. 98 Cost. parla di “limitazioni” al diritto di iscrizione. Se è vero, infatti, che è ben difficile immaginare delle graduazioni rispetto al diritto di iscrizione dal punto di vista del singolo magistrato, dal momento che tale diritto o è riconosciuto o non è riconosciuto, è altrettanto vero che tale soluzione sarebbe stata invece praticabile distinguendo tra le diverse categorie di magistrati, ovvero valorizzando le loro differenze di status (in ruolo, fuori ruolo, in aspettativa, ecc.); cfr. F. Biondi, Può un magistrato essere legittimamente eletto con il simbolo di un partito e, nel contempo, essere processato disciplinarmente per essersi iscritto a quel partito? Nota a margine del caso Emiliano, in Forum di Quaderni costituzionali, 10 luglio 2017, 3
[35] Cfr. G. Tarli Barbieri, La partecipazione dei magistrati, cit., 74 e L. Gori, Sull’iscrizione e partecipazione sistematica e continuativa dei magistrati a partiti politici, ovvero sui rapporti perennemente irrisolti fra magistratura e politica, in Giur cost., 2018, 1806.
Pare eccessivo ritenere che l’atto di iscrizione manifesti, di per sé, un’“appartenenza organica” al partito (come ritiene, invece, F. Biondi, La Corte di cassazione chiude il caso Emiliano e sbarra la strada ai magistrati in politica, in corso di pubblicazione in Quaderni costituzionali), ovviamente se con tale espressione si vuole intendere un effettivo coinvolgimento nelle sue attività; le ragioni che oggi muovono coloro che s’iscrivono ad un partito politico sono le più varie, compresa la nostalgia, e non è possibile desumere alcun automatismo tra tale atto formale e l’adesione piena alla linea e, soprattutto, alle prescrizioni di quel partito.
[36] Cfr., di recente, E. Polizzi, L’incandidabilità del magistrato: profili di legittimità costituzionale e questioni di opportunità politica, in Forum di Quaderni costituzionali, 26 marzo 2019, 13 e G. Sobrino, Magistrati “in” politica: dalla Corte costituzionale un forte richiamo all’indipendenza (ed alla sua immagine esteriore), in Forum di Quad. cost., 8 agosto 2018, 6, il quale in proposito osserva, da una diversa prospettiva, che la contraddittorietà insita nella legislazione vigente finisce in realtà per “marginalizzare” ulteriormente il ruolo dei partiti politici nel sistema costituzionale.
[37] S. Curreri, Magistrati e politica: un equilibrio quasi impossibile, in lacostituzione.info, 2018, 2ss.
[38] Cfr. N. Pignatelli, Il divieto di iscrizione, cit., 347s., G. E. Polizzi, Il “caso Emiliano”. I nodi ancora irrisolti del divieto di iscrizione ai partiti politici dopo la sentenza n. 170/2018, in Osservatorio costituzionale, n. 3/2018, 62 e L. Pepino, Costituzione, giustizia, giudici, in Questione giustizia, 2008, 230.
[39] Malgrado una questione sostanzialmente identica fosse già stata sollevata dalla Sezione disciplinare nel corso del medesimo giudizio, e dichiarata infondata proprio con richiamata la sent. n. 170/2018, le Sezioni Unite ritengono, condivisibilmente, che tale precedente non possa costituire una preclusione alla riproposizione, atteso che le due questioni non erano esattamente sovrapponibili con riguardo sia ai parametri di costituzionalità sia alle argomentazioni poste a fondamento della denunciata incostituzionalità.
[40] Cfr. F. Biondi, La Corte di cassazione chiude il caso Emiliano, cit., 2, che giustamente osserva come la Corte di cassazione non utilizzi tale discrezionalità, “imponendo al magistrato che eserciti il diritto garantito dall’art. 51 Cost. la stessa neutralità che è richiesta al magistrato in ruolo”.
[41] Cfr. G. Ferri, I magistrati e la politica, cit., 147.
[42] Sebbene il problema coinvolga anche questi, si omette in questa sede di richiamare la disciplina riguardante sia gli incarichi politico-elettivi negli enti territoriali sia quelli di natura politico-governativa non elettivi….. (ARU)
[43] In tale senso, di recente, L. Longhi, Il divieto di iscrizione a partiti politici per i magistrati collocati fuori ruolo per motivi elettorali, in Osservatorio costituzionale, n. 3/2018, 47.
[44] Del resto, la stessa Corte costituzionale, nella citata sent. n. 224/2009, ha avuto modo di sottolineare che il diritto di elettorato passivo, ex art. 51, comma 1, Cost., “non è senza limitazioni”.
[45] Il citato art. 8 del d.P.R. n. 361/1957, come modificato con legge n. 13/1997, si applica alle elezioni del Senato in forza dell’art. 5 del d.lgs. n. 533/1993 e alle elezioni al Parlamento europeo ai sensi dell’art. 51 della legge n. 18/1979.
Sul fronte delle cariche elettive negli enti territoriali, pur tenendo conto che ai sensi dell’art. 122, comma 1, Cost. le cause di ineleggibilità e incompatibilità dei Presidenti di regione, assessori e consiglieri sono disciplinate con legge regionale, nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge statale, si richiamano le seguenti disposizioni: a) art. 2 della legge n. 165/2004, che prevede che le leggi regionali debbano stabilire una causa di ineleggibilità qualora le attività e le funzioni svolte dal candidato “possano turbare o condizionare in modo diretto la libera decisione di voto degli elettori”; b) art. 2, comma 1, della legge n. 154/1981 - disposizione che si applica in assenza di una disciplina regionale e alla quale, in ogni caso, rinviano numerose leggi regionali approvate - ove si stabilisce che non sono eleggibili alla carica di consigliere regionale, limitatamente al territorio nel quale esercitano le loro funzioni, i magistrati addetti alle corti d’appello, ai tribunali, alle preture ed ai tribunali amministrativi regionali; c) art. 60 del d.lgs. n. 267/2000, laddove si stabilisce che sono ineleggibili a sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, consigliere metropolitano, provinciale e circoscrizionale, “nel territorio nel quale esercitano le loro funzioni, i magistrati addetti alle corti di appello, ai tribunali, ai tribunali amministrativi regionali, nonché i giudici di pace”.
[46] Si dubita, innanzi tutto, che sia applicabile ai magistrati l’art. 68 del d.lgs. n. 165/2001, che impone a tutti i “i dipendenti delle pubbliche amministrazioni” il collocamento in aspettativa senza assegni per la durata del mandato se eletti al Parlamento nazionale, al Parlamento europeo e nei Consigli regionali.
Inoltre, l’art. 81 del d.lgs. n. 267/2000 stabilisce la possibilità, per tutti i “lavoratori dipendenti” che siano stati eletti “sindaci, presidenti delle province, presidenti dei consigli comunali e provinciali, presidenti dei consigli circoscrizionali dei comuni di cui all’articolo 22, comma 1, presidenti delle comunità montane e delle unioni di comuni, nonché membri delle giunte di comuni e province”, di chiedere l’aspettativa non retribuita per tutto il periodo di espletamento del mandato.
[47] La Corte costituzionale, con sent. n. 172/1982, nel dichiarare infondata la questione di costituzionalità di tale disposizione in relazione all’art. 51 Cost., ha precisato che “non può ritenersi arbitraria e irrazionale una norma che vieta al magistrato di esercitare le funzioni giurisdizionali nella medesima circoscrizione in cui, avendovi svolto una campagna elettorale, ha verosimilmente potuto contrarre, secondo l’id quod plerumque accidit, rapporti della più diversa natura (di amicizia, di contrapposizione, di riconoscenza, di risentimento, ecc.), rapporti che potrebbero far apparire dubbia la correttezza delle sue decisioni”.
[48] Nessuna norma, come si è visto, impedisce al magistrato, candidato alle elezioni e non eletto, di tornare immediatamente ad esercitare la funzione giurisdizionale nel suo vecchio ufficio; né è prevista l’aspettativa obbligatoria per le cariche politiche presso gli enti territoriali (sindaco, presidente di provincia o regione, consigliere comunale, provinciale o regionale); né, ancora, è stabilito alcunché, a livello di normazione primaria, per il rientro in ruolo dei magistrati che hanno partecipato alle elezioni negli enti territoriali.
[49] Il C.S.M., a dire il vero, è intervenuto in più occasioni, con una serie di circolari, a colmare le carenze della normativa di rango primario, ma ciò, ovviamente, non fa venire meno l’esigenza di un intervento legislativo, anche in considerazione della riserva di legge posta dall’art. 108, comma 1, Cost. Sul c.d. potere para-normativo del C.S.M. e sulle problematiche collegate al suo esercizio, cfr. F. Dal Canto, Lezioni di ordinamento giudiziario, cit., 66ss.
[50] In questo senso, di recente, G. E. Polizzi, Il “caso Emiliano”, cit. 63, che auspica anche l’introduzione, per via legislativa, di un obbligo per il magistrato di dichiarare pubblicamente l’eventuale iscrizione.
[51] Cfr. G. Tarli Barbieri, La partecipazione dei magistrati, cit., 80.
[52] Si noti, a tale proposito, che le cause di ineleggibilità del magistrato rispondono in linea di massima ad una duplice esigenza: da un lato quella, tradizionale, di impedire fenomeni di captatio benevolentiae o di metus publicae potestatis, che possano incidere sulla libertà del voto degli elettori, dall’altro quella di assicurare il buon andamento della stessa funzione giurisdizionale. In argomento cfr. F. Rigano, L’elezione dei magistrati al Parlamento, in Giur.it., 1985, IV, 27ss. e N. Lupo-G. Rivosecchi, La disciplina di ineleggibilità e incompatibilità a livello europeo, nazionale e locale, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 15s.
[53] Cfr. G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, 1997, 149s.
[54] Si tratta di un’opinione piuttosto diffusa anche tra i magistrati. In dottrina, per tutti, cfr. G. M. Flick, Magistratura, incarichi extragiudiziari e politica, in Rivista AIC, n. 1/2016, 4.
[55] Cfr. G. Legnini, Csm approva stretta su magistrati in politica. Legnini: «Parola chiara dopo 70 anni», in Ilsole24ore, 21 ottobre, 2015.
[56] Cfr. Corte cost., sent. n. 172/1982, ove si precisa che la formula “conservare il posto” significa “mantenere il rapporto di lavoro o di impiego, ma non già continuare nell’esercizio delle funzioni espletate dall’impiegato interessato”.
[57] Cfr., tra gli altri, G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1991, 1ss., M. Dogliani, La formazione dei magistrati, in Magistratura, CSM e principi costituzionali, a cura di B. Caravita, Roma-Bari, 1994, 140 e R. Romboli, Il ruolo del giudici in rapporto all’evoluzione del sistema delle fonti ed alla disciplina dell’ordinamento giudiziario, in Quaderni dell’Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, Torino, 2006, 1ss.
Giustizia Insieme invita:
Webinar Amicus Curiae 2020 - “Il fine e la fine della pena. Sull’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale”
Giustizia Insieme, nel perpetuare il fecondo rapporto di collaborazione con i promotori di Amicus Curiae - Nuovi Seminari Preventivi Ferraresi, e condividendo un vivo interesse per le tematiche poste sul tavolo dalla quaestio che, anche quest’anno, il gruppo di costituzionalisti del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Ateneo estense ha selezionato, è lieta di invitare i propri lettori a partecipare all’appuntamento seminariale annuale, dal titolo “Il fine e la fine della pena. Sull’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale”, che si terrà nelle ormai note forme del webinar, in data 25 settembre 2020, ore 10:00.
A costituire il core dell’incontro, con il consueto taglio interdisciplinare, è la questione rimessa alla Corte Costituzionale con la recentissima ordinanza pronunciata dalla Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione (ord. 3-18 giugno 2020, Pres. Mazzei, est. Santalucia), nuovamente in tema di ergastolo ostativo. Un argomento certamente “caldo”.
