Rivedere CILFIT? Riflessioni giuscomparatistiche sulle conclusioni dell’avvocato generale Bobek nella causa Consorzio Italian management
di Giuseppe Martinico e Leonardo Pierdominici*
Sommario: 1. Introduzione e obiettivi dello scritto - 2. La genesi della teoria dell’acte clair e dei criteri CILFIT: inquadramento comparato - 3. Le conclusioni dell’avvocato generale Bobek nel caso Consorzio Italian Management - 4. Il contesto in cui si inseriscono le conclusioni dell’avvocato generale Bobek - 5. Conclusioni.
1. Introduzione e obiettivi dello scritto
In questo saggio si cercherà di contestualizzare e analizzare in maniera critica le conclusioni dell’avvocato generale Bobek al caso Consorzio Italian management[1], prestando particolare attenzione alle questioni che lo hanno indotto a suggerire alla Corte di giustizia dell’Unione europea un parziale superamento della nota giurisprudenza CILFIT[2].
Nel farlo, divideremo il saggio in quattro parti. Dopo la presente introduzione allo storico caso del 1982, nella seconda parte ripercorreremo le motivazioni che portarono la Corte a CILFIT, per poi, nella terza, esporre le ragioni insite nelle conclusioni dell’avvocato generale Bobek alla luce di considerazioni comparatistiche. Infine, inquadreremo queste conclusioni all’interno di una stagione (lunga) di ripensamento dei pilastri di quello che si potrebbe definire un diritto processuale “complesso”[3], frutto, cioè, dell’intreccio normativo prodotto, negli anni, dal processo di integrazione europea.
CILFIT è il prodotto di un’epoca di grande attivismo giudiziale in cui la Corte di Lussemburgo ha cercato, dopo aver posto le basi della specialità del diritto comunitario, di razionalizzare - vedremo in che modo - il rapporto con i giudici comuni. Nel farlo, la Corte ha in parte riscritto la disposizione dell’attuale art. 267 TFUE (a quel tempo art. 177 TCEE), ridisegnando le “regole d’ingaggio” che devono caratterizzare la cooperazione fra giudici nazionali e l’interprete qualificato del diritto dell’UE.
CILFIT appartiene all’Olimpo dei grands arrêts[4], una pronuncia analizzabile da vari punti di vista che ha il merito di aver aiutato la Corte a incanalare le energie giudiziali presenti in un ordinamento multilivello[5].
Nelle parole della Corte di giustizia, l’allora art. 177 TCEE, - e dunque l’attuale art. 267 TFUE -:
«Va interpretato nel senso che una giurisdizione le cui decisioni non sono impugnabili secondo l'ordinamento interno è tenuta, qualora una questione di diritto comunitario si ponga dinanzi ad essa, ad adempiere il suo obbligo di rinvio, salvo che non abbia constatato che la questione non è pertinente, o che la disposizione comunitaria di cui è causa ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta applicazione del diritto comunitario si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi; la configurabilità di tale eventualità va valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto comunitario, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze di giurisprudenza all'interno della Comunità».
Con CILFIT, quindi, la Corte di giustizia individuava alcune eccezioni a quanto stabilito dalla lettera della norma fondamentale in tema di procedimento pregiudiziale, vero e proprio pilastro dell’ordinamento dell’UE, come confermato, fra l’altro, anche nel Parere 2/13 della Corte di giustizia, ove se ne è sottolineata l’importanza nella «rete strutturata di principi, di norme e di rapporti giuridici mutualmente interdipendenti, che vincolano, in modo reciproco, l’Unione stessa e i suoi Stati membri, nonché, tra di loro, gli Stati membri»[6].
Proprio prendendo spunto da CILFIT e sulla scia di una copiosa letteratura processualistica[7], si è altrove sostenuto[8] che una delle più evidenti manifestazioni dell’efficacia erga omnes delle sentenze interpretative della Corte di giustizia consista proprio nella trasformazione della posizione del giudice nazionale di ultima istanza, in seguito alla presenza di una precedente pronuncia della Corte di giustizia: nel passaggio, quindi, da una situazione giuridica configurabile in termini di obbligo (una situazione di ăgĕre dēbēre, di necessità) ad una qualificabile in termini di discrezionalità[9]. CILFIT produce una situazione di possibilità limitata per il giudice che, nel caso in questione, può seguire la previa giurisprudenza o problematizzare la cooperazione, chiedendo una nuova interpretazione alla Corte di giustizia qualora non ne condivida una pregressa o creda che le circostanze del suo caso siano diverse. Più in generale si potrebbe dire che, in presenza di una pronuncia della Corte sul punto, le già limitate chance ermeneutiche dei giudici nazionali (anche quelli non di ultima istanza) si riducano ancora di più.
Le conclusioni dell’avvocato generale Bobek sono state già oggetto di attenti commenti da parte della dottrina italiana[10], ma in questo saggio cercheremo di leggerle in maniera sistematica, non soltanto dando conto di alcuni recenti sviluppi processuali, ma anche tenendo in considerazione circostanze di contesto - peraltro, come segnaleremo, già all’attenzione del Bobek studioso e comparatista -.
2. La genesi della teoria dell’acte clair e dei criteri CILFIT: inquadramento comparato
Come accennato, riteniamo necessario, per la migliore comprensione delle conclusioni dell’avvocato generale Bobek nel caso C-561/19, procedere con un inquadramento comparato: del resto - potrebbe dirsi quasi a mo’ di slogan - parliamo di conclusioni di un illustre comparatista[11], che invitano la Corte di giustizia dell’Unione a una profonda riconsiderazione di una dottrina storica, quella elaborata con la sentenza CILFIT[12], che è nata come reazione a dinamiche applicative sorte col sovrapporsi del sistema di giustizia sovranazionale con quelli peculiari degli stati membri, dottrina che è declinata mediante il richiamo rivolto ai giudici nazionali ad un’interpretazione che si nutra anche dell’indagine comparatistica, e che è finalizzata a disciplinare aspetti istituzionali di quel sistema che possono comprendersi appieno solo ampliando, per così dire, la prospettiva di analisi.
Come già s’è accennato, la sentenza CILFIT della Corte di giustizia verteva sul tema dell’interpretazione di quello che oggi è l’art. 267 comma III TFUE, ed in particolare sul tema del gradiente di obbligatorietà da riconoscersi in capo alla giurisdizione nazionale di ultima istanza rispetto all’effettuazione del rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di Lussemburgo, e di possibili eccezioni a quell’obbligatorietà per come disposta expressis verbis dal Trattato. La questione fu all’epoca posta dalla Corte di Cassazione italiana, che con ordinanza richiese se l’obbligo di rinvio pregiudiziale sancisse «un obbligo di rimessione che non consenta al giudice nazionale alcuna delibazione di fondatezza della questione sollevata ovvero subordini, ed in quali limiti, tale obbligo al preventivo riscontro di un ragionevole dubbio interpretativo»[13], traendo spunto da questione interpretativa invero assai semplice, tanto da essere qualche anno dopo delibata in camera ristretta e con sentenza lapidaria[14].
La Corte di giustizia intese disporre una certa attenuazione rispetto alla rigida obbligatorietà disposta dal Trattato: eccezioni potevano e possono porsi ove la giurisdizione nazionale di ultima istanza, che a ciò è chiamata, constati la non pertinenza della questione, la sua natura già esplorata dall’interprete qualificato del diritto sovranazionale, o la sua evidenza indubbia.
Nella vulgata, la Corte di giustizia è apparsa con ciò aderire alle teorie, di marca francese, dell’acte eclairé e dell’acte clair[15] (oltre che a un’opportuna costruzione del requisito della rilevanza tipica di tutti i sistemi fondati sul rinvio ad altra giurisdizione[16]): e dunque, parve aver colto l’occasione del rinvio da parte della Corte di Cassazione per statuire rilevanti eccezioni ad un obbligo troppo rigido imposto dal Trattato. Ciò, però, è vero solo in parte: e una ricostruzione delle circostanze che portarono alla decisione - secondo un’analisi storico-comparata nel solco di linee di ricerca oggi emergenti[17] - può raccontare una storia ben più variegata.
La Corte di giustizia, invero, colse la palla al balzo del rinvio italiano, ma non tanto per porre dirette eccezioni alla lettera del Trattato, quanto per arginare certe tendenze interpretative, perniciose per il sistema di controllo sovranazionale, provenienti dalle giurisdizioni nazionali. Già dal 1964, con il noto caso Shell-Berre[18], il Conseil d’État francese aveva infatti preteso di applicare la teoria dell’acte clair - originatasi dell’ordinamento francese quale eccezione al rinvio da parte del giudice al Ministère des affaires étrangères in punto di interpretazione dei trattati internazionali[19] - nell’ambito dei rapporti con la Corte di giustizia, pretendendo autonomamente di denegare in tal senso l’esistenza di una valida «questione» interpretativa ai sensi e per gli effetti dell’(allora) art. 177 TCEE e, pertanto, di un suo obbligo di rinvio. Analoga presa di posizione pervenne, nel 1970, dal Bundessozialgericht tedesco nel noto Widow’s pension case[20] - che la stessa dottrina locale ricondusse al trapianto delle teorie francesi[21] - ed ancora nel 1974 dalle giurisdizioni britanniche[22], già solo pochi mesi dopo l’accesso del Regno unito nelle Comunità. Sorse un dibattito accademico in materia che coinvolse esponenti illustri quali l’ex avvocato generale francese Lagrange su posizioni difensive delle prassi nazionali[23] e il già allora giudice della Corte Pierre Pescatore su posizioni critiche[24]. Fu persino presentata una interrogazione scritta al Parlamento europeo, cui la Commissione rispose con note simpatetiche rispetto all’autonomia delle giurisdizioni nazionali[25] (che poi replicò nelle osservazioni dinanzi alla Corte nel procedimento CILFIT, aderendo alle prese di posizione dei governi nazionali[26]).
Va considerato insomma che CILFIT fu decisa con riferimento a tale retroterra fattuale: e ve n’è traccia, a ben vedere, anzitutto nelle conclusioni dell’avvocato generale Capotorti, che perorò la causa di un rigetto pieno della teoria dell’acte clair non solo su basi teoriche, ma anche espressamente al fine di sconfessarne le abusive strumentalizzazioni fatte in sede nazionale, e al fine di un pieno effet utile delle fondamentali disposizioni sul rinvio pregiudiziale[27]. Ma ve n’è traccia, a ben intendere, anche nella storica sentenza, che non è certo un’adesione pedissequa alle teoriche francesi, ma una loro astuta declinazione rispetto alle specificità dell’architettura giurisdizionale sovranazionale.
Se l’adesione alla teoria dell’acte eclairé, peraltro confermativa delle statuizioni classiche di Da Costa[28], nasceva dalla consapevolezza dell’esistenza di un sostrato di giurisprudenza comunitaria ormai abbastanza robusto, e si traduceva nel mandato conferito ai giudici nazionali di conoscerlo e valutarlo, i c.d. criteri CILFIT relativi all’acte clair venivano tanto puntualizzati da circoscriverne fortemente, in realtà, l’applicazione. Demandare al giudice nazionale di ultima istanza la verifica della configurabilità di un acte clair «in funzione delle caratteristiche proprie del diritto comunitario, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze di giurisprudenza all’interno della Comunità» voleva dire demandare - e qui arriviamo al secondo punto sopra accennato - un’indagine comparatistica piena sulla possibilità che l’interpretazione propalata non possa essere sconfessata in altri ordinamenti nazionali, per le loro specificità, e ciò anche rispetto alle caratteristiche proprie di un ordinamento giuridico composito come quello sovranazionale, tra cui l’esistenza di una peculiare terminologia non collimante con quella (già di per sé diversa) degli ordinamenti nazionali, l’esistenza di più versioni linguistiche di ogni normativa tutte egualmente autentiche (all’epoca della sentenza sei, oggi ventiquattro), la prassi tipica di un’interpretazione del diritto sovranazionale contestuale e teleologica, il possibile variabile stadio di evoluzione del diritto sovranazionale al momento in cui va data applicazione alla disposizione che viene in gioco[29]. Un mandato d’indagine comparatistica demandato al giudice nazionale di difficile se non improbo adempimento[30] (secondo una tecnica tipica, oggi rinvenibile anche in altri casi assai discussi in materia di rispetto della rule of law[31]), che già alcuni avvertiti commentatori dell’epoca ricondussero propriamente ad un fittizio mantenimento dello status quo[32], e che altri autori, tra cui proprio Bobek prima del suo mandato alla Corte, hanno stigmatizzato come ormai tecnicamente impossibile anche alla luce dei progressivi allargamenti geografici dell’Unione[33]. Per di più, a differenza che nel passato, un mandato oggi presidiato, per i casi di sua eventuale violazione, da più strumenti, quali il rimedio risarcitorio predisposto dalla giurisprudenza Köbler[34], il controllo politico da parte della Commissione mediante procedura di infrazione inaugurato col caso C-416/17[35] (contro la Francia, per violazione dell’art. 267 TFUE perpetrata proprio dal Conseil d’État), il rimedio dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione da parte dello stato della giurisdizione non referente dell’art. 6 CEDU, inaugurato con il caso Ullens de Schooten[36], oltre che, in certi ordinamenti nazionali, dalla possibilità di accesso diretto alla giurisdizione costituzionale per sancire la propria violazione dei diritti a un equo processo o al giudice natura precostituito per legge stante la mancata adizione della giurisdizione comunitaria[37].