Il dibattito si pone in linea di continuità con l’Amicus Curiae 2019, dal volutamente provocatorio – ma quanto mai efficace – titolo “Tutta la vita dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti”, riprendendo, quindi, un discorso evidentemente in fieri e che necessita ancora di altri tasselli.
Di seguito il programma del webinar e il link del sito Amicuscuriae, collegandosi al quale sarà possibile iscriversi all'evento complinado l'apposito form, al fine di ricevere successiva comunicazione delle credenziali per poter partecipare all’incontro sulla piattaforma virtuale.
http://www.amicuscuriae.it
Contraddittorio endoprocedimentale e obbligo di invito ex d.l. Crescita[1]
di Pierpaolo Gori
Sommario: 1. Il diritto al rispetto del contraddittorio endoprocedimentale tributario: ambito di applicazione - 2. Il termine dilatorio del 7°comma, art.12 legge 27 luglio del 2000 n.212 (Statuto del contribuente) e il suo assestamento nella giurisprudenza della Corte di Cassazione - 3. Corte di Giustizia e ricostruzione del “right to be heard” quale diritto fondamentale: sua rilevanza nei tributi armonizzati - 4. Sviluppi recenti eurounitari sul diritto di difesa e di accesso al fascicolo - 5. Coordinamento dal 1° luglio 2020 tra “invito obbligatorio” al contraddittorio ex art.5 ter del d.lgs. n. 218/1997 e art.12 7°comma dello Statuto.
1. Il diritto al rispetto del contraddittorio endoprocedimentale tributario: ambito di applicazione
Il diritto al contraddittorio endoprocedimentale tributario è stato ricostruito da una parte della dottrina italiana[2] come un diritto immanente nel nostro sistema, ricavabile da numerose anche se circoscritte disposizioni che lo disciplinano, un’interpretazione che ha avuto limitati seguiti nella giurisprudenza di legittimità sino ad ora.[3] La giurisprudenza consolidata è nel senso contrario, ossia che esso opera solo ove la legge espressamente lo preveda.[4]
Tra le più importanti disposizioni che disciplinano specifiche tipologie di contraddittorio anteriore alla notifica dell’avviso di accertamento vi sono l’art.38, comma 7, del d.P.R. n.600 del 1973 sugli accertamenti sintetici[5], l’art.10, comma 3 bis della legge n.146 del 1998 in riferimento agli studi di settore[6], l’art.9 bis comma 16 del d.l. 24 aprile 2017 n.50 per gli accertamenti sintetici ai fini delle imposte sui redditi, IRAP e IVA ex artt.39 del d.P.R. n.600 del 1973 e 55 del d.P.R. n.633 del 1972[7].
Ancora, a titolo di esempio di specifica disciplina del contraddittorio endoprocedimentale, vi è il caso degli avvisi di rettifica in materia doganale precedenti all'entrata in vigore del d.l. n. 1 del 2012,[8] per i quali opera lo ius speciale di cui all'art. 11 del d.lgs. n. 374 del 1990 circa la contestazione di fattispecie abusive;[9] in tema di accertamenti condotti dall'OLAF, il rispetto del contraddittorio endoprocedimentale è disciplinato per le “indagini interne” dall'art. 9, par. 4, del reg. n. 883 del 2013;[10] in tema di riscossione coattiva delle imposte, l'Amministrazione finanziaria prima di iscrivere l'ipoteca su beni immobili ai sensi dell'art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1972, deve comunicare al contribuente che procederà alla suddetta iscrizione, concedendo al medesimo un termine per l'attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, a pena di nullità dell’iscrizione ipotecaria.[11]
Almeno sino al 1° luglio 2020 e al dispiegarsi dell’efficacia dell’obbligo di invito al contraddittorio nell’ambito del procedimento di accertamento con adesione, su cui si opererà una riflessione infra all’ultimo paragrafo del presente scritto, la previsione più “generale” contenuta nel nostro ordinamento è certamente quella dall’art.12 dello Statuto del contribuente, la quale trova applicazione ogni qual volta occorra il caso di accesso, ispezione o verifica nei locali aziendali finalizzato all’emissione di un avviso di accertamento.[12]
Il cuore della tutela contenuta nella previsione da ultimo citata è racchiusa nel settimo comma, che ha passato indenne ben tre volte il vaglio di costituzionalità, censurato da questioni sempre dichiarate inammissibili,[13] il quale fissa in 60 giorni il termine dilatorio per consentire al contribuente di eventualmente contraddire.
Il contribuente può così sottoporre «osservazioni e richieste» all’Amministrazione tempestivamente e la violazione del termine - salvo casi di particolare e motivata urgenza[14] - determina la nullità del provvedimento dell'Amministrazione finanziaria, con cui è stato disposto ante tempus il recupero ad imposta.[15]
La decorrenza inizia dal rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, nozione da intendersi in senso lato indipendentemente dal loro contenuto e definizione formale, ed è sufficiente anche un verbale meramente istruttorio e descrittivo a tal fine.[16]
2. Il termine dilatorio del 7°comma, art.12 legge 27 luglio del 2000 n.212 (Statuto del contribuente) e il suo assestamento nella giurisprudenza della Corte di Cassazione
Nella cospicua giurisprudenza della S.C. in materia di contraddittorio endoprocedimentale, sono due le sentenze che costituiscono il punto di riferimento ermeneutico della previsione, sia in quanto rese dalle Sezioni unite, sia in quanto non successivamente superate.
Con una prima decisione, la 29 luglio 2013 n. 18184, le Sez. unite hanno statuito che con riferimento ai diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, il mancato rispetto del termine di 60 giorni determina di per sé l’illegittimità dell’avviso:[17] «Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell'atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l'emissione anticipata, bensì nell'effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall'ufficio».
Ulteriore chiave interpretativa è stata poi fornita per i controlli c.d. a tavolino dalla sentenza 9 dicembre 2015 n. 24823, secondo la quale: «In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, non sussiste per l'Amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg ed Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. "a tavolino"».
La medesima decisione ha inoltre sancito la necessità di operare, per i tributi armonizzati, una "prova di resistenza" ai fini della valutazione del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, in determinati casi.[18]
Di queste due autorevoli interpretazioni la Corte di cassazione a sezioni semplici non ha fatto sempre applicazione omogenea. Secondo una prima interpretazione dell'art. 12 comma 7 dello Statuto, il diritto nazionale riserverebbe ai tributi armonizzati una protezione inferiore a quella assicurata ai tributi non armonizzati. Ciò sarebbe dovuto al fatto che, per questi ultimi, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica, il mancato rispetto del termine di 60 giorni determinerebbe necessariamente la nullità del provvedimento per violazione del contraddittorio endoprocedimentale. Al contrario, per gli armonizzati, questo effetto conseguirebbe solo eventualmente, all'esito della necessaria valutazione da parte del giudice della c.d. prova di resistenza.[19]
Diversa è la posizione espressa da altre pronunce, tra le quali si distingue l'ordinanza Cass. 17 gennaio 2017 n. 1007, secondo cui in caso di «accesso, ancorché finalizzato ad un’acquisizione documentale immediata, comunque la c.d. "prova di non resistenza" non può trovare ingresso in virtù della obbligatorietà generalizzata del contraddittorio preventivo sancito per legge dall'art. 12, comma 7, I. 212/2000».
Più di recente, la Corte ha valorizzato il fatto che non vi è alcun contrasto tra le due decisioni delle Sezioni unite, in particolare in merito all’operatività della prova di resistenza, pienamente compatibili con il diritto eurounitario, in quanto nelle ipotesi di accesso, ispezione o verifica nei locali aziendali, opera una valutazione ex ante in merito alla necessità del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, sanzionando con la nullità l'atto impositivo emesso ante tempus, anche nell'ipotesi di tributi “armonizzati”. Non vi è dunque alcuna necessità di prova di “resistenza", la quale invece deve essere compiuta dal giudice, per i tributi "armonizzati", ove la normativa interna non preveda l'obbligo del contraddittorio con il contribuente nella fase amministrativa, come nel caso di accertamenti cd. a tavolino.[20] Tale orientamento, frutto di un confronto nomofilattico interno al gruppo IVA e dogane della Sezione Tributaria della Corte, ha ricevuto significativi consensi in dottrina[21] ed appare in via di consolidamento.[22]
3. Corte di Giustizia e ricostruzione del “right to be heard” quale diritto fondamentale: sua rilevanza nei tributi armonizzati
L’art.47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (la Carta) eleva a diritto fondamentale il right to be heard nell’ambito del giusto processo già nella fase amministrativa procedimentale, a differenza della corrispondente disciplina CEDU applicabile alla materia tributaria, in particolare gli articoli 13 e 5 della Convenzione sui diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il cui ambito di applicazione è limitato al processo.[23]
La Carta invece tutela espressamente il diritto al contraddittorio in modo ampio, non solo in sede di processo giurisdizionale, all'art. 47,[24] nel contesto del rispetto del diritto ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale, ma anche nella fase anteriore del procedimento amministrativo. Infatti, l'art. 41 della Carta, rubricato "diritto ad una buona amministrazione", al § 2, lettera a), consacra «il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio».
La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha applicato il diritto al contraddittorio, coerentemente con la sua natura di diritto fondamentale, affrontando anche il caso in cui il diritto comunitario non disciplini espressamente le modalità di esercizio di tale fondamentale diritto di difesa.
Una prima decisione fondamentale a riguardo è la sentenza Kamino[25] che individua i corni della questione nei duplici principi di equivalenza e di effettività.[26] Tuttavia, essa è resa in relazione alla disciplina olandese che al tempo non prevedeva ai fini del contraddittorio un termine, ed ha affermato in tal caso la necessità di una "prova di resistenza", secondo un pragmatico canone che ricorre spesso nella giurisprudenza unionale. Infatti, la violazione del principio del rispetto dei diritti della difesa «comporta l'annullamento della decisione di cui trattasi soltanto quando, senza tale violazione, il procedimento avrebbe potuto condurre ad un risultato differente».[27]
Più simile alla previsione del termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, dello Statuto del contribuente, è la disciplina nazionale portoghese, la quale ha originato il rinvio pregiudiziale deciso dalla sentenza Sopropé.[28] In quel caso, il diritto interno prevedeva un termine per osservazioni, e si discuteva in particolare della congruità del termine per il contraddittorio, compreso in una forbice tra 8 e 15 giorni, e la Corte di Giustizia chiarisce le condizioni alle quali il diritto nazionale possa essere ritenuto rispettoso del diritto comunitario, nel disciplinare condizioni ed effetti del contraddittorio endoprocedimentale, un obbligo che incombe sugli Stati membri quando vengono adottate decisioni che rientrano nella sfera d'applicazione del diritto comunitario, quand'anche la normativa comunitaria applicabile non preveda espressamente siffatta formalità.