Ma se dunque v’è prova storica del fatto che CILFIT sia arresto giurisprudenziale posto dalla Corte di giustizia al fine non tanto di limitare ex se, ma di regolare l’afflusso dei casi in Lussemburgo da parte delle giurisdizioni nazionali apicali, tenendo ben saldo il proprio ruolo di guardiana della corretta ed uniforme applicazione del diritto comunitario nei vari stati membri (la quale sarebbe pregiudicata laddove all’interno dei vari ordinamenti nazionali si consolidassero orientamenti ermeneutici difformi), è comunque certo vero che un’altra ratio coesiste con questa, ed è quella relativa, appunto, ad una più efficace gestione delle proprie risorse istituzionali rispetto alle richieste provenienti dalle giurisdizionali nazionali: una ratio che, nella letteratura in lingua inglese, va comunemente sotto il nome di docket control.
La Corte di giustizia oggi sovraintende la corretta ed uniforme applicazione del diritto dell’Unione in ventisette ordinamenti nazionali; è certo ampiamente mutata, come istituzione, nel corso dei decenni, ma rimane una giurisdizione con discrete ma limitate risorse. Essa pubblica annualmente le statistiche relative alla propria attività, da cui s’apprende che la giurisdizione che promana dai rinvii pregiudiziali da parte dei giudici nazionali è non solo quella ampiamente preponderante[38], ma anche quella foriera di attività sempre in crescita: permangono dubbi dei commentatori sull’utilizzo corretto ed effettivo del fondamentale strumento del rinvio pregiudiziale da parte di almeno un’ampia aliquota degli operatori nazionali, anche di nuova generazione[39], il che ha sinora portato alla Corte appunto a operare con molta cautela nel disincentivo ai giudici nazionali al rinvio; ma è certo vero che i rinvii pregiudiziali destinati in Lussemburgo sono stati (a far data dalle adesioni dei paesi dell’Est) ampiamente crescenti, ed ossia 265 nel 2007, 288 nel 2008, 302 nel 2009, 385 nel 2010, 423 nel 2011, 404 nel 2013, 450 nel 2013, 428 nel 2014, 436 nel 2015, 470 nel 2016, 533 nel 2017, 568 nel 2018, 641 nel 2019, 556 nel 2020[40].
L’idea di una Corte «vittima del proprio successo»[41] è antica, e persino caricaturale rispetto al grado di autonomia istituzionale di cui essa gode nel regolare le conseguenze di quel successo[42]. Sicuramente la gestione del flusso dei casi che riceve mediante posizione di proprie dottrine interpretative è parte importante di questa autonomia: essa ha fatto parlare, genericamente includendo CILFIT, anche in passato di una sua attività di docket control paragonata un po’ improvvidamente a quello di altre giurisdizioni ben diversamente organizzate[43]; ma, s’è accennato, quella gestione coinvolge la delicata questione dei rapporti con le corti nazionali e la fiducia che v’è implicita, va adoperata con cautela - e la Corte ne è consapevole - onde evitare nuove sacche di disobbedienza quali quelle che hanno condotto alla sentenza CILFIT, e coinvolge anche la varietà di rapporti che la Corte intrattiene con giurisdizioni di ordinamenti differenti, giacché è dimostrato che ben diversi sono i rinvii pregiudiziali posti, ad esempio, da giudici di common law e civil law in punto di ampiezza delle domande, permeabilità tra questioni di fatto e di diritto, intellegibilità del rinvio[44].
Questa questione - che pure nel passato ha specificamente interessato l’avvocato generale Bobek nei panni di studioso[45] - è sinora stata affrontata (proprio per non reprimere l’afflusso dei casi e non arretrare dinanzi al ruolo nomofilattico per la corretta ed uniforme applicazione del diritto dell’Unione) mediante soluzione tendenzialmente neutrali rispetto ai rapporti con i giudici nazionali e adoperate sul versante organizzativo-istituzionale: ad es., si è creato il Tribunale di prima istanza per sollevare la Corte di giustizia dall’ampia mole del contenzioso in via d’azione, s’è organizzata la Corte in camere anche minute per la gestione dei casi di minor spessore e s’è più recentemente dotata di un vicepresidente per la gestione più snella della composizione delle camere stesse[46], si sono previste procedure più snelle con possibilità di pronunzia mediante ordinanza motivata (in condizioni speculari a quelle dei criteri CILFIT, ossa in caso di acte clair o eclairé)[47], o ancora senza previa udienza pubblica[48], o senza previe conclusioni dell’avvocato generale[49]. Misure, come ha opinato un esperto membro della Corte come Christiaan Timmermans, tese sempre e solo allo scopo di «organize and maintain continuity»[50], senza arrischiarsi a disciplinare specificamente, come pure più volte anche autorevolmente suggerito[51], il delicato ma fondamentale sistema di comunicazione del rinvio pregiudiziale, mai nemmeno subappaltato al Tribunale di prima istanza nonostante la possibilità sia prevista dai Trattati[52]: i rapporti con le giurisdizioni nazionali, per non inibirne l’impiego, sono sempre stati affidati al più a linee guida, quali le «Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale» pubblicate dalla Corte[53], comunque non cogenti, o quali appunto i criteri CILFIT, anch’essi con tutti i limiti di pregnanza di cui s’è detto.
3. Le conclusioni dell’avvocato generale Bobek nel caso Consorzio Italian Management
Le conclusioni dell’avvocato generale Bobek si innestano sulle precedenti considerazioni, che vengono affrontate esplicitamente, quasi col piglio dell’accademico - in coerenza con le precedenti sue prese di posizione in ambito dottrinale, che abbiamo richiamato - e come del resto può essere considerato tipico della funzione[54].
Va del resto rimarcato che CILFIT è sentenza capostipite ma che ha conosciuto sviluppi singolari: più avvocati generali, e di ciò Bobek dà conto (par. 174), ne hanno proposto il superamento[55]; la Corte ne ha invece sempre propugnato la piena applicazione, anche recentemente ribadendola ed anzi persino rafforzandola mediante la richiesta di «prova circostanziata» di assenza di ragionevole dubbio sulla soluzione interpretativa propugnata senza accedere al rinvio[56]. D’altra parte, la Direzione ricerca e documentazione della Corte (vedremo che non è circostanza solo aneddotica) ha pubblicato nel 2019 un articolato studio comparatistico sull’applicazione dei criteri CILFIT da parte delle giurisdizioni nazionali d’ultima istanza, ed in particolare sull’interpretazione del concetto ivi esposto di «ragionevole dubbio» interpretativo (ossia in sostanza sull’applicazione della teoria dell’acte clair), con partita analisi di ogni ordinamento nazionale[57]: lo studio - uno dei primi pubblicati dalla Corte rispetto alle analisi della Direzione ricerca e documentazione tradizionalmente confinate ad uso interno - non solo testimonia di per sé l’esistenza di un dibattito mai sopito, ma espressamente conclude rilevando l’inesistenza di un impiego specifico ed espresso dei criteri CILFIT da parte delle giurisdizioni nazionali, le quali spesso parrebbero evitare il rinvio pregiudiziale laconicamente esplicitando l’assenza di ogni «ragionevole dubbio» che sia, ma senza argomentare ulteriormente a riguardo nelle proprie decisioni.
Forse non è un caso allora che il proposto cambio di paradigma dell’avvocato generale Bobek arrivi in questa temperie, e, per vero, cogliendo l’occasione di un rinvio pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato italiano i cui confini sembravano peraltro ben più ridotti, coinvolgendo la limitata (ed invero pacifica) questione dei rapporti tra obbligatorietà del rinvio ex art. 267 comma III TFUE, eventuali preclusioni processuali nel giudizio a quo, eventuale configurabilità di fattispecie d’abuso del diritto nella possibilità delle parti in causa di eccepire a più riprese, anche successivamente a un primo rinvio pregiudiziale disposto, nuove questioni interpretative di diritto dell’Unione passibili di rinvio da parte del giudice d’ultima istanza[58].
L’avvocato generale nelle conclusioni liquida difatti velocemente la questione specifica fatta oggetto di rinvio da parte del Consiglio di Stato: richiama la pacifica competenza del giudice nazionale a sottoporre d’ufficio uno o più quesiti alla Corte di giustizia, per l’interpretazione o la validità di disposizioni sovranazionali, senza che la sollecitazione di una parte del giudizio, che pure è prassi, comporti un obbligo di rinvio (par. 23); rammenta la discrezionalità, pure pacifica, del giudice nazionale nel delibare sulla rilevanza e nel determinare il contenuto del quesiti da porre con l’ordinanza di rinvio, come anche la discrezionalità nel determinare la fase del processo in cui promuoverlo (con preferenza per una fase in cui s’è instaurato il contraddittorio tra le parti, anche al fine di agevolare l’intervento della Corte e promuoverne l’utilità, parr. 24-25); infine, evidenzia l’obbligo per il giudice remittente di disapplicare eventuali regole nazionali che limitino od ostacolino l’adempimento dell’obbligo ex art. 267 comma III TFUE, al fine di garantire la piena efficacia alle disposizioni sovranazionali (parr. 26-27). Applicando questi pacifici postulati, la soluzione al quesito effettivamente posto per il caso Consorzio Italian Management è presto offerta: un rinvio pregiudiziale può essere sottoposto alla Corte in qualsiasi momento e dunque in qualunque stato e grado del giudizio a quo, «indipendentemente da una precedente sentenza pregiudiziale della Corte pronunciata nell’ambito dello stesso procedimento, sempre che il giudice del rinvio ritenga che la risposta della Corte sia necessaria per consentirgli di pronunciare la propria sentenza»; ciò alla luce di una determinazione del giudice nazionale alla luce di «ogni ragionevole dubbio che esso possa ancora nutrire riguardo alla corretta applicazione del diritto dell’Unione nella causa di cui è investito» (par. 31).
Stabilito siffatto approdo mediante la sillogistica applicazione di noti precedenti arresti della Corte, le conclusioni dell’avvocato generale prendono poi ad analizzare un «livello più profondo» della questione, ed ossia se, sul piano normativo, «dovrebbe sussistere ancora un obbligo di rinvio pregiudiziale in casi come quello di specie» (par. 32): ciò anche alla luce delle sollecitazioni, rese espresse, dei governi nazionali intervenienti, in specie quello italiano e quello francese, che hanno chiamato con le loro osservazioni ad una rimeditazione dei criteri CILFIT (a differenza di Commissione e governo tedesco) alla luce dei presidi oggi esistenti in caso di violazione dell’art. 267 comma III TFUE, che già sopra abbiamo richiamato, ed anzi proprio alla luce della necessità di meglio definire quando si consumi una vera e propria violazione di quei disposti e quando ne consegua la possibilità di accedere a quei presidi.
È qui che il profilo dello studioso già critico sulla materia e dell’avvocato generale paiono fondersi: e Bobek invita, in sostanza, la Corte a gridare che il re è (ed è sempre stato) nudo, che i criteri CILFIT altro non incarnano che la fictio posta a presidio del suo ruolo che già sopra s’è descritta (in specie par. 99), e a meditare se quei criteri abbiano oggigiorno ancora senso, anche rispetto alle esigenze sempre più pressanti di controllo dell’afflusso dei casi (espressamente cennate, par. 122) e alla necessità di presidiare ragionevolmente un ruolo nomofilattico rispetto a giurisdizioni molteplici e con sensibilità ben disparate, ad es. in punto di differenziazione tra giurisdizioni di common law e civil law quanto al tema di precedente (par. 163, anche qui espressamente esponendo quando dottrinalmente s’era già arguito in proposito, v. supra).
La rimeditazione si svolge sui binari di una possibile “pubblicizzazione” del ruolo della Corte di giustizia nel sistema di controllo cooperativo svolto mediante la procedura di rinvio pregiudiziale interpretativo – a latere il sistema necessariamente centralizzato, e che tale dovrà rimanere, del rinvio pregiudiziale di validità[59] -. Una “pubblicizzazione” da leggersi come riparametrazione dei fini stessi dell’azione di supervisione della Corte attraverso la procedura interpretativa ex art. 267 TFUE, e da attuarsi mediante un ripensamento dei criteri di obbligatorietà del rinvio delle giurisdizioni nazionali d’ultima istanza nel solco di tre linee distintive: alcune già sostanzialmente tracciate dalla giurisprudenza pregressa, altre tutte da costruire. La prima: la distinzione tra «ragionevoli dubbi» interpretativi oggettivi o puramente soggettivi, e dunque tra necessità di intervento rispetto a rischi di strutturale radicarsi di giurisprudenze contrarie al diritto UE o solo rispetto a difformità del caso di specie (par. 133). La seconda, consonante: la distinzione tra supervisione sulla corretta e uniforme interpretazione del diritto UE e supervisione sull’applicazione minuta, case-by-case (par. 145). La terza: la distinzione tra possibili divergenze interpretative all’interno di un ordinamento nazionale membro e potenziali divergenze transnazionali, ossia che coinvolgano più globalmente l’intero ordinamento dell’Unione (par. 147).
Le conclusioni di Bobek - attraverso l’esplicitazione della natura sostanzialmente fittizia dei criteri CILFIT e delle effettive esigenze di docket control della Corte (che si riconoscono non essere certo garantite dalla capostipite sentenza del 1982) - propugnano una focalizzazione sulla finalità pubblicistica del rinvio pregiudiziale nel solco delle tre linee suddette. Mediante una riscoperta e valorizzazione della giurisprudenza Hoffmann-La Roche[60], la Corte dovrebbe indirizzare il proprio intervento e le proprie limitate risorse anzitutto nei confronti di ragionevoli dubbi interpretativi oggettivi - lasciando per il resto ai giudici nazionali d’ultima istanza la responsabilità del corretto adempimento al loro mandato europeo[61], e la distinzione tra dubbi oggettivi o meramente soggettivi, questi ultimi da potersi sanare mediante risorse interne[62]. Il tutto mentre ai criteri CILFIT, per loro natura, sarebbe connaturata «una buona dose di soggettivismo non accertabile e quini non riesaminabile» (par. 104). Sempre secondo l’impianto originario di Hoffmann-La Roche, pure la Corte dovrebbe concentrarsi, specie ove provengano da rinvii di giudici d’ultima istanza, su interventi diretti a sanare la corretta e uniforme interpretazione del diritto UE, dunque determinandone portato e scopo, e non tanto la corretta applicazione a fatti specifici. Ciò riscoprendo una distinzione tra questioni di fatto e di diritto immanente al sistema di rinvio pregiudiziale, ma spesso obliterata proprio dai giudici nazionali, con linee di demarcazione anche rispetto alle loro culture giuridiche d’appartenenza[63]; e dunque, anche in quest’ottica, lasciando ai giudici nazionali d’ultima istanza la responsabilità di tale actio finium regundorum. Da ultimo, e conseguentemente, concentrando le proprie risorse alla sanatoria di divergenze interpretative che interessino potenzialmente l’ordinamento dell’Unione in quanto tale, e non mere sacche interne di divergenza complementari, nel medesimo stato membro, ad indirizzi corretti, giacché quest’ultime comunque sanabili altrimenti rispetto ad un intervento autoritativo dal Lussemburgo.
Il tutto conducendo al suggerimento di una ricostruzione, in positivo anziché in negativo, dei criteri d’obbligatorietà del rinvio ex art. 267 comma III TFUE, passando dal vaglio dell’inesistenza di un «ragionevole dubbio soggettivo quanto alla corretta applicazione del diritto dell’Unione riguardo a una specifica controversia» al vaglio dell’esistenza di una «divergenza oggettiva individuata nella giurisprudenza a livello nazionale, che pone quindi in pericolo l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione all’interno dell’Unione europea» (par. 133); e richiamando altresì i giudici nazionali d’ultimo grado - rispetto alle grame risultanze dello studio della Direzione documentazione e ricerca della Corte già pubblicato e cui s’è cennato - all’obbligo di adeguata motivazione in materia, ricondotto al rispetto dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (par. 171).
Un empito di ulteriore realismo chiude del resto le conclusioni, esplicitando la loro ratio di riconduzione dell’istituto processuale agli unici obbiettivi di sistema davvero perseguibili: ritenendo «che l’uniformità ex sentenza CILFIT quanto alla corretta applicazione del diritto dell’Unione in ciascun caso di specie sia un’utopia», ritenendo che «tenuto conto del carattere decentralizzato e diffuso del sistema giudiziario dell’Unione, il meglio che si possa mai raggiungere è una ragionevole uniformità nell’interpretazione del diritto dell’Unione, in quanto questo tipo di uniformità è già un compito piuttosto arduo», e arguendo che «quanto all’uniformità nell’applicazione e nei risultati, la risposta» ad ogni interrogativo scettico sia «piuttosto semplice: “nessuno può perdere ciò che non ha mai avuto”» (par. 180).
È forse proprio alla luce di tale chiarezza che può sciogliersi il dubbio - presente nei primi commenti della dottrina italiana - tra chi vede nelle proposte di Bobek una «proposta ribelle» capace di condurre ad una «revisione completa delle condizioni di esenzione dall’obbligo di rinvio, riformulate in modo da renderle - a detta dell’avvocato generale - più applicabili da parte del giudice nazionale e concettualmente più adatte a quello che sembra essere inteso come il “nuovo ruolo” del rinvio pregiudiziale nell’ordinamento dell’Unione»[64], e chi vi scorge solo una «finta rivoluzione» frutto di «un complesso esercizio dialettico, la cui portata non risulta però chiara»[65].
A chi scrive, la proposta pare potenzialmente dirompente - e per ciò, di non scontata accettazione da parte della Corte - giacché in più versi coinvolgente un vero e proprio cambio di paradigma, e una rimeditazione del rapporto tra centralizzazione e decentralizzazione del sistema giudiziario europeo che è immanente alla questione[66]. Essa è esplicitamente tesa a conformare non solo il nuovo ruolo dei giudici nazionali d’ultima istanza nell’architettura giudiziale (proto)federale europea[67], ma anche, in prospettiva, il ruolo della stessa Corte di giustizia in ogni rinvio pregiudiziale interpretativo ex art. 267 TFUE, e dunque, ancora, il rapporto di questa con tutti i giudici nazionali, indirettamente richiamati a più fattiva cooperazione. In tal senso, la proposta travalica non solo, come s’è detto, i limitati scopi dell’ordinanza di rinvio che l’ha originata, ma potenzialmente anche, a ben vedere, il limitato portato del comma III dell’art. 267 TFUE e della sua obbligatorietà: rivolgendosi certo direttamente ai giudici d’ultima istanza, quali fondamentali e sempre più frequenti contraddittori della Corte[68], affinché si facciano più attenti e responsabili guardiani, nell’adempimento del loro mandato europeo, della corretta e uniforme interpretazione ed applicazione del diritto UE (nella propria giurisdizione, ai casi di specie); ma rivolgendosi anche, seppur indirettamente, ad ogni giudice nazionale quale giudice europeo, giacché è tradizionalmente noto che statisticamente siano i giudici di prime cure quelli più propensi all’impiego del rinvio pregiudiziale[69].
Il vero interrogativo che si pone dinanzi a simili coraggiose proposte, cui anche la dottrina scettica accenna[70], è invero quello della concreta applicabilità di simili riconfigurati criteri applicativi, non tanto in punto di loro congenita astrattezza[71], quanto di sufficiente maturità del sistema giudiziario europeo, e dunque di solidità dell’apparato dei giudici nazionali quali giudici europei, per l’incamminarsi rispetto a tale riconfigurazione. Si tratta di un tema su cui, riconosciute le pressioni istituzionali quantitative sulla Corte che ne hanno fatto da una «bit of a family» ad una «bit of a factory»[72], anche illustri membri attuali del Kirchberg hanno criticamente riflettuto, ponendo in dubbio, ancora dopo decenni, la capacità dei giudici nazionali di trasformarsi in attori con più alto grado di autonomia rispetto alla supervisione sovranazionale,[73] e su cui lo stesso Bobek si interroga (par. 127).
Un timore sotteso, questo ultimo, che corre in parallelo e fa da contraltare a quello pressante relativo al docket control, nella cui ottica sarà di grande interesse conoscere le riflessioni della Corte, e che ci conduce, come ripromesso, a qualche ultima riflessione su certe linee di tendenza giurisprudenziali provenienti dal Lussemburgo rispetto alle quali può scorgersi una certa complessiva coerenza.
4. Il contesto in cui si inseriscono le conclusioni dell’avvocato generale Bobek
Le conclusioni del caso Consorzio Italian Management vanno, in effetti, opportunamente contestualizzate nell’ambito di linee di tendenza più ampie che, negli ultimi anni, hanno portato al ripensamento di altre giurisprudenze consolidate che hanno governato il rapporto fra giudici nazionali e Corte di giustizia, in un’opera continua di definizione e ridefinizione delle “regole di ingaggio” su cui si fonda la cooperazione giudiziale ex art. 267 TFUE.
Ci riferiamo in particolare a due veri e propri pilastri, con CILFIT, di quello che abbiamo denominato il diritto processuale “complesso”: Rheinmühlen I[74] e Simmenthal[75], due sentenze capostipite che hanno finito, però, per produrre sempre maggiori resistenze a livello interno, anche alla luce degli ultimi sviluppi del diritto costituzionale europeo.
Volendo partire da Simmenthal, è ovvio il richiamo alle recenti evoluzioni nel rapporto fra Corti costituzionali nazionali e Corte di giustizia dovute alla crescente importanza della Carta dei diritti fondamentali dell’UE nella giurisprudenza nazionale.
Oggi le stesse Corti costituzionali statali riconoscono la sostanza costituzionale del diritto europeo, in particolare della Carta dei diritti. Nel farlo, per altro, non hanno mai rinunciato a una sana dialettica con la Corte di giustizia, a dimostrazione di come il processo di integrazione possa essere sviluppato nel rispetto delle sovranità nazionali:
«Fermi restando i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione europea come sin qui consolidatisi nella giurisprudenza europea e costituzionale, occorre prendere atto che la citata Carta dei diritti costituisce parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale. I principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana (e dalle altre Costituzioni nazionali degli Stati membri)[76]».
Il passaggio della Corte costituzionale italiana citato proviene da una sentenza, la n. 269 del 2017, che ha fatto tanto discutere la dottrina nazionale[77] e che era caratterizzata da passaggi critici, poi (in parte, almeno) assorbiti dalla giurisprudenza seguente[78]. Il passaggio della 269 citato sopra contiene affermazioni importanti, che confermano la centralità del diritto europeo nella garanzia dei diritti; come dimostrato, del resto, anche dal ragionamento delle corti britanniche nella saga Miller[79] che hanno giustificato il necessario intervento del Parlamento inglese proprio sulla base del fatto che uscire dal Regno Unito implicava la sottrazione di diritti attribuiti da fonti europee.
In questo senso, la stessa Carta dei diritti fondamentali ha scontato il prezzo del proprio successo, scatenando persino episodi di concorrenza fra corti a proposito di chi debba avere l’ultima parola sull’interpretazione di quel testo, così simile e sovrapponibile alle disposizioni costituzionali nazionali.
In altre parole, la crescente importanza della Carta dei diritti fondamentali nella giurisprudenza nazionale ha portato alcune giurisdizioni, tra cui in primis le Corti costituzionali austriaca e italiana, a rivendicare maggiore centralità interpretativa quando a essere in gioco sia il possibile conflitto fra una disposizione nazionale e un bene costituzionale tutelato anche da una disposizione della Carta. Tutto ciò ha un evidente impatto sul mandato Simmenthal, già messo in discussione dal caso Melki[80] relativo al presunto contrasto del diritto UE con una legge organica francese (n. 58-1067, relativa al Conseil Constitutionnel francese, come modificata dalla legge organica n. 2009-1523)[81]. Secondo il modello disegnato dalla riforma sulla question prioritaire de constitutionnalité, un giudice comune francese che dubitasse dalla costituzionalità di una disposizione nazionale doveva sottoporre la questione alla Cour de cassation (se giudice ordinario) o al Conseil d’État (se giudice amministrativo), affinché queste valutassero la necessità di sollevare la questione al Conseil Constitutionnel, nell’ottica di un c.d. modello di controllo di costituzionalità incidentale “filtrato”. Il “punto” della riforma contestato, per quel che qui interessa, riguardava un aspetto puntuale della question prioritaire, quello per cui «in ogni caso il Conseil d’État o la Cour de cassation, quando sono dedotti motivi che contestano la conformità di una disposizione legislativa, da un lato, con i diritti e le libertà garantiti dalla Costituzione e, dall’altro, con gli obblighi internazionali della Francia, deve pronunciarsi in via prioritaria sul rinvio della questione di legittimità costituzionale al Conseil constitutionnel» (art. 23-5, L.O.N. 2009-1523). Tale meccanismo finiva, secondo la Corte di Cassazione francese - giudice a quo nel caso Melki - per minacciare il “mandato europeo” del giudice nazionale, e sulla base di queste considerazioni fu sollevata questione pregiudiziale alla Corte di giustizia. Poco prima dell’intervento della Corte di giustizia il Conseil Constitutionnel fornì un’interpretazione “adeguatrice” (in realtà sostanzialmente “abrogatrice”, come rilevato in dottrina[82]) del testo della riforma, che lo rese compatibile con il diritto dell’UE. Tale interpretazione si fondava sul potere cautelare di sospendere ogni effetto pregiudizievole della legislazione sospetta di contrarietà al diritto dell’Unione nell’attesa della delibazione dell’organo deputato del controllo di costituzionalità[83].