In tale ultimo caso, è richiesto che «da un lato, siano dello stesso genere di quelli di cui beneficiano i singoli o le imprese in situazioni di diritto nazionale comparabili, e, dall'altro, non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti della difesa conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario.».[29] L'insegnamento è riaffermato anche di recente da diverse ulteriori decisioni della Corte.[30]
Particolare importanza, per la sua valenza riassuntiva dei principi giurisprudenziali precedentemente espressi in materia di contraddittorio endoprocedimentale in applicazione della Carta dei diritti fondamentali, è la sentenza della Corte del Lussemburgo Ispas, la quale ha affermato che, in mancanza di una disciplina specifica del diritto unionale in materia di garanzie procedimentali, spetta all'ordinamento giuridico interno degli Stati membri, in virtù del principio di autonomia di cui ciascuno di essi dispone in tale materia, stabilire le modalità procedurali intese a garantire la tutela dei diritti riconosciuti ai contribuenti in forza dei principi generali del diritto dell'Unione, primo tra tutti il diritto di difesa, nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività.[31] Tuttavia, il principio del rispetto dei diritti della difesa non è una prerogativa assoluta, ma può soggiacere a restrizioni, a condizione che queste rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti.[32]
4. Sviluppi recenti eurounitari sul diritto di difesa e di accesso al fascicolo
Tra i recenti sviluppi giurisprudenziali in materia di rispetto del principio di parità delle armi in fase procedimentale, particolare attenzione merita la sentenza della Corte di Giustizia Glencore.[33] La società lamentava che l’amministrazione finanziaria avesse violato il suo diritto a un processo equo garantito dall’articolo 47[34] della Carta, il principio della parità delle armi e il rispetto dei diritti della difesa ad un duplice titolo. Da un lato, solamente l’amministrazione avrebbe avuto accesso all’intero fascicolo relativo ad un processo penale in cui erano implicati determinati fornitori e cui la società non aveva accesso non essendo parte processuale, nel quale elementi di prova sarebbero stati raccolti e utilizzati contro la contribuente. D’altro canto, l’amministrazione non avrebbe messo a disposizione della stessa il fascicolo relativo ai controlli effettuati presso i fornitori, in particolare i documenti fondanti le contestazioni, né il processo verbale, e neppure le decisioni amministrative da essa adottate, limitandosi a comunicargliene una parte secondo un criterio discrezionale.[35]
I giudici del Lussemburgo hanno osservato che il destinatario di una decisione che arreca pregiudizio deve essere messo in condizione di far valere le proprie osservazioni prima che la stessa sia adottata, affinché l’autorità competente sia messa nelle condizioni di tenere utilmente conto di tutti gli elementi pertinenti e che, eventualmente, tale destinatario possa correggere un errore e far valere utilmente gli elementi rilevanti per la propria posizione, l’accesso al fascicolo deve essere autorizzato nel corso della fase endoprocedimentale. Quindi, una violazione del diritto di accesso al fascicolo intervenuta durante tale fase non è sanata dal semplice fatto che l’accesso a quest’ultimo è poi stato reso possibile nel corso del procedimento giurisdizionale in forza di un eventuale ricorso diretto ad impugnare il provvedimento adottato.[36]
Da ultimo, il 4 giugno 2020 è intervenuta in materia di rispetto dei diritti della difesa (right to be heard) e di accesso al fascicolo amministrativo un’altra importante pronuncia, la SCCF,[37] la quale in misura considerevole richiama i principi giurisprudenziali fissati dalla Glencore.
Tale giurisprudenza non ha ancora trovato applicazione da parte della Corte di cassazione.
5. Coordinamento dal 1° luglio 2020 tra “invito obbligatorio” al contraddittorio ex art.5 ter del d.lgs. n. 218/1997 e art.12 7°comma dello Statuto
Alla luce del quadro sopra delineato, si può infine valutare quale sia l’impatto sul contraddittorio endoprocedimentale dell’obbligo di invito al contraddittorio introdotto dall’art. 5-ter del d.lgs. n. 218/1997,[38] il quale si applica agli avvisi di accertamento emessi dal 1° luglio 2020[39] e la cui formulazione non ha mancato di incontrare penetranti critiche in dottrina.[40] L'accertamento può ben essere definito con adesione del contribuente ai sensi del d.lgs. n.218 del 1997 e, nell’accertamento con adesione, l’ufficio valuta gli elementi forniti dal contribuente al fine di determinare compiutamente la pretesa tributaria.[41]
Orbene, la previsione dell’art. 5-ter ha introdotto, in determinate ipotesi, l’obbligo di notificare al contribuente, prima dell’emissione di un avviso di accertamento ai fini delle imposte dirette e dell’imposta sul valore aggiunto, un invito di cui all’articolo 5, comma 1, del medesimo decreto al fine di avviare il procedimento di accertamento con adesione, a scopo deflattivo.[42] L’art. 5-ter è applicabile esclusivamente in relazione alle imposte sui redditi, contributi previdenziali ritenute e sostitutive, imposta regionale sulle attività produttive (IRAP), imposta sul valore degli immobili all’estero (IVIE), imposta sul valore delle attività finanziarie all’estero (IVAF), IVA. Non trova perciò applicazione per i tributi indiretti residuali e per i tributi locali.
La sanzione per il mancato rispetto dell’invito obbligatorio è l’invalidità dell’atto impositivo, ma non automatica, bensì previa dimostrazione avanti al giudice della “prova di resistenza”, come elaborata dalla giurisprudenza eurounitaria e dalla giurisprudenza della Corte di cassazione di cui si è supra dato conto. Si tratta di un’innovazione di rilievo, in quanto la prova di resistenza viene ora accolta anche dal legislatore come strumento di logica interna del sistema.
L’introduzione dell’ “invito obbligatorio” non comporta in ogni caso l’affermazione di un generale obbligo di contraddittorio endoprocedimentale nel nostro ordinamento, come si evince sin dalla lettura delle prime righe della disposizione, che esclude dalla propria applicazione i «casi in cui sia stata rilasciata copia del processo verbale di chiusura delle operazioni», con evidente riferimento alla previsione dell’art.12 7°comma dello Statuto. Inoltre, sono esclusi dal campo di applicazione i casi degli accertamenti parziali per le imposte dirette e per l’IVA basati su elementi “certi e diretti”, situazioni che in concreto occorrono sovente.
La mancanza di universalismo è d’altro canto confermata anche dall’ultimo comma dell’art.5-ter, il quale espressamente prevede che «Restano ferme le disposizioni che prevedono la partecipazione del contribuente prima dell'emissione di un avviso di accertamento.». Il fatto che siano escluse le altre ipotesi già espressamente previste dalla legge ai fini della partecipazione al contraddittorio endoprocedimentale, perpetua un gioco di incastri secondo deroga da parte della legge speciale a quella generale. Il quadro che ne risulta appare frammentario e, se è vero che in astratto l’obbligo di invito al contraddittorio sostanzialmente completa la tutela al Right to be heard in sede procedimentale, d’altro canto contribuisce ad aumentare l’entropia del sistema e porrà verosimilmente una questione di coordinamento con le previsioni esistenti in materia non sempre facilmente risolvibile alla luce del criterio di specialità.
Al di fuori del tracciato perimetro, continua ad applicarsi il più generale (o “speciale intermedio”) art.12 comma 7 dello Statuto, attraverso i criteri giurisprudenziali fissati dalla Cassazione. La conseguenza invalidante del mancato rispetto del contraddittorio endoprocedimentale si produce, nella triplice ipotesi di accesso ispezione e verifica e senza distinzione tra tributi armonizzati e non, ex se per effetto del mancato rispetto del termine, senza che il contribuente debba fornire altra prova, mentre per i tributi armonizzati, al di fuori della triplice ipotesi, è necessario “vestire” la doglianza in ricorso con la deduzione di non aver potuto far valere ragioni sostanziali nell’ambito del procedimento, supportandola attraverso elementi di prova adeguati, anche solo presuntivi.
[1] Il presente contributo è una rielaborazione dell’intervento al webinar organizzato il 29 giugno 2020 da Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, Consorzio universitario di Ragusa, Camera Tributaria, Consiglio Nazionale Forense sul tema “Dal contraddittorio endoprocedimentale preventivo alla notifica dell’avviso di accertamento”. L’obbligo di invito al contraddittorio introdotto dall’art.4-octies del d.l. 30 aprile 2019, n. 34 (decreto c.d. crescita), convertito con modificazioni dalla legge 28 giugno 2019, n. 58, si applica agli avvisi di accertamento emessi successivamente al 1° luglio 2020.
[2] Interessanti riflessioni sulla questione sono svolte, tra altri Autori, da F. Tundo, Diritto al contraddittorio endoprocedimentale anche in assenza di previsione normativa, GT-Rivista di Giurisprudenza Tributaria, 12/2014, pag. 937 ss.; M. Beghin, L’obbligo della previa consegna del processo verbale di constatazione e il problema delle ‘leggi-fantasma’, Corriere Tributario, n. 3/2014, pag. 167 ss.; R. Iaia, Il contraddittorio anteriore al provvedimento amministrativo tributario nell'ordinamento dell'unione europea. riflessi nel diritto nazionale, Dir. e Prat. Trib., 1/2016, 10055.
[3] Di questa posizione vi è eco anche in una non recente sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, la n. 19667 del 18/09/2014 secondo la quale l'omessa attivazione del contraddittorio endoprocedimentale comporta la nullità dell'iscrizione ipotecaria per violazione del diritto alla partecipazione al procedimento, garantito anche dagli artt. 41, 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali della Unione europea, interpretazione ormai non più diritto vivente, v. infra.
[4] L. Tricomi, Accertamento e contraddittorio endoprocedimentale, Libro dell’anno del Diritto 2017, su Treccani on line, ultimo accesso 28 giugno 2020; B. Virgilio, Contraddittorio e giusto procedimento, in Libro dell’anno del Diritto 2015, ibidem; A. M. Perrino, Tributi in genere, tributi non armonizzati, avviso di accertamento, in Foro it., 2016, 103.
[5] «L'ufficio che procede alla determinazione sintetica del reddito complessivo ha l'obbligo di invitare il contribuente a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento (…)».
[6] «3-bis. Nelle ipotesi di cui al comma 1 l'ufficio, prima della notifica dell'avviso di accertamento, invita il contribuente a comparire, ai sensi dell'articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218.».
[7] «(…) L’Agenzia delle entrate, prima della contestazione della violazione, mette a disposizione del contribuente, con le modalità di cui all'articolo 1, commi da 634 a 636, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, le informazioni in proprio possesso, invitando lo stesso ad eseguire la comunicazione dei dati o a correggere spontaneamente gli errori commessi. (…)».
[8] Conv., con modif., in l. n. 27 del 2012. Nella fattispecie dunque non si applica l'art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, “legge generale” (Cass. Sez. 5 - , Ordinanza n. 2175 del 25/01/2019).
[9] In materia di accise, fino all'entrata in vigore del d.l. n. 193 del 2016, conv., con modif., in l. n. 225 del 2016, non trova applicazione il termine dilatorio di cui all'art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000, bensì l'art. 11, comma 4-bis, del d.lgs. n. 374 del 1990 concernente gli accertamenti e le verifiche aventi ad oggetto diritti doganali, la cui disciplina è assimilata a quella delle accise stante l'espresso rinvio contenuto nell'art. 19, comma 4, del d.lgs. n. 504 del 1995. Per l’effetto, è stato statuito che in caso di violazione dell'obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, ai fini della nullità dell'atto impositivo emesso "ante tempus", non è necessario che il giudice proceda alla cd. prova di “resistenza" (Cass. Sez. 5 - , Sentenza n. 28344 del 05/11/2019).
[10] Esso è assicurato solo per le informazioni trasmesse agli Stati membri nel corso di indagini interne allorché vi sia il riferimento nominativo ad una persona interessata, ovvero per l'atto di chiusura delle indagini recante tale riferimento soggettivo, Cass Sez. 5 - , Ordinanza n. 28359 del 05/11/2019.
[11] Nella formulazione vigente "ratione temporis” dell'art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1972, Cass. Sez. 5 - , Sentenza n. 5577 del 26/02/2019.
[12] Quanto alle cartelle di pagamento, è necessario distinguere. La notifica della cartella di pagamento a seguito di controllo automatizzato è legittima anche se non preceduta dalla comunicazione del c.d. "avviso bonario" ex art. 36 bis, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, nel caso in cui non vengano riscontrate irregolarità nella dichiarazione; nè il contraddittorio endoprocedimentale è invariabilmente imposto dall'art. 6, comma 5, l. n. 212 del 2000, il quale lo prevede soltanto quando sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, situazione, quest'ultima, che non ricorre necessariamente nei casi soggetti al citato art. 36 bis, che implica un controllo di tipo documentale sui dati contabili direttamente riportati in dichiarazione, senza margini di tipo interpretativo. (Cass. Sez. 5 - , Ordinanza n. 33344 del 17/12/2019).
[13] Corte costituzionale, ord. 16 - 24 luglio 2009, n. 244, in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost.; ord. 5 - 13 luglio 2017, nn. 187 e 188 in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 111 e 117, primo comma Cost..
[14] Che non possono identificarsi nell'imminente spirare del termine di decadenza in cui incorrerebbe l’Amministrazione, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2592 del 05/02/2014 (Rv. 629300 - 01).
[15] Art.12, comma 7, legge 27 luglio 2000, n. 212, ultimo lemma: «Per gli accertamenti e le verifiche aventi ad oggetto i diritti doganali di cui all'articolo 34 del testo Unico delle disposizioni legislative in materia doganale approvato con del decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, si applicano le disposizioni dell'articolo 11 del decreto legislativo 8 novembre 1990, n. 374».
[16] «Il termine dilatorio di cui all'art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000 decorre da tutte le possibili tipologie di verbali che concludono le operazioni di accesso, verifica o ispezione, indipendentemente dal loro contenuto e denominazione formale, essendo finalizzato a garantire il contraddittorio anche a seguito di un verbale meramente istruttorio e descrittivo.» (Cass. Sez. 5 - , Ordinanza n. 1497 del 23/01/2020, Rv. 656674 - 01)
[17] Ciò in quanto il diritto al contraddittorio «costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva.», Cass. Sez. unite 29 luglio 2013 n. 18184.
[18] «In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l'Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l'invalidità dell'atto purché il contribuente abbia assolto all'onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un'opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi "armonizzati", mentre, per quelli "non armonizzati", non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito», Cass. Sez. unite 9 dicembre 2015 n. 24823.
[19] Cass. 25 gennaio 2017 n. 1969.
[20] Cass. Sez. 5 - , Sentenza n. 701 del 15/01/2019 (Rv. 652456 - 01). Il contenuto della prova di resistenza non è tipizzato dalla giurisprudenza della Corte, ma è certo che deve essere una valutazione "ex post" sul rispetto del contraddittorio sulla base di allegazioni del contribuente vestite di elementi di prova anche solo presuntivi, cfr. G. Palumbo, Senza una vera “prova di resistenza” il mancato dialogo non “mina” l’atto, in Fiscooggi on line, 2020, ultimo accesso 28 giugno 2020.
[21] F. Tundo, Contraddittorio: la Cassazione recupera la funzione nomofilattica e supera la ‘‘riforma’’ in itinere, Corriere Trib., 7/2019: «La sentenza della Corte di cassazione n. 701/2019 costituisce un elemento di rilevante novita`. Con essa la Suprema Corte riesce, con uno sforzo particolarmente apprezzabile, a ricomporre i divergenti orientamenti che si sono succeduti dal 2013 in poi, restituendo una prospettiva unitaria alle prerogative del contribuente in corso di procedimento e segna l’avvio di un nuovo indirizzo giurisprudenziale.»; L. Ferrajoli, Il contraddittorio negli accertamenti tributari, EuroconferenceNews, 2019; A. Colli Vignarelli, La Cassazione torna a pronunciarsi in tema di violazione del contraddittorio endoprocedimentale in assenza di motivi di urgenza, Riv. Dir. Trib., 2019; F. Di Marcantonio, Fisco, Omesso contraddittorio con il contribuente: quando occorre la prova di resistenza, nota a Cass. n.701/2019, in www.altalex.com, ultimo accesso 28 giugno 2020.
[22] Conforme Sez. 5 - , Sentenza n. 22644 del 11/09/2019 (Rv. 655048 - 01).
[23] Sentenza 23 novembre 2006, Jussila c Finlandia, CE:ECHR:2006:1123JUD007305301, par. 41; M. Glendi, Giusto processo e diritto tributario europeo: la prova testimoniale nell’applicazione della Cedu (il caso «Jussila»), Rass. trib., 2007, pag. 208 e ss..
[24] Il primo comma dell’art.47 della Carta si basa sull'articolo 13 della CEDU, il secondo comma corrisponde all'articolo 6, paragrafo 1 della Convenzione, cfr. Spiegazioni relative alla Carta dei Diritti Fondamentali (2007/C 303/02).
[25] CGUE 3 luglio 2014, C-129 e 130/13, Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Worldwide Logistics BV contro Staatssecretaris van Financién, ECLI:EU:C:2014:2041, § 75.
[26] Quando né le condizioni in cui dev’essere garantito il rispetto dei diritti della difesa né le conseguenze della violazione di tali diritti sono stabilite dal diritto dell’Unione, tali condizioni e conseguenze rientrano nella sfera del diritto nazionale, purché le misure adottate in tal senso siano dello stesso tipo di quelle di cui beneficiano le persone in situazioni di diritto nazionale comparabili (principio di equivalenza) e non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività).
[27] CGUE, ibidem, § 80.
[28] CGUE il 18 dicembre 2008, nella causa C-349/07, Sopropé - Organizagtes de Calgado Lda contro Fazenda Pública, ECLI:EU:C:2008:746.
[29] CGUE, Ibid., § 38.
[30] CGUE 8 marzo 2017, C-14/16, Euro Park Service, ECLI:EU:C:2017:177, § 36, in materia di rimborsi; CGUE 20 dicembre 2017, C-276/16, Preqù Italia srl, ECLI:EU:C:2017:1010, § 45 sul diritto al contraddittorio in materia doganale
[31] CGUE 9 novembre 2017, C-298/16, Ispas, ECLI:EU:C:2017:843, §§ 26, 28 e 29 e ss..
[32] CGUE, ibid. § 35.
[33] CGUE 16 ottobre 2019, C-189/18 - Glencore Agriculture Hungary, ECLI:EU:C:2019:861.
[34] E’ nondimeno interessante il fatto che, pur dolendosi di un vulnus al proprio diritto di difesa subito in fase procedimentale, nondimeno la contribuente non invoca l’art.41 della Carta, ma il 47 relativo al processo.
[35] La Corte ha concluso nel senso che il soggetto passivo deve poter «avere accesso durante tale procedimento a tutti gli elementi raccolti nel corso di detti procedimenti amministrativi connessi o di ogni altro procedimento sul quale l’amministrazione intende fondare la sua decisione o che possono essere utili per l’esercizio dei diritti della difesa, a meno che obiettivi di interesse generale giustifichino la restrizione di tale accesso». CGUE, ibid., § 69.
[36] CGUE, ibid., § 52.
[37] CGUE, 4 giugno 2020 C-430/19, SCCF Srl, ECLI:EU:C:2020:429, al momento del presente intervento ancora pubblicata in versione provvisoria, ultimo accesso su Curia on line il 28 giugno 2020.
[38] Cfr. l’art.4-octies del d.l. 30 aprile 2019, n. 34 (decreto c.d. crescita), il d.l. è stato convertito, con modificazioni, dalla legge 28 giugno 2019, n. 58, e l’Invito obbligatorio è disciplinato nei seguenti termini: «1. L'ufficio, fuori dei casi in cui sia stata rilasciata copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, prima di emettere un avviso di accertamento, notifica l'invito a comparire di cui all'articolo 5 per l'avvio del procedimento di definizione dell'accertamento.
2. Sono esclusi dall'applicazione dell'invito obbligatorio di cui al comma 1 gli avvisi di accertamento parziale previsti dall’articolo 41-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e gli avvisi di rettifica parziale previsti dall'articolo 54, terzo e quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633.
3. In caso di mancata adesione, l'avviso di accertamento è specificamente motivato in relazione ai chiarimenti forniti e ai documenti prodotti dal contribuente nel corso del contraddittorio.
4. In tutti i casi di particolare urgenza, specificamente motivata, o nelle ipotesi di fondato pericolo per la riscossione, l’ufficio puo' notificare direttamente l'avviso di accertamento non preceduto dall'invito di cui al comma 1.
5. Fuori dei casi di cui al comma 4, il mancato avvio del contraddittorio mediante l'invito di cui al comma 1 comporta l'invalidità dell'avviso di accertamento qualora, a seguito di impugnazione, il contribuente dimostri in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato attivato.
6. Restano ferme le disposizioni che prevedono la partecipazione
del contribuente prima dell'emissione di un avviso di accertamento.»
[39] Cfr. Circolare 22 giugno 2020 n.17/E Agenzia delle Entrate, recante chiarimenti relativamente all’obbligo di invito al contraddittorio.
[40] F. Farri, Considerazioni “a caldo” circa l’obbligo di invito al contraddittorio introdotto dal decreto crescita, Riv. Dir. Trib, 2019; G. Infranca, P. Semeraro, Contraddittorio preventivo quasi sempre obbligatorio, in Eutekne on-line; S. Capolupo, Obbligo di invito al contraddittorio: esclusioni ingiustificate e penalizzazioni per i contribuenti, Ipsoa on line, ultimi accessi 28 giugno 2020.
[41] A proposito del rapporto tra contraddittorio endoprocedimentale ex art.12 Statuto e contraddittorio finalizzato all’adesione in presenza di studio di settore va rammentato che: «La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l'applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è "ex lege" determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli "standards" in sé considerati - meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività - ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell'accertamento, con il contribuente. In tale fase, infatti, quest'ultimo ha la facoltà di contestare l'applicazione dei parametri provando le circostanze concrete che giustificano lo scostamento della propria posizione reddituale, con ciò costringendo l'ufficio - ove non ritenga attendibili le allegazioni di parte - ad integrare la motivazione dell'atto impositivo indicando le ragioni del suo convincimento. Tuttavia, ogni qual volta il contraddittorio sia stato regolarmente attivato ed il contribuente ometta di parteciparvi ovvero si astenga da qualsivoglia attività di allegazione, l'ufficio non è tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri.» (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15859 del 12/11/2002, Rv. 558424 - 01; principio accolto da Cass. Sez. U, Sentenza n. 26635 del 18/12/2009 e, più di recente, reiterato da Cass. Sez. 5 - , Sentenza n. 9484 del 12/04/2017).
[42] Cfr. relazione tecnica del c.d. decreto crescita, reperibile in www.senato.it. L’ adesione per il contribuente è possibile anche successivamente alla notifica dell’avviso di accertamento, molto importante per la prevenzione e deflazione del contenzioso, ma precluso in caso di invito al contraddittorio già esperito ex art.6 comma 2 d.lgs. n.218 del 1997, aspetto che può nuocere non poco all’intento deflattivo perseguito. Questo il testo della previsione normativa da ultimo citata, in vigore dal 1 luglio 2020: «2. Il contribuente nei cui confronti sia stato notificato avviso di accertamento o di rettifica, non preceduto dall'invito di cui agli articoli 5 e 5-ter(1), puo' formulare anteriormente all'impugnazione dell'atto innanzi la commissione tributaria provinciale, istanza in carta libera di accertamento con adesione, indicando il proprio recapito, anche telefonico.».
Repetita iuvant: il “Rilancio dell’Italia 2020-2022” e le questioni di genere
Di Valentina Cardinali[1]
Sommario: 1. Cosa significa “genere” e perché parlare di “genere” è così controverso - 2. La parità di genere come driver del cambiamento - 2.1. Il contrasto agli stereotipi di genere - 2.2. Il sostegno alla partecipazione femminile al lavoro - 2.3. La presenza delle donne nei luoghi decisionali - 2.4. I differenziali retributivi di genere - 2.5. La conciliazione dei tempi di vita e il sostegno alla genitorialità - 2.6. Il sostegno per le donne vittime di violenza - 3. Riflessioni conclusive.