Prendendo atto di questa decisione, la Corte di giustizia si pronunciò successivamente, riaffermando nominalmente la validità della linea interpretativa Simmenthal, Rheinmühlen I e Foto Frost, ma pure concludendo, nella sostanza, per la non incompatibilità della questione prioritaria di costituzionalità (come interpretata dal Conseil Constitutionnel) con il diritto UE[84].
Si trattava di una pronuncia fondata su una sorta di appello lanciato ai giudici comuni per un maggiore e più incisivo controllo sulla corretta interpretazione ed applicazione del diritto sovranazionale, nella prospettiva di una sostanziale attenuazione delle rigidità di Simmenthal.
Un altro colpo a Simmenthal arrivò dalla giurisprudenza costituzionale austriaca che avrebbe dato origine al caso A c. B[85].
Questo caso ci ricorda che anche Corti costituzionali sicuramente aperte e cooperative, come quella austriaca - che da sempre ha dimostrato di concepire il rinvio pregiudiziale come strumento centrale del proprio operato - hanno recentemente assunto posizioni simili a quelle della nostra Corte costituzionale[86]. Non a caso la Corte costituzionale italiana, sempre nella sentenza n. 269/2017, scriveva a questo proposito di «trasformazioni che hanno riguardato il diritto dell’Unione europea e il sistema dei rapporti con gli ordinamenti nazionali». Si tratta di un cambiamento che, come si vede ancora più chiaramente nella sentenza n. 63/2019, ha anche dei risvolti positivi, che si concretizzano, per esempio, nel riconoscimento delle garanzie offerte da una pronuncia con efficacia erga omnes al diritto fondamentale equivalente tutelato.
Anche se il nucleo di Simmenthal è stato sempre confermato dalla Corte di giustizia, proprio in A c. B. si chiariva un punto importante, vero compromesso fra le esigenze di centralità delle Corti costituzionali e quelle di uniformità interpretativa e di primato del diritto UE:
«Per contro, il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 267 TFUE, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una siffatta normativa nazionale se i suddetti giudici ordinari restano liberi di […] adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, e disapplicare, al termine di un siffatto procedimento incidentale, la disposizione legislativa nazionale in questione ove la ritengano contraria al diritto dell’Unione»[87].
Da questo passaggio, confermativo di Melki, si evince che l’unico modo di ammettere la non disapplicazione immediata prima del termine del procedimento incidentale è garantire al giudice l’esperibilità di una «misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione». Questo è quello che sembra suggerire anche la pratica francese all’indomani di Melki. Solo in questo modo il mandato Simmenthal può essere salvato. Simmenthal, del resto, non riguarda solo l’istituto della disapplicazione della norma interna contraria a quelle del diritto UE, ma indubbiamente verte sul più organico obbligo, per il giudice nazionale, di «garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale»[88].
Per cogliere il nesso esistente fra Simmenthal e Rheinmühlen I va richiamato un contesto forse ancora più complesso. In Rheinmühlen I la Corte di giustizia aveva stabilito che
«I giudici nazionali godono della più ampia facoltà di rinviare alla Corte di giustizia - sia d’ufficio che su domanda di parte - questioni sorte nell’ambito di una controversia dinanzi ad essi pendente, e vertenti sull’interpretazione o sulla validità di norme di diritto comunitario. Essi non possono esserne privati da norme di diritto interno che li vincolino al rispetto di valutazioni giuridiche espresse da un giudice di grado superiore»[89].
Per certi versi, si potrebbe dire che Simmenthal trovi un suo risvolto processuale in Rheinmühlen I che - nelle parole dell’avvocato generale Cruz Villalón nelle conclusioni al caso Elchinov - aveva «introdotto una sorta di controllo decentralizzato della “comunitarietà” non già delle norme, bensì delle decisioni giurisdizionali»[90].
Con Rheinmühlen I la Corte poneva le basi per la creazione di un rapporto davvero diretto con i giudici nazionali, in particolare con quelli di prima istanza che hanno avuto, si è già detto sopra, più delle corti apicali un ruolo centrale nello sviluppo della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo.
In quest’ottica il diritto interno non può creare ostacoli che si frappongano a tale rapporto diretto. Su questa base la Corte di giustizia ha sviluppato altre sentenze storiche come Factortame, in cui si sanciva che «la piena efficacia del diritto comunitario sarebbe ridotta se una norma di diritto nazionale potesse impedire al giudice chiamato a dirimere una controversia disciplinata dal diritto comunitario di concedere provvedimenti provvisori allo scopo di garantire la piena efficacia della pronuncia giurisdizionale sull’esistenza dei diritti invocati in forza del diritto comunitario»[91].
Si noti che la Corte così finiva per riconoscere il ruolo dei poteri cautelari del giudice nazionale - la cui centralità abbiamo appena discusso analizzando Melki e A c. B - quale giudice di diritto dell’UE.
Rheinmühlen I è stata quindi la premessa che ha portato allo sviluppo di una giurisprudenza sempre più invasiva nei confronti delle dinamiche processualistiche nazionali – la cui autonomia può essere definita ormai un vero e proprio «paradiso perduto»[92] - fino ad arrivare a toccare territori che si supponevano invalicabili: quelli del giudicato nazionale.
Su questo sfondo, già nelle conclusioni al caso Elchinov[93] del 2010, l’avvocato generale Pedro Cruz Villalón aveva insistito sulla necessità di rivisitare Rheinmühlen I alla luce della querelle sull’intaccabilità del giudicato nazionale dopo sentenze come Köbler[94], Kühne & Heitz[95], Kempter[96] e Kapferer[97].
Il nocciolo del problema (rinviando ad altra sede per l’analisi estesa della questione[98]) era ed è il seguente: all’indomani di Köbler (e poi di Traghetti del Mediterraneo[99]), la dottrina si era posta il problema della possibile tangibilità del giudicato nazionale in seguito all’avvenuta condanna statale per violazione del diritto comunitario “perpetrata” attraverso un organo giudiziale nazionale.
La Corte di giustizia sul punto si è trovata dinanzi ad un dilemma: la lotta per l’uniformità del diritto europeo, così centrale anche nei criteri CILFIT, può spingersi fino al punto da minacciare il principio del giudicato nel diritto interno[100]?
La questione si era ripresentata con forza nel caso C-453/00, Kühne & Heitz, in cui il giudice nazionale chiedeva alla Corte di giustizia se il diritto comunitario comportasse l’obbligo per un organo amministrativo di rivedere una decisione divenuta definitiva, al fine di assicurare la completa efficacia del diritto comunitario, «così come quest’ultimo deve essere interpretato, in base a quanto risulta dalla soluzione data ad una successiva domanda di pronuncia pregiudiziale»[101].
La Corte di giustizia rispondeva ricordando che la certezza del diritto rientrava tra i principi generali riconosciuti nel diritto comunitario e che il carattere definitivo di una decisione amministrativa contribuiva a tale certezza, legando a questa premessa la conseguenza per cui «il diritto comunitario non esige che un organo amministrativo sia, in linea di principio, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo»[102].
A questa generale regola, la Corte aggiungeva delle eccezioni. Nelle parole della Corte di giustizia:
«Il principio di cooperazione derivante dall’art. 10 Ce impone ad un organo amministrativo, investito in una richiesta in tal senso, di riesaminare una decisione amministrativa definitiva per tener conto dell’interpretazione della disposizione pertinente nel frattempo accolta dalla Corte qualora:
- disponga, secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione;
- la decisione in questione sia diventata definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima istanza;
- tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario adottata, senza che la Corte fosse adita a titolo pregiudiziale alle condizioni previste all’art. 234 Ce, n. 3, e
- l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo essere stato informato della detta giurisprudenza»[103].
Questo rinvio al diritto nazionale rivelava la preferenza espressa dalla Corte di giustizia per la revisione del giudicato al fine di assicurare l’effettività del diritto comunitario, ma mostrava anche quanto il giudice del Lussemburgo fosse consapevole della delicatezza di una tale operazione, sì da “suggerirla”, ma solo per il caso in cui il sostrato normativo interno lo permettesse. Quanto detto in quella occasione veniva confermato nella sentenza Kempter[104], mentre in Kapferer la Corte di giustizia distingueva fra la decisione amministrativa definitiva e la pronuncia di un giudice passata in giudicato[105], limitando così l’applicazione del principio di Kühne & Heitz al caso di una decisione giurisdizionale[106].
Con quest’ultima precisazione relativa alla non immediata applicabilità del principio di Kühne al versante del giudicato giurisdizionale, la Corte di giustizia sembrava avere rassicurato i molti commentatori preoccupati dal tentativo della Corte di costruire un sistema giudiziario quasi federale[107]. Poco dopo, tali timori sarebbero però stati confermati dalla pronuncia Lucchini[108], in cui la Corte di giustizia concludeva riconoscendo la prevalenza dell’interesse all’applicazione uniforme del diritto comunitario sul principio dell’autorità nazionale del giudicato, come in quel caso espresso dall’art. 2909 del codice civile italiano, «nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione della Commissione divenuta definitiva»[109].
Il giudicato nazionale non sembrava più un ostacolo insormontabile dopo Lucchini; va però detto che il contesto di Lucchini era particolare: nell’ambito di quella controversia il giudice aveva adottato palesemente un atto non di sua competenza, chiaramente ultra vires, come la Corte di giustizia aveva avuto modo di rimarcare anche in altre sedi[110]. Se però il caso Lucchini poteva rimanere un’eccezione, nuovi timori si aggiunsero dopo il caso Fallimento Olimpiclub[111] della Corte di giustizia, in cui essa tornò a “colpire” l’art. 2909 del c.c. italiano, o meglio l’interpretazione che ne veniva data dai giudici italiani. In quell’occasione alla Corte di giustizia veniva chiesto se l’interpretazione dell’art. 2909 c.c[112], offerta in materia fiscale dai giudici italiani, si ponesse in contrasto con il principio di effettività comunitario, e la Corte concludeva constatando che il diritto comunitario «osta all’applicazione, in circostanze come quelle della causa principale, di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile, in una causa vertente sull’imposta sul valore aggiunto concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta»[113].
Proprio le preoccupazioni suscitate da sentenze come Fallimento Olimpiclub e Cartesio ponevano le basi per le conclusioni dell’avvocato generale Cruz Villalón al caso Elchinov[114], in cui quest’ultimo suggeriva di contestualizzare e superare la rigidità imposta da Rheinmühlen I.
Le ragioni di un possibile superamento di Rheinmühlen I venivano ricercate dall’avvocato generale nella giurisprudenza Köbler[115], che aveva introdotto un nuovo rimedio nel diritto processuale complesso, trasformandone «lo scenario di fondo»[116] (in modo similare a quanto può dirsi oggi per CILFIT, rispetto ai nuovi rimedi sopravvenuti e sopra evidenziati).
In quell’occasione l’avvocato generale si premurava anche di chiarire il rapporto fra la soluzione proposta e la sentenza Cartesio[117], che già aveva a sua volta rivisto Rheinmühlen I, stabilendo che la possibilità di sollevare questioni alla Corte ex art. 267 TFUE «sarebbe rimessa in discussione se, riformando la decisione che dispone il rinvio pregiudiziale, rendendola priva di effetti e ordinando al giudice che ha emanato tale decisione di riprendere la trattazione del procedimento sospeso, il giudice dell’appello potesse impedire al giudice del rinvio di esercitare la facoltà di adire la Corte conferitagli dal Trattato CE»[118]. Nelle sue conclusioni l’avvocato generale Cruz Villalón distingueva in quest’ottica fra fase ascendente (a cui si riferiva Cartesio) e discendente di una lite[119].
In quell’occasione, infatti, si tracciava un parallelo tra sviluppi istituzionali, per cui «man mano che i giudici di ultima istanza cominciano a rispondere direttamente delle loro decisioni che risultano contrarie al diritto dell’Unione, il sacrificio della certezza del diritto e dell’autonomia processuale dei giudici nazionali perde la priorità rispetto all’obiettivo di garantire l’effettività dell’ordinamento dell’Unione»[120]. In quell’occasione, infatti, anche l’avvocate generale Cruz Villalón menzionava - come Bobek nelle conclusioni qui commentate - le ragioni di fondo legate a insopprimibili questioni organizzative e all’«aumento del carico di lavoro cui è esposta la Corte di giustizia». In questo senso, già nell’ottica di Cruz Villalón «l’elevato numero di questioni pregiudiziali che giungono alle porte di questa istituzione, nonché l’istituzione di procedimenti urgenti destinati a ricevere una risposta in termini più brevi, rendono probabilmente più impellente l’esigenza che la nostra giurisdizione condivida alcune funzioni con i giudici nazionali»[121].
Questo è un elemento che anima anche le conclusioni dell’avvocato generale Bobek e che nasce dalla necessità di rafforzare le dinamiche cooperative fra giudici in un ordinamento che è molto cambiato nel corso degli ultimi venti anni.
Come noto, le proposte dell’avvocato generale Cruz Villalón non furono sposate dalla Corte nella sentenza Elchinov[122]. Vedremo se la Corte di giustizia, dopo più di dieci anni, considererà in Consorzio Italian Management maturi i tempi per un nuovo passo nell’ottica della cooperazione con i giudici nazionali.
5. Conclusioni
In questo saggio, dopo aver ricordato le origini della giurisprudenza CILFIT, abbiamo cercato di offrire un commento alle conclusioni dell’avvocato generale Bobek nel caso Consorzio Italian Management. La ricchezza delle riflessioni dell’avvocato generale non può che condurre ad un’analisi sfaccettata: nel cui ambito non si è voluta azzardare una previsione rispetto alle scelte da compiersi da parte della Corte di giustizia, ma con cui si è però inteso contestualizzare la proposta ridefinitoria inclusa in quelle conclusioni e le scelte di fondo cui la Corte è chiamata.
La contestualizzazione - che, si è visto, è storico-comparatistica e investe certe linee di tendenza nello sviluppo della giurisprudenza della Corte - è in fondo tutta centrata sul grado di maturazione degli apparati giudiziari nazionali rispetto al corretto adempimento del loro “mandato europeo”: e dunque, potenzialmente, rispetto ad un ruolo di complemento ed ausilio a quanto la Corte di giustizia, vittima ma anche artefice del proprio successo, non può gestire efficacemente per naturali pressioni istituzionali. Ciò, se vogliamo, in un’ottica di riparametrazione dei confini del concetto stesso di «nomofilachia integrata» che viene a imporsi, e dei compiti che vi sono sottesi per i vari attori giurisdizionali[123].
Va certo chiosato che questa nuova tappa della continua ridefinizione dei rapporti interni all’architettura giudiziaria europea, e al suo diritto processuale “complesso”, arriva in una temperie in cui si discute e si giudica, in Lussemburgo, addirittura sulla fedeltà di certi ordinamenti nazionali e di certi loro apparati giudiziari ai principi più basilari della rule of law[124]. In tal contesto, la Corte suole richiamare gli Stati membri al rispetto delle proprie obbligazioni sistemiche ex art. 19 TUE proprio per garantire il funzionamento pacifico del sistema del rinvio pregiudiziale[125], affetto da una «inherent weakness»[126] nella sua dipendenza dalla leale cooperazione dei giudici nazionali, eppure così fondamentale anche per fronteggiare fenomeni di democratic backsliding[127].
Potrebbe non essere, insomma, il momento più opportuno per una nuova e ampia ridefinizione del meccanismo ex art. 267 TFUE come quella, coraggiosa, proposta da Bobek: non è però escluso che la chiamata ad una cooperazione più stretta ed equilibrata arrivi proprio in simile frangente, anche per saggiare la tenuta del sistema complessivo.
L’occasione della sentenza Consorzio Italian Management sarà, nel caso, il momento per aggiornare le nostre valutazioni in proposito.
* Giuseppe Martinico è professore ordinario di diritto pubblico comparato alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Leonardo Pierdominici è assegnista di ricerca in diritto pubblico comparato all’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna. Il presente contributo è il prodotto di comuni riflessioni, ma, nello specifico, Giuseppe Martinico è autore dei paragrafi 1 e 4, Leonardo Pierdominici è autore dei paragrafi 2 e 3, mentre il paragrafo 5 è stato redatto congiuntamente. Desideriamo ringraziare Umberto Lattanzi e Marta Simoncini per i loro commenti.
[1] Conclusioni dell’avvocato generale Michal Bobek, presentate il 15 aprile 2021, causa C-561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi c. Rete Ferroviaria Italiana SpA.
[2] Sentenza del 6 ottobre 1982, CILFIT / Ministero della Sanità (283/81, Rec. 1982 p. 3415) (ES1982/01073 SVVI/00513 FIVI/00537) ECLI:EU:C:1982:335.
[3] Nel senso descritto in G. Martinico, The Tangled Complexity of the EU Constitutional Process. The Frustrating Knot of Europe, Routledge 2012.
[4] Come testimoniato anche dalle considerazioni fatte nel volume di L. Azoulai, L.M. Poiares Maduro (cur.), The Past and Future of EU Law. The Classics of EU Law Revisited on the 50th Anniversary of the Rome Treaty, Hart Publishing 2010, 171 ss.
[5] I. Pernice, Multilevel Constitutionalism and the Treaty of Amsterdam: European Constitution Making Revisited?, in Common Market Law Review 1999, 703.
[6] Parere 2/13 (Accession of the European Union to the ECHR) del 18 dicembre 2014 (Digital Reports) ECLI:EU:C:2014:2454, par. 167.
[7] Fra i vari si vedano, in particolare: G. Vandersanden, A. Barav, Contentieux communautaire, Bruylant 1977, 312-315; A. Trabucchi, L’effet erga omnes des décision préjudicelles rendues par la Cour de justice des Communautés européennes, in Revue trimestrielle de droit européen 1974, 56; G. Floridia, Forma giurisdizionale e risultato normativo del procedimento pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali 1978, 1; P. Pescatore, Il rinvio pregiudiziale di cui al 177 del Trattato C.E.E. e la cooperazione fra Corte di giustizia e giudici nazionali, in Foro italiano I pt. 5 1986, 26, 41; A. Briguglio, Pregiudiziale comunitaria, Enciclopedia giuridica Treccani, XXIII 1997, ad vocem, 1, 13; G. Bebr, Preliminary Rulings of the Court of Justice: Their Authority and Temporal Effect, in Common Market Law Review 1981 475; F. Ghera, Pregiudiziale comunitaria, pregiudiziale costituzionale e valore di precedente delle sentenze interpretative della Corte di giustizia, in Giurisprudenza costituzionale 2000, 1292.
[8] G. Martinico, L’integrazione silente. La funzione interpretativa della Corte di giustizia e il diritto costituzionale europeo, Jovene 2009, 114.
[9] Discrezionalità ex art. 267 comma III TFUE che, come noto, oggi molto fa discutere anche a livello interno, cfr. Cass. civ. Sez. un. 18 settembre 2020 n. 19598, su cui v. M. Lipari, L’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia: i rimedi previsti dal diritto dell’Unione europea, l’inammissibilità del ricorso in Cassazione e la revocazione ordinaria, in Giustamm – rivista di diritto pubblico 2021, p. 1, e, con riflessioni a livello sistematico, P. Biavati, Il rilievo della questione pregiudiziale europea fra processo e giurisdizione (nota a Cass., S.U., 30 ottobre 2020, n. 24107), in Giustizia Insieme 2021.
[10] R. Torresan, La giurisprudenza CILFIT e l’obbligo di rinvio pregiudiziale interpretativo: la proposta “ribelle” dell’avvocato generale Bobek, in rivista.eurojus.it, 19 aprile 2021; E. Gambaro, I. Bellini, Rinvio pregiudiziale e giudice di ultima istanza: occorre ripensare i criteri “CILFIT”?, in gtlaw.com, 29 aprile 2021; P. De Pasquale, La (finta) rivoluzione dell’avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19, in Il diritto dell’Unione europea – Osservatorio europeo, 15 maggio 2021.
[11] Cfr. almeno M. Bobek, Comparative Reasoning in European Supreme Courts, Oxford University Press 2013, M. Bobek (cur.), Selecting Europe's Judges: A Critical Review of the Appointment Procedures to the European Courts, Oxford University Press 2015, e, per quel che qui interessa, M. Bobek, Learning to Talk: Preliminary Rulings, the Courts of the New Member States and the Court of Justice, in Common Market Law Review 2008, 1611, e M. Bobek, The Court of Justice, the National Courts, and the Spirit of Cooperation: Between Dichtung und Warheit, in A. Lazowsk, S. Blockmans (cur.), Research Handbook on EU Institutional Law, Edward Elgar 2016, 353-375.
[12] Sentenza del 6 ottobre 1982, CILFIT / Ministero della Sanità (283/81, Rec. 1982 p. 3415) (ES1982/01073 SVVI/00513 FIVI/00537) ECLI:EU:C:1982:335.
[13] Sentenza del 6 ottobre 1982, CILFIT / Ministero della Sanità (283/81, Rec. 1982 p. 3415) (ES1982/01073 SVVI/00513 FIVI/00537) ECLI:EU:C:1982:335, par. 4.
[14] Sentenza del 29 febbraio 1984, CILFIT (77/83, Rec. 1984 p. 1257) ECLI:EU:C:1984:91.
[15] Cfr. T. Millett, European Court of Justice Adopts Doctrine of Acte Clair, in New Law Journal 198, 443, nella dottrina italiana N. Catalano, La pericolosa teoria dell'"atto chiaro", in Giustizia civile 1983, p. 12, e le riflessioni recenti di D. Edward, CILFIT and Foto-Frost in Their Historical and Procedural Context, in L. Azoulai, L.M. Poiares Maduro (cur.), The Past and Future of EU Law. The Classics of EU Law Revisited on the 50th Anniversary of the Rome Treaty, op. cit., 173, su quella che che l’ex giudice scozzese della Corte definisce come una pronuncia «frequently misunderstood»; e cfr. l’ancora più recente intervento del Vicepresidente del Conseil d’État francese Jean-Marc Sauvé al Congresso per il 25° anniversario della Europäische Rechtsakademie di Trèves del 19 ottobre 2017, disponibile all’indirizzo https://www.conseil-etat.fr/actualites/discours-et-interventions/l-autorite-du-droit-de-l-union-europeenne-le-point-de-vue-des-juridictions-constitutionnelles-et-supremes#:~:text=3.,la%20technique%20des%20renvois%20pr%C3%A9judiciels, ove si sostiene che «La théorie de l’acte clair, qui résulte d’une jurisprudence du Conseil d’État, ensuite admise par la Cour de justice de l’Union européenne, permet quant à elle un recours raisonné à la technique des renvois préjudiciels».
[16] Sul riferimento al modello del controllo incidentale di costituzionalità per la creazione dell’istituto del rinvio pregiudiziale sia concesso il rimando a L. Pierdominici, Genesi e circolazione di uno strumento dialogico: il rinvio pregiudiziale nel diritto comparato sovranazionale, in federalismi.it 20/2020, 226, oltre che, a contrario rispetto a trapianto in contesto diverso che ha finito per modificare le caratteristiche dell’istituto, alle notazioni nelle conclusioni dell’avvocato generale Francesco Capotorti, presentate il 13 luglio 1982, causa CILFIT / Ministero della Sanità (283/81, Rec. 1982 p. 3415) (ES1982/01073 SVVI/00513 FIVI/00537) ECLI: ECLI:EU:C:1982:267.
[17] Cfr. M. Rasmussen, Rewriting the History of European Public Law: The New Contribution of Historians, in American University International Law Review 2013, 1187; A. Vauchez, The Force of a Weak Field: Law and Lawyers in the Government of the European Union (For a Renewed Research Agenda), in International Political Sociology 2008, 128; A. Vauchez, B. de Witte (cur.), Lawyering Europe. European Law as a Transnational Social Field, Hart Publishing 2013; F. Nicola, B. Davies (cur.), EU Law Stories: Contextual and Critical Histories of European Jurisprudence, Cambridge University Press 2017.
[18] Case Re Societé des Petroles Shell-Berre and Others, Conseil d’État, 1964-06-19, (1964) CMLR 462.
[19] Cfr. sul punto G. Lebrun, Office du juge administratif et questions préjudicielles. Recherche sur la situation de juge a quo, L.G.D.J 2017.
[20] Case BSG 1970-01-22, 4 RJ 109/69 (Re French Widow’s Pension Settlement), (1971) CMLR 530.
[21] E. Schober, Die Lehre vom ‘Acte Clair’ im franzosischen Recht, in Neue Juristische Wochenschrift 1966, 2252.
[22] Court of Appeal, 22 May 1974, HP Bulmer Ltd & Anor v. J. Bollinger SA & Ors (1974) EWCA Civ 14.
[23] M. Lagrange, Cour de Justice et Tribunaux nationaux. La theorie de l’acte clair pomme de discorde ou trait d’union, in Gazette du Palais 1971; M. Lagrange, The Theory of Acte Clair: A Bone of Contention or a Source of Unity?, in Common Market Law Review 1971, 313.
[24] P. Pescatore, L’interpretation du droit communautaire et la doctrine de l’acte clair, in Bullettin des juristes Européens 1971, 49; P. Pescatore, Interpretation of Community Law and the Doctrine of ‘Acte Clair’, in Legal Problems of an Enlarged European Community 1972, 46.
[25] Risposta all'interrogazione scritta n. 608/78 dell'onorevole Krieg (GU C 28 del 31 gennaio 1979), di cui dà conto nella parte in fatto la stessa Sentenza del 6 ottobre 1982, CILFIT / Ministero della Sanità (283/81, Rec. 1982 p. 3415) (ES1982/01073 SVVI/00513 FIVI/00537) ECLI:EU:C:1982:335, p. 3425.