1. Cosa significa “genere” e perché parlare di “genere” è così controverso
Premetto che ci sono pochi termini che inducono fraintendimenti, interpretazioni ideologiche e contrapposizioni dialettiche, anche accese, quanto il termine “genere”. Una parola utilizzata troppo spesso come un’etichetta e non come una chiave di lettura, con la complicità di una comunicazione frettolosa, ambiziosa e, a volte, inutilmente audace. Ma cosa si intende esattamente per genere? Innanzitutto “genere” non è sinonimo di “femminile”. Quando si parla di “genere” si fa riferimento alla dimensione sociale e culturale dell’essere maschio o femmina, ai modelli di riferimento, ai ruoli sociali, a come la società stessa pensa e di conseguenza valuta e tratta la sua popolazione di uomini e donne. E di contro, anche cosa la società stessa “si aspetta” dalla sua popolazione di uomini e donne. Non c’è nulla di trasgressivo o rivoluzionario in ciò, ma semplicemente l’affermazione, che raccomanda l’UE dal 2002, che quando si mettono in atto un set di politiche bisogna considerare che si rivolgono a uomini e donne, che sono diversi per fattori biologici, ma anche per il contesto socioculturale complessivo in cui vivono e proprio per questo possono essere oggetto di problematiche specifiche e portatori di istanze diverse. Se essere uomo o donna in Francia è diverso che in Iran, vuol dire che il modello di vita, di cultura, le aspettative sociali che ne derivano sono diverse. Al pari di quanto possa esser diversa la condizione di donna lavoratrice o padre single in una piccola comunità montana o in una grande metropoli. Parlare di genere, quindi, significa far attenzione a tutto questo. A come le persone, essendo uomini e donne, sono inseriti in un contesto che può favorire la maggiore uguaglianza possibile sul piano formale e sostanziale, oppure può trasformare le differenze di “genere” in elementi di discriminazione. Se i tassi di occupazione di uomini e donne sono distanti è un problema di genere; se dopo la maternità 1 donna su 6 lascia il lavoro è un problema di genere; se i redditi da lavoro di uomini e donne a parità di mansione sono diversi è un problema di genere e si potrebbe continuare oltre. Non si tratta di questioni “personali” o ideologiche che riguardano una parte della cultura femminista. Si tratta di un problema del Paese, che convive con disuguaglianze strutturali (contrarie allo spirito della Costituzione e al concetto di sviluppo economico) e le perpetua, ma che è abituato a condirle con quel tanto di politically correct che non nuoce a nessuno e che allo stesso tempo non aiuta nessuno. Eppure, tranne i seguaci della cd. Teoria gender[2], nessuno si schiera apertamente contro le dichiarazioni di riduzione dei divari di genere nella società, ma nella pratica, le politiche che dovrebbero esservi dedicate sono quelle in cui i tagli di bilancio arrivano per primi e nei dibattiti parlamentari e mediatici, la questione è percepita come “importante” ma “di parte”, perché lo svantaggio delle donne non è tema del paese ma delle donne, al massimo delle famiglie, mentre le cassa integrazioni di operai maschi portatori di reddito in famiglia sono un tema del Paese. Ecco, su questo bisogna fare attenzione. Che l’ottica di genere non crei contrapposizioni all’interno dello stesso spazio sociale tra chi dovrebbe condividerlo. Il tema della parità di genere non può e non deve diventare uno strumento di competizione e di “lotta tra poveri”. Le disuguaglianze ingiustificate, a partire da quelle tra uomini e donne, non possono essere tollerate. Ma anche questa affermazione, che appare quasi banale, non è scontata. Si può essere in un contesto che assume come valore positivo l’inesistenza di rapporti gerarchici e di potere fondati sul sesso (di carattere economico, sociale, culturale), oppure in un contesto in cui il fattore sesso è ritenuto un giustificativo alla persistenza di differenze tra due categorie di persone. Pensiamo solamente al percorso faticoso che sta scontando la proposta di riforma del congedo di paternità, che affronta una disparità nel campo della gestione della genitorialità a danno degli uomini, ma è oggetto di fortissime resistenze da parte di tradizionalisti (dichiarati o inconsapevoli), convinti della necessaria primazia della figura maschile in campo economico e della “naturale” e quindi primaria posizione della donna come madre ed angelo del focolare (da cui ne discende che il suo lavoro di cura familiare, non retribuito dal mercato, la rende dipendente dal produttore maschio di reddito familiare, cd. modello male breadwinner). Resistenze che provengono anche da parte di una certa cultura organizzativa che trae linfa da quel modello culturale appena citato, ma che si alimenta anche di una struttura contrattuale e simbolica che, pur a scapito delle competenze, premia il tempo in presenza, la dedizione al lavoro come fedeltà esclusiva e valuta diversamente l’aspetto extralavorativo: se familiare, come “sfera privata” ossia una potenziale interferenza sulla produttività; se invece non legato ad obblighi familiari, come occasione di lobbying - prevalentemente maschile. Un esempio per tutti, tratto dal repertorio di casi denunciati alle Consigliere di parità, è dato dalle diffidenze che riscuote un uomo che richiede un giorno di congedo parentale, che non trova l’uomo che richiede un giorno di permesso per gare sportive, esami e motivi personali. In questo modo, senza prevederlo, la cultura manageriale contribuisce a rafforzare la divisione del lavoro tra uomini e donne e un modello di struttura sociale dicotomico e anacronistico rispetto alla sfida dei tempi.
2. La parità di genere come driver del cambiamento
Fatta questa lunga premessa, necessaria per capire cosa significhi, ancora oggi, parlare di questioni di genere in termini di proposta politica, veniamo al documento Iniziative per il rilancio "Italia 2020-2022" (c.d. Piano Colao) redatto dal Comitato di esperti in materia economica e sociale coordinato da Vittorio Colao[3]. Il documento ha come slogan l’obiettivo di "Un'Italia più forte, resiliente ed equa" si fonda su 3 “assi di rafforzamento”: Digitalizzazione e innovazione di processi, prodotti e servizi, pubblici e privati, e di organizzazione della vita collettiva; Rivoluzione verde, Sostenibilità ambientale e benessere economico; Parità di genere e inclusione[4]. Le proposte si articolano in 6 macrosettori[5], (vedi fig.1) in ciascuno dei quali si dettagliano misure specifiche. Per ogni gruppo di proposte si evidenzia la matrice pubblica, privata o mista che ne deve fornire il finanziamento o l’attuazione e l’indicazione in termini di priorità (da attuare subito, finalizzare o strutturare). Il documento è stato consegnato al Governo come insieme di indicazioni a carattere consultivo non vincolante. Pertanto, mi soffermerò non sulla valenza generale del Piano o nel dettaglio delle singole misure, che saranno superate dagli eventi e dal favore che incontreranno a livello istituzionale, ma su quello che per i temi di genere, significa questo documento.
Indipendentemente dalla valutazione complessiva del Piano, stante quanto delineato in premessa, il fatto che la “parità di genere” sia inserita in uno dei tre driver prioritari per il rilancio del paese è sicuramente un punto importante a forte valenza simbolica - e di questo sicuramente va dato atto al lavoro della componente femminile della task force, inserita in corsa dopo una forte protesta della società civile contro la composizione maschile del comitato. Non che gli estensori dei documenti politici e gli esperti di tecnica legislativa non siano avvezzi a inserire il tema della parità di genere tra le premesse, tra i vari “visto” introduttivi, per assicurare dignità e coerenza con un poltically correct di stampo europeo. Ma in questo caso, si è introdotto un elemento più importante dell’omaggio dovuto: un vincolo espresso, che svela e nomina quello che solitamente non si esplicita in termini di causa ed effetto. E così, afferma che la ripresa non potrà essere tale se tutte le politiche che si mettono in atto e che si rivolgono al paese intero, composto di maschi e femmine, non garantiranno condizioni di eguaglianza formale e sostanziale, trattando le criticità specifiche dei rapporti di genere e affrontando i temi del riequilibrio di una disparità a tutti i livelli della partecipazione economica e sociale. Per questo trova spazio nel complesso del Piano l’attenzione specifica alla componente femminile, perché su tutti i piani menzionati essa rappresenta il termine debole del rapporto di genere. Sembra un’affermazione quasi banale per quanto coerente con l’art 3 della nostra Costituzione, eppure proprio questa affermazione di “principio” ha dato vita ad una serie di polemiche, luoghi comuni e facili ironie, che gli altri due temi prioritari (sostenibilità ambientale e digitalizzazione) non hanno affatto sollevato. E che dimostra ancora come sia arduo il percorso che porterà il nostro Paese ad essere una società inclusiva ed equa, che rispetti le diversità e rimuova tutti gli ostacoli che comportano differenze non giustificabili, ossia discriminazioni.
Nel dettaglio Per quanto riguarda la parità di genere, il Comitato propone azioni in quattro diversi ambiti:
a) il contrasto agli stereotipi di genere tramite azioni diversificate sul piano culturale, che agiscano fin dalle scuole primarie, riguardanti la pubblicità, i libri di testo, e l’educazione finanziaria.
b) il sostegno e lo sviluppo della partecipazione delle donne al lavoro, promuovendo la trasparenza sui livelli di impiego e retributivi tipici di uomini e donne, adottando quote di genere che garantiscano la partecipazione a organi apicali e consultivi e integrando la valutazione di impatto di genere (c.d. VIG) nei processi decisionali.
c) la conciliazione dei tempi di vita e il sostegno alla genitorialità, lanciando un piano nazionale per lo sviluppo dei nidi pubblici e privati, incentivando gli strumenti di welfare aziendale e lo sviluppo di professionalità dedicate al work-life balance, operando la riforma dei congedi parentali e di paternità, e quella delle detrazioni fiscali per i figli e i bonus verso un assegno unico.
d) il sostegno per le donne vittime di violenza, quale ad esempio l’istituzione del reddito di libertà, l’accompagnamento all’inserimento nel mondo del lavoro e il rafforzamento dei centri anti-violenza, delle case rifugio.
Esaminiamo sinteticamente i 4 ambiti, nella consapevolezza, che - qui non abbiamo spazio di trattarla - all’interno di tutti gli altri ambiti del Piano è possibile ravvisare alcuni elementi utili a orientare le azioni in termini di riduzione dei differenziali tra uomini e donne (es: il tema dello smartworking, istruzione, formazione, competenze, imprenditoria ecc..)
2.1. Il contrasto agli stereotipi di genere
Il lavoro sugli stereotipi di genere è il primo tassello auspicabile e necessario. La costruzione del genere, dei ruoli e delle aspettative sociali, parte sin dalla prima infanzia e si veicola per tutto il corso della vita. Ma, sempre per stare agli esempi concreti, sino a che nei libri di testo e nelle pubblicità saranno rappresentate le donne come mamme o casalinghe e i padri come coloro che arrivano con la ventiquattrore quando la cena è pronta o leggono il giornale a tavola mentre la moglie cucina, sarà difficile ipotizzare una crescita delle nuove generazioni pienamente consapevole del senso della parità di genere e della condivisione dei ruoli in famiglia. Fino a che la bambola resterà un gioco da “femminucce” e il camion da “maschietti”, il bambino non potrà mai sperimentare quell’esercizio dei ruoli di cura e accudimento che poi gli sarà richiesto da padre. E non percepirà come normale farlo, mentre le bambine sono da sempre autorizzate a simulare nel gioco il loro futuro di madri, anche se poi non lo saranno[6]. La reiterazione dei messaggi porta alla costruzione di etichette che diventano prima stereotipi, poi pregiudizi. E il percorso è breve. Arriva sino al mondo del lavoro in cui la maternità viene considerata come un fatto personale di intralcio all’organizzazione del lavoro e quindi si preferisce assumere o promuovere un uomo perché, in quanto uomo, non si assenterà dal lavoro o non comprometterà la fedeltà al lavoro con altre distrazioni. Se poi, per caso, quell’uomo decidesse di assumere un ruolo genitoriale paritario, rischierebbe anche mediaticamente la derisione, trasformandosi da padre in “mammo”. E potremmo continuare oltre, a partire dall’uso del linguaggio in cui il maschile diventa anche neutro e ricomprende e sostituisce il femminile in tutti quei casi in cui, invece, l’italiano lo consentirebbe. Per poi arrivare all’aspetto più doloroso dello squilibrio di genere: la violenza maschile sulle donne, molto più facile in un contesto in cui la donna è percepita da sempre come anello debole di un rapporto non paritario, anche economicamente. Lo squilibrio diventa rappresentazione di una relazione di potere ed il potere viene esercitato nei modi in cui l’uomo sa e l’uomo può.