[26] D. Edward, CILFIT and Foto-Frost in Their Historical and Procedural Context, op. cit., 177.
[27] Conclusioni dell’avvocato generale Francesco Capotorti, presentate il 13 luglio 1982, causa C-283/81, CILFIT / Ministero della Sanità (ECLI:EU:C:1982:267), par. 4: «Infine, non va trascurata la testimonianza dei fatti: essi dimostrano che la teoria dell'atto chiaro, messa in pratica con riferimento all'articolo 177, ha avuto un'applicazione che non esito a definire aberrante. Il Consiglio di Stato francese, che di quella teoria rimane il principale utilizzatore, si spinse già nel 1967 fino ad affermare che la nozione di misure di effetto equivalente a una restrizione quantitativa all'importazione, ai sensi dell'articolo 30 del Trattato CEE — una delle nozioni più tormentate di questo Trattato, come la giurisprudenza della nostra Corte dimostra — non richiedeva alcuna interpretazione (decisione 27. 1. 1967, Syndicat national des importateurs français en produits laitiers, Recueil Lebon, 1967, p. 41) (…) Tutto ciò dimostra, io credo, che la teoria dell'atto chiaro porta lontano: porta in sostanza a svuotare di significato il terzo comma dell'articolo 177. Non è dunque partendo da questa teoria — infondata ed ambigua — che si può sperare di rispondere correttamente al quesito proposto dalla Corte di Cassazione italiana».
[28] Sentenza del 27 marzo 1963, Da Costa en Schaake NV e.a. / Administratie der Belastingen (28 à 30-62, Rec. 1963 p. 61) (NL1963/00063 DE1963/00060 IT1963/00059 EN1963/00031 DA1954-1964/00395 EL1954-1964/00893 PT1962-1964/00233 ES1961-1963/00365 SVI/00171 FII/00173) ECLI:EU:C:1963:6.
[29] D. Edward, CILFIT and Foto-Frost in Their Historical and Procedural Context, op. cit., 178.
[30]«Condizioni molto rigorose, apparentemente persino diaboliche» sono i criteri CILFIT secondo G. Tesauro, Diritto comunitario, CEDAM 1995, 210.
[31] Si pensi alla discussa sentenza del 25 luglio 2018, Minister for Justice and Equality (Défaillances du système judiciaire) (C-216/18 PPU, Publié au Recueil numérique) ECLI:EU:C:2018:586, in cui si demanda al giudice nazionale il vaglio autonomo dell’«esistenza di un rischio reale di violazione del diritto fondamentale a un equo processo garantito dall’articolo 47, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a causa di carenze sistemiche o generalizzate riguardanti l’indipendenza del potere giudiziario dello Stato membro emittente» un mandato d’arresto europeo, in sostanza richiamandolo all’aderenza agli accertamenti delle istituzioni sovranazionali sul punto.
[32] Cfr. H. Rasmussen, The European Court’s Acte Clair Strategy in C.I.L.F.I.T.; Or, Acte Clair, of Course! But What Does it Mean?, in European Law Review 1984, 242; G.F. Mancini, D.T. Keeling, From CILFIT to ERT: The Constitutional Challenge Facing the European Court, in Yearbook of European Law 1991, 4.
[33] M. Bobek, On the Application of European Law in (Not Only) the Courts of the New Member States: “Don’t Do as I say”?, in Cambridge Yearbook of European Legal Studies 2007-2008, 1; X. Groussot, Spirit, Are You There? Reinforced Judicial Dialogue and the Preliminary Ruling Procedure, Eric Stein Working Paper n. 4/2008, disponibile al sito http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1279367, 7.
[34] Sentenza del 30 settembre 2003, Köbler (C-224/01, Rec. 2003 p. I-10239) ECLI:EU:C:2003:513.
[35] Sentenza del 4 ottobre 2018, Commission / France (Précompte mobilier) (C-416/17) ECLI:EU:C:2018:811.
[36] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 20 settembre 2011, n. 3989/07 e 38353/07, Ullens de Schooten et al. c. Belgio.
[37] Cfr. in Spagna, Tribunal Constitucional, 19 aprile 2004, STC 58/2004 (ECLI:ES:TC:2004:58); nella Repubblica ceca, Ústavní soud, 8 gennaio 2009, n. II. ÚS 1009/08; in Slovacchia, Ústavný súd, sentenza del 18 aprile 2012, n. II. ÚS 140/2010; in Slovenia, Ustavno sodišče, decisione n. Up 1056/11 del 21 novembre 2013, ECLI:SI:USRS:2013:Up.1056.11; in Croazia, Ustavni sud Republike Hrvatske, decisione n. U III 2521/2015 del 13 dicembre 2016; in Germania, Bundesverfassungsgericht, ordinanza del 9 maggio 2018 – 2 BvR 37/18; in dottrina v. le analisi comparate in L. Coutron (cur.), L’obligation de renvoi préjudiciel à la Cour de justice: une obligation sanctionnée?, Bruylant 2014, e C. Lacchi, Preliminary References to the Court of Justice of the European Union and Effective Judicial Protection, Larcier 2020, 109 ss.
[38] Si cfr. la Relazione annuale della Corte di giustizia dell’Unione europea sull’attività giudiziaria 2020, disponibile al sito https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2021-04/ra_jud_2020_en.pdf, specialmente quanto alle statistiche alle pagg. 206 e ss.: si noti, in particolare, rispetto all’afflusso dei casi cui s’è fatto riferimento, il numero sempre crescente d’arretrato relativo ai rinvii pregiudiziali a pag. 222, con 575 casi pendenti al 2015, 661 al 2017, 709 al 2018, 749 al 2019, 771 al 2020.
[39] S. Prechal, National Courts in EU Judicial Structures, in Yearbook of European Law 2007, 429, 432-433.
[40] Relazione annuale della Corte di giustizia dell’Unione europea sull’attività giudiziaria 2020, op. cit.
[41] Secondo la nota definizione di T. Koopmans, La procédure préjudicielle - victime de son succès?, in F. Capotorti, C. Ehlermann (cur.), Du droit international au droit de l’integration - Liber amicorum Pierre Pescatore, Nomos Verlagsgesellschaft 1987, 347.
[42] Sia consentito in tal senso il rinvio alle specifiche riflessioni in L. Pierdominici, The Mimetic Evolution of the Court of Justice of the EU. A Comparative Law Perspective, Palgrave Macmillan 2020, 229 ss.
[43] T. Kennedy, First Steps towards a European Certiorari?, in European Law Review 1993, 121; L. Heffernan, The Community Court Post-Nice: A European Certiorari Revisited, in The International and Comparative Law Quarterly 2003, 907.
[44] G. Davies, Abstractness and Concreteness in the Preliminary Reference Procedure, in N. Nic Shuibhne (cur.), Regulating the Internal Market, Edward Elgar Publishing 2006, 210; L. Pierdominici, The Mimetic Evolution of the Court of Justice of the EU. A Comparative Law Perspective, op. cit., 229 ss.
[45] Cfr. le riflessioni critiche in M. Bobek, Of Feasibility and Silent Elephants: The Legitimacy of the Court of Justice through the Eyes of National Courts, in M. Adams, H. de Waele, J. Meeusen, G. Straetmans (cur.), Judging Europe’s Judges: The Legitimacy of the Case Law of the European Court of Justice, Hart Publishing 2013, 197.
[46] Regolamento (UE, Euratom) n. 741/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 agosto 2012, che modifica il protocollo sullo statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea e il relativo allegato I, che espressamente menziona in parte motiva l’aggravio di lavoro assommatosi sulla Corte e sulla sua presidenza.
[47] Art. 99 del Regolamento di procedura della Corte di giustizia: «Quando una questione pregiudiziale è identica a una questione sulla quale la Corte ha già statuito, quando la risposta a tale questione può essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza o quando la risposta alla questione pregiudiziale non dà adito a nessun ragionevole dubbio, la Corte, su proposta del giudice relatore, sentito l’avvocato generale, può statuire in qualsiasi momento con ordinanza motivata».
[48] Art. 76(2) del Regolamento di procedura della Corte di giustizia: «Su proposta del giudice relatore, sentito l’avvocato generale, la Corte può decidere di non tenere un’udienza di discussione qualora essa giudichi, a seguito della lettura delle memorie o delle osservazioni depositate durante la fase scritta del procedimento, di essere sufficientemente edotta per statuire».
[49] Art. 20 u.c. dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea: «Ove ritenga che la causa non sollevi nuove questioni di diritto, la Corte può decidere, sentito l’avvocato generale, che la causa sia giudicata senza conclusioni dell’avvocaro generale»; 82(1) del Regolamento di procedura della Corte di giustizia: «In caso di svolgimento di un’udienza di discussione, le conclusioni dell’avvocato generale sono presentate dopo la chiusura di quest’ultima».
[50] C. Timmermans, The European Union’s Judicial System, in Common Market Law Review 2004, 393, 405.
[51] Cfr. le proposte di riforma di J.P. Jacqué, J.H.H. Weiler, On the Road to European Union - A New Judicial Architecture: An Agenda for the Intergovernmental Conference, in Common Market Law Review 1990, 185; di F.G. Jacobs, già membro britannico della Corte, nella sua audizione dinanzi alla House of Lords, European Union Committee, 14th Report of Session 2010–11, “The Workload of the Court of Justice of the European Union”, le cui risultanze sono disponibili al sito http://www.publications. parliament.uk/pa/ld201011/ldselect/ldeucom/128/128.pdf; ed in particolare il report su “The Future of the Judicial System of the European Union (Proposals and Reflections)” della Corte di giustizia dell’Unione stessa, del 1999, pubblicato in A. Dashwood, A. Johnston (cur.), The Future of the Judicial System of the European Union, Hart Publishing 2001, p. 145, e il Report del Working Party on the Future of the European Communities’ Court System, 2000 (il c.d. Ole Due Report). In una risoluzione del 9 luglio 2008 sul ruolo del giudice nazionale nell’architettura giudiziaria europea (2007/2027(INI)), lo stesso Parlamento europeo s’è espresso in favore di una soluzione quale la c.d. green light procedure: «31. Considers that, in a decentralized and mature Community legal order, national judges should not be marginalized but rather given more responsibility and further encouraged in their role as first judges of Community law; therefore urges consideration of a “green light” system whereby national judges could include their proposed answers to the questions they refer to the Court of Justice, which could then decide within a given period whether to accept the proposed judgement or whether to rule itself in the manner of an appellate court»).
[52] Cfr. l’art. 256 par. 3 TFUE: «Il Tribunale è competente a conoscere delle questioni pregiudiziali, sottoposte ai sensi dell'articolo 267, in materie specifiche determinate dallo statuto», rimasto inapplicato nonostante le successive clausole di salvaguardia secondo cui «Il Tribunale, ove ritenga che la causa richieda una decisione di principio che potrebbe compromettere l'unità o la coerenza del diritto dell'Unione, può rinviare la causa dinanzi alla Corte di giustizia affinché si pronunci» e «Le decisioni emesse dal Tribunale su questioni pregiudiziali possono eccezionalmente essere oggetto di riesame da parte della Corte di giustizia, alle condizioni ed entro i limiti previsti dallo statuto, ove sussistano gravi rischi che l'unità o la coerenza del diritto dell'Unione siano compromesse».
[53] Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale (2019/C 380/01), disponibili al sito https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=OJ:JOC_2019_380_R_0001.
[54] Cfr. le riflessioni dello stesso Bobek sul ruolo dell’avvocato generale quale “ricercatore interno” alla Corte ed innovatore in M. Bobek, A Fourth in the Court: Why Are There Advocates-General in the Court of Justice?, in Cambridge Yearbook of European Legal Studies 2011–2012, 529; in tal senso v. anche L. Clément-Wiltz, La fonction de l’avocat général près la Cour de justice, Bruylant 2011, in particular at 53 et seq., che parla di funzioni di «mise à l’épreuve» e «mise en cohérence de la jurisprudence» della Corte.
[55] Conclusioni dell’avvocato generale Ruiz Jarabo Colomer nella causa Gaston Schul Douane expediteur (C 461/03, EU:C:2005:415, paragrafo 52) nonché́ conclusioni dell’avvocato generale Jacobs nella causa Wiener SI (C 338/95, EU:C:1997:352, paragrafi 59 e 60).
[56] Sentenza del 28 luglio 2016, Association France Nature Environnement (C-379/15) ECLI:EU:C:2016:603, par. 52.
[57] Research Note of the Directorate-General for Library, Research and Documentation of the Court of Justice of the EU «Application of the Cilfit case-law by national courts or tribunals against whose decisions there is no judicial remedy under national law», disponibile al sito https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2020-01/ndr-cilfit_synthese_en.pdf.
[58] Secondo una linea interpretativa della magistratura amministrativa in tema di presunto «abuso del rinvio pregiudiziale» recentemente conclamatasi: cfr. Consiglio di Stato sez. IV 7 agosto 2020 n. 4970, e Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana sez. giurisdizionale 26 aprile 2021 n. 371.
[59] Rispetto al quale non può che rimanere saldo il necessario sistema di centralizzazione statuito con la sentenza del 22 ottobre 1987 Foto-Frost / Hauptzollamt Lübeck-Ost (314/85, Rec. 1987 p. 4199) (SVIX/00233 FIIX/00235) ECLI:EU:C:1987:452, sulla cui ratio, giustapposta a quella di CILFIT, si v. almeno D. Sarmiento, Cilfit and Foto-Frost: Constructing and Deconstructing Judicial Authority in Europe, in L. Azoulai, L.M. Poiares Maduro (cur.), The Past and Future of EU Law. The Classics of EU Law Revisited on the 50th Anniversary of the Rome Treaty, op. cit., 192.
[60] Sentenza del 24 maggio 1977, Hoffmann-La Roche / Centrafarm (107/76, Rec. 1977 p. 957) (EL1977/00275 PT1977/00333 ES1977/00243 SVIII/00375 FIIII/00401) ECLI:EU:C:1977:89.
[61] Secondo la nota definizione di M. Claes, The National Courts’ Mandate in the European Constitution, Hart Publishing 2006; cfr. anche G. Slynn, What Is a European Community Law Judge?, in Cambridge Law Journal 1993, 234.
[62] Cfr. sul rapporto tra obbligatorietà ex art. 267 comma III TFUE e precedenti difformi in ambito nazionale la sentenza 9 settembre 2015, Ferreira da Silva e Brito e.a. (C-160/14) ECLI:EU:C:2015:565.
[63] Cfr. sempre G. Davies, Abstractness and Concreteness in the Preliminary Reference Procedure, op. cit.
[64] R. Torresan, La giurisprudenza CILFIT e l’obbligo di rinvio pregiudiziale interpretativo: la proposta “ribelle” dell’avvocato generale Bobek, op. cit.
[65] P. De Pasquale, La (finta) rivoluzione dell’avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19, op. cit., 11-12, la quale pure però osserva «l’elevato rischio di snaturare la collaborazione tra Corte e giudici nazionali, mettendo in discussione i cardini su cui si instaura il dialogo» insito della proposta delle conclusioni di Bobek.
[66] D. Sarmiento, Cilfit and Foto-Frost: Constructing and Deconstructing Judicial Authority in Europe, op. cit., 194-195.
[67] J. Komárek, Federal Elements in the Community Judicial System - Building Coherence in the Community Legal Order, in Common Market Law Review 2005, 9.
[68] Si vedano le risultanze dei recenti studi di A. Dyevre, M. Glavina, A. Atanasova, Who Refers Most? Institutional Incentives and Judicial Participation in the Preliminary Ruling System, in Journal of European Public Policy 2020, 912, e M. Ovádek, W. Wijtvliet, M. Glavina, Which Courts Matter Most? Measuring Importance in the EU Preliminary Reference System, in European Journal of Legal Studies 2020, 121.
[69] A. Stone Sweet, T.L. Brunell, The European Court and the National Courts: a Statistical Analysis of Preliminary References, 1961–95, in Journal of European Public Policy 1998, 66.
[70] P. De Pasquale, La (finta) rivoluzione dell’avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19, op. cit., 11-12.
[71] Ibid.
[72] L’espressione è dell’attuale giudice olandese della Corte, già referendaria, Sacha Prechal, nella sua intervista “Part I: Working at the CJEU” del 18 dicembre 2013, disponibile al sito https://europeanlawblog.eu/2013/12/18/interview-with-judge-sacha-prechal-of-the-european-court-of-justice-part-i-working-at-the-cjeu/.
[73] S. Prechal, National Courts in EU Judicial Structures, op. cit., 432–433.
[74] Sentenza del 16 gennaio1974, Rheinmühlen Düsseldorf / Einfuhr- und Vorratsstelle für Getreide und Futtermittel (166/73, ECR 1974 p. 33) (EL1974/00017 PT1974/00017 ES1974/00015 SVII/00195 FIII/00195) ECLI:EU:C:1974:3, pag. 33.
[75] Sentenza del 9 marzo1978, Amministrazione delle finanze dello Stato / Simmenthal (106/77, ECR 1978 p. 629)
(EL1978/00239 PT1978/00243 ES1978/00223 SVIV/00075 FIIV/00073) ECLI:EU:C:1978:49.
[76] Corte costituzionale, sentenza n. 269/2017 (ECLI:IT:COST:2017:269).
[77] Cfr., tra i vari, almeno A. Ruggeri, Svolta della Consulta sulle questioni di diritto eurounitario assiologicamente pregnanti, attratte nell’orbita del sindacato accentrato di costituzionalità, pur se riguardanti norme dell’Unione self-executing (a margine di Corte cost. n. 269 del 2017), in Rivista di Diritti comparati 2017, 234; D. Tega, La sentenza n. 269 del 2017: il concorso di rimedi giurisdizionali costituzionali ed europei, in Quaderni costituzionali 2018, 197; L.S. Rossi, La sentenza 269/2017 della Corte costituzionale italiana: obiter “creativi” (o distruttivi?) sul ruolo dei giudici italiani di fronte al diritto dell’Unione europea, in federalismi.it 3/2018, 2; C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di Giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti 2/2019; M. Massa, Dopo la «precisazione». Sviluppi di Corte cost. n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti 2/2019; G. Repetto, Il significato europeo della più recente giurisprudenza della Corte costituzionale sulla “doppia pregiudizialità” in materia di diritti fondamentali, in Rivista AIC 4/2019.
[78] Fra le altre si vedano Corte costituzionale sentenza n. 20/2019 (ECLI:IT:COST:2019:20) e sentenza n. 63/2019 (ECLI:IT:COST:2019:63).
[79] R (Miller) v. Secretary of State for Exiting the European Union [2016] EWHC 2768 R (Miller) v. Secretary of State for Exiting the European Union [2017] UKSC 5.
[80] Sentenza del 22 giugno2010, Melki and Abdeli (C-188/10 and C-189/10, ECR 2010 p. I-5667) ECLI:EU:C:2010:363..
[81] Su questo si veda F. Fabbrini, Kelsen in Paris: France’s Constitutional Reform and the Introduction of a posteriori Constitutional Review of Legislation, in German Law Journal 2008, 1297 ss.
[82] F. Fabbrini, Sulla ‘legittimità comunitaria’ del nuovo modello di giustizia costituzionale francese: la pronuncia della Corte di giustizia nel caso Melki, in Quaderni costituzionali 2010, 840-842.
[83] Conseil Constitutionnel, decisione n. 2010-605, 12 maggio 2010, www.conseil-constitutionnel.fr/conseil-constitutionnel/francais/les-decisions/acces-par-date/decisions-depuis–1959/2010/2010–605-dc/decision-n–2010–605-dc-du–12-mai–2010.48186.html (par. 14); «Il (le juge) peut ainsi suspendre immédiatement tout éventuel effet de la loi incompatible avec le droit de l’Union, […] l’article 61-1 de la Constitution pas plus que les articles 23 1 et suivants de l’ordonnance du 7 novembre 1958 susvisée ne font obstacle à ce que le juge saisi d’un litige dans lequel est invoquée l’incompatibilité d’une loi avec le droit de l’Union européenne fasse, à tout moment, ce qui est nécessaire pour empêcher que des dispositions législatives qui feraient obstacle à la pleine efficacité des normes de l’Union soient appliquées dans ce litige».
[84] Sentenza del 22 giugno 2010, Melki and Abdeli (C-188/10 and C-189/10, ECR 2010 p. I-5667) ECLI:EU:C:2010:363, dispositivo: «L’art. 267 TFUE osta ad una normativa di uno Stato membro che instaura un procedimento incidentale di controllo della legittimità costituzionale delle leggi nazionali, nei limiti in cui il carattere prioritario di siffatto procedimento abbia l’effetto di impedire – tanto prima della trasmissione di una questione di legittimità costituzionale all’organo giurisdizionale nazionale incaricato di esercitare il controllo di costituzionalità delle leggi, quanto, eventualmente, dopo la decisione di siffatto organo giurisdizionale su detta questione – a tutti gli altri organi giurisdizionali nazionali di esercitare la loro facoltà o di adempiere il loro obbligo di sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte. Per contro, l’art. 267 TFUE non osta a siffatta normativa nazionale, purché gli altri organi giurisdizionali nazionali restino liberi:
– di sottoporre alla Corte, in qualunque fase del procedimento che ritengano appropriata, ed anche al termine del procedimento incidentale di controllo della legittimità costituzionale, qualsiasi questione pregiudiziale che essi ritengano necessaria,
– di adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, e
– di disapplicare, al termine di siffatto procedimento incidentale, la disposizione legislativa nazionale in questione ove la ritengano contraria al diritto dell’Unione.
Spetta al giudice del rinvio verificare se la normativa nazionale di cui trattasi nei procedimenti principali possa essere interpretata conformemente a siffatti precetti del diritto dell’Unione».
[85]Sentenza dell’11 settembre 2014, A (C-112/13) ECLI:EU:C:2014:2195.
[86]Österreichische Verfassungsgerichtshof, U 466/11-18; U 1836/11-13. In questo senso assume rilevanza il rinvio alla giurisprudenza austriaca contenuto nella 269 della nostra Corte costituzionale.
[87] Sentenza dell’11 settembre 2014, A (C-112/13) ECLI:EU:C:2014:2195, par. 46.
[88] Sentenza del 9 marzo 1978, Amministrazione delle finanze dello Stato / Simmenthal (106/77, ECR 1978 p. 629) (EL1978/00239 PT1978/00243 ES1978/00223 SVIV/00075 FIIV/00073) ECLI:EU:C:1978:49, par. 24.
[89]Sentenza del 16 gennaio 1974, Rheinmühlen Düsseldorf / Einfuhr- und Vorratsstelle für Getreide und Futtermittel (166/73, ECR 1974 p. 33) (EL1974/00017 PT1974/00017 ES1974/00015 SVII/00195 FIII/00195) ECLI:EU:C:1974:3, pag. 33.
[90] Conclusioni dell'avvocato generale Cruz Villalón del 10 giugno 2010, causa C-173/09 (ECLI:EU:C:2010:336), Racc. 2010 I-08889, par. 21: «Difatti, i giudici di grado inferiore le cui decisioni fossero state annullate da un organo superiore potevano, facendo leva su tale dottrina e qualora la causa venisse loro rinviata, ignorare la dichiarazione di annullamento allorché questa, a loro giudizio, risultava contraria al diritto dell’Unione. Nell’ambito del conflitto tra l’autonomia processuale nazionale e l’opportunità, che in tal modo si riapriva, di affermare la prevalenza del diritto europeo, si doveva privilegiare quest’ultima».
[91]Sentenza del 19 giugno 1990, The Queen / Secretary of State for Transport, ex parte Factortame (C-213/89, ECR 1990 p. I-2433) (SVX/00435 FIX/00453) ECLI:EU:C:1990:257, par. 21.
[92] D. U. Galetta, L'autonomia procedurale degli Stati membri dell'Unione europea: Paradise Lost?, Giappichelli 2009. Si veda anche M. Simoncini, Challenges of Justice in the European Banking Union. Administrative Integration and Mismatches in Jurisdiction, in Yearbook of European Law, 2021, 1-25, 9.
[93] Conclusioni dell'avvocato generale Cruz Villalón del 10 giugno 2010, causa C-173/09 (ECLI:EU:C:2010:336), Racc. 2010 I-08889.
[94] Sentenza del 30 settembre 2003, Köbler (C-224/01, ECR 2003 p. I-10239) ECLI:EU:C:2003:513.
[95]Sentenza del 13 gennaio 2004, Kühne & Heitz (C-453/00, ECR 2004 p. I-837) ECLI:EU:C:2004:17.
[96]Sentenza del 12 febbraio 2008, Kempter (C-2/06, ECR 2008 p. I-411) ECLI:EU:C:2008:78.
[97]Sentenza del 16 marzo 2006, Kapferer (C-234/04, ECR 2006 p. I-2585) ECLI:EU:C:2006:178.
[98] G. Martinico, Constructivism, Evolutionism and Pluralism: Europe’s Constitutional Grammar, in King’s Law Journal 2009, 309.
[99] Sentenza del 13 giugno 2006, Traghetti del Mediterraneo (C- C-173/03, ECR 2006 p. I-05177) ECLI:EU:C:2006:391.
[100] Sempre in argomento, in Köbler la Corte di giustizia aveva sottolineato che «un procedimento inteso a far dichiarare la responsabilità dello Stato non ha lo stesso oggetto e non implica necessariamente le stesse parti del procedimento che ha dato luogo alla decisione che ha acquisito l’autorità della cosa definitivamente giudicata. Infatti, il ricorrente in un’azione per responsabilità contro lo Stato ottiene, in caso di successo, la condanna di quest’ultimo a risarcire il danno subito, ma non necessariamente che sia rimessa in discussione l’autorità della cosa definitivamente giudicata della decisione giurisdizionale che ha causato il danno. In ogni caso, il principio della responsabilità dello Stato inerente all’ordinamento giuridico comunitario richiede un tale risarcimento, ma non la revisione della decisione giurisdizionale che ha causato il danno» (par. 39).