2.2. Il sostegno alla partecipazione femminile al lavoro
Secondo aspetto, il sostegno alla partecipazione femminile al lavoro, questione non solo di equità di genere ma anche di sviluppo economico, stante il livello di occupazione femminile che non raggiunge il 48%, con il record negativo al Sud di una sola donna su tre al lavoro. Più della metà dei talenti del nostro paese sono lasciati in panchina determinando una fetta di PIL che potrebbe essere attivata e che invece giace inerme. Da almeno venti anni questa sfida è persa, e di certo gli strumenti già sperimentati (incentivi economici, contributivi, piani di welfare ecc.) non sono stati adeguati. La sfida o la convenienza per le imprese non è stata evidentemente all’altezza della portata del cambiamento richiesto. Il Piano cerca di forzare la mano sostenendo la crescita dell’occupazione femminile soprattutto nelle funzioni di cura e assistenza di cui il paese ha bisogno, ma dimenticando alcune controindicazioni: con questa proposta si rafforza la segregazione professionale femminile, si ripropone il modello di donna care giver (a casa e al lavoro) e lo stereotipo della cura come ambito esclusivamente femminile, ma ancor più si dimentica che il settore di cura e assistenza è caratterizzato da bassi livelli retributivi e stagnazione professionale. Quindi se la direttrice primaria dell’incremento dell’occupazione femminile è associata a questa ipotesi, senza correttivi, significa automaticamente produrre più occupazione a basso reddito e contribuire all’aumento dei differenziali retributivi di genere. La chance di creazione di nuova occupazione non dovrebbe essere “a qualunque costo”, ossia non può essere accettabile scindere la quantità dalla qualità nella creazione di occupazione, altrimenti se bastasse solo la quantità potremmo essere comodamente un popolo di voucheristi o stagionali.
2.3. La presenza delle donne nei luoghi decisionali
Circa la presenza delle donne nei luoghi decisionali, accessibili non per merito ma per cooptazione, il tema dello scarso appeal del lobbying femminile è noto e radicato. C’è voluto un obbligo di norma con associata sanzione per aumentare la presenza femminile nei Cda, ma anche in questo caso non senza battaglie e polemiche sia da parte degli uomini fuori quota, sia da parte di un certo femminismo che rivendica senza compromessi la propria autonomia al di fuori di ogni meccanismo di quota. Personalmente faccio parte della schiera delle pro quota pentite, perché passata la stagione giovanile di fiducia nel merito e nelle competenze, a fronte delle insormontabili rigidità del sistema Italia, ad ampio spettro, mi sono convinta che a volte uno scossone serve, anche per via impopolare. D’altronde le quote, come ogni meccanismo di azione positiva, nella loro eccezionalità sono state pensate dal legislatore proprio per conseguire attraverso un’operazione di shock la finalità socialmente rilevante che per vie ordinarie non si è potuta raggiungere. Ovviamente si confida nella adeguata capacità di selezione delle donne in quota, pena ottenere l’effetto opposto a quanto progettato.
2.4. I differenziali retributivi di genere
E’ solo accennato nel Piano, perché oramai appartiene alla moda e alla retorica, ma è talmente complesso da un punto di vista tecnico da non far accettare la sfida di entrare nel merito, il tema dei differenziali retributivi di genere. Probabilmente su questo aspetto ci voleva più coraggio perché la questione è la spia definitiva di come le politiche e le culture organizzative delle imprese determinano i loro effetti di genere, ossia le ricadute su uomini e donne. Il tema è complesso e non è questa la sede per sviscerarlo, basti solo accennare che, al di là della parità retributiva sancita per norma, il differenziale si misura nella variabilità e discrezionalità della valutazione della produttività delle risorse umane. E di qui torna forte il tema di genere, ossia come sono percepite e remunerate le caratteristiche di uomini e donne che lavorano. E un tema come questo necessita non di strumenti di sotf law come linee guida e codici di condotta, ma di un presidio istituzionale di garanzia e di un ruolo concordato della contrattazione collettiva.
2.5. La conciliazione dei tempi di vita e il sostegno alla genitorialità
Ultima considerazione sul tema della conciliazione dei tempi di vita e il sostegno alla genitorialità. Premesso che sulla scelta del termine “conciliazione dei tempi di vita” sussiste un ampio dibattito, concordo con una sua riformulazione più aderente agli obiettivi delle politiche. I tempi di vita comprendono anche il lavoro, quindi il lavoro non ne è escluso. Inoltre proprio per la finalità importante di riduzione degli stereotipi e del mutamento culturale in ottica di genere, accanto a “conciliazione” va espresso il termine di “condivisione”, perché specifica come la funzione di riequilibrio tra lavoro ed esigenze di cura ampiamente intese debba essere svolta. A conciliare semplicemente, in modo equilibristico possono – e lo fanno da sempre – anche solo le donne. La condivisione invece implica che questa operazione di scelte valoriali e organizzative debba avvenire in condizione di parità nella coppia e nella famiglia. Proprio perché uomini e donne hanno uguali diritti e devono avere uguagli opportunità.
Il Piano affronta il tema delle compatibilità tra lavoro per il mercato e lavoro di cura, nei suoi diversi aspetti: aumento delle strutture dedicate alla fascia di figli 0-3 e misure di carattere promozionale e fiscale sulle famiglie già in dibattito nel cd. Family act. Prevede inoltre la creazione di un’apposita figura professionale del “Work life balancer” che in assenza di uno specifico dettaglio rischia di sovrapporsi alle funzioni già presidiate a livello istituzionale dai CUG, Comitati pari opportunità e Consigliere di parità territoriali, oltreché dagli organismi sindacali per quanto riguarda gli specifici luoghi di lavoro. Si tratterebbe, a mio avviso, di un’ennesima etichetta, un brand che ammanta un tema che ha già troppi proclami e poca operatività. Sono comunque, queste, tutte misure “da finalizzare” attraverso l’intervento pubblico. L’unica considerata come attuabile da subito con interventi privati è il sostegno al welfare aziendale, come era prevedibile stante il background dei componenti il Comitato. Anche questo, un tema importante da non poter liquidare in due righe. Da tenere presente solo un rischio di cui non si intravede argine: non affidare al welfare aziendale, proprio di contesti attrezzati per dimensione e budget, una funzione di sostegno al welfare che deve essere universale. Qui il tema di genere è forte. Così come la conciliazione non è “un problema delle donne”, così la sua “risoluzione” non è competenza esclusiva dell’azienda. Il welfare aziendale non può e non deve sostituire la funzione inclusiva del welfare universale e la politica non può prendersi la responsabilità di tagliare la spesa sociale facendo affidamento sulla capacità di sviluppo del welfare aziendale che per sua natura è privatistico e integrativo. Ultima notazione a questo proposito. Attenzione agli effetti di genere del welfare aziendale. Perché laddove il servizio offerto venga a sostituire parte del salario di produttività e laddove questi servizi vengano usufruiti principalmente da donne, avremmo sì la risoluzione di un problema di conciliazione, ma ancora una volta a carico delle donne e a detrimento del salario femminile. Quindi l’utilizzo del welfare aziendale ha profonde connotazioni di genere e può rischiare di aumentare il differenziale salariale tra uomini e donne.
2.6. Il sostegno per le donne vittime di violenza
Mi soffermo su questo ultimo punto non per commentare le misure, che purtroppo non sono mai adeguate e mai sufficienti, né per la fase di recupero né tanto meno per la fase di prevenzione su cui il nostro paese giace vergognoso e silente.
Questo tema ha una dimensione e una portata talmente grande che connotarlo come “parità di genere” appare quasi offensivo. La violenza di genere attiene alla dimensione dei diritti umani e ai presupposti di una società civile. Quindi stona parecchio vederlo come ultimo punto dopo un set di misure fiscali. E probabilmente questa scelta è una di quelle che fa gioco ai detrattori delle questioni di genere, intese come “roba da donne”. Essere oggetto di violenza non è questione di donne. Non essere più picchiate, abusate e violentate fisicamente e moralmente non è una questione di parità tra uomini e donne. Non lo sarebbe nemmeno se agli uomini maltrattanti fosse restituito il pari trattamento che hanno inferto. Quindi su questo punto la mia opposizione al guardare questo tema come parità di genere è totale ed etica, da donna e da cittadina di uno Stato demcratico.
3. Riflessioni conclusive
In conclusione, il Piano aveva come obiettivo fornire un set di indicazioni al Governo per orientare la ripresa nei prossimi due anni. Stante il suo mandato consultivo non vincolante la strada scelta è stata quella di non presentare una riflessione strategica e una progettazione esecutiva orientata alla fattibilità, ma un ventaglio di opzioni più o meno percorribili per tempi, risorse e vision politiche. In questo senso, il Piano, più che un documento di indirizzo politico, appare più simile un ampio brainstorming che ha accolto, evidentemente, input provenienti dall’ampia fascia di stakeholdier consultati dai componenti il Comitato, con la conseguenza di riflettere la matrice culturale ed aziendale anche propria del suo coordinamento. Era inevitabile che fosse così e non è opinabile, in quanto è il risultato di una scelta a monte – non a caso Mariangela Mazzuccato, economista e teorica de “Lo Stato Innovatore” non lo ha avallato. Ma non è nel merito del complesso lavoro del Comitato che si innesta questa riflessione, quanto invece sulla valutazione del ruolo che può esercitare per la definizione in chiave politica dei temi di genere. Assolutamente negativo il trattare il tema della violenza maschile sulle donne nella cornice della parità di genere e inclusione. Positivo, invece, il mettere sul tavolo la questione di genere come un aspetto da cui la ripresa del Paese non può prescindere, tanto da declinarlo in obiettivo e misure specifiche e inviarlo al Governo come piattaforma di lavoro. Tuttavia, al di là di quello che il Piano dice, è importante anche quello che non dice, ossia il messaggio che questa impostazione necessariamente implica e che va inviato al policy making. Ossia quello che si deve fare e quello che di conseguenza… NON si deve fare. La parità di genere non essendo “una questione di parte”, un “problema delle donne” ha un elemento di trasversalità che contamina il modo di progettare e attuare tutte le politiche, perché i target di beneficiari sono comunque composti da uomini e donne. E quindi ne consegue che nella fase di ripresa tutte le azioni da mettere in campo, non solo quelle orientate formalmente alla parità, NON devono contribuire – anche in modo non voluto ed inconsapevole - al rafforzamento dei fattori che attualmente determinano la disparità di genere nella vita politica economica e sociale. E questo è probabilmente l’aspetto più difficile rispetto alla declaratoria di buone intenzioni, perché significa assumere il problema del riequilibrio come “proprio” e dotarsi della visione con cui analizzare la situazione. La previsione tra le misure proposte non solo di statistiche di genere ma di un’attività di Valutazione ex ante dell’Impatto di genere (VIG) può essere un ottimo strumento di partenza per rendere stabile e istituzionale questo approccio. Quanto ai contenuti, ho anticipato già la sintesi: Repetita iuvant. Significa che non c’è nulla di straordinario o particolarmente innovativo nelle misure proposte. Nessuno shock del sistema per la ripresa. Le direzioni indicate non sono esaustive, ma sono adeguate, in linea con le indicazioni fornite da tempo dalla ricerca, dagli operatori e dagli stakeholder che operano su questi temi. Manca forse un po’ di coraggio su alcuni aspetti e un po’ di consapevolezza degli effetti anche non voluti degli slogan proposti. Ma l’insistenza constante sui temi che ancora non sono adeguatamente presidiati dalla politica attraverso misure incisive e soprattutto stabili nel tempo, serve e va apprezzata. Perciò Repetita iuvant e speriamo che questa sia la volta buona.
[1] Esperta di mercato del lavoro e politiche di genere. Ricercatrice INAPP e Consigliera regionale di parità del Lazio. Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo gli Istituti di appartenenza.
[2] La cd. Teoria gender di derivazione anglosassone, sorta a fine XX secolo e sostenuta da ambienti tradizionalisti cattolici, afferma che gli studi di genere sottendano un progetto predefinito mirante alla distruzione della famiglia e di un supposto «ordine naturale» su cui fondare la società. Lo studio di genere viene imputato di propagandare l'inesistenza di qualsivoglia differenza tra i sessi biologici, da ciò discendendo la variabilità del proprio sesso a piacimento, nelle diverse fasce della vita degli individui (scuola, educazione, lavoro ecc.). Tra i molti commenti al Piano Colao, la sola presenza del termine “genere” ha fatto levare gli scudi di una parte dell’opinione pubblica, molto attiva anche sui social, che ha denunciato da l’aspetto di “deviazione” delle proposte, riferibili alla cd. teoria gender che, nonostante le smentite fondate ed argomentate, per diversi anni ha sollevato dibattiti ideologici circa la presunta deviazione delle menti apportata da un’educazione ed una comunicazione orientata ai ruoli sessuali e al concetto di parità legata ai ruoli.