[101] Sentenza del 13 gennaio 2004, Kühne & Heitz (C-453/00, ECR 2004 p. I-837) ECLI:EU:C:2004:17, par. 19. Il caso scaturiva da una questione pregiudiziale sollevata dal College van Beroep alla Corte di giustizia nell’ambito di una controversia che opponeva la Kühne & Heitz NV al Productschap voor Pluimvee en Eieren, e relativa al pagamento di restituzioni all’esportazione. La questione, ai nostri fini, riguardava la possibilità di rivedere una decisione amministrativa definitiva fondata su una interpretazione errata del diritto comunitario.
[102] Ivi, par. 24.
[103] Ivi, par. 27: «Il principio di cooperazione derivante dall’art. 10 Ce impone ad un organo amministrativo, investito in una richiesta in tal senso, di riesaminare una decisione amministrativa definitiva per tener conto dell’interpretazione della disposizione pertinente nel frattempo accolta dalla Corte qualora:
- disponga, secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione;
- la decisione in questione sia diventata definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima istanza;
- tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario adottata, senza che la Corte fosse adita a titolo pregiudiziale alle condizioni previste all’art. 234 Ce, n. 3, e
- l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo essere stato informato della detta giurisprudenza».
[104] La questione pregiudiziale era stata sollevata dal Finanzgericht di Amburgo nell’ambito di una controversia tra Willy Kempter KG e lo Hauptzollamt (ufficio doganale). La domanda di pronuncia mirava a scoprire se l’art. 10 TCE (sostituito dall’art.4 TFUE) osti o meno all’applicazione degli articoli 48 e 51 della legge tedesca sul procedimento amministrativo (Verwaltungsverfahrensgesetz) riguardante le condizioni e limiti temporali che gravano su un ricorrente interessato alla riapertura di un procedimento amministrativo conclusosi con un atto definitivo. Vale la pena di ricordare che, dopo la pronuncia in ultimo grado del Bundesfinanzhof, era intervenuta la sentenza del 14 dicembre 2000, Emsland-Stärke (C-110/99, ECR 2000 p. I-11569) ECLI:EU:C:2000:695), in cui dava un’interpretazione della normativa comunitaria favorevole alle posizioni sostenute dalla Kempter nel suo ricorso.
[105] Il caso Kapferer riguardava la non corretta applicazione del reg. Ce n. 44/2001 ad opera di un giudice nazionale che si era ritenuto (erroneamente) competente. Il giudice del rinvio chiedeva alla Corte di giustizia se fosse comunque tenuto, in forza dell’art. 10 TCE (sostituito dall’art. 4 TFUE) a riesaminare ed annullare la decisione sulla competenza che era ormai passata in giudicato, in quanto contraria al diritto comunitario.
[106] Sentenza del 16 marzo 2006, Kapferer (C-234/04, ECR 2006 p. I-2585) ECLI:EU:C:2006:178, par. 23: «Si deve aggiungere che la citata sentenza Kühne & Heitz, cui si riferisce il giudice a quo nella sua prima questione, sub a), non è tale da rimettere in discussione l’analisi sopra svolta. Infatti, anche ammettendo che i principi elaborati in tale sentenza siano trasferibili in un contesto che, come quello della causa principale, si riferisce ad una decisione giurisdizionale passata in giudicato, occorre ricordare che tale medesima sentenza subordina l’obbligo per l’organo interessato, ai sensi dell’art. 10 Ce, di riesaminare una decisione definitiva che risulti essere adottata in violazione del diritto comunitario, alla condizione, in particolare, che il detto organo disponga, in virtù del diritto nazionale, del potere di tornare su tale decisione (v. punti 26 e 28 della detta sentenza). Orbene, nel caso di specie, è sufficiente rilevare che dalla decisione di rinvio risulta che la suindicata condizione non ricorre».
[107] V. ad es. J. Komárek, Federal Elements in the Community Judicial System - Building Coherence in the Community Legal Order, op. cit..
[108] Sentenza del 18 luglio 2007, Lucchini (C-119/05, ECR 2007 p. I-6199) ECLI:EU:C:2007:434: il caso riguardava degli aiuti concessi dalle autorità italiane nel 1988, tali aiuti in seguito erano stati dichiarati incompatibili con il diritto comunitario. In seguito a tale decisione la Lucchini S.p.a. citava le autorità italiane in giudizio e il giudice riconosceva il diritto al pagamento di Lucchini dell’intero aiuto richiesto. La sentenza non veniva impugnata e acquisiva autorità di giudicato, in seguito Lucchini otteneva anche un’ingiunzione di pagamento contro il Ministero dell’industria e il pignoramento di autovetture di servizio, infine, con un decreto ministeriale venivano accordati a Lucchini gli aiuti più il pagamento degli interessi. A seguito del parere della Commissione, veniva richiesto alle autorità nazionali di recuperare gli aiuti che erano stati pagati in violazione del diritto comunitario. Il Ministero dell’industria revocava il decreto di concessione degli aiuti e chiedeva alla Lucchini di rimborsare l’importo versato. La vicenda finiva dinanzi al giudice amministrativo e, nel 1999, il Tar Lazio dichiarava l’irrevocabilità dell’atto della pubblica amministrazione essendo stato il diritto all’erogazione dell’aiuto accertato con sentenza passata in giudicato (art. 2909 del codice civile). In seguito, il Consiglio di Stato, adìto dal Ministero, constatando la sussistenza di un conflitto tra la sentenza del 1994 e la decisione della Commissione del 1990, chiedeva alla Corte di giustizia delle Comunità europee «se, in forza del principio del primato del diritto comunitario immediatamente applicabile [...] sia giuridicamente possibile e doveroso il recupero dell’aiuto da parte dell’amministrazione interna nei confronti di un privato beneficiario, nonostante la formazione di un giudicato civile affermativo dell’obbligo incondizionato di pagamento dell’aiuto medesimo».
[109] Ivi, par. 48. Sul caso Lucchini si veda X. Groussot e T. Minseen, Res Judicata in the Court of Justice Case-Law: Balancing Legal Certainty with Legality?, in European Constitutional Law Review 2007, 385.
[110] Cfr. Sentenza dell’11 luglio 1996, SFEI and others (C-39/94, ECR 1996 p. I-3547) ECLI:EU:C:1996:285, par. 42: «Allorché traggono le conseguenze di una violazione dell' art. 93, n. 3, ultima frase, i giudici nazionali non possono pronunciarsi sulla compatibilità delle misure di aiuto con il mercato comune, essendo tale valutazione di esclusiva competenza della Commissione, sotto il controllo della Corte di giustizia».
[111]Sentenza del 3 settembre 2009, Fallimento Olimpiclub (C-2/08, ECR 2009 p. I-7501) ECLI:EU:C:2009:506.
[112] Ivi, par. 12: «Risulta dalla decisione di rinvio che, in materia fiscale, i giudici italiani, interpretando l’art. 2909 del codice civile, sono restati a lungo ancorati al cosiddetto principio della frammentazione dei giudicati, in base al quale ogni annualità fiscale conserva la propria autonomia rispetto alle altre ed è oggetto, tra contribuente e fisco, di un rapporto giuridico distinto rispetto a quelli relativi alle annualità precedenti e successive, per cui, qualora le controversie vertenti su annualità diverse di una medesima imposta (pur riguardando questioni analoghe) siano decise con sentenze separate, ciascuna controversia conserva la propria autonomia e la decisione che vi pone fine non ha alcuna autorità di giudicato nei confronti delle controversie afferenti ad altre annualità fiscali. Tuttavia, tale impostazione sarebbe stata recentemente modificata, in particolare per l’abbandono del principio della frammentazione dei giudicati. Ormai la soluzione derivante da una sentenza pronunciata in una controversia, quando gli accertamenti che vi si riferiscono riguardano questioni analoghe, può essere utilmente invocata in un’altra controversia, benché detta sentenza sia relativa ad un periodo d’imposta diverso da quello che costituisce l’oggetto del procedimento in cui è stata invocata».
[113] Ivi, par. 32.
[114] Conclusioni dell'avvocato generale Cruz Villalón del 10 giugno 2010, causa C-173/09 (ECLI:EU:C:2010:336), Racc. 2010 I-08889.
[115] Ivi, par. 29: «L’istituzione di rimedi europei esperibili dinanzi ai giudici nazionali, come è accaduto nel caso della responsabilità patrimoniale degli Stati o in relazione ai principi di effettività e di equivalenza, è un’opzione che rafforza e incoraggia il lavoro collettivo tra la Corte di giustizia e i suoi omologhi nazionali. D’altra parte, l’aumento del numero degli Stati membri, unitamente al contatto sempre più frequente e diretto del cittadino con l’ordinamento europeo, rendono ogni volta meno realistica la pretesa che la Corte di giustizia affronti da sola il compito di interpretare in maniera autorizzata il diritto dell’Unione. In tal senso, la sentenza Rheinmühlen I, che è frutto del suo tempo e del relativo contesto, potrebbe, paradossalmente, avere l’effetto di ostacolare, piuttosto che di salvaguardare, l’effettività dell’ordinamento dell’Unione. Tanto più che, nelle circostanze del caso di specie, il sig. Elchinov potrà esperire altri mezzi di ricorso dinanzi ai propri giudici, mezzi che, peraltro, gli vengono offerti dal diritto dell’Unione».
[116] Ivi, par. 22: «Si dà il caso che la sentenza Rheinmühlen I sia una decisione particolarmente legata alle circostanze processuali e storiche in cui si inserisce, che sono assai diverse rispetto a quelle che fanno da sfondo al caso in esame. Una lettura, per così dire, a senso unico, e incentrata unicamente sulla prevalenza del diritto comunitario, rischia di ignorare tale trasformazione dello scenario di fondo».
[117] Sentenza del 16 dicembre2008, Cartesio (C-210/06, ECR 2008 p. I-9641) ECLI:EU:C:2008:723.
[118] Ivi, par. 95.
[119] Conclusioni dell'avvocato generale Cruz Villalón del 10 giugno 2010, causa C-173/09 (ECLI:EU:C:2010:336), Racc. 2010 I-08889, par. 36: «Il contesto di riferimento cambia sostanzialmente in ciascuno dei due casi, poiché la sentenza Cartesio si riferiva a quella che potremmo chiamare la fase ascendente di una lite, ossia, la fase di gestazione naturale, che si estende dal momento in cui la causa viene avviata dinanzi all’organo di primo grado fino a quando diventa definitiva con l’emanazione di una sentenza avverso la quale non è proponibile ricorso. Al contrario, il caso che ci occupa verte su ciò che potremmo chiamare la – eventuale – fase discendente di una controversia, cioè il momento finale della causa, dopo che sia stata pronunciata una sentenza definitiva che ha rinviato la causa al giudice di grado inferiore, al solo scopo che quest’ultimo dia esecuzione ad una decisione di diritto i cui termini non possono essere messi in questione».
[120] Par. 27 delle Conclusioni dell'avvocato generale Cruz Villalón del 10 giugno 2010, causa C-173/09 (ECLI:EU:C:2010:336): anche qui, esplicitando ragioni che paiono ispirare anche l’avvocato generale Bobek nelle conclusioni Consorzio Italian Management.
[121] Conclusioni dell'avvocato generale Cruz Villalón del 10 giugno 2010, causa C-173/09 (ECLI:EU:C:2010:336), Racc. 2010 I-08889, par. 29.
[122] Sentenza del 5 ottobre 2010, Elchinov (C-173/09, ECR 2010 p. I-8889) ECLI:EU:C:2010:581.
[123] Mutuando la prospettiva teorica di R. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I "volti" delle Corte di Cassazione a confronto, in Giustizia insieme, 4 marzo 2021.
[124] Cfr., tra i vari, la dettagliata e aggiornata ricostruzione di L. Pech, D. Kochenov, Respect for the Rule of Law in the Case Law of the European Court of Justice: A Casebook Overview of Key Judgments since the Portuguese Judges Case, in corso di pubblicazione quale Swedish Institute for European Policy Studies Report 2021, disponibile al sito https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3850308.
[125] Cfr. paradigmaticamente sentenza del 20 aprile 2021, Repubblika (C-896/19) ECLI:EU:C:2021:311, specie par. 51.
[126] G.F. Mancini, D.T. Keeling, From CILFIT to ERT: The Constitutional Challenge Facing the European Court, op. cit., 1.
[127] Si noti ad es. dalla ricostruzione di L. Pech, D. Kochenov, Respect for the Rule of Law in the Case Law of the European Court of Justice: A Casebook Overview of Key Judgments since the Portuguese Judges Case, op. cit., come il meccanismo del rinvio pregiudiziale sia stato funzionale all’intervento ripetuto della Corte di giustizia per sanzionare le ripetute recenti violazioni della rule of law in Polonia.