[3] Il Comitato di esperti in materia economica e sociale istituito con DPCM del 10 aprile 2020 è composto da Enrica Amaturo, Donatella Bianchi, Marina Calloni, Elisabetta Camussi, Roberto Cingolani, Vittorio Colao, Riccardo Cristadoro, Giuseppe Falco, Franco Focareta, Enrico Giovannini, Giovanni Gorno Tempini, Giampiero Griffo, Maurizia Iachino, Filomena Maggino, Enrico Moretti, Riccardo Ranalli, Marino Regini, Linda Laura Sabbadini, Raffaella Sadun, Stefano Simontacchi, Fabrizio Starace.
[4] Si legge a pag. 6 del documento “per consentire alle donne, ai giovani, alle persone con disabilità, a chi appartiene a classi sociali e territori più svantaggiati e a tutte le minoranze di contribuire appieno allo sviluppo della vita economica e sociale, nel rispetto del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione. La parità di genere – Obiettivo 5 dell'Agenda 2030 – è fondamentale per la crescita e deve diventare, per la prima volta, una priorità del Paese, anche grazie a valutazioni ex-ante delle diverse politiche economiche e sociali. Altrettanto cruciale è una drastica riduzione delle disuguaglianze economiche, territoriali e generazionali, che sono cresciute negli ultimi anni e che costituiscono un grave problema, oltre che di equità, anche di freno allo sviluppo economico e sociale del Paese”.
[5] 1. Le Imprese e il Lavoro, riconosciuti come motore della ripresa, da sostenere e facilitare per generare profonde innovazioni dei sistemi produttivi; 2. Le Infrastrutture e l’Ambiente, che devono diventare il volano del rilancio, grazie alla rapida attivazione di investimenti rilevanti per accelerare la velocità e la qualità della ripresa economica; 3. Il Turismo, l’Arte e la Cultura, che devono essere elevati a brand iconico dell’Italia, attraverso cui rafforzare sistematicamente l’immagine del Paese sia verso chi risiede in Italia, sia verso i cittadini di altri paesi;4. La Pubblica Amministrazione, che deve trasformarsi in alleata di cittadini e imprese, per facilitare la creazione di lavoro e l’innovazione e migliorare la qualità di vita di tutte le persone; 5. L’Istruzione, la Ricerca e le Competenze, fattori chiave per lo sviluppo; 6. Gli Individui e le Famiglie, da porre al centro di una società equa e inclusiva, perché siano attori del cambiamento e partecipi dei processi di innovazione sociale
[6] Su questo tema una breve fiaba per bambini (e adulti) è illuminante: La bambola di Alberto di Clothilde Delacroix, Charlotte Zolotow (trad.it Isabella Maria) EDT - Giralangolo, 2014
La forza del precedente delle Sezioni Unite alla prova della “revocatoria tra fallimenti”(nota a Cass.S.U. n.12476/2020)
di Giuseppe Fichera
Sommario: 1. La “revocatoria tra fallimenti” - 2. Il primo tentativo: la Sezioni Unite del 2018 - 3. L’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile del 2019 - 4. Il secondo tentativo: le Sezioni Unite del 2020 - 5. A mo’ di conclusioni.
1. La “revocatoria tra fallimenti”.
Il tema che si intende affrontare in queste brevi note concerne un classico del diritto fallimentare: l’ammissibilità della revocatoria degli atti traslativi, nel caso di fallimento dell’accipiens intervenuto prima della domanda del creditore.
Si tratta di una problematica certo non di grandissimo impatto in termini numerici negli uffici giudiziari italiani e spesso caratterizzata dalla presenza di una curatela fallimentare – quella del cedente – (chè è difficile immaginare un creditore che si muova autonomamente per la revocatoria di un atto traslativo contro una procedura fallimentare), la quale agisce in giudizio contro altra curatela fallimentare, quella del cessionario, al fine di ottenere, previa declaratoria di inefficacia dell’atto traslativo, la restituzione del bene ceduto: da qui nel linguaggio corrente la definizione, forse sbrigativa ma efficace, della tematica come “revocatoria tra fallimenti”.
Ora, durante i primi settant’anni dall’entrata in vigore della legge fallimentare del ’42, la Cassazione assai di rado si era occupata ex professo della revocatoria tra fallimenti; e tuttavia, all’inizio del decennio scorso, in due precedenti l’uno in rapida successione all’altro, la S.C. affermò seccamente che non è ammissibile promuovere l'azione revocatoria, sia essa ordinaria o fallimentare, nei confronti di un fallimento, stante, da un lato, il principio della c.d. “cristallizzazione” del passivo alla data di apertura del concorso e, dall’altro, la natura costitutiva della detta azione revocatoria (Cass. 12 maggio 2011, n. 10486; Cass. 8 marzo 2012, n. 3672).
Questa soluzione, tuttavia, come evidenziato in dottrina (De Santis, in Fall., 2019), lascia nell’interprete la spiacevole sensazione di un vero e proprio vuoto di tutela, perché i creditori del venditore vengono ineluttabilmente a trovarsi privati della garanzia patrimoniale generica costituita dal bene venduto, e ciò solo a causa di un accidente del tutto estraneo alla loro sfera di volontà: la dichiarazione di fallimento del cessionario intervenuta prima della notifica dell’atto di citazione.
Da questa evidente disarmonia del sistema nascono gli sforzi – che definirei pervicaci – messi in atto negli ultimi anni dalla Prima sezione civile della S.C. nel dialogo diretto con le sue Sezioni Unite, tesi ad individuare un rimedio giuridico che, superando la barriera dell’inammissibilità, consentisse di accordare tutela anche alle ragioni dei creditori del cedente.
2. Il primo tentativo: le Sezioni Unite del 2018
Le vicende processuali che andiamo in prosieguo di questo scritto a raccontare, prendono le mosse appunto da una ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile (Cass. 25 gennaio 2018, n. 1894), che nel caso concernente una azione revocatoria ordinaria dell’atto di cessione di azienda in favore di una società – successivamente dichiarata fallita –, avviata dal curatore del cedente dopo l’apertura del concorso del cessionario, dispose la trasmissione degli atti al Primo presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, segnalando l’esistenza di un contrasto sull’ammissibilità o meno dell'azione revocatoria, ordinaria o fallimentare, nei confronti di un fallimento e valutando, comunque, la questione come di massima di particolare importanza ex art. 374, comma secondo, c.p.c.
Chiamate allora a pronunciarsi per la prima volta sul quesito dell’ammissibilità della revocatoria tra fallimenti, le Sezioni Unite (Cass. S.U. 23 novembre 2018, n. 30416), anzitutto, chiarirono che non si rinveniva alcun contrasto tra le decisioni delle sezioni semplici, atteso che le pronunce indicate dall'ordinanza interlocutoria, come espressive di un difforme orientamento rispetto a quello più recente (rappresentato dalle citate Cass. n. 10486 del 2011 e Cass. n. 3672 del 2012), avevano deciso su quesiti estranei a quello in esame.
Difettavano dunque i presupposti di un intervento di ricomposizione dell'ipotizzato (ma, in realtà, inesistente) contrasto di giurisprudenza; trattandosi peraltro di questione sottoposta come «di massima di particolare importanza», le Sezioni Unite affrontarono i tre principali argomenti prescelti dall’ordinanza interlocutoria, così riassunti:
a) la ritenuta efficacia retroattiva dell’azione revocatoria, corroborata dalla circostanza che il debito restitutorio è un debito di valore e che gli interessi sulla somma da restituire decorrono dalla data di costituzione in mora, con la conseguente incidenza di tali regole sul c.d. principio di cristallizzazione della massa passiva;
b) l'affermazione che l'azione revocatoria, «secondo una convincente opinione, emersa in dottrina», costituirebbe una «azione di accertamento con effetti costitutivi» diretta a ricostituire la garanzia patrimoniale del debitore che, quindi, non incontrerebbe il divieto dell'art. 51 l.fall., che impone di realizzare il credito con le forme e nell’osservanza del rito fallimentare;
c) la rilevanza, sul piano sistematico, dell’art. 91 del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270, che disciplina la c.d. revocatoria aggravata infragruppo.
Orbene, a parere delle Sezioni Unite del ‘18, tutti gli argomenti compendiati sub a) e b) non risultavano persuasivi.
Invero, già a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, la S.C. ebbe ad affermare il principio secondo cui l’azione revocatoria fallimentare, spiegata ai sensi dell'art 67 l.fall., dà luogo ad una sentenza con effetti costitutivi.
E le Sezioni Unite, nel 1996, dettarono il principio secondo cui «la sentenza che accoglie la domanda revocatoria fallimentare ha natura costitutiva, in quanto modifica "ex post" una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti, nei confronti della massa fallimentare, atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente, la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.) ed alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell'atto; con la conseguenza che la situazione giuridica vantata dalla massa ed esercitata dal curatore non integra un diritto di credito (alla restituzione della somma o dei beni) esistente prima del fallimento (né nascente all'atto della dichiarazione dello stesso) e indipendentemente dall'esercizio dell'azione giudiziale, ma rappresenta un vero e proprio diritto potestativo all'esercizio dell'azione revocatoria, rispetto al quale non è configurabile l'interruzione della prescrizione a mezzo di semplice atto di costituzione in mora (art. 2943, ultimo comma, c.c.)».
Simili affermazioni vennero poi ribadite e argomentate da molte altre decisioni, a proposito della natura del debito da restituirsi e degli interessi da calcolarsi sullo stesso (tra le tante, Cass. 30 luglio 2012, n. 13560).
In forza dei ridetti richiami, le Sezioni Unite del ’18 possono affermare come «pacifico e stabilizzato», l'orientamento della giurisprudenza di legittimità in ordine alla natura costitutiva della sentenza in esame.
Dalla natura costitutiva della sentenza che accoglie la domanda revocatoria, poi, consegue che, poiché gli effetti tipici della stessa sono quelli della creazione di una situazione giuridica nuova, l’inammissibilità dell'azione de qua appare saldamente fondata sulla regola della c.d. “cristallizzazione” della massa passiva alla data del fallimento.
È infatti proprio la regola della cristallizzazione della massa passiva, secondo le Sezioni Unite del ’18, che impedisce di invocare nei confronti del fallimento una pretesa giuridica che si produce soltanto a seguito della sentenza di accoglimento della domanda. L'effetto dell'inefficacia dell'atto revocando, che è propriamente il centro della pronuncia di accoglimento dell'azione revocatoria, si costituisce esclusivamente con la pronuncia giudiziale di revoca, sicché si può parlare di “diritto quesito” alla revoca solo se la causa sia stata promossa prima del fallimento e se la domanda sia stata trascritta anteriormente al fallimento del terzo che subisce l’azione revocatoria ordinaria.
Quanto all’argomento sub c), quello che evocava la previsione dell'art. 91 del d.lgs. n. 270 del 1999 in tema di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, secondo la sentenza di cui si discorre il richiamo non appariva pertinente, poiché riguardava una procedura “speciale”, ancorata a presupposti specifici – con i connessi problemi di tutela dei gruppi di creditori che, per quanto tra di loro autonomi e distinti, sono comunque tutti favoriti o penalizzati da un’unica strategia di gestione del gruppo e della sua crisi, onde la necessità di una previsione regolatrice particolare –, che non consentivano di invocare ragioni di coerenza normativa e sistematica in grado di giustificare l’applicazione della detta regola anche alle procedure fallimentari, oltre il caso dalla stessa disciplinato (che è quello del compimento di atti tra imprese facenti parte di uno stesso gruppo di imprese).
Alla luce dei ragionamenti sopra esposti, il principio di diritto che conclusivamente intese esprimere Cass. S.U. n. 30416 del 2018 appare netto: «È inammissibile l’azione revocatoria, ordinaria o fallimentare, esperita nei confronti di un fallimento, trattandosi di un'azione costitutiva che modifica "ex post" una situazione giuridica preesistente ed operando il principio di cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso in funzione di tutela della massa dei creditori».
3. L’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile del 2019
Ma ecco che a distanza di pochi mesi dall’arresto delle Sezioni Unite, la Prima sezione civile (Cass. 23 luglio 2019, n. 19881) ci riprova, anche sulla spinta delle reazioni alla decisione della S.C., invero assai tiepide, registratesi nella dottrina (Campione, in Dir. Fall., 2019; Fabiani, in Riv. dir. proc., 2019).
Pure nel nuovo caso all’esame della S.C. si era in presenza di una cessione d’azienda in favore di società poi fallita, oggetto tuttavia di una domanda di rivendica di beni mobili ex art. 103 l.fall., sull’assunto dell’inefficacia dell’atto traslativo, promossa dopo la dichiarazione di fallimento del cessionario; con la citata ordinanza interlocutoria, mostrando di non ritenersi appagata dalle conclusioni cui erano giunte assai di recente le S.U., la Prima sezione civile rimette gli atti al Primo presidente della S.C. per sollecitare una rimeditazione del detto orientamento.
L’ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile, stavolta, enuclea ben quattro argomenti a sostegno del suo secondo tentativo di rimettere in discussione la tesi dell’inammissibilità della revocatoria tra fallimenti.
i) Anzitutto, il provvedimento in esame segnala le novità introdotte dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, recante il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (di seguito breviter c.c.i.), la cui disciplina, sebbene pacificamente non applicabile ratione temporis, avrebbe «fini interpretativi e ricostruttivi, perché, da un lato, la stessa fa ora parte integrante dell'ordinamento positivo (nonostante la lunga vacatio legis prevista) e perché, dall'altro, segna un'evidente incrinatura nelle argomentazioni spese dalle Sezioni Unite nel precedente arresto».
In particolare, il collegio richiama l’art. 290, comma 3, c.c.i. che ha fissato la regola a tenore della quale Il curatore della procedura di liquidazione giudiziaria aperta nei confronti delle altre società del gruppo può esercitare, «nei confronti delle altre società del gruppo», l'azione revocatoria.
ii) Ancora, l’ordinanza interlocutoria sottolinea come la giurisprudenza di legittimità richiamata nella sentenza delle Sezioni Unite del ‘18, si fosse occupata esclusivamente di revocatorie fallimentari aventi a oggetto pagamenti del fallito e, lungi dal confrontarsi con il fallimento dell'accipiens, era stata chiamata a risolvere sempre problemi quali la decorrenza della prescrizione dell’azione e la natura “di valore” o “di valuta” dell'obbligazione restitutoria gravante sul terzo in bonis.
iii) Inoltre, secondo il Collegio della sezione semplice è vero che le Sezioni Unite nella sentenza del ‘18, precisano che la revocatoria è consentita nell'ipotesi in cui la relativa domanda sia stata trascritta anteriormente alla trascrizione della sentenza che ha aperto il fallimento. Tuttavia, non tutte le domande giudiziali sono trascrivibili, laddove tutti gli atti dispositivi (a prescindere dal loro oggetto) sono astrattamente revocabili, ai sensi degli artt. 2901 c.c., 66 e 67 l.fall.; ciò significa, secondo il provvedimento in esame, che per i beni – in relazione ai quali non è prevista la trascrizione della domanda giudiziale in pubblici registri – mancherebbe la possibilità di rendere opponibile al fallimento dell'acquirente una domanda revocatoria.
iv) Infine, dubbi sorgerebbero con riferimento al concetto di “cristallizzazione” del patrimonio adottato dalle S.U. del ’18. Cristallizzazione significa fissazione della massa passiva al momento della dichiarazione, nel senso di irrilevanza di nuove obbligazioni, o di aggravio di preesistenti, in capo al fallito, cioè di sopravvenienze: sopravvenienza non potrebbe, tuttavia, considerarsi la soggezione a revoca di preesistenti acquisti.
Non sarebbe infatti vero – come invece avrebbero l’anno prima sostenuto le Sezioni Unite – che la sentenza d'accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria, limiti la sua retroattività alla data della domanda, perché la revoca ha ad oggetto l’atto alla data del suo compimento. Al riguardo, sarebbe sufficiente considerare che la norma dell'art. 2652, n. 5), c.c. – quella che sottrae all'effetto revocatorio l’acquisto dei sub acquirenti di buona fede –, ha un senso solo quale eccezione alla regola per cui il successivo acquirente dall’avente causa acquista cum onere, evenienza quest'ultima che, a sua volta, postula che l'accoglimento della revocatoria retroagisca alla data di acquisto del suo dante causa.
4. Il secondo tentativo: le Sezioni Unite del 2020
Dunque, a distanza di meno di due anni dal precedente arresto, le Sezioni Unite (Cass. S.U. 24 giugno 2020, n. 12476), tornano a pronunciarsi sul tema della “revocatoria tra fallimenti”.
La linea motivazionale della sentenza in commento è chiaramente ispirata dall’esigenza di tenere fermi gli insegnamenti della Cassazione, che erano stati acclarati come consolidati dal recentissimo precedente del 2018.
Anzitutto, non persuade il Collegio la tesi fondata sulle novità in tema di revocatorie infragruppo contenute nel Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, trattandosi del frutto di una scelta legislativa – completamente nuova e distinta – di disciplinare in modo specifico l’insolvenza del gruppo societario in sé considerato; «scelta nuova e distinta che corrisponde a un inedito dettame della legge delega, e quindi non tale da poter essere utilmente richiamata col fine di incidere sull’esegesi di inesistenti norme anteriori».
Quanto ai dubbi avanzati dall’ordinanza interlocutoria in ordine alla natura costitutiva della sentenza che accoglie l’azione revocatoria, sempre le Sezioni Unite ricordano che essa costituisce espressione di un insegnamento «sedimentato, logico e assolutamente coerente», basato sulla considerazione che la sentenza modifica ex post una situazione giuridica preesistente e che risulta avallato da ben tre sentenze della S.C. a Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 5443 del 1996, Cass. S.U. n. 437 del 2000 e, infine, appunto, Cass. S.U. n. 30416 del 2018).
Pure mostrando di volersi muovere in maniera rigorosa lungo il solco tracciato dal precedente del ’18, le Sezioni Unite del ‘20, ambiscono, tuttavia, a superarne le conclusioni in termini di radicale inammissibilità dell’azione revocatoria.
Invero, secondo la sentenza in parola, è anzitutto opportuno chiarire che in tema di revocatoria dell’atto di trasferimento di un bene, la sopravvenienza del fallimento dell’accipiens assume rilevanza a causa del principio di “cristallizzazione” non del passivo – come aveva sostenuto la sentenza del ’18 e, sulla sua scia, pure l’interlocutoria del ’19 –, bensì, esattamente al contrario, per il principio di “cristallizzazione” dell’attivo o del cd. asse fallimentare.
In altre parole, nel sistema della legge fallimentare l’apertura della procedura apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito “per titolo anteriore alla sentenza”; ora, se la domanda revocatoria è successiva al fallimento dell'acquirente, ove potesse essere in thesi accolta, essa finirebbe per recuperare il bene che ne costituisce oggetto alla garanzia patrimoniale del solo creditore dell’alienante e quindi, specularmente, per determinare la sottrazione del bene medesimo alla garanzia collettiva dei creditori dell’acquirente, sulla base di un titolo giudiziale formatosi dopo la sentenza dichiarativa del fallimento di costui: tutto ciò, chiaramente, non è consentito dall’ordinamento, perché contrasta col complesso di regole desumibili dagli artt. 42, 44, 45, 51 e 52 l.fall.
E allora, secondo la pronuncia in esame, occorre partire da un elemento che può dirsi pacifico nella giurisprudenza della S.C.: oggetto della domanda di revocatoria (sia essa ordinaria che fallimentare) non è il bene in sé, ma la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori mediante l'assoggettabilità del bene a esecuzione (tra le tante, Cass. 8 novembre 2017, n. 26425).
Dunque, il bene dismesso con l’atto revocando viene in considerazione, rispetto all'interesse di quei creditori, soltanto per il suo valore; ciò consente agevolmente di affermare che il fallimento dell’accipiens, dichiarato dopo l’atto di alienazione, impedisce solo l’esercizio dell’azione costitutiva, «non anche di quella restitutoria per equivalente, parametrata al valore del bene sottratto alla garanzia patrimoniale».
Ne discende, secondo le Sezioni Unite del ‘20, che, in maniera non dissimile da quanto accade quando il bene sottratto ai creditori sia stato già ceduto ad un terzo sub acquirente (purché con atto già trascritto), il fatto storico del fallimento dell’acquirente impedisce al creditore di recuperare il bene onde esercitare su questo l’azione esecutiva, ma non certo di insinuarsi al passivo di quel fallimento per il corrispondente controvalore.
Così argomentando, finalmente, il massimo organo della nomofilachia può giungere alla conclusione che l’azione revocatoria di un atto di trasferimento di un bene in favore dell’accipiens poi fallito deve ritenersi ammissibile, alla sola condizione che essa venga esercitata non mediante una ordinaria azione costitutiva tesa alla declaratoria di inefficacia dell’atto di cessione del bene venduto onde recuperarlo in vista della sua liquidazione forzata, bensì con una «domanda restitutoria per equivalente», che stante l’indefettibilità del procedimento di insinuazione al passivo dovrà manifestarsi nella forme della domanda ex art. 93 l.fall.; e sempre che naturalmente il creditore del cedente (ovvero, in caso di fallimento di quest’ultimo, il curatore che ne rappresenta la massa) chieda al giudice delegato del fallimento del cessionario «la delibazione della pregiudiziale costitutiva».
5. A mo' di conclusioni
L’aspetto apparentemente singolare che accumuna entrambe le vicende processuali sin qui narrate è che, sia nel 2018 come nel 2020, le curatele dell’alienante ricorrenti in cassazione – poiché ancora una volta si trattava di casi in cui erano stati dichiarati falliti entrambi i contraenti – rimangono alla fine del lungo iter giudiziario entrambe soccombenti: la prima volta perché la revocatoria ordinaria nei confronti del fallimento del cessionario venne dichiarata tout court inammissibile e la seconda, essendo stata proposta una domanda di rivendica dei beni oggetto dell’azienda ceduta e non quella – l’unica ritenuta ammissibile – di insinuazione al passivo per il loro controvalore.
Credo, tuttavia, che al di là del comune esito infausto per le procedure ricorrenti, possa tranquillamente affermarsi che nella progressione dall’arresto del ’18 a quello del ’20, pure mostrando un formale ossequio alla tesi della natura costitutiva dell’azione revocatoria, le Sezioni Unite – a costo di sottoporre ad una certa torsione il c.d. principio della stabilità del precedente, viuppiù degno di considerazione quando si tratta di rimeditare un arresto delle Sezioni Unite (come si coglie appieno dalla lettura dell’art. 374 c.p.c.) – abbiano inteso manifestare l’apprezzabile tentativo di individuare una strada per assicurare l’effettività della tutela alle ragioni del creditore dell’alienante.
Insomma, se la n. 30416 del 2018 si era fermata di fronte all’ostacolo ritenuto insormontabile della natura costitutiva dell’azione, la n. 12476 del 2020 che qui si commenta, ha certamente il merito di avere sagacemente individuato, sollecitata dalla seconda ordinanza interlocutoria della Prima sezione civile, nell’insinuazione al passivo per il controvalore del bene trasferito, la chiave giuridica che consente di aprire la porta alla massa dei creditori del cedente che invocano la tutela delle loro ragioni.
C’è da sperare, allora, che il descritto revirement delle Sezioni Unite della S.C., consenta finalmente in futuro ai curatori dei falliti che ha posto in essere atti di dismissione del proprio patrimonio nel c.d. periodo sospetto, di imbroccare la strada giusta per la tutela degli interessi della massa, nel giusto bilanciamento con gli interessi dell’altra massa, quella dei creditori dell’accipiens.
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